La scuola tedesca: ritardo digitale e finanziamenti persi

Prima della pausa estiva tutti gli studenti tedeschi torneranno tra i banchi di scuola, anche se in modo parziale e con doppi o tripli turni. Alcuni cicli hanno già ripreso, come i maturandi e gli studenti della decima classe (15 anni), mentre gli altri torneranno a scaglioni, secondo i piani stabiliti da ciascun Land. Ma intanto dopo sette settimane di lockdown scolastico in Germania c’è chi azzarda un primo bilancio comparativo con altre realtà europee. E il risultato è tutt’altro che lusinghiero. “Nemmeno la metà degli insegnanti tedeschi ha organizzato un vero e-learning durante l’emergenza Covid” ha detto Stephan Huber, responsabile dell’Istituto di Formazione Ibb di Zug, in Svizzera, che ha confrontato come ha tenuto il sistema didattico durante la crisi nel suo Paese, in Austria e Germania, in uno studio citato dallo Spiegel. Risultato: l’87% delle scuole svizzere ha usato piattaforme online, il 57% di quelle austriache e appena il 43% di quelle tedesche. In Italia, secondo i dati di fine marzo del ministero dell’Istruzione, nell’82% delle scuole la didattica ha proseguito su piattaforme digitali.

Dalla chiusura delle scuole “nella classe di Leonard ci sono stati due incontri online con gli insegnanti da circa 30 minuti l’uno. Per il resto abbiamo ricevuto email con i compiti, e qualche professore è sparito del tutto, come quello di matematica”, ci racconta Claudia, mamma di un alunno di prima media di un ginnasio berlinese. Nella classe di Helena, quinta elementare al Goethe-Gymnasium, nessun incontro online, nessuna prosecuzione della didattica con altri mezzi, solo qualche assegnazione settimanale via email. A ricomparire dopo 5 settimane di silenzio, nel suo caso, è stato l’insegnante di tedesco. “So di genitori che hanno ricevuto addirittura i compiti dagli insegnanti dei figli via posta”, racconta Savina, mamma di Maria, 8 anni di una scuola elementare tedesco-italiana di Berlino. La differenza è che in Italia la digitalizzazione della scuola, se pur tra infinite polemiche e ritardi, è iniziata da tempo e a tanti livelli. A partire dal registro elettronico, una realtà con cui insegnanti, studenti e genitori hanno imparato a confrontarsi da almeno 6-7 anni. In Germania non ancora. “Per gli alunni italiani – prosegue Savina – è normale avere a che fare con tablet e pc, per quelli tedeschi no e io ho fatto moltissima fatica con mia figlia, dovendola seguire in tutto passo passo”. “A fare la differenza nella prosecuzione della didattica in Germania” racconta Claudia, a sua volta insegnante di inglese in un liceo della capitale tedesca “è stato il grado di preparazione digitale della scuola prima: alcuni istituti avevano già una propria piattaforma, un mediakonzept, altre no”.

Che la digitalizzazione sia un tema scottante in Germania è cosa nota. Nelle scuole più che altrove. È per questo che oltre un anno fa, nel febbraio 2019, il Bundestag aveva approvato il “Digitalpakt”, un pacchetto di misure da 5 miliardi per digitalizzare la scuola tedesca. Si trattava di un finanziamento del governo federale diretto ai 16 Land, un intervento eccezionale nel suo genere. Un anno dopo, a gennaio scorso un’indagine aveva mostrato che appena 20 milioni dei 5 miliardi previsti erano stati assegnati dai comuni per la digitalizzazione, riferisce il quotidiano economico Handelsblatt. E in Land come Assia, Schleswig-Holstein, Sassonia-Anhalt, Turingia e Saarland non un euro era stato ancora assegnato. Complice la lentezza della macchina burocratica tedesca, la scuola è rimasta all’asciutto. L’emergenza Covid-19 ha fatto il resto, accelerando la resa dei conti e rallentando la didattica fin quasi a fermarla. Il più è stato delegato all’iniziativa del singolo professore o dei singoli istituti. Ma gli insegnanti in Germania non sono come quelli italiani, che spremuti rendono il massimo, ci racconta ancora Savina. “I professori qui sono in grand parte funzionari dello Stato” con buoni stipendi da 3.200 euro in su al mese, che non hanno da dimostrare nulla a nessuno, racconta. Il problema tuttavia non è solo l’impreparazione tecnica di molti dei circa 40mila istituti in Germania ma anche la possibilità per i 10,9 milioni di studenti di accedere alle piattaforme. “Nella nostra scuola ne avevamo una ad hoc ma ci siamo accorti che molti ragazzi non avevano un pc, ma solo un cellulare che non la supportava” continua Claudia.

Di fronte alla pandemia e alla chiusura delle scuole, il governo ha approvato agli inizi di maggio un “Piano di finanziamento immediato”, una denominazione involontariamente ironica visti i precedenti, da 500 milioni. I soldi dovrebbero colmare il divario tra chi ha accesso alla tecnologia e chi non ce l’ha. Con la cifra stanziata bisognerebbe “finanziare l’offerta formativa online” e i ragazzi bisognosi dovrebbero avere 150 euro per comprare un pc o un laptop con cui seguire le lezioni. Ma anche questa potrebbe rivelarsi solo una buona intenzione.

L’Estetista Cinica che col Covid ha incassato 13 milioni online

Prendete un’imprenditrice di Brescia che ha un centro estetico a Milano e che a fine 2019 aveva aperto il suo primo negozio di prodotti estetici nonché diversi corner all’interno della Rinascente in varie città d’Italia. Immaginatela immersa nell’emergenza Covid e non potrete che supporre “un disastro”. Invece, Cristina Fogazzi, 45 anni, in arte “Estetista Cinica” e un fatturato di 29 milioni nel 2019, non solo è riuscita a reggere il colpo, ma si è reinventata. E alla fine, ad aprile, chiude con un fatturato di 13 milioni di euro, ovvero con una tendenza in crescita rispetto all’anno precedente, quello senza Covid.

