Finalmente i 122 militari russi travestiti da medici se ne tornano nel gelo d’Oltre Cortina. Ce li ha mandati due mesi fa Vladimir Putin con la scusa puerile del Covid-19. Conte, il nostro ingenuo premier, gli aveva creduto, autorizzando il raid mascherato da missione umanitaria. Non così i nostri migliori agenti della controinformazione che hanno smascherato i russi, allertando l’opinione pubblica e i militari dell’Alleanza Atlantica, avvertendo “che i russi si stavano incuneando anche fisicamente nel nostro territorio”. Per di più “a pochi passi dalle basi Nato”, e addirittura con mascherine e ventilatori fuori norma. È bastata un’occhiata ai segugi per capire che un tale dispiegamento di militari sul suolo italico (“non avveniva dalla guerra antinapoleonica del 1799” ha notato un cronista) aveva un doppio fondo. Era un’operazione di influenza, anzi di spionaggio sull’intera mappa bergamasca, non bastando i satelliti spia, né i report di giovani russe incuneate nelle valli e spesso travestite da badanti. Passato il pericolo resterà da tradurre i molti e misteriosi messaggi intercettati. Sembra che la chiave stia nell’ultimo: “Insuperabile lo stracchino delle valli Orobiche”.
Il Quirinale e l’arma del voto anticipato
In due giorni di “note” quirinalizie pubblicate su vari quotidiani, il capo dello Stato ha fatto trapelare la sua linea in caso di un’eventuale crisi di governo per mano dell’inquieto Matteo Renzi. Cioè: voto anticipato senza aspettare il referendum costituzionale sulla riforma che taglia i seggi delle Camere. Si andrebbe quindi alle urne, tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, per la composizione del “vecchio” Parlamento, e non per quello nuovo. Una decisione che dal punto di vista tattico è semplice da decifrare: Sergio Mattarella mette sul tavolo l’arma delle elezioni per stanare il leader di Italia Viva, il quale continua ad annunciare la crisi tra giugno e luglio, e anche per far uscire allo scoperto eventuali sostenitori supplenti degli italoviventi, azzurri o responsabili che siano. È la conferma, l’ennesima, del metodo maieutico del presidente della Repubblica, che a differenza del suo predecessore rigetta l’interventismo e piuttosto preferisce far maturare gli eventi con realismo tutto democristiano.
Quella del voto anticipato senza referendum è una novità di rilievo, tenuto conto che poco più di due settimane fa si era scatenata la bagarre tra i peones parlamentari della maggioranza per un’indicazione in senso contrario attribuita proprio al Colle. Tutto era cominciato quando il segretario dem Nicola Zingaretti aveva affidato all’Huffington Post uno spin in difesa del premier e contro ogni ipotesi di governissimo: se questo governo cade si va al voto. Qualche giorno dopo un autorevolissimo quotidiano aveva intestato a Mattarella questa risposta del Colle a Zingaretti: chi invoca il voto deve sapere che prima ci sono da fare un referendum e una legge elettorale. A quel punto si era innescata una dinamica per la serie: “Fate cadere Conte, tanto non si va al voto”. Ora però Mattarella ha fatto sapere la sua posizione. E se lo ha fatto significa che da lassù, dal Colle più alto, percepisce una situazione fragilissima e a rischio.
Alla ricerca dell’Uomo della provvidenza
Ok, mi avete convinto, si rispedisca subito al paesello il pessimo Giuseppi e si provveda senza indugi a dotare Palazzo Chigi dell’Uomo della Provvidenza (UdP). Si chiami esso Draghi o Colao o Panetta (Bce), ma vanno benone anche Enrico Letta (con o senza lo zio Gianni), Luca Zaia, Fabio Capello, Maria Giovanna Maglie (una donna ci vuole). O comunque un Unto dal Signore (UdS) che sia capace di risolvere senza ulteriori lungaggini alcuni problemini che l’avvocato pugliese ha lasciato colpevolmente a marcire. Tipo. Fare in modo che gli italiani tornino alle loro occupazioni. Ma anche no se c’è il rischio di nuovi contagi.
