Ricoverato il medico che lanciò l’allarme

Aveva sollevato il problema delle mascherine e dei dispositivi di protezione individuale al Pio Albergo Trivulzio di Milano. E da ieri sera il medico Luigi Bergamaschini è ricoverato. Una polmonite, secondo le notizie trapelate, mentre si è ancora in attesa dell’esito degli accertamenti per capire se la causa è Covid-19. Il geriatra dell’università Statale di Milano aveva evidenziato la necessità di dare le mascherine a tutti gli operatori dell’istituto. Alla fine è stato sospeso dalla struttura e ha chiesto di essere reintegrato tornando nuovamente al lavoro. Intanto il Trivulzio è finito, come altre Rsa, al centro di un’inchiesta della Procura di Milano: i pm stanno verificando se siano stati messi in atto tutti gli accorgimenti per proteggere il personale sanitario e i pazienti, che nel frattempo si ammalavano e moriva. Sono 300 i decessi, secondo i dati forniti dallo stesso Istituto. Che fa notare come all’interno “rispetto ai valori medi dell’analogo quadrimestre del quinquennio 2015/2019, vi è stato un incremento di decessi pari al 61%, passando da 186 decessi medi a 300”. Per quanto riguarda le protezioni individuali, l’istituto invece precisa di aver seguito le “indicazioni istituzionali sulle modalità di uso contingentato” delle mascherine “fino al 23 marzo, quando si è potuto metterle a disposizione di tutti gli operatori”.

I dati sui decessi non convincono il “Comitato Verità e Giustizia per le vittime del Trivulzio”. Ha detto il portavoce Alessandro Azzoni: “Nei 300 decessi dichiarati è evidente che non sono compresi tutti gli anziani che in marzo sono stati trasferiti in ospedale oppure rimandati a casa, poi risultati positivi al Covid-19, che in molti casi hanno contagiato i familiari e sono morti”. “C’è ancora poca chiarezza da parte del Pio Albergo Trivulzio – aggiunge -, dalla conferenza stampa di oggi non abbiamo avuto dati concreti e rassicuranti su quanto avvenuto finora. (…) La struttura si è dimostrata molto fragile nel bloccare l’accesso di pazienti esterni e nell’uso dei dispositivi di sicurezza grazie ai quali si sarebbe potuta arrestare la diffusione del virus”.

Ci sono poi i contagi. Secondo il virologo Fabrizio Pregliasco, “ad oggi il dato complessivo fra i circa 900 ospiti ricoverati a vario titolo mostra una positività” al Covid-19 “pari al 34%”. “Molti di questi pazienti positivi – aggiunge Pregliasco – sono in ottime condizioni, molti sono asintomatici o hanno una sintomatologia lieve”. Gli operatori contagiati invece sono l’11%. “Sono in corso anche – ha aggiunto Pregliasco – le indagini sierologiche per capire qual è stata la diffusione del virus fra gli operatori dell’Istituto. E finora evidenziano un 11% di positività a livello della presenza di anticorpi”.

Poi il virologo aggiunge: “Sin dal 9 marzo per le Rsa e dal 14 marzo per le altre strutture è stato sospeso ogni tipo di ricovero, in modo da garantire spazi e servizi adeguati agli ospiti, che sono stati distinti nelle varie strutture fra positivi, negativi” e sintomatici negativi. E annuncia: “In questo momento si sta ripianificando una riapertura. Una modalità per continuare a rispondere al bisogno che c’è. É fondamentale rimarcare la fiducia che bisogna avere verso queste strutture, un servizio sempre più necessario alla luce dell’allungamento della vita”.

