Giustizia, B. torna Caimano: “Sì alla sfiducia a Bonafede”

Il centrodestra si ricompatta e firma all’unisono una mozione di sfiducia personale contro il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, usando come pretesto le scarcerazioni di boss mafiosi. Fa finta di non sapere che la circolare del Dap del 21 marzo facilita le richieste dei boss, ma i domiciliari per rischio coronavirus li hanno decisi i giudici di Sorveglianza visto che il decreto “Cura Italia” li esclude proprio. Per non parlare della tempistica della mozione: arriva mentre al ministero si lavora su un altro decreto per chiedere ai tribunali di Sorveglianza di rivalutare, alla luce della fase calante del contagio, i domiciliari concessi a ben 376 mafiosi, su 456 che li hanno chiesti con la scusa del Covid-19. Il nodo tecnico da sciogliere è quello di dare una indicazione senza violare il principio dell’indipendenza della magistratura.

Ma in realtà, dietro la mozione presentata al Senato, c’è ben altro, l’insofferenza per la legge Spazzacorrotti e per quella che blocca la prescrizione dopo il primo grado. Tanto è vero che Silvio Berlusconi ha smesso di essere “responsabile”, come da giorni si era proclamato e ha deciso di far firmare a Forza Italia la mozione di sfiducia individuale contro il Guardasigilli. Insomma, da “responsabile” Berlusconi è tornato a essere “Caimano”. D’altronde, la capogruppo in Senato Annamaria Bernini lo ha detto chiaro e tondo: “Non potevamo tirarci indietro di fronte alla politica giudiziaria di un ministro che in 2 anni ha travolto tutti gli argini costituzionali: dalla “ragionevole durata dei processi” con la “prescrizione infinita”, alla riforma delle intercettazioni “divenute una trappola inquisitoria”.

Ad annunciare la mozione è stato Matteo Salvini “per evidente incapacità e inadeguatezza” del ministro. Le rivolte nelle carceri, i boss ai domiciliari e la mancata nomina di Nino Di Matteo due anni fa, come capo del Dap, di cui Bonafede “non si è assunto responsabilità” , sono i punti della mozione.

Bonafede, ieri in Senato per un question time (dopo essere stato mercoledì alla Camera) proprio sulla vicenda Di Matteo, quei punti li ha smontati: “Invito tutti a fare un’operazione di verità, che nella lotta alla mafia è fondamentale. È totalmente infondato il collegamento” tra i fatti relativi alla mancata nomina di Di Matteo al Dap nel 2018 e “le scarcerazioni, frutto di decisioni di magistrati che hanno applicato leggi che nessuno aveva mai modificato fino al decreto approvato la scorsa settimana da questo governo, con il quale si stabilisce che, rispetto alle istanze di scarcerazione, è obbligatorio il parere della Dna e delle Dda”. Lo stesso Bonafede ha confermato che con l’arrivo del vicecapo al Dap Roberto Tartaglia è stata inviata una circolare ai direttori delle carceri in modo che il Dap sia informato da loro su “qualsiasi istanza” di detenuti mafiosi.

In Senato, la maggioranza ha un margine risicato e in vista del voto sulla mozione, il solito Matteo Renzi sibila di poterla votare, senza volerlo veramente, solo per “potere contrattuale” dentro al governo dato che i senatori di Iv sono 17, fondamentali per il via libera.

Il ministro ha risposto alle accuse alle Camere, ma ha disertato la Commissione parlamentare antimafia. Andrà dopo l’insediamento del nuovo capo del Dap, il Pg di Reggio Calabria, Dino Petralia, che ieri ha avuto il via libera del Csm. Irritata l’opposizione in Commissione, ma anche la maggioranza, pur comprendendo le ore difficili del ministro, sotto accusa e alle prese con il decreto anti-scarcerazioni. Non l’ha presa bene neppure il presidente della Commissione Nicola Morra, M5S ma da tempo non in buoni rapporti con Bonafede. E proprio ieri è stata rilanciata la notizia che Morra, il 22 aprile sollecitò l’ex capo Dap, Francesco Basentini, per ricevere quanto aveva già chiesto: “I riferimenti, e se del caso anche i fascicoli personali, dei detenuti” mafiosi finiti ai domiciliari.

Transatlantico bye-bye: ora la Camera “occupa” il salotto di cronisti e politici

L’emergenza coronavirus non risparmia niente e nessuno. Anche l’ultimo baluardo della Prima, della Seconda e pure della Terza Repubblica, ossia il Transatlantico, è destinato a cambiare volto: il corridoi dello struscio di deputati e giornalisti, dove in 70 anni di storia repubblicana sono volate tante parole grosse e pure qualche schiaffo (come i due ceffoni rifilati nel 1989 a Giovanni Goria dal missino Tomaso Staiti che per la verità si era tolto l’anello gentilizio per non fargli troppo male) verrà da qui a pochi giorni trasformato.

Il luogo di pausa e di chiacchiera che ha tenuto a battesimo manovre, accordi inconfessabili e persino qualche filarino, diventerà parte integrante dell’aula della Camera con tanto di banchi e postazioni di voto per garantire le distanze di sicurezza imposte dal crudele virus. Chi vorrà trovare posto sugli inconfondibili salottini di pelle rossa che ora arredano la “Galleria dei passi perduti” non potrà fare altro che traslocare oltre il cortile, nel ben più ristretto passaggio adiacente all’ingresso principale di Montecitorio. Che non ha certo il fascino né gli spazi dell’ampio salone con annessa buvette ispirato alle sale da ballo delle navi transoceaniche di inizio Novecento, ma tant’è: l’emergenza costa anche questa rinuncia.