Trovare l’accordo sulla Fase 2 (ma anche 3 e 4) tra una ventina di governatori regionali e un numero imprecisato di sindaci. Tutti incazzati. Costringere le banche a erogare con sollecitudine i famosi 25mila euro, saltando i controlli previsti dalla legge: fatti loro. Disboscare la burocrazia. Tenere a bada Renzi. Andare in Europa a prelevare i 36 miliardi del Mes, per poi dire che non si chiama affatto Mes (e che “senza condizioni” significa che sono soldi che andranno restituiti nell’anno del mai). Proclamare l’Italia una Repubblica “a fondo perduto”, nel senso che la liquidità necessaria sarà distribuita a pioggia dagli appositi elicotteri money. Elementare Watson. Mettere d’accordo la ministra Bellanova e i 5stelle sulla sanatoria immigrati. Se no costringere alcune centinaia di migliaia di baldi giovani di pelle bianca a raccogliere pomodori e fragole (prima gli italiani). Presentarsi in tv con aria vispa ed eloquio brillante, pur se a digiuno e reduce da maratone di riunioni e notti insonni. Ecco, se l’UdP mi garantirà queste poche cosucce corro a iscrivermi al suo partito: dove si firma?
Ps. Non considero “scherano” chi non la pensa come me. Infatti è una parola apparsa nel titolo, ma che nel mio articolo di mercoledì non c’era, né poteva esserci.
Caro Nino Di Matteo, caro ministro basta guerre tra persone perbene
Difficile non intervenire, anche se avrei preferito starne fuori. Perché – lo confesso – sono molto tormentato e diviso. Da una parte Nino Di Matteo, magistrato che stimo da sempre per il coraggio e la capacità professionale dimostrati in processi complessi, spesso di importanza che va ben oltre il perimetro del fascicolo per investire la tenuta stessa della nostra democrazia. Dall’altra, Alfonso Bonafede, del quale – come ministro della Giustizia – apprezzo varie iniziative (fra tante: la “spazzacorrotti”; la prescrizione finalmente interrotta; gli interventi sul versante antimafia, ultimo il coinvolgimento del Procuratore nazionale nelle decisioni riguardanti la scarcerazione di mafiosi, cosicché anche il profilo della pericolosità sia valutato bilanciandolo con gli altri). Ovviamente, stima e apprezzamento non escludono che su specifici punti possano esserci nel reciproco rispetto opinioni divergenti. Per esempio, il proclama del ministro che ieri alcuni media hanno sintetizzato con lo slogan “rimando dentro tutti i boss finito il rischio Covid”, potrebbe impallarsi sull’autonomia della magistratura.
Tanto premesso, confesso che le reazioni scatenatesi dopo la trasmissione tv di Massimo Giletti di domenica scorsa, presto degenerate in una tremenda bagarre, appaiono per svariati profili anomale. Andiamo con ordine. Giletti raccoglie alcune opinioni che accennano a “trattative” (termine usato da alcuni ospiti in studio) per la nomina nel 2018 del capo del Dap. Giletti chiede al parlamentare europeo dei 5 Stelle Dino Giarrusso perché non fu scelto Di Matteo che sembrava quello più giusto. Giarrusso risponde di non sapere nulla nel merito e aggiunge che “quelle erano trattative, contatti tra ministro e Di Matteo in cui io non c’entro”. Telefona Di Matteo e subito rivendica energicamente: “Non ho mai fatto trattative con nessun politico né ho mai chiesto nulla”. Segue la ricostruzione dei colloqui avuti con Bonafede nel 2018 circa la sua eventuale nomina a capo del Dap o dell’ufficio Affari penali. All’irruzione di Di Matteo segue a ruota quella del ministro Bonafede e si innesca – in una sede comunque impropria – un cortocircuito istituzionale (Di Matteo è attualmente componente del Csm).
