L’esame del prof. Sesso in cambio di Procedura civile

Settimo piano, stanza 30. Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli. Una videocamera nascosta è puntata sulla scrivania dell’ufficio che il professor Angelo Scala, 52 anni, docente di Diritto processuale civile e in passato difensore di Maradona davanti al Fisco, divide con un collega. La videocamera riprende, in due casi diversi, momenti di palpeggiamento e di sesso tra Scala e degli allievi. Studenti o studentesse che hanno già superato, o supereranno, un esame con lui.

I filmati sono agli atti giudiziari. Sulla consensualità di quelle scene non ci sono dubbi. La Procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo non contesta violenza sessuale. L’ordinanza con cui il Gip firma la sospensione per nove mesi di Scala dall’incarico di professore universitario – e di rettore dell’Università telematica ‘Fortunato’ di Benevento – circonda il perimetro delle accuse, relative a una ventina di episodi, nei reati di induzione indebita alla corruzione e falso. Sì, perché Scala – stando al materiale investigativo raccolto dalla Guardia di Finanza di Napoli e dai pm Francesco Raffaele ed Henry John Woodcock – avrebbe in qualche caso regalato l’esame sul registro informatico dello studente o della studentessa, senza nemmeno fargli sostenere la formalità della prova.

Prendiamo il caso di Giuseppe (nome di fantasia, il resto è vero). Ha 25 anni e vive in provincia di Napoli. Nella primavera del 2019 si sarebbe ritrovato con un bel 25 in Procedura civile 1 senza sapere come e perché. Lo avrebbe appreso dai successivi contatti telefonici e personali del professore che gli prospetta successi universitari futuri (c’è pur sempre Procedura civile 2 da fare) se sarà bravo e disponibile. Il voto sarebbe stato modificato informaticamente fino a diventare un 27. Sms e whatsapp tra i due certificherebbero una confidenza sospetta. Giuseppe poi quell’esame non lo hai mai fatto davvero. A gennaio scattano le prime perquisizioni della Finanza e improvvisamente il tono dei messaggi tra i due diventa più serio e formale. Giuseppe, come tanti altri studenti e studentesse di Scala, è stato convocato dai pm in qualità di coindagato di induzione indebita. E come quasi tutti – ma non tutti – si è avvalso della facoltà di non rispondere. Alle persone a lui vicine avrebbe però negato di aver avuto rapporti sessuali.

Tra le persone che i pm avrebbero voluto sentire c’era anche G.D.A., un ex studente di più di 30 anni la cui storia dei rapporti con Scala è finita in un procedimento che lo vede imputato per diffamazione ai danni del professore. I due un tempo si vedevano. Molto prima che G.D.A. insultasse Scala su Facebook. Anche lui, da indagato di procedimento connesso, ha preferito restare in silenzio.

Delle intercettazioni e dai messaggi di Scala, gli inquirenti ritengono di aver capito l’attimo in cui il docente iniziava i suoi approcci: era quando accennava alla possibilità di un “piano B”. La scorciatoia.

Il Gip accoglie quasi integralmente l’impianto accusatorio della Procura – salvo un paio di casi derubricati a traffico di influenze illecite – ma rispetto a una richiesta di arresti domiciliari motivata con la serialità dei presunti reati del docente, decide di virare verso una meno severa sospensione. Forse il segno dei tempi dell’emergenza coronavirus, tra scarcerazioni di boss e magistrati che preferiscono usare col contagocce le custodie cautelari. Pochi giorni prima del deflagrare dell’emergenza, Scala, difeso dall’avvocato Claudio Botti, aveva reso dichiarazioni spontanee ai pm per negare gli addebiti. A gennaio si era dimesso dalla cattedra di Napoli. Ma era rimasto rettore dell’Ateneo telematico.

Virus ai Giochi militari di Wuhan? Mille accuse, ma poche certezze

Nella corsa per tracciare l’origine del Covid-19 si torna a parlare dei giochi militari di Wuhan, quelli dell’ottobre 2019 che, secondo alcune teorie, sarebbero state il primo veicolo del virus: gli ultimi tasselli di questo mistero hanno visto – il 13 marzo – il governo cinese accusare gli atleti americani di essere infetti e di aver portato in Cina il virus, poi, da qualche giorno, le interviste di molti atleti europei che raccontano di essere stati male proprio durante quei giochi e di aver riconosciuto, col senno di poi, i sintomi del Covid.

La Gazzetta dello Sport ha riportato la testimonianza di Matteo Tagliariol, oro nella spada individuale a Pechino 2008, uno dei 170 azzurri presenti ai Giochi Militari: “Quando siamo arrivati a Wuhan ci siamo quasi tutti ammalati. Ma il peggio è stato il ritorno a casa. Dopo una settimana mi è venuta la febbre altissima, sentivo che non respiravo. Il malanno non passava nemmeno con gli antibiotici, sono guarito dopo tre settimane e sono rimasto a lungo debilitato. Poi si sono ammalati mio figlio e la mia compagna. Quando si è cominciato a parlare del virus mi sono detto: l’ho preso anche io”. Mancano però le notizie di test effettuati sugli atleti che hanno partecipato alla spedizione. E ieri lo Stato Maggiore della Difesa ha smentito: “Non abbiamo riscontrato alcuna criticità sanitaria individuale o collettiva al rientro in Italia collegabile al contagio da coronavirus”. Anche due atlete francesi denunciano di essersi ammalate in quell’occasione, poi smentite dal loro governo.