La parola d’ordine è massima sicurezza. Anche perché nelle ultime settimane, nonostante i questori si siano sgolati, c’è chi si è ostinato a fare spallucce rispetto alle misure predisposte per evitare il contagio: a parte chi è allergico alla mascherina, come Vittorio Sgarbi, qualche deputato è stato pizzicato a scambiarsi abbracci e saluti affettuosi, come nulla fosse.

Per non parlare di Giuseppe Basini della Lega che ha mandato in fibrillazione il Palazzo dopo essere entrato in aula nonostante ai controlli all’ingresso avesse la temperatura alterata. E che dire del gruppo della Lega che l’altro giorno per protesta ha occupato l’emiciclo? I richiami all’ordine e alla prudenza finora non sono serviti e forse non basteranno neanche le sanzioni. Quel che si spera è che la nuova logistica almeno serva ad assicurare che i lavori riprendano a pieno ritmo, dato che la pax politica basata sull’auto-contingentamento delle presenze è finita da un pezzo: entro dieci giorni in oltre 350 continueranno ad avere il posto assegnato in aula, 120 si accomoderanno invece in Transatlantico e infine, se proprio dovesse registrarsi il pienone (il plenum dell’assemblea che è di 630 deputati) ci sarà posto anche in piccionaia, nelle tribune tradizionalmente riservate ai giornalisti e agli ospiti.

Ma alla Camera il presidente Roberto Fico pensa anche di approvare un regolamento d’emergenza, nel caso in cui in futuro si presentino accidenti pari o addirittura peggiori rispetto al Covid-19, che contempli la possibilità di ricorrere anche al voto a distanza.

È pace con la Cei. Ma torna la guerra con Regioni e Figc

Non gli basterebbero dieci mani per tappare tutte le falle e parare tutti i colpi. Un lavoraccio, quello del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, perché per una breccia che si chiude se ne apre un’altra, con le Regioni prime talpe. E dire che di mattina il premier risolve la partita sulle messe con la Cei, cioè con il suo mondo, quello della Chiesa, mentre nel pomeriggio a Palazzo Chigi strappa una tregua alla delegazione di Italia Viva, a cui promette una bandierina da esibire, cioè un provvedimento sull’economia. E arriva anche il compromesso sui Dpcm, con il ministro per i Rapporti con il Parlamento D’Incà che trova l’intesa con Pd e Iv: martedì si voterà un emendamento (riformulato) dei dem, che prevede per il premier l’obbligo di riferire preventivamente il contenuto dei suoi decreti alle Camere, salvo casi d’urgenza.

Ma nelle stesse ore Conte si prende il morso delle Regioni, che con un ordine del giorno gli chiedono di riaprire i negozi al dettaglio già dall’11 maggio e di lasciare decidere a loro cos’altro e quando far ripartire dal 18 maggio. Una mossa a cui si sottrae il Lazio del segretario dem Nicola Zingaretti: “Lunedì si insedierà un comitato scientifico per valutare come procedere regione per regione, e noi ci atterremo alle indicazioni”. Ma Conte ha anche un’altra grana, quella del calcio, con la Federazione, le squadre e il mondo che gira attorno che pretendono di ripartire.

Così da giorni sono strali e telefonate, anche contro il ministro dello Sport, il dimaiano Vincenzo Spadafora, “reo” di essere più che scettico sulla ripresa. “Spadafora non si tocca, se ne occupa lui” è la linea di Chigi, da dove però hanno suggerito una linea meno intransigente al ministro. Anche se i suoi dubbi sono rafforzati dalla notizia di altri tre giocatori positivi al coronavirus, tutti della Fiorentina. Però Conte deve smussare e promettere, per tenere a galla una nave che ieri ha imbarcato altra acqua, con l’ennesimo slittamento del decreto maggio (già dl aprile) e nuove scorie sulla giustizia. Almeno è arrivata la firma con la Cei del protocollo per la ripresa delle messe e altre funzioni, come battesimi e matrimoni. Un testo costruito innanzitutto dalla ministra dell’Interno Lamorgese, che impone una serie di regole: dall’obbligo per i fedeli di mantenere tra loro una distanza di almeno un metro al divieto di entrare nelle chiese a chi abbia almeno 37,5 di temperatura o sia stato in contatto con contagiati. Locali e oggetti andranno sanificati e areati dopo ogni celebrazione, mentre si dovrà “ridurre al minimo la presenza dei concelebranti e dei ministri di culto”. Ma ai vescovi e a Conte va bene così.