La mia potrà sembrare una lettura minimizzante, ispirata a uno psicologismo d’accatto, ma penso che la molla, il fattore scatenante dell’intervento di Nino Di Matteo sia stata la parola “trattativa”. Non solo perché la sua esperienza professionale è legata al processo definito proprio come “trattativa”, ma soprattutto perché un magistrato come lui non può assolutamente tollerare che il suo nome sia accostato all’ipotesi di trattative con chicchessia, men che mai per attività d’ufficio. Lo confermano alcuni passaggi delle due interviste che Di Matteo ha rilasciato ieri a Repubblica e a La Stampa, che al riguardo contengono alcuni passaggi piuttosto illuminanti. Cito alla rinfusa: domenica sera ho sentito fare il mio nome inserendolo in una presunta trattativa; sapevo e so che non devo chiedere niente; non sono uno che fa calcoli; i colloqui col ministro si sono svolti su suo invito e per sua iniziativa; non sono stato io a chiamarlo; non è mio costume chiedere niente ai politici; sono un soldato della Repubblica. E non è un caso che Bonafede – con la stringata risposta nel “question time” di ieri – abbia precisato che quelle con Di Matteo furono “normali interlocuzioni per formare una squadra”.
Dato atto a Di Matteo che l’idiosincrasia per ogni indebito intreccio fra la sua figura e la parola “trattativa” è comprensibile e giustificata; preso atto altresì (intervista a La Stampa) della sua esplicita dichiarazione: “Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia”; è troppo sperare che la violentissima querelle possa placarsi e concludersi?
Senza dubbio gioverebbe una chiara ammissione del ministro: vale a dire che, ferma restando la sua autonomia in scelte di quel livello, era e rimane criticabile la nomina a capo del Dap non di Di Matteo, ma di un magistrato con ben altre caratteristiche. Mentre Di Matteo dovrebbe convincersi che abbandonare il proprio cuore alla tristezza e alle recriminazioni non aiuta. Rischia anzi di lasciare macerie sul terreno dell’antimafia quando finiranno i rantoli di questa guerra. Una guerra fra persone perbene (Di Matteo e Bonafede), ambedue ben consapevoli che ci si può dividere su tutto ma non nella lotta alla mafia. Che invece rischia proprio lacerazioni profonde nel surreale clima creato ad arte da chi fino a ieri considerava Di Matteo un laido giustizialista incompatibile con lo Stato di diritto: e oggi invece lo usa strumentalmente come uno splendente totem in funzione anti- Bonafede.
Ciancio ha deciso: la “Gazzetta” deve morire
“Vergogna”. Comincia così la nota del cdr de la Gazzetta del Mezzogiorno diffusa dopo l’annuncio di Mario Ciancio Sanfilippo di mettere in liquidazione lo storico quotidiano pugliese. Una decisione inattesa, poco tempo dopo il dissequestro dei beni dell’editore siciliano indagato per concorso esterno in associazione mafiosa a Catania. La notizia ha seminato nuovamente il panico tra giornalisti, poligrafici e dipendenti della Gazzetta che speravano in un rilancio dopo il lungo periodo di commissariamento.
Per il Cdr della Gazzetta la decisione mette in luce i veri interessi di Ciancio: per 18 mesi ha chiesto il dissequestro al solo scopo di rilanciare la propria immagine, incurante dei sacrifici fatti in questo periodo dai lavoratori. “A questo punto – scrive il Cdr – si incastrano perfettamente tutti i pezzi del mosaico. La situazione debitoria accumulata dalla Edisud ben prima del sequestro, conferma la consapevolezza da parte delMario Ciancio Sanfilippo a cominciare da Franco Capparelli”.
Il cdr ha chiesto ora di fare luce sui bilanci degli ultimi anni “inspiegabilmente deteriorati” e su alcune scelte gestionali. “Abbiamo capito che non era solo noncuranza. Era consapevole avallo e forse il tempo ci rivelerà anche a quale disegno risponde questa sistematica demolizione. Abbiamo il dovere di dirlo ai nostri Lettori e a tutti i protagonisti sociali e istituzionali di Puglia e Basilicata”.