In tutto questo dire e smentire, il presidente Usa, Donald Trump, insiste sulla possibilità della fuga del virus “cinese” dai laboratori di ricerca sui patogeni e i coronavirus di Wuhan e la guerra che si stanno facendo i due Stati a colpi di accuse e notizie infondate rischia di oscurare anche ciò che la scienza potrebbe dire sull’origine del virus, se gli fosse permesso di occuparsene senza causare la levata di scudi di politici ed esperti, pure nostrani.

Come riporta nel lungo articolo “Spillover naturale o fuoriuscita dal laboratorio di ricerca? Perché è necessaria un’indagine credibile per determinare l’origine della pandemia di coronavirus” pubblicata sul Bulletin of Atomic Scientist (rivista di biosicurezza più autorevole del mondo) Filippa Lentzos, esperta di biosicurezza del King’s College di Londra, scrive: “Ad oggi ci sono prove solide, basate sull’analisi genetica di scienziati di diversi paesi, che la pandemia è il risultato di un evento naturale, con il salto di specie dal pipistrello all’uomo del coronavirus. Quello di cui abbiamo meno prove è il luogo in cui si è verificato quell’evento. Mentre molti scienziati ritengono che il coronavirus abbia infettato per la prima volta l’uomo in natura o attraverso il commercio di animali selvatici, altri pensano che un incidente possa essersi verificato nel corso della ricerca scientifica sui coronavirus o sugli animali che li ospitano”. Poi elenca i fatti che fin qui conosciamo, partendo dai casi di polmonite di causa sconosciuta registrati a Wuhan il 31 dicembre 2019. Il governo cinese ha sostenuto che i casi erano associati all’esposizione al mercato di Huanan. Ma una descrizione dei primi casi clinici pubblicati sulla rivista medica The Lancet il 24 gennaio ha messo in discussione la versione di Pechino. L’articolo concludeva che 13 dei primi 41 pazienti ospedalizzati per Covid a Wuhan non avevano avuto alcun contatto con il mercato, incluso il primissimo paziente”.

Anche la rivista internazionale Science riferendosi al paper di Lancet, scrive “non sappiamo ancora da dove viene il virus, ma è chiaro che il mercato non è l’unica ipotesi.” L’articolo del Bulletin prosegue descrivendo come i ricercatori dei due centri di Wuhan che studiano i coronavirus di pipistrelli abbiano utilizzato pratiche sciatte nella raccolta e manipolazione dei pipistrelli che vanno a ricercare nelle caverne. In vari incidenti c’è stato contatto tra il sangue degli animali e dei ricercatori. “Pechino ha fatto tentativi significativi per controllare il racconto delle origini della pandemia e per soffocare le teorie sulle origini alternative alla versione del mercato del pesce – ricorda l’autrice -. La Cnn ha riferito il 16 aprile che Pechino ha posto severe restrizioni alla pubblicazione della ricerca scientifica sulle origini della pandemia”.

Per queste e molte altre ragioni, l’Australia ha chiesto un’indagine internazionale all’Oms: un’indagine condotta dai servizi segreti americani, come quella annunciata da Trump non convincerà nessuno, né lo farà un’indagine condotta dalla Cina.

Malati sotto quota 90 mila. Ma il contagio frena meno

Bene, ma non benissimo. Questo – come per quasi tutti gli ultimi giorni – potrebbe essere il commento al bollettino Covid-19 del 7 maggio, un bilancio ancora da fase 1 ma in fase 2 iniziata. La buona notizia è che si allarga la forbice tra guariti totali (96.276, +3.031 rispetto a mercoledì) e attualmente positivi (89.624, -1.904). Il dato meno confortante è il tasso di crescita del contagio, ieri attestato a un +0,65%, lievemente inferiore allo 0,67% di mercoledì ma superiore allo 0,5% di martedì.

Complessivamente i casi totali di Covid-19 in Italia sono 215.858 (+1.401 rispetto a mercoledì), 29.958 i deceduti (+274). In calo il numero dei ricoverati in terapia intensiva, 1.311, 22 in meno rispetto al 6 maggio. Tamponi a quota 2.381.288 eseguiti su 1.563.577 persone. Il dato in evidenza del bollettino della Protezione civile del 7 maggio è quello dei 689 nuovi contagi registrati in Lombardia, praticamente la metà del totale. Il totale dei casi in questa regione sfonda così quota 80 mila, di cui 33.329 guariti, 32.015 attualmente positivi e 14.745 morti. Sempre in Lombardia il tasso di crescita del contagio è al +0,9%.

La seconda regione più colpita, il Piemonte, ha fatto registrare 196 nuovi casi e un tasso di crescita dello 0,7 per cento. Qui i casi totali sono 28.135 (14.469 attualmente positivi, 10.384 guariti e 3.282 morti).