Tamponi pre-ricoveri e accessi separati: la Fase 2 in ospedale

Con la fase due a pieno regime e con l’ordine tassativo di sorvegliare nuovi contagi e nuovi focolai, il passo successivo è quello di riportare alla normalità tutto il comparto ospedaliero lombardo. A questo da giorni si sta lavorando in Regione. La questione è delicata, soprattutto perché si è visto come le strutture ospedaliere in molti casi abbiano fatto da volano per la diffusione del virus. La corsa all’ospedalizzazione è stato certamente un errore, così come la pressoché totale carenza di medicina territoriale ha portato in pronto soccorso pazienti ormai in fin di vita. Ecco allora che i diversi tavoli tecnici hanno messo nero su bianco un piano che il Fatto è in grado di anticipare. Si tratta di linee guida precise che indicano, sulla carta, i percorsi migliori per tornare a un’attività ospedaliera quasi normale e che sono rivolte alle strutture pubbliche e a quelle private accreditate con il sistema sanitario regionale.

“In questa nuova fase – si legge nella bozza del documento – è necessario riorganizzare radicalmente l’attività ospedaliera sia per quanto attiene le attività programmate che per quelle urgenti”. Per questo “l’accesso alle strutture sanitarie deve avvenire seguendo le misure di regolamentazione che comprendono la limitazione degli accessi ai casi di reale necessità e il distanziamento sociale”. E ancora: “In tutti gli spazi e i locali delle strutture sanitarie devono essere assicurate le condizioni per mantenere una distanza fra le persone di almeno un metro, specie negli spazi comuni, che comprendono: sale d’attesa dei vari reparti, corridoi, le zone ristoro, i servizi igienici, gli spazi di attesa esterni aperti”. Con l’attenuarsi dell’emergenza si immagina un incremento degli accessi no-Covid anche in pronto soccorso. Per questo “si raccomanda di prevedere strategie flessibili nell’utilizzo dei locali dei PS al fine di continuare l’azione di contenimento del contagio”. Per questo “è indispensabile che all’interno dei Pronto Soccorso siano mantenuti distinti e funzionalmente separati i percorsi di gestione e cura dei pazienti con e senza sintomi sospetti Covid-19 al fine di ridurre al minimo le possibilità di contagio”. Chiunque arrivi al pronto soccorso sarà sottoposto a un pre-triage per scremare i pazienti con sintomi Covid che saranno così avviati su un percorso speciale. Secondo la task force regionale “è di fondamentale importanza il riconoscimento e l’intercettazione dei sintomi sospetti per Covid-19 e l’individuazione precoce degli utenti con alto rischio di sviluppare nel breve periodo un quadro clinico di insufficienza respiratoria acuta”. L’obiettivo è quello di riportare l’attività di ricovero a un 70% rispetto alla situazione pre-Covid. Questo riguarderà pazienti che “necessitano di prestazioni non rinviabili oltre i 60 giorni di attesa”.

Dopo il 20 febbraio, l’attività si è ridotta al 30%. Qui l’attenzione deve essere massima e bisogna evitare di ricoverare sospetti Covid in reparti normali. Per questo le linee guida prevedono: anamnesi mirata per valutare manifestazioni sospette sia nei pazienti sia nei familiari. Esecuzione del tampone non oltre 3 giorni prima dell’ingresso in ospedale e “qualora il tampone risulti positivo, il ricovero andrà evitato a meno della presenza di criticità cliniche non rinviabili, valutate dal medico della struttura”. Inoltre saranno necessari percorsi separati tra pazienti Covid e no-Covid “anche allestendo aree multidisciplinari di degenza separate”. Per questo, si legge nel documento, “data la disomogeneità degli ospedali, si ritiene che vadano ricercate e ulteriormente riprogettate aree ospedaliere al fine di ottenere una completa separazione di percorsi per i pazienti Covid negativi”.

Ancora più rigorosa dovrà essere la separazione nelle aree di degenza. Qui l’accesso sarà riservato solo al personale, vietate le visite. Per le sale operatorie, si legge nel documento, “si consideri l’attivazione di un blocco a uso esclusivo dei pazienti candidati a chirurgia elettiva”. Oltre a questo sarà necessaria “la separazione di materiali e personale tra le sale operatorie dedicate ai Pazienti Covid e no Covid. Completamente separati devono essere anche i percorsi di ingresso e uscita dai blocchi operatori Covid free e i percorsi di accesso dalle aree di degenza Covid free”.