Il calvario era iniziato il 24 settembre 2018 quando la Procura di Catania mise i sigilli ai beni di Ciancio Sanfilippo per un valore di 150 milioni di euro: tra questi le quote della Gazzetta, ma anche quelle de La Sicilia, le emittenti televisive regionali “Antenna Sicilia” e “Telecolor” e la società che stampa quotidiani “Etis”. Il 24 marzo era stata la Corte d’appello di Catania a dissequestrare i beni con un provvedimento che, entrando nel merito della vicenda, aveva affermato che “in nessuna delle singole condotte esaminate può dirsi raggiunta la prova di alcun consapevole contributo in favore” della mafia sebbene tra l’imprenditore e le famiglie catanesi “si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di ‘vicinanza/cordialità’”. In sostanza la mafia avrebbe imposto un “rapporto di protezione” attraverso il pizzo per evitare ritorsioni e continuare a svolgere la propria attività. Tesi sempre negata da Ciancio.
Ai lettori, il Cdr della Gazzetta ha confessato di provare “la sgradevole sensazione” di venire spinti alla morte del quotidiano, che ha definito una “macabra beffa” orchestrata da chi “sta dimostrando di volerlo solo gettare via come un fazzoletto usato”.
Pivetti a Lele Mora: “Si fa a metà, che faccia da didietro… ”
Mascherine, ma non solo. Gli interessi dell’ex presidente della Camera, Irene Pivetti, sono diversi. L’ex politico della Lega nord gioca su più tavoli. E oggi risulta indagata dalla procure di Siracusa e Savona per frode in commercio per aver importato dalla Cina dispositivi di protezione con “certificato falso”. Dalla cooperazione internazionale con la Cina per le piccole e medie imprese al settore del sociale. I suoi interlocutori sono tanti. Molti vecchi amici con i quali il rapporto è rimasto stretto. Tra loro, l’ex impresario dei vip Lele Mora. Da qui riparte la nostra storia che nulla c’entra con l’indagine sulle mascherine.
Il 9 ottobre 2018, a pandemia ancora lontana, i due sono al telefono. “Presidente!” esordisce Mora. “Carissimo, come stai?”, risponde Pivetti, che aggiunge: “Ti devo dire una cosa delicata, te la posso dire anche al telefono, perché io c’ho la faccia come il didietro, quindi non ho problema”. Un assegno circolare di circa 80 mila euro dato per “l’opera pia” della Pivetti mai incassato. Ecco il punto: incassarlo e dividerselo. Dice Pivetti: “Usare i soldi (…) per fare qualcosa di produttivo io e te”. Il progetto è definito, come andrà a finire resta un punto interrogativo. L’intercettazione che ora vedremo più nello specifico è agli atti di un processo milanese che vede Mora come parte lesa e vittima di una tentata estorsione orchestrata dall’imprenditore Michele Cilla, manager della movida e, seppur mai condannato per fatti di mafia, storicamente vicino al clan Fidanzati di Cosa Nostra. Mora, dunque. L’ex anfitrione dei bunga bunga, dopo lo tsunami del Rubygate ha navigato a vista fino a quando, nel maggio 2018, finisce in una brutta storia di casse di champagne acquistate in un campo nomadi di Milano. Del vino nessuna traccia, i soldi, invece, circa 40mila euro, spariscono dopo un parapiglia nel campo. Il denaro è di Michele Cilla che rivuole i soldi e li chiede a Mora. La polizia indaga, intercetta, arresta. Il processo è ancora in corso e il 21 maggio, Lele Mora sarà sentito come testimone.