L’incremento relativo del contagio più alto ieri è stato registrato in Liguria (+1,1%), inferiore solo all’1,2 per cento della Puglia, dove però i nuovi casi sono appena 49 contro i 94 della Liguria. Le altre regioni dove in valore assoluto ci sono ancora incrementi rilevanti sono Emilia-Romagna (+108 casi) e Veneto (+74). In entrambe però il tasso di crescita del contagio è allo 0,4%.

La lotta al Covid-19 prosegue in concomitanza con l’aumento dei test. “Si fanno circa 70.000 tamponi al giorno, numero che crescerà nelle prossime settimane”, segnala il presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, in audizione in commissione Affari sociali alla Camera. “I tamponi sono l’unico strumento per individuare l’Rna virale. Di test sierologici ce ne sono oltre 100 sul mercato” e “non sono stati raccomandati dal ministero, perché non danno patenti di immunità”. A detta del numero uno dell’Iss, “il virus si diffonde nella stessa maniera in cui si diffondeva all’inizio” e “ogni caso positivo ne può generare due o tre alla volta”. Per il capo dipartimento della Protezione civile Angelo Borrelli “da quello che dicono gli esperti, i decessi sono l’ultimo dato ad avere una diminuzione. Quindi, ancora adesso il numero è basso ma importante. Ci auguriamo che presto possa scendere”. E, in ogni caso, “sulla fase 2 c’è un attento monitoraggio. È anche prevista la possibilità di inasprire misure di contenimento in relazione a fenomeni che dovessero rimarcare una ripartenza del virus”.

Fase 2 per la Rossa, resta il nodo Piacenza

L’Emilia Romagna è pronta ad accelerare la fase 2. “Qui possiamo permetterci di aprire un po’ prima e Conte mi pare abbia aperto a questa possibilità”, dice il presidente della Regione, Stefano Bonaccini. Bar, ristoranti, negozi, spiagge: quasi tutto potrebbe ripartire il 18 maggio. “Siamo la regione di gran lungaprima in Italia nel rapporto tra guariti e contagi attivi, ma abbiamo già pagato un prezzo fin troppo alto”, ha detto ieri Bonaccini a Rai Radio1. “Adesso, però, andiamo all’attacco. Arriveremo tra pochi giorni a10mila test quotidianie a20mila a settembre”. Ma è veramente così? Come si sta attrezzando la regione per questa Fase2?

Tamponi. Si parte da una media giornaliera di circa 5.500 tamponi: il raddoppio è previsto entro la fine del mese. E la Regione ha già fatto scattare il piano di monitoraggio sanitario: “Ci concentriamo, oltre che sui sintomatici, sulle case di riposo e sulle mura domestiche, i due fronti più delicati” spiega l’assessore alla Salute, Raffaele Donini.

Test seriologici. Continuano “per il personale sanitario e per le categorie più a rischio – prosegue Donini – abbiamo appena concluso il primo ciclo: 62.400 test”. La provincia più colpita resta Piacenza, una sorvegliata speciale, così come il Riminese. Sarà proprio tra Piacenza e Rimini che dalla prossima settimana partiranno le campagne di screening con i test sierologici. Nel Piacentino saranno testati 60mila abitanti (circa 30mila, tra quelli stati a stretto contatto con positivi al Covid). Dopo sarà la volta di Rimini.

Mascherine. Piacenza continua ad essere area critica non solo per l’alto numero di contagiati (a ieri, 4.300), ma anche per la dotazione di Dpi di cui dispongono i medici di famiglia. “Ogni settimana l’azienda sanitaria ci fornisce un kit che comprende una tuta, due camici monouso, una cuffia, cinque mascherine FFP2 e una confezione di igienizzante per le mani”, spiega il presidente dell’ordine dei medici di Piacenza Augusto Pagani. “Le mascherine in particolare sono ancora insufficienti. Va detto però che la risposta dell’azienda è migliorata. Quando segnaliamo pazienti che per noi sono casi sospetti, il tampone generalmente viene eseguito nell’arco di 48 ore”.

Usca. Anche sulla costituzione delle Unità speciali di continuità assistenziale istituite dal decreto legge 14 del 9 marzo, per la gestione domiciliare dei pazienti, la Regione sembra essere a buon punto. Dovrebbero essere 1 ogni 50mila abitanti (e quindi, in questo caso, circa 90) e ne sono operative già una ottantina, con 400 medici. E dalla Regione – che ha dato anche il via libera ai test sierologici per i dipendenti di aziende e i privati cittadini – precisano che il numero delle Usca da attivare, secondo le diposizioni del Governo, è da considerarsi solo indicativo: e qui si è scelto di procedere valutando la diffusione del virus.

Resta la questione della riorganizzazione del sistema sanitario dopo lo tsunami dell’epidemia, con molti reparti Covid da riconvertire, per ridestinarli alla funzione originaria, per i tanti pazienti con altre patologie che sono ancora in attesa.