Chi sembrano non accontentarsi mai sono i governatori, che in un ordine del giorno approvato dalla Conferenza delle Regioni chiedono di riaprire tra tre giorni i negozi al dettaglio, ma soprattutto mani libere su tutto il resto. “Entro il 17 maggio – è la richiesta – venga adottato un nuovo dpcm con il coinvolgimento delle Regioni per consentire alle Regioni stesse di procedere autonomamente sulla base delle valutazioni delle strutture tecniche e scientifiche dei rispettivi territori, a regolare le riaperture delle attività”. È la differenziazione per Regioni a cui Conte aveva già aperto. Ma non regolata da Roma, e questo è uno schiaffo. Certo, in serata il ministro per gli Affari regionali Boccia assicura agli enti locali “una cabina di regia sullo sport”, per decidere assieme come far ripartire le attività (calcio a parte). Mentre il M5S con Francesco Silvestri presenta un emendamento al dl liquidità che prevede tempi più brevi per la concessione di suolo pubblico a bar e ristoranti, come invocato anche dai governatori. Ma la richiesta di totale autonomia sulle riaperture irrita il governo. “È una proposta eccessiva, anche tenendo conto dei dati sui decessi in Lombardia” fanno notare. E fuori taccuino lo dicono in diversi: “È una polemica politica, spinta dai governatori del centrodestra”. Ergo ancora trincea, per Conte.

Renziani, selfie e defezioni: “Conte non lo siluriamo noi”

Resta solo una foto e qualche promessa, dopo l’incontro tra il premier, Giuseppe Conte e la delegazione di Italia viva. Tanto è vero che per i renziani presenti, dopo qualche ora, da “positivo” diventa “interlocutorio”. Ma intanto, per l’ennesima volta, Matteo Renzi non rompe. Forse anche vista la perplessità dei suoi. “La caduta del governo non può essere imputata a noi”, gli dicevano il 22 aprile i senatori, in una riunione del gruppo in streaming.

“Con Ettore Rosato, Maria Elena Boschi, e Davide Faraone per l’incontro con il Presidente Giuseppe Conte. Italia Viva continuerà a lavorare per il Paese. Per ripartire serve un progetto come #ItaliaShock: investimenti, infrastrutture, opere pubbliche per rilanciare l’economia”, twitta il capo delegazione Iv Teresa Bellanova, postando anche la foto dei “magnifici 4” a Palazzo Chigi. Mentre Rosato a microfoni accesi, parla di “incontro positivo”. L’incontro è durato circa un’ora e un quarto. Sul tavolo, la regolarizzazione dei migranti, il Guardasigilli Alfonso Bonafede (nel mirino di Iv da prima dell’inizio dell’emergenza Covid) e il piano shock. Si parla di tutto, si risolve poco. E se Palazzo Chigi fa filtrare la sua disponibilità ad ascoltare le proposte di Iv e la determinazione a lavorare tutti insieme, i renziani aspettano un documento scritto, promesso da Conte.

Per il presenteci sono le parziali marce indietro, per il futuro le minacce. I renziani voteranno la sfiducia presentata dal centrodestra al ministro Bonafede? “Leggeremo e valuteremo”, è la risposta. La regolarizzazione dei migranti su cui Bellanova ha minacciato le dimissioni? L’accordo non è chiuso, ma lei resta. Per ora. “Non mi accontenterò di mediazioni al ribasso”, va ribadendo lei in serata. Valuterà il testo nel suo complesso: la durata della proroga del permesso di soggiorno, l’esistenza di una app per incrociare domanda e offerta, la possibilità che possano essere gli stessi migranti ad andare a chiedere i documenti. Per ora, almeno su un punto ha già dovuto cedere: si discute di una proroga di 2 o 3 mesi dei documenti scaduti. Il ministro dell’Agricoltura ne voleva 6, Nunzia Catalfo (ministro del Lavoro, M5S) solo uno, Luciana Lamorgese (Viminale) proverà a chiudere su 3.

Domani ci sarà un vertice dei gruppi di Iv di Camera, Senato e Parlamento europeo (in streaming). Ma tra le valutazioni che frenano la voglia di Renzi di rompere, c’è, dunque, anche quello che è successo in una riunione precedente, tra i soli senatori.

Era il 22 aprile, in pieno lockdown, e l’ex premier già premeva per riaprire. Dopo una serie di discussioni individuali, a un certo punto Renzi si convince a convocare i senatori in streaming. Lì i suoi sono 17. Determinanti per la tenuta della maggioranza, ma molto variegati: ci sono sia i fedelissimi, come Francesco Bonifazi, che altri, meno schiacciati sul capo. E dunque, la riunione dura 3 ore. Molto dialettica. “Non può essere imputata a noi la caduta del governo Conte”, dicono quasi tutti, a parte i pasdaran, come Ernesto Magorno. E poi: “Non si fanno scemenze”, “si procede”. I destini personali in questi casi sono centrali: con un partito al 2% il futuro è un’ipotesi. Soprattutto dopo che Sergio Mattarella ha cominciato a parlare di elezioni, in caso di caduta di Conte. E Nicola Zingaretti ha ribadito che dopo questo esecutivo, c’è solo il voto.

In questi casi, la minaccia è già un deterrente. Ma in una situazione comunque incerta, nessuno può davvero escludere le urne. Renzi domenica ha mandato un Whatsapp nella chat dei senatori. E mentre augurava a “chi può” di godersi il sole, convocava tutti per domani. “Sabato mattina ci divertiamo. Ho l’impressione che il mondo stia cambiando rapidamente”. E poi: “Volevo evitare una riunione di tutti in call”, ma “ci ascolteremo, prudenti e saggi”. Che cosa significhi esattamente non è chiaro. Lui, il leader, sta solo aspettando il momento giusto per uscire, convinto di non avere alcuno spazio politico e anche che Forza Italia entrerà in sostituzione, evitando le urne. Ma sono azzardi che lui si può forse permettere. I suoi meno.