Come è stato possibile? Lo spiega lei, con un entusiasmo che è solo suo e un pragmatismo che è tutto bresciano. “Partiamo dalla prima cosa: l’e-commerce di prodotti per il viso e il corpo mi ha salvata. In questi mesi di quarantena magari la voglia di comprarsi un vestito non veniva, ma vista l’inattività, quella di mettersi un fango sulle gambe sì. A marzo ho fatto il record di incassi, 5,3 milioni, ad aprile 4 milioni. Io lavoravo online da un sacco di tempo, è stata la mia forza”. Quindi non hai licenziato nessuno, neppure tra i dipendenti di centro estetico e negozio? “No, i miei stipendi li ho pagati tutti e ho pagato le tasse. In più per ogni segmento fermo mi sono inventata qualcosa. Col negozio ci siamo inventati le consegne-express su Milano in 24 ore e hanno funzionato”.

Il centro estetico è stato il problema. “Ho organizzato consulenze online: in due ore me le hanno prenotate tutte, fino a fine maggio. Prenoti la mia estetista, lei in video-chiamata ti guarda il sedere, ti guarda la faccia e ti consiglia i nostri prodotti. Quindi io alle dipendenti del mio centro estetico pago lo stipendio e anche la percentuale sul venduto. Le ho tolte dalla cassa integrazione e loro sono felici”. Quante dipendenti hai? “Trentacinque. Posso dire di aver sfangato questa fase. A me preoccupa di più la prossima…”.

Non è un tipo di lavoro in cui ci può essere il distanziamento. “Molte cabine sono senza finestra, e la cliente la devi toccare. Devo tutelare le dipendenti e le clienti, che oltretutto non sono sempre giovani. Qui se si ammala qualcuno si ammalano tutti”. Che misure adotterai? “Ho preso i termoscanner. Test sierologico a tutti i dipendenti. Cambio l’impianto di aerazione, costa 40mila euro. Fornirò mascherine professionali alle dipendenti, e mascherine e guanti alle clienti”. È stato complicato trovare le mascherine? “Ne ho trovate mille, le mie estetiste le FP2 le cambieranno tutti i giorni. Ora quelle in arrivo dalla Cina le bloccano in dogana, me ne servono 50mila, non so quando arriveranno”. Che altro non si trova? “Non si trova più il TNT, quindi non solo non troviamo i camici, ma neppure i perizomi monouso che diamo alle clienti! Dovranno venire con un paio di mutande vecchie….”.

“Sono privilegiata, non posso considerarmi una rappresentante della categoria, ma mi metto nei panni di chi non ha le mie possibilità economiche. Cinque anni fa, quando col solo e-commerce sopravvivevo grazie al fido della banca, dopo due mesi di chiusura io sarei finita per terra. Lo Stato deve aiutare chi non ha i miei mezzi”. Tu hai usufruito anche di una consulenza? “Sì, di quella di un virologo, Giovanni Di Perri. Mi ha spiegato molte cose, ma aspetto le indicazioni del governo. L’estetista Marina di un paesino come fa altrimenti? Deve mettere i clienti in sicurezza anche lei”.

Ci sono trattamenti più rischiosi per il contagio che non offrirete più? “Non faremo trattamenti viso. Non posso far togliere le mascherine alle clienti, non mi fido”. Quindi le dipendenti del centro estetico le terrai tutte. “Io assumerò. Qualcuno per le consegne online, per evitare le code d’estate fuori dal negozio. E anche le consulenze online vorrei continuarle”.

Parliamo di Brescia e di come hai vissuto non da imprenditrice, ma da cittadina. “È morto il papà del mio socio, il papà del mio direttore generale, sono morti genitori delle mie migliori amiche. La seconda metà di marzo è stata un inferno”. Hai mai avuto un crollo emotivo? “Io non volevo uscire senza mascherina e, quando scarseggiavano, non uscivo, per evitare di far vedere che le avevo. Qui a Brescia mi conoscono tutti, temevo di passare per ‘privilegiata’. Quando la mascherina è diventata obbligatoria, un giorno sono uscita col cane. Vivo in centro, ho attraversato le piazze principali nel silenzio, tra saracinesche abbassate e persone che parevano zombie. Ho iniziato a piangere singhiozzando. In casa tra lavoro e altro mi distraevo, fuori era uno scenario post atomico”. Hai avuto paura? “Misuravo la febbre e l’ossigenazione del sangue tutti i giorni. Mia madre ha 77 anni e problemi respiratori, l’ho barricata in casa con la badante per due mesi. Ho strapagato questa povera badante per non uscire da quella casa, quasi un sequestro di persona”.

Dopo la quarantena siamo tutti ingrassati e rammolliti, i centri estetici si riempiranno, lo sai? “Sì, ma fammi dire una cosa: a te pare normale che in questo Paese il più grande tema di discussione, mentre moriva la gente e mentre non c’erano neanche i termoscanner per i medici, fosse il runner e il suo diritto di correre?”.

Daniela Santanchè fotografata col cartello “Estetisti” per chiedere le riaperture ti rappresenta? “No. Io non sono per il “riapriamo a tutti i costi”. Magari in Molise. Dopo quello che ho visto qui al Nord, per dire “riapriamo”, senza vedere come si evolverà la situazione, “devi avere il doppio cachemire sullo stomaco, non il pelo”.

Il vero virus è la città-prigione

L’emergenza creata dal rapido diffondersi del Covid-19 non sarebbe così minacciosa se non si innestasse su un tessuto planetario ormai determinato dall’indiscriminata espansione delle città: perché è in città – specialmente nelle più grandi – che il contagio è più facile e veloce, la mortalità più alta, le strategie di contenimento più ardue.