“Una fase molto complessa”, ammette Anna Maria Ferrari, medico ospedaliero e presidente dell’Ordine dei medici di Reggio Emilia. “Bisogna impedire che pazienti Covid entrino in contatto con i non Covid, per scongiurare il rischio di una ripresa del contagio”.

L’obiettivo di Zaia: 40 mila test al dì. Comprati due robot

Processano quasi 10mila tamponi al giorno usando solo un quinto dei reagenti necessari. In dieci minuti fanno il lavoro che le macchine normali svolgono in sei ore. Robot fantascientifici, da laboratori chimici militari, contesi da mezzo mondo e ormai introvabili sul mercato? No. La Regione Veneto nei mesi scorsi ha già acquistato in Olanda una di queste sofisticate apparecchiature prodotte dalla statunitense Labcyte, ideate per la ricerca farmaceutica e genomica. Il costo, a conti fatti, è di 400 mila euro. E ora si sta muovendo per acquistare direttamente dalla casa madre a San Jose in California, e presso altri fornitori, altri due macchinari Echo Acoustic Liquid handler (movimentano i reagenti con onde sonore ad altissima velocità e precisione) per gli ospedali di Verona e Treviso. L’installazione del primo esemplare ha di colpo moltiplicato per dieci la capacità della virologia di Padova di processare i tamponi di Covid-19. L’obiettivo è arrivare alla potenza di fuoco di 40 mila tamponi al giorno per il prossimo autunno, dotando di una di queste macchine ogni provincia veneta.

Il suggerimento vincente al governatore Zaia è arrivato, ancora una volta, dal virologo dell’Università di Padova Andrea Crisanti, diventato il simbolo di un Veneto salvato dal “fungo atomico” del coronavirus (per citare l’assessore lombardo al Welfare, Giulio Gallera) grazie alla ricerca d’eccellenza: “Conoscevo questi apparecchi perché erano presenti all’Imperial College di Londra – spiega Crisanti al Fatto – anche se non erano impiegati per questo uso”. E a chi gli fa notare che questi apparecchi per i produttori sono adatti “solo per la ricerca”, e non per la diagnostica, risponde di getto: “E allora? Siamo nel bel mezzo di una pandemia! Il fatto che l’agenzia governativa americana non l’abbia validata per la diagnostica per noi è irrilevante al momento”. Sul mercato, insomma, si trova ancora tutto. Basta cercare, avere un progetto, un’idea e una volontà politica. E i prezzi restano tutto sommato abbordabili. Nella Lombardia travolta dal virus, le donazioni di privati nella sola provincia di Brescia sfiorano oggi quota 17 milioni di euro, soldi con cui si potrebbero acquistare, per assurdo, più di 40 macchinari Echo.

La politica dei tamponi ha potuto funzionare anche perché il Veneto aveva una struttura di sanità territoriale in grado di potenziare i dipartimenti di igiene delle varie aziende sanitarie. Dal 2012 la Regione aveva istituito i Gorr (gruppi operativi a risposta rapida) per gestire le emergenze di sanità pubblica. E periodicamente venivano fatte esercitazioni. La sfortuna di avere già incontrato in passato epidemie localizzate, si è tradotta in una marcia in più nella lotta al coronavirus. “Il lavoro di sorveglianza attiva – spiega la dottoressa Francesca Russo, a capo della direzione prevenzione della sanità veneta – è stato possibile perché avevamo già un’organizzazione specifica per le emergenze che derivava dalle esperienze con precedenti epidemie che ci hanno colpito, come quella del West Nile virus che dal 2008 è presente nel nostro territorio”.

Certo, il prezzo da pagare è stato che durante il picco gran parte dell’attività ordinaria, a parte le urgenze cardiovascolari e oncologiche, è stata sospesa. Ma segnalazione, ricerca, tracciamento dei contatti e isolamento sono stati eseguiti senza coinvolgere i medici di base, contando sulle sole unità di igiene e sanità pubblica, dove sono stati dirottati anche medici e infermieri che durante l’emergenza non potevano effettuare l’attività normale: in totale circa 700 persone. Ora la sorveglianza si sta estendendo al mondo del lavoro: sono già stati testati, con kit rapidi e tamponi, circa 1200 lavoratori, tra i quali sono stati trovati quattro portatori totalmente asintomatici. La sperimentazione arriverà a interessarne 13mila. Il Veneto ha forse qualcosa da dire alla vicina Lombardia. E all’Italia.

Con 79 tamponi di media, la Lombardia è penultima

Si fanno, ma quanti, dove e a chi? Quello dei tamponi è oggi un mondo sconosciuto e ben poco controllabile. Soprattutto in Lombardia dove il Covid-19 ha ucciso 14.745 persone. I numeri che fornisce la Regione danno una media di 12mila tamponi al giorno. Tanti, verrebbe da dire. Pochi, anzi pochissimi, assicura la comunità scientifica. Tanto più che il focus sui dati ci dice che, nella metà dei casi, vengono eseguiti su persone che hanno già effettuato almeno un tampone in passato. Resta così un altro 50%, circa 6 mila, da ascrivere a tamponi nuovi. Il che riduce al lumicino l’obiettivo di mettere in campo una sorveglianza massiccia, e attiva, sulla diffusione del virus. Sorveglianza decisiva oggi più che mai dopo l’inizio della fase 2. Qui le regioni hanno obiettivi differenti e mentre il Veneto corre verso sempre più aperture, la Lombardia si interroga su quale sarà, tra dieci giorni, la soglia limite di nuovi contagi da non superare per evitare di tornare al lockdown.