Durante il dibattimento l’avvocato Antonella Augimeri, che difende Cilla, e l’avvocato Paolo Simonetti, che difende un altro imputato, chiedono e ottengono dal giudice, nonostante il parere contrario del pm, di estrapolare l’intercettazione del 10 ottobre tra Irene Pivetti e Lele Mora. L’obiettivo dei legali è quello di tratteggiare il profilo soggettivo di Mora, che secondo le difese non apparirebbe solo come vittima. Il documento finisce agli atti e, con esso, la chiacchierata con l’ex presidente della Camera (che non sarà indagata dalla Procura di Milano). Ritorniamo allora al brogliaccio e a quell’assegno circolare di circa 80mila euro. “Dimmi amore – riprende Mora – tra me e te non dovrebbero mai esserci problemi”. L’ex protetta di Umberto Bossi spiega: “Tu hai visto, abbiamo ripreso bene quella situazione dell’associazione. Adesso però voglio farti un discorso proprio becero tra me e te. Noi abbiamo un importo importante in un assegno. Posso farti un discorso molto piatto. Noi possiamo ritirare l’assegno”. Pivetti prosegue e Mora annuisce: “Lele, tu hai delle spese, io ho delle spese. Insomma, riconoscerci qualche liquidità che magari ci serve”. Il denaro serve per l’associazione. Pivetti illustra il piano: “Questi sono denari che sono stati dati da questa gente per uno scopo, che noi raggiungiamo indipendentemente dal loro contributo. Consideriamolo una specie di compenso, di liquidità per l’opera pia”.
Mora non solleva obiezioni: “Amore, noi facciamo tutto quello che tu mi dici (…). Anche perché sono più di 80mila euro quelli lì, hai capito?”. Pivetti conferma: “Tra me e te qualcosa di intelligente da fare ce l’abbiamo, secondo me”. Dopodiché i due discutono come dividere il denaro. Mora non ha dubbi: “Prenditi quelli che ti servono. A me quando dai un 15mila euro, sono perfetto”. Pivetti vuole fare a metà: “Ma che 15, minimo la metà. Però è giusto, così li usiamo per fare delle cose”. Quali, è a oggi la domanda che resta senza risposta.
A Roma la Fase 2 fa miracoli: tutti educati, sembra la Svizzera
Abbiamo scoperto l’educazione civica
Oggi sono andato in libreria, ho messo la mascherina, i guanti, lo scafandro e sono uscito: traffico contenuto ma costante, molti congiunti sui marciapiedi, distanze rispettate e mascherine a non finire, solo il forte sole, tipicamente romano, rendeva tutto un po’ più complicato.
Questa fase 2 a Roma ha dell’incredibile: tutti i negozi espongono chiare indicazioni per la fruizione, se aperti, o avvisi di riapertura e indirizzi mail, se chiusi, a fronte di indicazioni ufficiali del governo non proprio semplici, univoche ed eusastive (per usare un carrellata di eufemismi…). Strisce per il corretto distanziamento, indicazioni incollate per terra, amuchina disinfettanti e guanti come se piovessero dal cielo, file rispettose che neanche in Svizzera. Per la prima volta in vita mia (forse la seconda) mi sono sentito orgoglioso di vivere in una città come Roma. L’antico romano (non quello con la biga e l’elmo, quello che abbandona la macchina in seconda fila e la “monnezza” in terra, rigorosamente non differenziata) improvvisamente lascia il posto a un cittadino modello non meglio identificato. Merito della paura per quel virus che si chiama come un ex paparazzo? Vuoi vedere che quando ci toglieremo le mascherine ritorneremo a insultarci e a sgomitare per fare la fila per un cappuccino? Rimpiangerò, tra le altre cose, anche questa, ritrovata (o forse mai trovata…) educazione civica.