A metà Ottocento solo il 3% della popolazione mondiale viveva in città, oggi questo valore ha raggiunto il 56% e si avvia a superare il 70% entro i prossimi vent’anni. La città si allarga in estensione (urban sprawl) e in altezza (vertical sprawl) e lo fa con più velocità e intensità in Asia e in Africa, specialmente dove manca un “centro storico”, o dove (come in Cina) si è spesso deciso di distruggerlo, magari lasciandone qualche residuo fossile, più simile a un theme park che a una città. Spesso l’urbanizzazione contribuisce all’impoverimento di chi, trasferendosi in città, si aspetterebbe una vita migliore: già oggi un miliardo di esseri umani vivono in bidonville che di città non meritano nemmeno il nome. Fra la megalopoli e la baraccopoli si è venuta a creare una perversa contiguità. L’emergenza virus ci costringe a riconsiderare questi sviluppi, a cominciare dal rapporto fra città e campagna. Intanto il più intelligente e visionario cantore della forma urbana contemporanea, Rem Koolhaas (autore nel 1978 del mirabile Delirious New York), è diventato un fervente apostolo della campagna. Ma anche la sua grande mostra (Countryside. A Report), aperta il 20 febbraio 2020 al Guggenheim Museum di New York, ha dovuto presto chiudere (come tutto il museo) a seguito delle misure antivirus. “Oggi la campagna sfugge in gran parte al (nostro) radar, è un regno sconosciuto” scrive Koolhaas nella pagina di apertura del catalogo. E continua: “Per molto tempo, dall’Urss agli Usa del New Deal, ai Paesi europei, alla Cina di Mao la dialettica fra città e campagna fu essenziale per definire il significato dell’una e dell’altra, mentre oggi non abbiamo più né una dialettica né una vera definizione. […] Tutto il periodo dal 1991 in poi, è stato invece caratterizzato dalla compiaciuta convinzione che una sola versione della civiltà – metropolitana, capitalistica, agnostica, occidentale – sarebbe rimasta, forse per sempre, il solo modello per lo sviluppo del mondo. Ma questo modello ignorava trasformazioni radicali nel Medio Oriente, in Africa, Asia, e trascurava totalmente il cambiamento climatico e l’ambiente. […] Viviamo entro una prigione che abbiamo imposto a noi stessi, quella dello spazio urbano, cercando di nasconderci che dalla vita urbana non c’è da aspettarsi più nulla. […] Ma davvero ci stiamo indirizzando verso un risultato assurdo, in cui la vasta maggioranza dell’umanità debba vivere sul 2% della superficie terrestre, superpopolata dagli spazi propriamente urbani, mentre il restante 98 sarebbe riservato a un quinto dell’umanità, al servizio di chi vive in città? […] In questo 2020, due sfide emergono in modo lampante: dobbiamo mettere in discussione l’inevitabilità dell’Urbanizzazione Totale, e la campagna dev’essere riscoperta come un luogo dove potersi trasferire per restare vivi: una nuova, gioiosa presenza umana deve rianimarla con nuova immaginazione. […] Può essere il punto di partenza per vivere in un mondo migliore”.

La ricomposizione dell’originaria unità città-campagna (configurata dalla nostra Costituzione nell’endiadi paesaggio-patrimonio storico e artistico) richiede la piena coscienza della loro necessaria complementarietà e il ripristino, fra l’una e l’altra, di confini chiari alla mente, ma anche fisicamente percepibili. Questa è dunque una possibile strategia per immaginare il nostro futuro. Intanto, sotto la pressione del contagio anche le nostre città, svuotate dalle misure di contenimento del Covid-19, sono diventate “un regno sconosciuto”. E in questo regno dove ci aggiriamo guardinghi non è solo la nostra salute o la nostra vita a esser messa in forse, lo sono anche i nostri diritti costituzionali. Senza dimenticare che l’emergenza che stiamo affrontando sarebbe assai meno drammatica se solo non si fossero fatti sui fondi destinati alla sanità tagli drastici e sconsiderati. Secondo i conti pubblici territoriali messi a punto dall’Agenzia per la Coesione territoriale che opera presso la Presidenza del Consiglio, gli investimenti pubblici in sanità, pari a 3,4 miliardi di euro nel 2010, da allora non hanno fatto che calare, fino a 1,4 miliardi nel 2017, una cifra del 60% più bassa. Il disinvestimento, poi, è ancor più preoccupante, perché comporta gravissimi squilibri fra le varie regioni d’Italia, con una concentrazione degli investimenti nelle regioni del Centro-nord. È necessaria, dunque, una domanda ancor più radicale: la segmentazione regionale del SSN (Servizio sanitario nazionale) non va forse in senso opposto all’articolo 32 della Costituzione, nel quale si prescrive che il diritto alla salute abbia un identico livello in tutta Italia? E quando lo stesso articolo 32 parla di “interesse della collettività”, parla forse delle separate collettività di ciascuna regione o non intende riferirsi a una sola collettività, quella di chi abita l’Italia intera? Ma assai più importante è pensare al futuro: ripristinare un adeguato livello di investimenti in sanità, puntare sulla prevenzione, ridare piena dignità alla salute di tutti in quanto parte essenziale della dignità della persona umana consacrata dalla Costituzione.