Tornando a ieri. L’ex premier fa girare tra gli amici la sua versione: “Conte ha capito che senza Iv non c’è maggioranza”. E dunque, rilancia sulla ripartenza economica. Mentre si scaglia contro la dichiarazione di Andrea Orlando, vice segretario dem, che ha aperto alla presenza dello stato nelle imprese. Solo alcuni dei fronti aperti.

Buttadentro&fuori

Analizzando i danni collaterali della polemica Di Matteo-Bonafede, ci è tornato alla mente il tormentone di Eduardo De Filippo in A che servono questi quattrini?: “E chi vi dice che sia una disgrazia?”. In effetti il battibecco fra ex pm e ministro potrebbe sortire almeno due effetti positivi. Il primo è l’improvviso coup de foudre per Di Matteo del centrodestra più Innominabile più house organ e giornaloni al seguito, che li costringe a parlare ogni giorno della sua inchiesta più importante, quella sulla trattativa Stato-mafia, approdata – com’è noto – due anni fa alle condanne in primo grado di tutti gli imputati per violenza o minaccia ai governi Amato, Ciampi e Berlusconi. Non se n’era mai parlato così tanto, nei due anni d’inchiesta e nei quattro e più di dibattimento (regolarmente ignorato o svillaneggiato), né all’indomani della sentenza. Dunque siamo certi che ora chi dà ragione a Di Matteo sul sospetto, tutto da dimostrare, di pressioni sul ministro Bonafede per la mancata nomina a capo-Dap, non mancherà di far conoscere ai suoi (e)lettori le pressioni mafio-istituzionali ampiamente dimostrate in quel processo. Già immaginiamo le puntate speciali di “Non è L’Arena: è Salvini” con letture intensive della requisitoria Di Matteo e della sentenza della Corte d’Assise di Palermo, nonché le edizioni straordinarie di Repubblica, Corriere, Stampa, Giornale, Verità e Libero con tutte le carte del processo del secolo (chi fosse interessato può copiare i paginoni del Fatto di due anni fa).

Il secondo effetto benefico è che ora chi difendeva quei governi e quei ministri per aver trattato con la mafia “a fin di bene”, alleggerito il 41-bis e varato altre norme pro-mafia in ossequio al papello di Riina per “ragion di Stato”, farà senz’altro autocritica. Per un motivo di coerenza, cioè per rendere credibili le accuse sulle recenti scarcerazioni di mafiosi al ministro Bonafede, che peraltro non ha mai scarcerato nessuno e sulla mafia ha fatto (e ancora sta facendo) sempre e solo leggi anti, mai pro. Purtroppo la coerenza stenta ancora a farsi strada, dunque assistiamo a un gustoso paradosso: chi giustificava o minimizzava o ignorava la documentata trattativa Stato-mafia del 1992-’94 ora cavalca la falsa trattativa Bonafede-mafia del 2020. E attribuisce al ministro le ultime scarcerazioni, che invece sono farina integrale del sacco di circa 200 giudici. A parte il centrodestra, pieno di mafiosi e filomafiosi, che presenta mozioni di sfiducia contro Bonafede in nome dell’antimafia (quella di Dell’Utri, B.&C.), segnaliamo il neodirettore di Repubblica Maurizio “Sambuca” Molinari.

Ieri, con l’empito tipico del neofita, ipotizzava “una trattativa” (termine da lui mai usato prima, Usa e Israele a parte) “fra i boss e lo Stato” in corso oggi e domandava, restando serio, “se fosse vero che i boss hanno ottenuto di poter uscire per salvaguardare la loro salute, fino che punto il ministro della Giustizia e il presidente del Consiglio sono stati informati e hanno autorizzato? Interrogativi molto seri che hanno a che vedere con la sicurezza dello Stato”. Se chiedesse a qualche suo cronista, Sambuca apprenderebbe con gran sorpresa che le scarcerazioni le decidono i tribunali di sorveglianza, a meno che il governo non le abbia disposte per legge o per decreto. Ma Bonafede, nel dl Cura Italia, ha escluso i condannati per mafia dalla lista di quelli scarcerabili a fine pena in base alla legge Svuota-carceri Alfano del 2010. Purtroppo un gruppetto di giudici se n’è infischiato e ha messo fuori tutta quella bella gente in base al comico assunto che i detenuti in carcere, inclusi quelli sigillati al 41-bis, rischiano il Covid più di chi sta fuori, mentre la logica e i numeri dicono che è esattamente l’opposto.

Ma evidentemente il giureconsulto che consiglia Sambuca è quell’altro genio di Stefano Folli (il quale chiede le dimissioni di Bonafede “per responsabilità oggettiva” nelle “scarcerazioni di massa”, come se Tocqueville non fosse mai nato). Risultato: Repubblica ieri titolava in prima pagina “Boss, Bonafede ci ripensa” (non si sa rispetto a cosa, visto che non aveva mai detto di scarcerare mafiosi, anzi aveva decretato l’opposto). Il che deve aver aumentato fra i lettori l’imbarazzante sensazione di aver comprato per sbaglio il Giornale (“Bonafede si rimangia le scarcerazioni facili”), o La Verità (“La trattativa coi boss l’ha fatta Bonafede?”), o il Messaggero (“Frenata Bonafede”). Massima solidarietà al caporedattore Stefano Cappellini, che da mesi si dannava l’anima per spacciare Bonafede per un sadico carceriere per aver fatto le leggi che Repubblica aveva chiesto per vent’anni prima della tragicomica metamorfosi. Quando il Guardasigilli varò la blocca-prescrizione, Cappellini tuonò: “Calpestati i fondamenti di uno Stato di diritto degno di chiamarsi tale”, “giustizialismo”, “barbarie giuridica”, “tribunali dell’Inquisizione”. Ora vai a spiegare ai lettori che quel fottuto manettaro ha messo fuori, con la sola forza del pensiero, quasi 400 boss e forse sta pure trattando con la mafia. Qualcuno potrebbe domandare a Repubblica: ragazzi, l’abbiamo capito che ’sto Bonafede vi sta sul culo, ma siate gentili, diteci una volta per tutte se è un buttadentro o un buttafuori. Così, per sapere.