Carlo Pettinelli
Una filastrocca per farci due risate sul virus
In casa non so star, solo a sostare/ dopo di trenta giorni e altri pure./ Per mare, laghi e monti io voglio andare/ pur se sul collo mi cadrà la scure./ So ben che ci tutela Geppy Conte/ e dunque non buttiamoci dal ponte./ Ma mi domando: quanto conta Conte?/ Mi sento tanto giù, come altri tutti./ Son solo in sottotetto, senza Totti./ Attenti, tosto tento un attentato/ per atterrar quel virus deprecato/ Autore mi farò del tentativo/ così sarò di poi meno corrivo/ Non puoi, tu sporco virus, con- me- sta -re/ Ed è ciò che ti voglio con- te- sta- re/ Questo per oggi, speriam nel futuro/ e il lavar le mani ci sia meno duro
Antonio Paglia
Assist della Merkel, la Figc vuole il calcio fino ad agosto
L’assist che il pallone italiano aspettava è arrivato da Angel Merkel: il governo tedesco ha dato il via libera alla Bundesliga, che potrà ricominciare nella seconda metà di maggio. Adesso ci crede pure la Serie A. Tanto che la Federcalcio sta già scrivendo le regole del prossimo campionato: se quello interrotto riprenderà, il calciomercato si terrà per la prima volta dal primo settembre al 2 ottobre, e non come sempre in estate, perché in estate deve finire la Serie A sospesa per la pandemia. Solo in autunno inoltrato inizierà la stagione 2020/2021. Una stagione in cui, per venire incontro alle esigenze dei club, sarà più facile iscriversi al campionato: in Serie C potrebbe non servire nemmeno la fideiussione bancaria, che era stata introdotta per tenere lontani gli “avventurieri” del pallone. In emergenza non è il caso di far troppo gli schizzinosi.
Il mondo del pallone proprio non si rassegna: vuole tornare a giocare. La Lega calcio freme, le prova tutte, compreso “ingaggiare” l’avvocato Alpa, il maestro del premier Conte, come ha raccontato il Fatto. Il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora in realtà resta prudente, alla Camera ha ribadito che “al momento non è possibile indicare una data precisa”. Ma qualche dato incoraggiante sul fronte sanitario e un po’ di caciara politica sono bastati a ridare forza ai patron capeggiati da Claudio Lotito (pare che a Formello i calciatori della Lazio abbiano già ripreso a usare il pallone, altro che semplici corsette).
In uno slancio di entusiasmo, la Figc di Gabriele Gravina voleva già fissare date per la prossima stagione: avrebbe dovuto farlo domani, nel consiglio federale che però è stato rinviato. Meglio aspettare almeno la riunione col comitato tecnico scientifico che dovrà modificare il protocollo in vista degli allenamenti in gruppo dal 18 maggio. E anche se non si sa nemmeno quando, la bozza però c’è. Si tratta delle “Licenze nazionali”, le norme per iscriversi al campionato. Sono previsti vari scenari, ma nel caso di ripartenza (quello che tutti si augurano), la stagione 2019/2020 sarà estesa fino al 31 agosto. Secondo la Uefa i campionati devono chiudersi entro il 2 agosto, per far spazio alla Champions League, ma Serie B e C che non sono toccate dalle coppe potrebbero andare avanti addirittura fino a Ferragosto. A catena il calciomercato slitterà a settembre. Una notizia che sconvolgerà i piani dei tifosi, che per la prima volta dovranno fare l’asta del fantacalcio a ottobre.
Ma nel nuovo sistema licenze c’è qualcosa di più serio del fantacalcio: si tratta di scadenze, parametri e requisiti per iscriversi al campionato. Tutti rinviati o alleggeriti. La ragione è semplice: travolti dall’emergenza, diversi club sono con l’acqua alla gola, specie nelle categorie inferiori. Così i termini essenziali per avere i conti in ordine passano al 30 giugno. Gli indici patrimoniali vengono abbassati. Inoltre sono esclusi dal conto gli stipendi di marzo e aprile, su cui è in corso un braccio di ferro con il sindacato dei calciatori di Damiano Tommasi: di solito chi ha pendenze non viene ammesso, la Figc permette ai club di non pagare i mesi in cui non si è giocato (almeno ai fini dell’iscrizione).