Anche perché la morsa del contagio rende più che mai evidente che nessun essere umano è un’isola non solo dal punto di vista affettivo, ma anche per la propria fisicità e corporeità, a cui solo la morte pone fine. Nessuno al mondo è oggi in condizione di prevedere il decorso della pandemia. Dato e non concesso che in Italia la curva del contagio cominci a scendere in modo significativo e che sia possibile tornare alle nostre attività lavorative, che cosa ci assicura che non vi saranno altre esplosioni del contagio nei prossimi sei, dodici o diciotto mesi? Il sollievo che proveremo alla fine delle “zone rosse” ci farà dimenticare tutto, tornando alla condizione di beata (o stolta) incoscienza che ci ha fatto subire senza fiatare la riduzione dei finanziamenti di settore? Ma se vogliamo davvero adottare uno sguardo lungimirante (dal quale troppo spesso rifugge una politique politicienne prigioniera di orizzonti temporali assai corti) la decisiva misura contro le pandemie del futuro è ripensare la forma della città, il suo rapporto con la campagna. Arrestare la cementificazione dei suoli agricoli, governare la crescita urbana anche mediante misurate azioni di riciclo (o anche abbattimento) di edifici abbandonati, contrastare il diffondersi dei ghetti urbani mediante accorte politiche dell’abitare, scoraggiare il moltiplicarsi di quartieri o edifici superaffollati, privilegiare la diversità urbana e le caratteristiche uniche dei centri storici, tutelare l’ambiente e il paesaggio storico come pegno vivente di una vita urbana che non intenda divorziare dalla natura. È su temi come questi che dovremmo, fuori dall’emergenza e pensando al futuro, concentrare la nostra mente e la nostra discussione. Come gli ateniesi a cui parlava Pericle, se dall’esperienza della pandemia ci verrà una qualche saggezza, dovremo saper “giudicare delle cose di generale interesse ponderandole nel nostro animo e discutendone collegialmente; infatti, il dibattito è necessario per meglio formarsi un’opinione prima di decidere il da farsi”.

Prevedere l’imprevisto

Il Covid-19 ha polarizzato la nostra totale attenzione. La fase 2 speriamo ci faccia uscire, non solo da casa, ma anche dall’ottundimento mediatico. Man mano che i riflettori abbassano le luci sul Covid-19, si accendono quelle sulle realtà, non solo economiche, ma anche sanitarie, che non hanno mai smesso di esistere. Nei Pronto soccorso ci stiamo accorgendo che esistono gli infartuati, i malati gravi per stroke, persino quelli con problemi respiratori non Covid-19. Sembravano spariti. Abbiamo controllato sistematicamente l’aggiornamento sul sito dell’Oms sui positivi per Sars CoV2 nel mondo e i decessi, ma sullo stesso sito c’è ben altro. Alla voce Emergenze, appare una tendina con infezioni che non sono certo da sottovalutare. Scopriamo che l’Oms ha lanciato un’allerta su un’epidemia che si sta sviluppando nel Burundi. Dal novembre 2019 si è registrato un aumento dei casi confermati di morbillo. Questo focolaio è iniziato in un campo di transito di rifugiati i cui abitanti erano arrivati dalla Repubblica Democratica del Congo.
Dall’1 al 31 marzo 2020, in Arabia Saudita sono stati segnalati 15 casi aggiuntivi di infezione da Mers-CoV (Sindrome Respiratoria Mediorientale da Coronavirus). Certo non dobbiamo essere pessimisti e pensare che un’epidemia segua l’altra, ma nemmeno abbassare la guardia. Sars Cov 2 (che non è ancora scomparso) ci sta insegnando tante cose, una molto importante è che nella sanità internazionale bisogna prevedere l’imprevisto. Mai più impreparazione, come in tutto il mondo è accaduto con questa pandemia.

Mail box

 

Il declino del nostro Paese dipende anche dalle Regioni

Gentile direttore, una gravissima crisi finanziaria sta minando il nostro futuro, urgono tagli indispensabili, con soppressione di istituzioni, in primis le Regioni, e concentrazione a livello provinciale dei tanti organismi e uffici dei Comuni, conservando solo localmente qualche diramazione ( anagrafe, assistenza… ). Ciò semplificherebbe competenze che si sovrappongono (scuola, agricoltura, edilizia, strade… ) e si avrebbe quella corrispondenza geografica tra autonomie locali e competenze statali (prefettura, provveditorato agli studi, giustizia, previdenza…). Le Regioni, con la magnificenza dei loro colossali edifici o le prebende offensive per i restanti lavoratori, comportano costi esorbitanti che non ci possiamo più permettere e risultano deleterie, come ci ha insegnato la recente gestione della Sanità, che sarebbe bene ritorni allo Stato. Va ricordata la parsimonia, serietà e lungimiranza dei politici del dopoguerra: De Gasperi, Einaudi, Spadolini, Berlinguer, Pertini, La Malfa, Malagodi, il quale profetizzò che con l’introduzione delle Regioni sarebbe iniziato il declino del nostro Paese. Può il suo giornale farsi carico di proporre un referendum che le abolisca?

Mauro Biletti

 

Caro Mauro, purtroppo le Regioni sono nella Costituzione, che non è modificabile per via referendaria. Ci vorrebbe una legge costituzionale, che mi troverebbe favorevolissimo.

M. Trav.

 

Chiedere i danni alla Cina: siamo alle barzellette finali

Leggo che la Lombardia (i “migliori”) intende chiedere i danni alla Cina per coprire la totale inadeguatezza sanitaria della Regione. Quindi il governo italiano potrebbe chiedere i danni agli spagnoli per la famosa epidemia “spagnola” e il Sindaco di Reggio potrebbe chiedere i danni al Padreterno per il disastroso terremoto del 1908. Che Paese da barzelletta, purtroppo.