“Ho vinto tantissimo, però Barcellona ’92 resta speciale”

“Quel tuffo davanti al Re di Spagna… non lo dimenticherò mai! Nessuno se lo aspettava, non eravamo i favoriti. E invece abbiamo vinto, di fronte al pubblico avversario con tutte quelle bandiere. Contro la squadra padrona di casa. Un’emozione immensa, impossibile trattenermi, alla fine mi sono tuffato con i miei giocatori”.

È sempre la Spagna. Nel calcio con i Mondiali 1982. E nella pallanuoto alle Olimpiadi di Barcellona 1992. Oggi Ratko Rudic, l’allenatore del Settebello dei magici anni ’90, lascia la pallanuoto. Pochi atleti hanno vinto quanto lui: prima da giocatore, 8 titoli jugoslavi e 2 Europei. Poi come allenatore: 4 olimpiadi e 3 campionati mondiali. Fino alla Pro Recco, il Real Madrid della pallanuoto, che ha guidato fino a oggi. Ma Rudic è più dei suoi titoli, è un simbolo. La pallanuoto ha i suoi baffi. Il suo volto sanguigno.

Rudic, è finita davvero? Lei si era già ritirato due volte ed è tornato. Non c’è il due senza il tre?

Avevo deciso da tempo di lasciare la panchina. Ora sono tornato a Zagabria, nella mia città. Casa mia è piena di danni e crepe per il recente terremoto. Ho molti pensieri. Poi vedremo cosa fare in futuro: ho maturato molte conoscenze, molti contatti anche nelle istituzioni sportive. Vedremo se troveremo progetti interessanti. L’essenziale è la motivazione.

Nella sua bacheca non c’è che l’imbarazzo della scelta. Ma l’Olimpiade 1992 ha un posto speciale?

Ogni vittoria ha un posto particolare. Ognuna racchiude ricordi unici. Però… sì, non posso dimenticare quel momento. In Italia alla pallanuoto pensavano in pochi e d’improvviso si accorsero di noi. Quando tornai a casa tutti ci riconoscevano, ci facevano festa. Indimenticabile.

Rudic croato, ma un po’ italiano nel cuore…

Amo l’Italia, la conosco, la sento. L’ho girata tutta e ho scoperto le sue tante anime. Ricordo, quando stavo a Roma, le passeggiate in via Giulia… che meraviglia, pensavo, qui ci sono due millenni di storia. E poi gli italiani, la vostra gente aperta. Abitate in un Paese stupendo, non dimenticatelo mai.

Lei ha vinto con l’Italia, ma anche con la Jugoslavia prima della terribile guerra, infine la Croazia. Lo sport è più forte delle bandiere?

Lo sport supera le nazioni. All’inizio le Olimpiadi erano una competizione tra singoli atleti. Poi sono arrivate le squadre, le rivalità tra paesi. Ma ai bordi della piscina c’è qualcosa che unisce. Credo che sarà utile anche adesso, dopo il virus, lo sport aiuterà a ritrovarsi.

Lei ha fatto diventare popolare uno sport di nicchia, la pallanuoto…

Peccato, non abbiamo sfruttato quel successo per farlo diventare disciplina di massa.

Cos’ha di unico la sua pallanuoto?

È il primo sport di squadra arrivato alle Olimpiadi. C’era già nel 1896, ma non si giocò perché il mare ad Atene era agitato. È uno sport che racchiude tre discipline in una: il nuoto, il combattimento perché sopra e sotto l’acqua si lotta. E poi c’è lo sport di squadra.

Lei ha allenato centinaia di atleti. Chi è stato il suo giocatore più grande?

Credo di aver allenato il 90 per cento dei migliori pallanuotisti del mondo. Le dico solo questo: a Londra nel 2012 (vinse l’oro con la Croazia battendo l’Italia, ndr) su dodici squadre la metà erano allenate da ragazzi che avevano giocato con me.

Cosa le mancherà di più?

La piscina, il suo odore. Ma soprattutto fare l’allenatore è emozione pura. Il ruolo che ha più pressione, perché vedi tutto, senti tutto. E devi decidere la strategia.

Che messaggio lascia ai giovani?

La pallanuoto è fatta di talento, ma al novanta per cento è fatica e allenamento. Soltanto così si può riuscire. Però alla fine è una soddisfazione enorme, una gioia, proprio dell’anima e del corpo. Nuoti, giochi e senti dentro di te, nei muscoli, la bellezza e la gioia del movimento. Ma è anche uno sport dove non circolano tanti soldi. Certo, guadagnare un po’ di più non fa male, ma proprio per questo la pallanuoto ti prepara alla vita. Non si costruiscono solo atleti, ma anche persone. E quando lasci la piscina sei un uomo migliore.