“In realtà – spiega al Fatto il professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano – non è tanto il numero di casi positivi a dover essere valutata, quanto la correlazione tra loro. Non vi è una soglia d’allarme, quanto il riconoscimento di casi positivi tutti correlati tra loro: questo sì che indicherebbe un allarme rosso per la Lombardia. Ed è per questo che i tamponi sono decisivi”. Sono quindi i focolai, e la loro individuazione rapida, il vero obiettivo. Ma per non farseli sfuggire è necessario incrementare i tamponi, e allargare il ventaglio dei bersagli. A ieri i test sierologici sugli operatori sanitari restituiscono un quadro inquietante con un 1 operatore su 4 positivo agli anticorpi nella provincia di Bergamo. Dato incerto ancora una volta perché non è dato sapere se questi operatori siano ancora potenzialmente infetti. Il che potrebbe anche non escludere la presenza di nuovi focolai.

In generale, sono necessari più test e allargati anche ai cittadini comuni. Ma la regione più colpita dal virus si attesta al penultimo posto – secondo uno studio della Fondazione Gimbe, reso noto ieri – per numero di tamponi giornalieri effettuati ogni 100mila abitanti. A livello nazionale, secondo lo studio, si ritrova la differenza tra “tamponi diagnostici” (nuovi) e “tamponi di controllo” (vecchi), con, in media, i primi che si attestano al 67% e i secondi al 33%. Non solo. Con l’emergenza oggi in calo, i nuovi contagi si calcolano sulla base dei tamponi eseguiti. Il report della Fondazione prende come riferimento il numero dei tamponi effettuati ogni giorno su 100.000 abitanti: con 79 di media, la Lombardia si attesta penultima in Italia. Dietro ci sono solo le regioni del Sud: Calabria, Sardegna, Campania, Puglia, Sicilia. In testa, con una media di 190 tamponi, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e le province autonome di Trento e Bolzano.

La carenza di tamponi in Lombardia va poi di pari passo con un tasso di mortalità molto alto e percentuali, come avvenuto per la provincia di Bergamo, di quasi il 600% rispetto al 2019. A indicare questa direzione lo studio della Fondazione Human, dal quale emerge come la mortalità diminuisca con l’aumento dei tamponi.

Torniamo al ragionamento del professor Galli: monitorare la carta d’identità dei tamponi. Chi detiene questi dati? Non i laboratori che processano materiale anonimo. Il database fondamentale è in mano alla task force regionale che non lo rende fruibile nemmeno alle opposizioni. Spiega Samuele Astuti, consigliere regionale del Pd: “Dobbiamo sapere dove viene fatto il tampone, in quale Comune, qual è il domicilio e l’età del soggetto per comprendere anche come evolve il virus. Ma tutto questo non c’è. Il database sulla piattaforma regionale ‘Aria’ è inaccessibile da quasi un mese e nonostante le mie richieste alla Direzione generale nessuno mi spiega il perché ”. Questione di trasparenza. Necessaria per sconfiggere il contagio. E per ripartire in sicurezza bisogna aumentare i tamponi. Ma la Regione sembra avere – su questo – il motore ingolfato. Sul tavolo si mettono proposte, ma poche poi riescono a ingranare, a partire per esempio dai test sierologici (attivi per gli operatori sanitari, ma non ancora organizzati sull’intera popolazione). A oggi, anche della delibera promessa dalla Regione non vi è traccia. Alcune sono allo studio per aumentare la medicina del territorio, attraverso le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) e i presidi sociosanitari territoriali. Il problema però sta ancora una volta nei numeri, con le Usca arenate a meno di 50 su un totale previsto di 200, e i presidi che non superano la decina in tutta la Lombardia.

Il crollo dell’export taglia del 3% il Pil italiano

Il lockdown, la frenata della domanda interna e il crollo dell’export causati dalla pandemia di coronavirus stanno assestando colpi micidiali alle imprese e rischiano di decimarle in tempi molto rapidi. Lo dimostrano le statistiche dell’Istat e uno studio secondo il quale le aziende italiane in media possono sopravvivere solo due mesi al prosciugamento dei flussi di cassa. Fondamentale, dunque, è stata la decisione del governo di far ripartire gran parte dell’economia il 4 maggio.