Gianluigi Scaffidi

 

La Bce non aiuta gli Stati, ma le multinazionali

Buongiorno a tutti voi amici giornalisti del Fatto e a tutti i lettori! Come ogni i mattina da dieci anni leggo il vostro quotidiano cartaceo e ultimamente mi sono anche abbonato. Leggendo l’articolo su Atlantia e la richiesta di garanzie da parte dello Stato, mi è sembrato di rivivere il periodo in cui il senatore Agnelli andava in Senato e chiedeva soldi con il ricatto di mettere sulla strada migliaia di operai. Per di più sfoglio il Fatto in Internet dove l’Ue dichiara di non lasciare le multinazionali senza aiuti per il Coronavirus, anche se pagano le tasse in Olanda o Lussemburgo perché non sono paradisi fiscali, ma per il diritto di libera circolazione dei capitali. Credetemi, mi è scesa un lacrima: una tristezza e una delusione che non pensavo di vivere in questo periodo a dir poco drammatico.

Flavio Bernardin

 

Salvini e Renzi sfruttano la crisi per fini elettorali

Gli equilibri politici in questa Fase 2 dimostrano quanto siano miserabili, dal punto di vista delle azioni contro il premier Conte, le mosse destabilizzanti dei vari Salvini, Meloni, Renzi, i quali hanno l’unico scopo di utilizzare il triste momento per gettare discredito sulle decisioni del presidente Consiglio per garantire l’incolumità degli italiani. Non passa, infatti, giornata senza che costoro non producano dichiarazioni, che inevitabilmente vanno a finire nel tritacarne mediatico, con le quali fanno apparire una realtà distorta. Ma i dati che ci giungono ogni giorno ci fanno invece capire come i provvedimenti fin qui adottati da Conte siano stati indispensabili per la salvaguardia della salute dei cittadini. In barba alle affermazioni di Meloni e Salvini. Per non parlare di Renzi poi: anziché essere una voce della maggioranza, sembra un alleato della Lega.

Mario Salvo Pennisi

 

Ripartenza, confidiamo nell’autodisciplina di tutti

Ci sarà stato un motivo per cui la presidenza del Consiglio ha fatto scadere il Dpcm il 3 maggio e non il 30 Aprile? Il motivo non era forse per evitare assembramenti in occasione del fine settimana 1-3 maggio? Le Regioni Veneto e Toscana con le loro ordinanze hanno vanificato all’80 per cento il Dpcm: non si comprende perché, per pochissimi giorni, lo abbiano fatto… Abito a Grosseto, prevedo una via vai di biciclette sulla pista ciclabile che porta al mare… Adesso occorre sperare che il cittadino in bicicletta sia abbastanza prudente ed eviti assembramenti.

Antonio Fiengo

 

Il Manifesto degli studenti per un risveglio ecologico

Da quasi due lustri alcuni studenti chiedono “una società più armoniosa, equa e volontariamente più sobria”. Pubblicato in Francia nel 2018 il Manifesto degli studenti per un risveglio ecologico esorta: “Dobbiamo porre la transizione per uno sviluppo sostenibile al centro. Con la nostra mobilitazione desideriamo spronare tutti gli attori – poteri pubblici, imprese, persone e associazioni – a fare la loro parte in questa grande trasformazione”. Oltre al manifesto, nel villaggio di Forges (a un’ora da Parigi) è stato avviato il Campus de la Transition: un “eco-luogo” per un risveglio ecologico, che offre la possibilità di sperimentare nuovi stili di vita.

B. P. Barni

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri abbiamo attribuito la rubrica di Nanni Delbecchi “Il peggio della diretta” a Loris Mazzetti: ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

FQ

Paradisi fiscali europei. Aiuti italiani, tasse all’estero: è un giochino permesso dalla Ue

Buongiorno, sono un socio sostenitore. Qualche giorno fa ho trovato molto interessante la notizia che “Francia, Danimarca e Polonia hanno deciso di escludere le società con sedi in paradisi fiscali dal versamento di contributi statali”. Anche le società italiane con sede fiscale in Olanda ne sarebbero escluse. Ma la Ue lo vieta. In sintesi: quali vantaggi hanno queste società? Ho letto sul Fatto che “sono ridotti o inesistenti i prelievi su dividendi, guadagni da cessioni di partecipazioni, royalties…”. Nel caso della Gedi della Exor (gruppo Agnelli), quali vantaggi avrebbero Repubblica, La Stampa, L’Espresso…? Cordialmente.
Luigi Cavalieri

Gentile Cavalieri, come sostiene anche lei, la proposta di negare aiuti pubblici a imprese con sede nei paradisi fiscali è molto interessante, e per certi versi sacrosanta. Purtroppo la Commissione europea ha già fatto sapere che non è possibile includere tra questi Stati quelli membri della Ue, come Paesi Bassi, Lussemburgo, Malta ecc. Non perché non siano dei paradisi fiscali, ma perché le norme del mercato unico impediscono di limitare gli aiuti pubblici a imprese europee in base alla loro sede. Il gruppo Gedi è da poco passato sotto il controllo pieno della Exor, la holding di casa Agnelli che ha sede nei Paesi Bassi. Per questi giornali non ci sono vantaggi fiscali, la stabile organizzazione in Italia obbliga a pagare qui da noi le imposte dovute. Certo, è molto difficile che questi media punteranno mai il dito sulla pessima abitudine delle grandi imprese e delle grandi famiglie imprenditoriali italiane (loro editori) di portare all’estero la sede delle holding di controllo. Difficile che sollevino il nodo degli aiuti pubblici a Fiat-Chrysler Automobiles (Fca), la cui sede legale è in Olanda (quella fiscale è a Londra). È certo comprensibile che Fiat possa usare aiuti pubblici per le attività che ha in Italia, ma è innegabile che Paesi come il nostro debbano avere la possibilità di riportare a casa le sedi legali e fiscali delle aziende. I paradisi fiscali Ue sottraggono il 90% degli oltre 7 miliardi di tasse sulle imprese che perdiamo grazie a questi meccanismi. Il vero vantaggio non ce l’hanno i giornali, ma i loro editori, che potranno usarli per difendere un meccanismo iniquo e tutelato da Bruxelles. L’Olanda permette di mantenere salda la presa sulle società agli azionisti di maggioranza relativa e una tassazione di assoluto favore sui dividendi ai soci, che così possono salire in valore netto. Exor, per dire, incasserà 1,5 miliardi dei 5,5 di dividendo straordinario che Fca erogherà al termine della fusione con Peugeot. Alla Giovanni Agnelli BV, l’accomandita di famiglia, finiranno quasi 800 milioni, completamente esentasse sul fronte italiano. Che almeno i giornali del Gruppo ci risparmino i sermoni sul pericolo dello “statalismo”.
Carlo Di Foggia