David, ultimo atto: senza sale cambieranno anche i premi

Alla ricerca dei David perduti. Dall’annuncio delle nomination il 18 febbraio scorso a oggi è cambiato tutto: pandemia, sale chiuse, piattaforme spalancate. Figurarsi i premi. Li avremmo già archiviati, dacché erano previsti il 3 aprile, invece ci attendono domani sera, in diretta su Rai Uno alle ore 21.25: conduce Carlo Conti, i candidati collegati da casa, Franca Valeri David speciale, Ficarra e Picone David del pubblico per Il primo Natale. Toccherà aguzzare la memoria per rinverdire la griglia di partenza di un’era geologica fa: Il traditore di Marco Bellocchio con 18 candidature, Il primo re di Matteo Rovere e Pinocchio di Matteo Garrone con 15, Martin Eden di Pietro Marcello con undici, a cui per film e regia si aggiunge La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi. Comunque vada, sembreranno tutti riconoscimenti in memoriam: tranquilli, nessun caro estinto, a parte il nostro ricordo. Che Pierfrancesco Favino abbia incarnato Masino Buscetta ci sovviene, che il (non) biopic di Bellocchio ci sia piaciuto pure, ma il Pinocchio di Garrone se la batte con lo sceneggiato di Comencini (1972), Martin Eden con l’originale di Jack London (1908), addirittura, Il primo re con il Natale di Roma, il 21 aprile del 753 avanti Cristo: già, il pre-Covid è una terra straniera, un continuum che ha messo all’angolo, al più in streaming, la diacronia.

Saranno, questi 65esimi, gli ultimi David di Donatello alla vecchia maniera, e se già gli Oscar e i Golden Globes hanno cambiato spartito causa Coronavirus non si vede perché non dovremmo noi. Per film, regia, sceneggiatura originale e attori (Favino, e per i non protagonisti Fabrizio Ferracane o Luigi Lo Cascio) trionferà Il traditore, mentre non avremo un’attrice protagonista degna di tal nome: il problema non è delle interpreti, quanto dei ruoli, micragnosamente offerti da un cinema invero sessista. Valeria Bruni Tedeschi (I villeggianti), Linda Caridi (Ricordi?), Valeria Golino (Tutto il mio folle amore), Isabella Ragonese (Mio fratello rincorre i dinosauri), Lunetta Savino (Rosa), Jasmine Trinca (La dea fortuna): la sproporzione con la controparte maschile (Il primo re Alessandro Borghi, Luca Marinelli Martin Eden) è devastante, per tacere della regia, dove le donne non sono pervenute. Chiedere a valle, ovvero all’Accademia del Cinema Italiano presieduta da Piera Detassis, di emendare la sperequazione a monte sarebbe folle, però i peana e i plausi alla labile parità della scorsa edizione ce li ricordiamo. La rivoluzione incombe: Cannes traccheggia ben oltre il senso del ridicolo; Venezia chiede ai player internazionali la luce verde per un’edizione, se sarà, di emergenza; sale e studios (Universal) americani si accapigliano per Trolls World Tour on demand; gli esercenti francesi si stracciano le vesti per il Pinocchio di Garrone finito su Amazon. E noi? C’è chi piagne, e chi si attrezza per il futuro: Lucky Red, Circuito Cinema e MyMovies il 18 maggio lanciano MioCinema, un servizio TVOD per collegare appassionati e cinema d’autore senza eludere le sale già affossate dal lockdown. Parte del prezzo dei biglietti digitali – 7 euro per le prime visioni, 2,90 o 3,90 per gli altri – andranno alle sale fisiche aderenti, a oggi 75, da cui gli utenti inserendo il proprio CAP su miocinema.it mutueranno la programmazione virtuale: si parte con I miserabili di Ladj Ly, premio della giuria a Cannes 2019, più quindici Palme d’Oro degli anni scorsi. Alla riapertura delle sale, la piattaforma ospiterà direct to video, eventi e contenuti speciali, ma la strategia di Andrea Occhipinti, che con Lucky Red e Circuito Cinema presiede produzione, distribuzione ed esercizio, è più ambiziosa: farsi trovare pronto, e primo, all’inevitabile day-and-date, ovvero l’uscita simultanea di un film su più supporti.

 

Un “lucente eremita” che si definiva “pederasta”

Roma, aprile 1970, libreria Feltrinelli al Babbuino. Vestito con una salopette azzurra e l’aria da meccanico compare Sandro Penna. Mi appella “Renzuccio” ed esclama a voce alta, occhieggiando il baffuto libraio Conticelli: “Sono io il più grande poeta del Novecento, non ti pare, più di Montale. Lo stanno scrivendo tutti”. Sul banco il volume di Tutte le poesie, appena edito da Garzanti, con la bandella di Enzo Siciliano e una biografia scritta di suo pugno dove si parla dei 23 anni vissuti a Perugia e della città Mecca, la Roma dei suoi fanciulli. Ricorda le sue prime poesie presentate da Umberto Saba nel 1932, il volume del 1939 presso Parenti, fino a Croce e delizia del 1958.