La vera incognita, però, riguarda la Serie C, la Lega più in difficoltà (dove non a caso qualcuno ha messo nel mirino anche la poltrona del presidente Ghirelli): si parla di eliminare la fideiussione da 350mila euro; al suo posto un fondo di pari valore, fatto con i crediti dei club verso la Lega, più eventuali attestazioni fornite da istituti (non solo bancari, anche assicurativi). Quella fideiussione, però, era una delle poche garanzie per la regolarità del campionato: serviva per mettere una pezza ai fallimenti a stagione in corso, sempre più frequenti (è successo l’anno scorso a Piacenza, clamoroso fu il caso del Parma). Era anche una garanzia di serietà, un deterrente contro passaggi societari poco trasparenti. Ma procurarsela non è semplice, specie in un momento di difficoltà. Per questo la Serie C ha chiesto di eliminarla. Così magari diverse squadre riusciranno a iscriversi, non scompariranno in estate, ma cosa succederà l’anno prossimo? La Figc sembrava aver accolto la richiesta, ma ci sono stati malumori interni: anche per questo il consiglio è stato rinviato. Nessuna bozza è definitiva, assicurano da via Allegri. Ancora non si sa se riprenderà il campionato, ma quando lo farà non sarà lo stesso spettacolo.
Plasma, l’email a marzo: “Serve un protocollo”. Sileri: “Burocrati lenti”
Era il 18 marzo e Giancarlo Liumbruno, direttore del Centro nazionale sangue (Cns) che coordina i centri trasfusionali, scriveva all’allora direttore della Prevenzione del ministero della Salute, Claudio D’Amario. Segnalava “reiterate richieste (formali e non) di autorizzazione a procedere con la valutazione anamnestica e clinica dei soggetti convalescenti (…) al fine di raccogliere da essi plasma”. Questo, proseguiva Liumbruno, per “utilizzare il plasma da convalescente per la terapia di pazienti affetti da Covid 19”. Perciò invitava a “valutare l’opportunità che sia approvato un protocollo terapeutico che i clinici utilizzatori possano adottare in modo uniforme sul territorio nazionale”. Non c’è ancora.
È la terapia del plasma iperimmune sperimentata dai primi di marzo al Policlinico San Matteo di Pavia, quindi a Mantova, a Novara e poi in Veneto, in Toscana, in Abruzzo, nel Lazio e in Puglia. Si basa sull’azione di anticorpi neutralizzanti per il SarsCov2 prelevati da pazienti già guariti dal Covid. Trasfusi nei malati, debellano il virus in tempi rapidi, bloccando il danno agli organi. Si fa da oltre 120 anni quando non ci sono farmaci e vaccini: contro Spagnola, Ebola Sars, Mers. È sicura quanto una trasfusione. E nessuno può commerciare o brevettare la terapia, almeno in Italia. Si va diffondendo negli Usa e altrove. Si basa sulla solidarietà di chi è guarito e cede il proprio plasma per curare altri. Con costi limitati in attesa del vaccino.
Il Cns guidato da Liumbruno si è mosso subito: il 3 marzo il protocollo per la selezione dei pazienti donatori è arrivato a Pavia, il 13 a Mantova e via via a chi l’ha chiesto. Il 18 Liumbruno ha scritto al ministero per chiedere il protocollo nazionale, pur “premettendo che la terapia è da considerarsi ‘empirica’, non supportata da evidenze scientifiche robuste e da solidi dati di emovigilanza”. Ci sono 52 pazienti in trattamento, l’immunologo Cesare Perotti del San Matteo di Pavia invita con prudenza ad attendere la pubblicazione dei risultati, per quanto siano, dice, “incoraggianti”. Forse già la prossima settimana.