Secondo l’ultima nota mensile sull’economia italiana dell’Istituto nazionale di statistica, relativa ad aprile, il crollo del commercio mondiale quest’anno potrebbe causare all’Italia una caduta del 3% del Pil. “L’impatto dei lockdown all’estero si manifesterebbe in un calo del 3,4% su base annua del valore aggiunto manifatturiero, di cui lo 0,5% per la contrazione dell’economia tedesca, l’1% per il resto dell’eurozona e l’1,9% per il resto del mondo”, stima l’Istat. “I settori più colpiti sono i più aperti al commercio internazionale: tessile-abbigliamento-pelli (-4,1%), apparecchi elettrici (-4%), macchinari (-3,8%), autoveicoli (-3,7%)”, mentre alimentari e bevande perderebbero l’1,9%. Questi 5 settori contribuirebbero per l’1,6% alla perdita totale di valore aggiunto, quasi la metà del comparto manifatturiero.

Che i lockdown riducano in maniera asimmetrica la capacità di sopravvivenza delle imprese è dimostrato anche da uno studio su un campione di 6.345 imprese di 12 Paesi emergenti e dell’Europa meridionale, Italia compresa, condotto da Erica Bosio, ricercatrice del gruppo Banca mondiale e Simeon Djankov della London School of Economics.

L’inaridirsi dei flussi di cassa riduce i tempi di sopravvivenza delle aziende sino all’esaurimento delle risorse a disposizione per finanziare il capitale circolate, come gli utili messi a riserva e le altre fonti di finanziamento, anche nel caso che i governi sovvenzionino totalmente il costo del lavoro. I costi fissi come gli affitti, la manutenzione di impianti e macchinari, gli ammortamenti e gli acquisti vanno infatti comunque pagati. In Italia la resistenza mediana è di 10 settimane. Senza entrate, il tempo medio di sopravvivenza è di 8 settimane nel commercio al dettaglio, 9 nelle costruzioni, 16 per chimica plastica e minerali e 19 nella manifattura. La situazione peggiora con il crollo dell’export perché le imprese che vendono all’estero perdono entrate in valuta estera e lettere di credito commerciale. Il blocco del commercio estero riduce i tempi di sopravvivenza delle imprese tra 8 e 14 settimane a seconda dei Paesi. Per le imprese italiane, più proiettate sui mercati internazionali, la capacità di resistere si contrae in media da 10 a 9 settimane. Metalmeccanica e informatica sono i settori più colpiti: i tempi di sopravvivenza calano da 19 a 14 settimane.

Intanto cominciano a venire registrate le statistiche sulle riaperture delle fase 2. Sempre la nota mensile dell’Istat rileva che le imprese attive nei settori sospesi d’autorità “sono ora circa 800mila, il 19,1% del totale rispetto a poco meno del 48% precedente”. Restano chiuse le imprese del terziario, che realizzano il 6,9% del fatturato e l’8,2% del valore aggiunto totale di industria e servizi. Si tratta di un’azienda su cinque in Italia che dà lavoro al 15,7% degli occupati totali dell’industria e dei servizi, escluso il settore finanziario, rispetto al 43% circa del mese precedente.

Condizioni Mes, ora l’Europa offre un assist all’Italia

Dopo le botte della Corte costituzionale tedesca, dall’Europa arriva un assist all’Italia. I dettagli vanno ancora chiariti, ma la lettera dei commissari europei, Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis, il “falco” Dombrovskis, all’Eurogruppo per offrire l’interpretazione sulle effettive condizioni del Mes, costituisce un ‘sostegno a Paesi come l’Italia’. Così come è un sostegno la dichiarazione della Commissione sul debito italiano stimato al 140% del Pil entro 10 anni, ma ritenuto “sostenibile”. E lo è la risposta di Christine Lagarde alla Corte costituzionale tedesca: “Proseguiamo indisturbati, la Bce continuerà a fare qualsiasi cosa necessaria nel perseguire il proprio mandato”.

La lettera dei due commissari economici esclude le “condizionalità rafforzate”. Siccome lo scopo del prestito è definito dalla crisi pandemica ed è temporaneo e l’Eurogruppo ha già stabilito che “il solo requisito per accedervi” è utilizzarlo “per sostenere spese sanitarie dirette e indirette legate al Covid-19”, le condizionalità previste dai trattati vanno cambiate.

La lettera punta su due regolamenti: l’877/2013 della Commissione sul “monitoraggio e la valutazione dei documenti programmatici di bilancio e per la correzione dei disavanzi eccessivi” e quello del Consiglio, numero 472/2103, “sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio” per Stati “che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria”. Non è chiaro come la lettera della Commissione possa incidere sull’applicazione di un regolamento, il secondo, emanato dal Consiglio così come non è chiaro come si possa incidere sui trattati.

Ma, si scrive, la “sola condizionalità” è quella dei costi sanitari e quindi “per dare certezza legale, la Commissione emenderà il regolamento 877”. Non verrà attivata gran parte dell’articolo 3 del regolamento 472 che prevede comunicazioni speciali alla Bce e gli “stress test” sulla sostenibilità del sistema finanziario.

Non viene prevista nessuna “missione ad hoc sul posto” e quindi non ci sarà la Troika. Si scrive che “non si vede motivo di applicazione” del comma 7 dell’articolo 3 secondo cui “il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, può raccomandare allo Stato membro interessato di adottare misure correttive precauzionali” e non si applica l’articolo 7 sui “programmi di aggiustamento macroeconomico”.