Anche nella voce Sandro era un lirico. Lo conobbi alla fine degli anni Sessanta nella casa buia di Dario Bellezza. Mi disse che data l’oscurità di quel corridoio fuori non ci saremmo di certo riconosciuti. “Poeta in luce” lo definì Cesare Garboli, mentre il dimenticato Alfredo Giuliani scrisse che si trattava di “un poeta polinesiano, perfido e candido, intelligente e primitivo precipitato nella società cristiana e borghese dell’Occidente”. E certo era lieto Penna e quasi francescano, come voleva il suo amico Pasolini, ma non aveva attraversato il fascismo e il secondo dopoguerra indenne, senza le ferite della Storia, come raccomanda ancora oggi la vulgata. La sua era una malinconia che nasceva dalla tragedia di una vita immersa nella povertà, che lo vide anche fare la borsa nera seduto davanti a un tappeto di cianfrusaglie, accanto al cinema Giulio Cesare a Roma. Tra i diversi mestieri anche il rivenditore dei quadri che i suoi amici pittori, da Festa a Schifano, gli regalavano, sapendo bene che i suoi clienti preferivano i figurativi, come quelli di Fantuzzi. Nel mezzo degli anni Trenta scrisse un verso che sembra la pietra tombale di tutti i patetici neorealismi, cinematografici e letterari che seguirono, firmati da fascisti e comunisti: “Ma gli operai non sono forse belli”. Certo i ragazzi da Antologia Palatina, quelli dei lirici greci, detti “fanciulli”, affollano i suoi versi ma anche i giovani operai fanno la loro parte insieme ai paesaggi naturali della poesia romantica europea. Non sempre fanciulli greci, dunque e senza atmosfere ermetiche come immaginavano Sanguineti e Fortini. Il suo maestro era Umberto Saba, che amava le “trite parole”. Quella cantabilità, riconosciuta dai critici di diverse generazioni, proveniva dalle canzoni popolari ascoltate dalla bocca dei suoi fanciulli. Una per tutte: “Ma dove vai bellezza in bicicletta”. Per quell’amore divenne amico di Elsa Morante, che finì con litigare con Enzo Siciliano per il timore che una espressione irriguardosa verso il suo amico potesse incrinare il forte legame. Penna si definiva pederasta, non omosessuale e nemmeno pedofilo, e credeva che la pederastia fosse riconducibile alla natura.

Intervistato da un noto psicanalista, Pasolini si rifiutò di analizzarsi come omosessuale, dicendo che si trattava di natura, proprio quella di Penna, e pertanto indiscutibile.

In una copia di tutte le sue poesie trovata in casa di Moravia lessi una dedica che lo definiva “lucente eremita” e pensai subito che quella splendida definizione lo riguardasse. Era stato un lucente eremita tutta la vita. Basta vederlo nel documentario che Schifano gli dedicò e che trovate su Youtube, in mezzo ai quadri e ai libri che riempivano la sua casbah di via Mole dei Fiorentini dove morì di infarto il 21 gennaio 1977. In Stranezze si leggono questi versi “Il problema sessuale prende tutta la mia vita. Sarà un bene sarà un male mi domando ad ogni uscita”, che si accoppiano a “Io non posso cantare Opere Pie”, preferendo le sue periferie piene di una folla naturale ai salotti della Capitale frequentati dalla società letteraria rifiutata in blocco nell’intervista al Messaggero uscita postuma. Tra i suoi versi più recitati: “Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune”.

File, mascherine e banchi schermati Wuhan, il primo della classe ha 36,8

Posti di blocco della sicurezza ai cancelli d’ingresso. Misurazione della temperatura al portone. Lunghe file indiane per i corridoi, accanto agli armadietti, segnate dai distanziatori per dividere chi esce da chi entra.

Ieri a Wuhan, epicentro della pandemia di Covid – 76 giorni di lockdown e 50mila contagiati dopo – sono tornati in classe 57.800 studenti degli ultimi anni di 121 scuole superiori e professionali. Uniformi e mascherine, distanza di almeno un metro tra i banchi, disinfezione continua delle mani, un compagno che passa a fare la spia della febbre per tutti: i buoni e i cattivi nell’Hubei Wuchang Experimental High School non si distinguono più in base ai voti, come successo finora. Resta in classe solo chi ha meno di 37, e con non più di 29 altri studenti. E tutti, insegnanti e alunni sono tornati nelle aule “solo dopo essere risultati positivi agli anticorpi dei test sierologici”, assicura Ai Jianhong, segretario del Partito comunista all’interno della scuola.

Nei giorni scorsi il comune ha provveduto a effettuare 4 cicli di disinfezione di tutto il campus, comprese aule, dormitori, mense e uffici insegnanti. In ogni istituto c’è un’area di osservazione, con tanto di medico e un’infermiere di turno. “Abbiamo anche aggiornato il sistema della lavagna. Gli studenti dell’aula B possono ascoltare la voce del loro insegnante e seguire la lezione attraverso il PowerPoint nella classe A, in tempo reale. E chi non può raggiungere la scuola può anche partecipare al corso online”, spiega Ai. Dalle aule, inoltre, non si esce neanche per mangiare: la pausa pranzo si consuma ognuno al proprio banco, con precendente cambio di mascherina. Gli studenti sono autorizzati a togliere la protezione solo durante i pasti. A raccoglierla è uno di loro che a turno passa tra i banchi con un sacco della spazzatura. Alla fine del pranzo, poi, ogni studente inforca una mascherina pulita e riprende la lezione. In alcune aule, quelle più affollate, in cui il distanziamento non è facile, gli studenti sono divisi tra loro da pannelli di plexiglass e non possono alzarsi in più di uno alla volta neanche per andare in bagno.