L’11 aprile ne hanno parlato al Comitato tecnico scientifico (Cts) che si riunisce alla Protezione civile, il 14 hanno sentito Liumbruno. Ma il protocollo nazionale, che se va bene consentirà di partire a razzo in tutta Italia, non c’è ancora. È diventato un cavallo di battaglia della destra salviniana. E qualche ritardo dal ministero c’è stato, forse anche perché il direttore della Prevenzione D’Amario era in scadenza e poi ha lasciato il suo incarico il 30 aprile. L’interim tocca al segretario generale Giuseppe Ruocco che dice: “Non me ne sono occupato personalmente”. Tra qualche giorno, come anticipato dal Fatto, lì arriverà Gianni Rezza, ormai noto al grande pubblico nel ruolo di direttore delle Malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità. Ma tocca innanzitutto alla politica: “Ho fatto subito presente il tema al Cts tramite un mio delegato, ho anche contattato Pavia per donare il sangue”, dice il viceministro Pierpaolo Sileri (M5s), chirurgo e reduce dal Covid. “Stiamo predisponendo il protocollo – spiega – in collaborazione con il Centro nazionale sangue, questo creerà le basi per una maggiore disponibilità di plasma se saranno dimostrate efficacia e sicurezza della cura”. Non si poteva fare prima? “Siamo in tempo, ma la burocrazia ministeriale è lenta. Pensi che aspetto da due mesi i dati sulle polmoniti di gennaio. E aspetto anche le deleghe, una è quella alla ricerca”.
Tornano a salire i morti: 369. Più della metà in Lombardia
In totale sono 29.684. Lunedì erano stati 195. Martedì sono saliti a 236. Ieri, infine, la cifra è decollata a quota 369. Sono i numeri delle vittime di Covid-19 comunicati dalla Protezione civile negli ultimi tre giorni. Una progressione netta verso l’alto registrata dopo che il 3 maggio era stata toccata la cifra minima di 174, dalla quale emerge un altro dato impressionante: 222 di questi decessi sono avvenuti nella sola Lombardia (che conta 14.611 vittime ), con un aumento del 146% rispetto a martedì quando erano stati 95. Con l’aggravante che non si tratta di un aggiornamento dovuto a decessi extra-ospedalieri come avvenuto il 2 maggio. È la Regione più colpita a trainare la grave progressione dell’epidemia anche nel numero dei contagi totali: sono 1.444 quelli conteggiati nelle ultime 24 ore a livello nazionale (+0,68% su base giornaliera, martedì erano stati 1.075) e di questi 764 (+634 in 24 ore, “ai quali vanno aggiunti 130 casi riguardanti il mese di aprile e rendicontati oggi”, il 52,9% del totale) sono stati registrati proprio in territorio lombardo. Il trend va in ogni caso considerato in calo, poiché martedì con la metà dei tamponi effettuati (6.455 contro i 14.516 comunicati ieri) i casi erano aumentati di 500 unità.
C’è, tuttavia, un altro motivo di preoccupazione: quasi la metà dei nuovi casi lombardi sono stati individuati nell’area di Milano: 243 in provincia (contro i 144 di martedì) e 91 in città (martedì 50). Tra le altre regioni più colpite, l’incremento è stato di 165 unità in Piemonte, 104 in Emilia-Romagna, 77 in Veneto, 26 in Toscana, 76 in Liguria e 81 nel Lazio. Numeri che, anche in questo caso, vanno analizzati in rapporto al numero dei tamponi (ieri i 64.263, martedì 55.263) e dei casi testati (37.771 contro i 32.211 delle 24 ore precedenti) e che portano i casi totali – comprensivi di morti e guariti – a quota 214.457.
Qui emergono indicazioni più confortanti. Gli attualmente positivi diminuiscono di 6.939 unità (da 98.467 a 91.528, -7,05%), il maggior calo registrato dall’inizio dell’emergenza, mentre quelli che nei bollettini vengono indicati come “dimessi/guariti” salgono a 93.425 (8.014 in più, +9,40%, altro record, ma sui 5.931 casi della Lombardia alcuni sono stati registrati ieri in ritardo). Scendono a 74.426 le persone in isolamento domiciliare: -6.344, il 7,85% in meno, altro valore mai registrato prima. Buone notizie anche dagli ospedali: i ricoverati con sintomi sono 15.769 (-3,08%) e quelli in terapia intensiva 1.333: -6,59%, secondo miglior valore dopo il -6,85% del 1° maggio.