Ancora, la “sorveglianza rafforzata” termina quando “la disponibilità dello strumento cessa” ma termina prima “se e quando la disponibilità di denaro è stata spesa”. Il punto 7 della lettera è quello che viene preso di mira dal leghista Claudio Borghi per il rimando all’articolo 14 del regolamento 472 il quale detta le linee della “sorveglianza post-programma”. Ma i commissari scrivono anche che “il monitoraggio avviene successivamente alle caratteristiche del supporto alla crisi pandemica”. E le “missioni di revisione vengono incorporate nel regolare ciclo di sorveglianza del Semestre europeo”, quindi nei termini classici della sorveglianza europea. Per Stefano Fassina, “sovranista” di sinistra, “si sono evitati scogli più visibili, ma rimangono punti molto rilevanti” e “rimangono in vigore le norme del Mes”.

La sostanza giuridica della lettera non è del tutto chiara e vanno precisati rilevanti aspetti legali. Tra l’altro resta aperta la temporalità dei prestiti. Ma la Commissione, anche dopo la sentenza della Corte tedesca, ha voluto indicare una linea di distensione. Al ministero dell’Economia si parla di “vittoria dell’Italia”, mentre Palazzo Chigi preferisce non esprimersi. Sul fronte politico, a ieri sera prevaleva la prudenza. Tutti, a partire dal M5S, vogliono leggere scrupolosamente il testo e capire se davvero ci si possa fidare.

Detenuto ha il Covid, richiesta rigettata: “Ha una cella singola e visite quotidiane”

Non sempre si esce dal carcere. Alle tante domande di domiciliari arrivate in questi giorni c’è qualche giudice che ha detto “no”. Anche se si è contratto il Covid-19. È successo a un detenuto di Bologna, per di più uno dei pochi contagiati in cella.

Era finito dentro con l’accusa di associazione a delinquere nell’ambito di un’inchiesta sulla mafia del Viterbese ed è in attesa di una sentenza di primo grado. Nonostante ciò, il giudice ha rigettato la richiesta di domiciliari del suo legale: in sostanza, dice il giudice, è sottoposto a isolamento sanitario in una cella singola con bagno e viene visitato quotidianamente. Non ci sono quindi motivi per curarlo all’esterno.

È questo il caso di una decisione in controtendenza con quanto invece sta accadendo in questi giorni: i 376 boss che hanno già lasciato le celle e almeno altri 456 che chiedono di uscire per motivi di salute connessi al rischio Covid-19.

Anche S.P. ci aveva provato. Di origini albanesi, è accusato dai pm romani Giovanni Musarò e Fabrizio Tucci di aver preso parte a un’associazione mafiosa operante a Viterbo, “che si avvale – è scritto nel capo di imputazione – della forza di intimidazione che scaturisce dal vincolo associativo e della conseguente condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva”. Chi dava le direttive, per le accuse, era il titolare di alcuni negozi di “compro oro” che voleva controllare il mercato del territorio del Viterbese imponendo le proprie condizioni ai concorrenti. Che i suoi sodali (sono nove gli indagati per associazione mafiosa) mettevano in pratica con metodi non proprio docili: estorsioni, minacce e auto incendiate.

S.P. era uno di quelli che, secondo le accuse, andava a gettare benzina. Come avvenuto in una notte del novembre 2017 quando ha preso fuoco la 600 del titolare di un negozio di “compro oro” concorrente.

Non è andata meglio a un uomo che aveva un debito con il presunto capo dell’associazione. Anche la sua Lancia Y è stata incendiata in una notte di dicembre di tre anni fa.

Con questa inchiesta, per la prima volta, la Procura di Roma contesta il 416-bis per un sodalizio nel Viterbese. Scattano gli arresti, poi alcuni chiedono il rito abbreviato. Le richieste di condanna dei pm sono pesanti: 135 anni in totale per una decina di imputati. Per alcuni di loro sono state richieste condanne fino a 20 anni. Per S.P., secondo il pm Musarò, ne bastano 14. La sentenza non è ancora stata emessa, alcuni degli imputati la attendono in carcere. Come il giovane albanese che, tramite il legale, ad aprile ha chiesto la sostituzione della custodia cautelare in carcere con i domiciliari. I pm hanno dato parere negativo e il giudice per le indagini preliminari Emanuela Attura ha condiviso la loro impostazione.

Nella sua decisione, il gip scrive: “Deve premettersi che la misura cautelare in corso di esecuzione, disposta con riguardo all’imputazione di cui all’articolo 416 del codice penale e altri gravi fatti, è stata confermata sia in sede di appello che di legittimità e quindi, allo stato, è coperta dal giudicato cautelare”.

Poi entra nel merito della richiesta di domiciliari: “Con riguardo al profilo dedotto con l’odierna istanza circa l’incompatibilità dell’imputato con il regime carcerario per ragioni di salute – scrive il gip –, deve osservarsi che dagli atti trasmessi a questo Ufficio risulta una situazione del tutto diversa da quella presentata nell’istanza di sostituzione della misura”. Cita quindi la relazione sanitaria, dalla quale emerge che il detenuto, sottoposto a tampone e risultato positivo, è in “isolamento sanitario in cella singola con bagno e visitato quotidianamente”. Inoltre non presenta febbre e ha “una buona saturazione dei ossigeno”.