Dunque non certo un ritorno alla normalità per Wuhan, che quasi un mese fa è uscita dal lockdown con il raggiungimento della soglia di zero casi di contagio da coronavirus e che da qualche giorno si trova al centro della disputa della Cina con gli Stati Uniti. Proprio ieri, in risposta all’amministrazione Trump che sostiene che il virus sia stato creato artificialmente in un laboratorio di Wuhan, Pechino ha lanciato una sfida al magnate presidente e al suo Segretario di Stato, Mike Pompeo. “Se hanno le prove certe dell’accusa, le pubblichino. Washington ha risposto di avere “prove significative” che il coronavirus venga da un laboratorio di Wuhan, “ma non ancora certezze”. La comunità dell’intelligence “sta cercando di capire precisamente” dove ha avuto origine il Covid-19, ha spiegato Pompeo, sostenendo poi che tutte le dichiarazioni dei dirigenti dell’Amministrazione sulla genesi del virus sono “totalmente coerenti”.

Task force, il modello italiano che ha salvato l’Austria dal virus

C’è chi lascia di sé un eccellente ricordo; c’è chi lascia di stucco, senza parole; e c’è chi lascia perché messo alla porta: storie di scienziati e consulenti, più o meno eccellenti, alle prese – nell’era del coronavirus – con politici che calcolano in termini di voti gli effetti della pandemia, contagi e posti di lavoro perduti. Dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, passando per il Brasile, le “task force” hanno vita grama, se il leader con cui si confrontano è un decisionista tendenzialmente negazionista. Capita pure che lo scontro sia politico. In Brasile, il presidente omofobo e reazionario Jair Messias Bolsonaro, che ha fretta di riaprire il Paese ed è insofferente del lockdown, ha cacciato il ministro della Sanità Luis Henrique Mandetta, favorevole al distanziamento. Risultato: il nuovo ministro Nelson Teich deve ammettere che la situazione nel Paese “sta peggiorando” e che “la curva dei contagi continua a crescere”, soprattutto a San Paolo, Rio de Janeiro, Manaus e Recife.

Antonella Mei-Pochtler, manager italiana che ha gestito la strategia dell’Austria anti-coronavirus, sostiene, in un’intervista al Financial Times, che “l’arroganza” ha accecato i leader dei grandi Paesi di fronte alla pandemia, mentre lei aveva a che fare con il leader giovane e ambizioso, intelligente e spregiudicato, di un piccolo Paese, Sebastian Kurz, enfant prodige della politica europea, cancelliere a 31 anni, conservatore, ma capace di scrollarsi di dosso i sovranisti. Per la Mei-Pochtler, la chiave dei buoni risultati austriaci nel contenere l’epidemia è stata la rapidità con cui il Paese è stato chiuso: il governo ha deciso dopo avere incaricato una piccola “task force” nella cancelleria federale di consultare specialisti e scienziati di tutto il mondo, tra fine febbraio e inizio marzo. A oggi, l’Austria, 8 milioni e mezzo di abitanti, registra meno di 16 mila contagi e circa 600 vittime – come se in Italia ce ne fossero state 4500, invece di oltre 29 mila. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha trovato modo di liberarsi dei suoi “scienziati scomodi” senza licenziarli, che sarebbe parso brutto. Mike Pence, “zar in penombra” della lotta al coronavirus, costantemente eclissato dal presidente, annuncia la chiusura, tra fine maggio e inizio giugno, della task force della Casa Bianca, di cui è responsabile. Trump, in Arizona, prima sortita dopo quasi due mesi di confinamento alla Casa Bianca, conferma che la task force sarà sciolta e forse sostituita da un gruppo diverso, ma assicura che i due massimi esperti sanitari, Anthony Fauci e Deborah Birx, continueranno a essere consultati. E più tardi twitta che la task force “ha fatto un lavoro fantastico” e “continuerà a lavorare indefinitamente avendo come focus la sicurezza e la riapertura del nostro Paese” ma anche “i vaccini e le terapie”: “Potremo aggiungere o sottrarre persone, ove opportuno”. Perché adesso la priorità è aprire e non chiudere e, se dai retta ai medici, tieni tutto chiuso “cinque anni”.

La sfida del magnate, che disattende le indicazioni di Fauci e conferma così la sua idiosincrasia per la mascherina, è l’immagine di una giornata in cui i decessi da coronavirus negli Usa vanno verso i 72 mila – 2.333 martedì, più del doppio del giorno prima – e i contagi superano 1.210.000, secondo la Johns Hopkins University.

Se la dabbenaggine del politico, travestita magari da presunzione, lascia spesso l’esperto di stucco, capita pure il contrario. Il ministro della Sanità britannico Matt Hancock è rimasto “senza parole” per il comportamento del professor Neil Ferguson, l’uomo del lockdown nel Regno Unito, dimessosi da consulente del governo per avere incontrato due volte l’amante – una donna sposata –, violando le consegne da lui stesso date alla popolazione. La polizia indaga sulla vicenda, ma paiono escluse conseguenze penali per Ferguson, che ha già ammesso di avere preso “la decisione sbagliata”.