Siamo alla Fase 2, però Gallera è ancora alla Fase 0

Eva bene: a fine febbraio, quando l’emergenza virus scoppiò e trasformò la Lombardia nell’area con più morti e contagiati di tutta Europa, l’assessore Giulio Gallera non se l’aspettava e ha “guidato a fari spenti nella notte”, come ha detto in Consiglio regionale. Ma ora, undici settimane dopo, come spiega l’impreparazione, l’approssimazione, il fallimento con cui continua a gestire la sanità della regione più ricca del Paese? Perché non li ha ancora accesi, quegli stramaledetti fari, nella notte che sta diventando alba? “Non siamo ancora pronti”, ha ammesso al Fatto, “ci vuole ancora un po’ di tempo”.

Intendiamoci: che ci fosse il rischio di pandemia lo sapevamo almeno da gennaio. Ma loro niente: i vertici della Lombardia, il presidente Attilio Fontana e l’assessore Gallera, non erano pronti a febbraio, quando si sono manifestati i primi focolai d’infezione. Non hanno chiuso in zona rossa l’area di Alzano Lombardo e Nembro, lasciando che il virus si diffondesse verso Bergamo, poi Brescia, infine Milano. Non hanno imposto subito l’intervento degli ospedali privati, che sono entrati in partita una settimana dopo, quando anche i minuti erano preziosi. Non hanno attivato la medicina sul territorio, lasciando allo sbando i medici di base. Niente tamponi, niente mascherine, niente protezioni. Hanno lasciato sviluppare impotenti il più grande contagio ospedaliero della storia italiana. Non hanno protetto gli anziani, lasciati infettare e morire nelle residenze e nei centri diurni. Hanno anzi incentivato la mattanza, mandando nelle residenze per anziani pazienti dimessi dagli ospedali. Hanno comunicato dati pasticciati, con i dimessi conteggiati come guariti. In compenso hanno buttato 21 milioni di euro offerti da donatori in un inutile (e vuoto) ospedale alla Fiera delle vanità dell’assessore e della nomenklatura di Regione Lombardia.

Undici settimane dopo, un vero piano di contrasto al Covid-19 ancora non c’è. Ciò che a febbraio avrebbe impedito a Milano e alla Lombardia di diventare l’area più nera del continente, neppure oggi è pronto. Siamo alla fase due, ma Gallera è ancora alla fase zero. Non c’è un programma per dare forza alla medicina del territorio, per mappare i focolai e tracciare i contagi, per moltiplicare i tamponi e i test sierologici. Le Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) sul territorio dovevano essere 200, sono appena 50. Sono composte da un medico e un infermiere, pronti a intervenire entro 24 ore, su richiesta del medico di famiglia, a casa di un paziente da monitorare. I tamponi sono ancora pochi rispetto alle necessità, spesso al primo non seguono quelli di controllo. I test sierologici sono un nodo che non si riesce a sciogliere: prima Gallera vietava quelli che i sindaci volevano sperimentare in alcuni Comuni, poi voleva imporre il test Diasorin-SanMatteo (pare ottimo), poi ancora ha fatto una gara di cui non si conosce il vincitore, ora sembra che, pressato dal suo partito, Forza Italia, voglia aprire il mercato: test liberi per tutti, ma a pagamento nei laboratori privati. Una volta fatti i test, i positivi dovranno avere la conferma del tampone. E allora chi farà i prevedibili 20 mila tamponi in più (almeno) che si renderanno necessari?

Il disastro lombardo, insomma, continua. Ciò che a febbraio poteva essere giustificato dalla sorpresa, dalla novità, dall’unicità del caso, oggi non lo è più: è incapacità pura. Gallera è stato salvato dalla sua maggioranza (Forza Italia e Lega) dalla richiesta di dimissioni avanzata dal Pd. Ma lo sfacelo è sotto gli occhi di tutti. Dio non voglia che le riaperture della fase due facciano ripartire l’emergenza.

Conte difende il nostro paese dai figli di Troika

In questi tempi di fuoco, l’unico uomo di governo che pare aver capito qual è la vera posta in gioco è Giuseppe Conte. I suoi riferimenti alla tragedia della Grecia, la sua opposizione all’indebitamento sconsiderato e il suo richiamo all’eventualità di “fare da soli” non lasciano dubbi al riguardo.

La posta in gioco è la protezione dell’Italia da un possibile assalto da parte della finanza predatoria mondiale. Un attacco contro una potenza economica globale, molto più devastante di quello che ha appena lasciato la Grecia su una sedia a rotelle per i prossimi 50 anni.