Resta in attesa di un secondo tampone che verrà eseguito nei prossimi giorni. “Ne discende – conclude il giudice – che non ricorre la dedotta situazione di incompatibilità”. S.P., contagiato Covid, resta dunque in carcere a differenza di tanti altri che, seppur con profili e motivazioni diverse, son potuti tornare a casa.

“I boss ora escono a ondate: vogliono riprendere il potere”

“Le mafie vivono di segnali. E il segnale lanciato dai boss che escono dal carcere e tornano nel loro territorio è devastante. Riacquistano l’arroganza, la prepotenza, la voglia di riprendersi il potere”. Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia, vede accumularsi sul suo tavolo le richieste di scarcerazione per motivi di salute, a causa dell’emergenza coronavirus. Negli ultimi giorni sono 456, arrivano al ritmo di oltre cento al giorno. Provengono da mafiosi o detenuti per reati gravissimi, molte da boss sottoposti al 41 bis. E 376 sono i detenuti già scarcerati.

Com’è stata possibile questa epidemia di scarcerazioni?

È cominciato tutto con la nota del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che il 21 marzo, preoccupato che il virus potesse dilagare nelle carceri, chiede a tutti gli istituti penitenziari di segnalare ai Tribunali di sorveglianza i detenuti con determinate patologie. Parte così un meccanismo che ha portato centinaia di persone alla detenzione domiciliare.

La salute prima di tutto.

Sì, ma non sono state prese in considerazione le situazioni dei diversi detenuti, la possibilità di dotarsi di protezioni individuali dentro gli istituti penitenziari, gli eventuali percorsi sanitari alternativi al ritorno a casa…

I magistrati di sorveglianza hanno ricevuto le istanze dei detenuti e hanno scarcerato.

È partita l’emorragia di scarcerazioni. Ma è stato riversato sul solo magistrato di sorveglianza il peso di decidere che cosa fare davanti all’ipotetica possibilità di contagio in carcere. Non si è considerato, per esempio, che per i detenuti al 41-bis la situazione d’isolamento impedisce già il contagio in carcere, anche perché il ministero della Giustizia aveva già bloccato i contatti con l’esterno, sostituendo il colloquio di persona con due videochiamate.

Di fronte alle scarcerazioni di tanti boss mafiosi, la Direzione nazionale antimafia non ha fatto niente?

La Dna viene a conoscenza del problema soltanto il 21 aprile, un mese dopo la nota del Dap. Prima nessuno ci aveva informati. Allora richiamiamo immediatamente l’attenzione del ministro della Giustizia, ricordando che l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario stabilisce che il procuratore nazionale può intervenire nel caso di detenuti per mafia. Abbiamo chiesto di ricevere le istanze di scarcerazione inoltrate ai Tribunali di sorveglianza per poter esprimere un nostro parere.

Qual è stata la reazione del ministro Alfonso Bonafede?

Condivisione immediata delle nostre preoccupazioni, che erano anche le sue. Tanto che pochi giorni dopo, il 30 aprile, arriva il decreto legge del governo che per permessi e scarcerazioni rende obbligatorio il parere delle Direzioni distrettuali antimafia (per i detenuti per mafia e terrorismo) e della Direzione nazionale (per i detenuti al 41-bis).

Dal 30 aprile la situazione è cambiata?

La Procura nazionale antimafia ha ricevuto una lista di quasi 300 detenuti già scarcerati per motivi di salute. E continua a ricevere, ora direttamente dagli istituti penitenziari, le nuove richieste di scarcerazione con la relativa documentazione medica: 100 due giorni fa, 120 ieri, un centinaio oggi… La Dna formula il suo parere e lo manda ai Tribunali di sorveglianza, che poi decideranno.

È ipotizzabile che “l’emorragia di scarcerazioni” ora si fermi?

Vedremo quali saranno le nuove norme che emanerà il governo, vedremo se sarà possibile far rientrare in carcere i boss già usciti. Quanto alle nuove domande, quelle dopo il 30 aprile, la Procura antimafia fornisce il suo parere entro due giorni e lo invia ai Tribunali di sorveglianza.

Bloccherà le scarcerazioni?

La decisione è del magistrato di sorveglianza. Noi non diciamo sì o no, non ci sostituiamo al giudice a cui spetta la decisione. Stiliamo il profilo criminale del detenuto, diamo una descrizione della pericolosità del soggetto e del suo ruolo all’interno dell’organizzazione. Così il Tribunale potrà avere tutti gli elementi per capire la figura di chi chiede la detenzione domiciliare e potrà valutare anche strade alternative a questa. Si tratta di capire quale danno enorme sia lasciar tornare sul loro territorio i boss mafiosi. Lo Stato finora ha dimostrato la sua incapacità a evitare questi ritorni. Le mafie vivono di segnali: e i boss fanno apparire questi ritorni come una ripresa del loro potere sul territorio.