Si parla della possibilità che le mafie nostrane si impadroniscano di imprese e commerci in difficoltà. Ma contro questo tipo di delinquenza disponiamo di strumenti che ci mettono in grado di giocare la partita. Il problema è che di fronte a una criminalità organizzata non codificata come tale, ma centinaia di volte più potente di Cosa Nostra, che colpisce l’Italia nel suo punto critico dell’indebitamento verso i mercati esteri, non c’è via di scampo se non si usa l’arma della sovranità monetaria. Quella propria o quella che si è delegata alla Bce. Il termine criminalità internazionale non viene qui usato in senso metaforico. Esiste da vari decenni un circolo di potere mondiale che agisce come un racket. Esso fa capo a un pugno di istituzioni finanziarie americane (conglomerati bancari, hedge fund, mega-fondi di investimento) con propaggini e alleati in Europa. Organismi strettamente associati alle agenzie di rating e in grado di guidare le mosse del Tesoro Usa e del Fondo monetario internazionale. Sono i “figli di Troika” che ispirano le politiche finanziarie dell’Unione europea e che spadroneggiano nei mercati finanziari occidentali: una ventina di affiliati, otto dei quali euroamericani, versati meglio di Cosa Nostra nell’arte e nella scienza del delinquere impunemente. La connection è formalmente legale. I giornali la chiamano “i mercati”, ma essa è in grado di accumulare profitti illegali che neppure la caverna di Ali Babà è in grado di contenere. In quanto a concentrazione assoluta di potere, la finanza predatoria sta alle mafie come i gattini domestici stanno alle tigri e ai leoni. Parlo delle banche d’affari e delle società finanziarie multinazionali dalle quali provengono o dove vanno a finire molti ministri delle Finanze, alti burocrati, commissari e presidenti delle istituzioni europee tramite una “porta girevole” poco conosciuta, ma di estrema pericolosità.

La mega-truffa alla Grecia ha infilato nelle fauci del racket varie centinaia di miliardi di euro. Ma il reale bersaglio è stata l’Unione europea, che ha finito col saldare il conto di un indebitamento di Atene portato alle stelle da prestiti avvelenati. L’Istat stima, esagerando, l’intero fatturato illecito italiano in 15 miliardi di euro all’anno. Ma la sola truffetta della vendita al Tesoro italiano di prodotti tossici da parte dei banksters ha fruttato 23 miliardi di euro. Per non parlare della spoliazione della ricchezza nazionale della Libia, dell’Irlanda e del Venezuela.

Non credo nella Spectre. L’alta finanza funziona in modo più complesso. Ma ho sentito parlare del reato di associazione a delinquere. Non è difficile, allora, valutare il boccone che si profila se un’Italia non adeguatamente sostenuta dal fiat money della Bce e dalla tutela di un debito mutualizzato è costretta a fare da sola, imboccando la strada di uscita dall’Eurozona.

Le due maggiori società di rating sono istituti privati e americani. I tentativi di creare agenzie pubbliche ed europee sono stati sventati dalla porta girevole citata. Un giochetto di squadra tra queste società pronte a declassare la vittima designata, più un assalto ai titoli italiani da parte del branco, e il tutto condito dalla falsa narrativa del default dell’Italia, può farci un bel po’ di male. Ma solo Conte pare aver mangiato la foglia.

Verdelli cacciato perché indipendente

Non c’è niente da fare, in Italia un giornalista può anche essere ottimo e averlo provato più volte, ma se conserva il gusto eretico all’indipendenza viene “decapitato” come mi ha detto al telefono Carlo Verdelli, l’ultima vittima di questa sinergia perversa, licenziato in tronco dalla direzione di Repubblica il 23 aprile scorso.

Non è la prima volta che Verdelli cade in simili disavventure. Nel 2003, vicedirettore del Corriere della Sera, era in predicato per diventarne direttore dopo che Ferruccio de Bortoli aveva lasciato. Era favoritissimo. Invece in via Solferino fu paracadutato Stefano Folli, Pri, una figura scialba, senza alcun passato giornalistico rilevante. E infatti Folli dirigerà solo per un anno. Si dovette ricorrere all’eterno “cavallo di ritorno”: Paolo Mieli.

Nel 2015 Verdelli fu nominato direttore editoriale della Rai. Ma resistette poco. Se infatti è difficile rimanere indipendente nei grandi giornali, in Rai è impossibile perché oltre al potere dei partiti c’è quello, come mi disse Lele Luttazzi, di infinite lobby e sottolobby.

Nel gennaio del 2006 Verdelli viene chiamato a dirigere la Gazzetta dello Sport, un giornale insieme facile e difficile. Facile perché l’unica cosa che unisce gli italiani è il calcio, difficile perché che cosa si può cambiare in un giornale del genere? Verdelli si inventò una sorta di rubrica, Altri Mondi, affidata a quel genio misconosciuto di Giorgio Dell’Arti, quattro pagine dedicate a notizie nazionali e internazionali che con lo sport non avevano nulla a che vedere. La Gazzetta dello Sport arrivò a vendere 2 milioni di copie, record assoluto per un quotidiano. Poiché stiam parlando di calcio, mi permetto un intermezzo che sembra non c’entrare e invece c’entra. L’altra sera volevo vedere Chocolat con la Binoche, ma ho inserito una cassetta sbagliata (appartengo alla generazione delle cassette) ed è saltato fuori un Torino-Napoli dei primi anni Novanta. Mi ha colpito la sobrietà e l’asciuttezza dei commentatori, niente urla smodate ai gol, niente enfasi, niente volgarissimi “sotto la doccia! Sotto la doccia! Sotto la doccia!”. Sono passati solo trent’anni da allora e poiché il calcio è uno specchio della società quella smodatezza, quell’enfasi, quelle volgarità sono oggi del mondo politico.

Ho incrociato Verdelli grazie allo scrittore e psichiatra Mario Tobino. Verdelli, che dirigeva Sette, e che io non conoscevo, aveva letto una mia intervista a Tobino, gli era piaciuta e mi aveva proposto di tenere su Sette una rubrica, La sculacciata. Si trattava di togliere i panni di dosso a qualche personaggio famoso in 15 righe, una sorta di micro stroncatura. Faccenda tutt’altro che semplice, dovevo fare sei o sette prove per ridurre in quello spazio ristretto ciò che intendevo dire senza togliere nulla alla sua mordacità. Non è una cosa che possono fare tutti. Montanelli che curava quotidianamente un “billet” sul Giornale, ma naturalmente non lo poteva fare sempre lui, mi raccontò che alcuni suoi giornalisti, anche bravissimi come Enzo Bettiza, non riuscivano proprio a star dentro quelle poche righe.

Carlo Verdelli è un uomo dai modi semplici, modesti, uno che “non se la dà”, cosa che nella mia vita ho quasi sempre riscontrato nelle persone di valore. Io mi sento vicino a Verdelli non per il carattere, ma per certe somiglianze nelle modalità delle nostre reciproche disavventure professionali. In un mattino di maggio, canicolare e patibolare, del 1997, fui convocato insieme ad altri colleghi all’Ufficio del Lavoro di via Lepetit a Milano. Un funzionario del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera ci lesse con voce atona un breve testo che certificava il nostro licenziamento e che dovemmo firmare. Così furono liquidati i miei vent’anni di lavoro alla Rizzoli, in cui avevo dato le mie migliori energie e lasciato anche qualche pezzo di salute. Covai l’umiliazione per un paio di mesi. In estate telefonai a Feltri, che dirigeva Il Giornale, e gli dissi: “Vuoi sapere cos’è veramente il gruppo Rizzoli-Corriere?”. Vittorio non se lo fece ripetere due volte. Pubblicò il pezzo, dandogli ampio rilievo in prima e due pagine all’interno. Ogni riga di quell’articolo, se non veritiera, era da querela. Ma nessuno dei dirigenti del commendevole Gruppo Rizzoli-Corriere osò alzare un’orecchia. Sarebbe bastato un po’ più di stile, un po’ più di garbo, un po’ più di gentilezza, un po’ più di umana comprensione e si sarebbero evitati quella figuraccia.

Anche Carlo Verdelli la mattina del 23 aprile è stato convocato da quelli di Repubblica e senza preamboli è stato informato che da quel momento non ne era più il Direttore. La stessa umiliazione, lo stesso avvilimento, lo stesso senso di una sconfitta immeritata, la stessa stanchezza ho sentito l’altro giorno, al telefono, nella voce affievolita di Carlo Verdelli. Questa è la sorte, direbbe Montanelli, dei “conformisti che non si conformano”.

Il Covid-19 proviene da un cesso cinese: le 18 prove degli Usa

Secondo l’Amministrazione Trump, c’è “una mole significativa di prove” che il Coronavirus arrivi dal laboratorio di virologia di Wuhan. Sono 18. Eccole:

18) Lo ha detto Colin Powell.

17) Durante una visita a una mostra di scienze, uno studente, Peter Parker, è stato morso da un ragno radioattivo.

16) Cioè, un pipistrello infetto avrebbe morsicato un pangolino che sarebbe stato inculato dal paziente zero? Cioè, adesso ci si ammala inculando i pangolini? Ma vi sentite quando parlate?

15) Il Partito comunista cinese smentisce l’accusa.

14) I giornalisti americani che stavano indagando sono stati cacciati dalla Cina, i medici cinesi che stavano parlando sono stati zittiti, il pipistrello che non voleva confessare è stato regalato a Kim Jong-un. Che se l’è inculato.

13) I test sierologici da 5 euro per diagnosticare se si è stati contagiati dal virus venuto da Wuhan sono fabbricati dalla Wuhan Biotechnology Co. Ltd. Solo una coincidenza?

12) Trump vuole vincere le prossime elezioni accusando la Cina.

11) Il nome del bassotto di Xi Jinping: Covid-19.

10) Gli studi sui virus pericolosi vengono effettuati in laboratori di massima sicurezza, con regole rigorose per evitare le epidemie mortali verificatesi in passato. I laboratori cinesi? Sono dei camper in un garage.

9) Il virus della Sars sfuggì sei volte dai laboratori di Cina, Taiwan e Singapore. A Pechino, il focolaio fu fermato solo alla terza generazione di contagiati. Com’è quella storia del pangolino? Ah, ah, ah!

8) Il salto di specie spiega, al massimo, i capelli di Trump.

7) Il virus dell’influenza pandemica del 1977 fu creato nei laboratori sovietici. La Cina è comunista. Sveglia!

6) La Figc radiò Moggi (ah, no, scusate questa è la prova che la Juve perse due scudetti e finì in Serie B).

5) The eyes of darkness di Dean Koontz, pagina 333: “Uno scienziato cinese di nome Li Chen fuggì negli Stati Uniti, portando una copia su dischetto dell’arma biologica cinese più importante e pericolosa del decennio. La chiamano ‘Wuhan-400’ perché è stata sviluppata nei loro laboratori vicino alla città di Wuhan. Wuhan-400 è un’arma letale. Intorno al 2020 una grave polmonite si diffonderà in tutto il mondo, in grado di resistere a tutte le cure conosciute”. E il libro di Koontz è del 1981!

4) È l’ipotesi più votata sulla piattaforma Rousseau.

3) Il vaiolo è stato eradicato, ma anni fa uccise una fotografa in un laboratorio universitario di Birmingham, per colpa del sistema di ventilazione difettoso. E indovinate da dove veniva quel sistema di ventilazione difettoso?

2) Un agente Cia partecipò come “professor Rip Kirby” al congresso di virologia tenutosi a Wuhan nel novembre 2019, e ne approfittò per spennellare il virus sulle tazze dei cessi del laboratorio, che in Cina sono considerate una prelibatezza gastronomica tutta da leccare. Se non è una prova questa!

1) L’epidemia di afta epizootica del 2007 si sviluppò presso un laboratorio inglese, dove studiavano il virus per fare un vaccino. Un tubo di scarico del laboratorio contaminò del fango, che un camion sversò in una fattoria. L’Amministrazione Trump ha “una mole significativa di prove” che in quel laboratorio c’erano dei cinesi. Quali? 18) Lo ha detto Colin Powell…