Un focolaio (con inchiesta) nella Rsa dei De Benedetti

“Cercano di mascherare tutto e non dire nulla, però già ci sono diversi colleghi infermieri contagiati: su 40 tamponi in 27 sono positivi e sono morti 4 pazienti nel giro di una settimana. Non hanno detto niente e non vogliono far sapere niente, ma così hanno creato un focolaio, perché se avessero detto dei contagi, molte persone sarebbero state attente, lì non stavano nemmeno con i dispositivi di sicurezza perché essendo una clinica riabilitativa non ne avevano bisogno”. Una registrazione vocale di pochi minuti, circolata su Whatsapp, in cui un’infermiera ricostruisce quello che sarebbe successo nella casa di cura Villa Margherita Santo Stefano a Benevento.

Il centro di riabilitazione fa parte della holding Kos Spa, il gruppo nato nel 2002 ad opera dell’industriale e cavalier Carlo De Benedetti, già patron di Cir e Gedi, che prende il nome dall’isola greca dove nacque Ippocrate, il padre della medicina.

A metà marzo, tutti in città parlano di quell’audio, spingendo il direttore sanitario della struttura Claudio Di Gioia, ad interviene per spegnere le polemiche: “Le notizie contenute negli audio in questione, sono profondamente lesive nei confronti della nostra struttura e procurano alla nostra cittadinanza una profonda inquietudine ed un ingiustificato allarmismo”. Anche il sindaco Clemente Mastella definisce “solite dicerie” e “sciacallaggio” le notizie diffuse. “Non ci sono infermieri con febbre alta e la situazione è sotto controllo – scrive nel suo messaggio sui social – Per ora siamo maglia bianca rispetto a tutto il Paese. Ho dato incarico al mio avvocato di denunciare alla polizia postale e alla Procura, contro ignoti e contro i soliti noti che propagano notizie false, generando procurato allarme”.

Le smentite però, non fermano il contagio. “Sono stati riscontrati 66 pazienti e 18 dipendenti positivi. Tutti i dipendenti sono guariti o in fase di guarigione – chiarisce la Villa Margherita -. Nella struttura sono stati curati 47 pazienti, di cui ad oggi 33 sono guariti e 14 sono in attesa del secondo tampone. Dal 23 marzo sono deceduti nella struttura 4 pazienti, di cui 2 negativi al Covid”. Tra i positivi c’è anche il direttore Di Gioia, mentre dei 23 degenti trasferiti all’ospedale San Pio di Benevento, 11 sono morti. In provincia si sono riscontrati 186 casi Covid, e quasi un terzo sarebbero riconducibili alla casa di cura.

La denuncia contro ignoti presentata dai legali di Villa Margherita, dopo gli accertamenti della Procura di Benevento diretta da Aldo Policastro, è stata convertita in un’inchiesta per omicidio colposo plurimo, epidemia colposa e lesioni gravi e gravissime a carico di 4 manager della struttura e della società che controlla la casa di cura, che dovranno rispondere anche di calunnia.

I carabinieri di Benevento e i Nas di Salerno, con la supervisione dei tre consulenti nominati dalla Procura, lo scorso 28 aprile hanno sequestrato documenti cartacei e digitali della struttura. Il fascicolo, che già presenta numerosi esposti, si è arricchito delle testimonianze dei pazienti, dei loro parenti e dei dipendenti del centro.

Si è sospettato fin dall’inizio che il “paziente 0” potesse essere il 71enne Gerardo Ficca, arrivato nella struttura il 10 marzo e spentosi all’ospedale Rummo il 3 aprile. Era stato operato ad Avellino il 24 febbraio, una volta dimesso e tornato a casa (2 marzo), su consiglio del chirurgo era stato ricoverato a Villa Margherita per iniziare la terapia riabilitativa.

“Mi sembra riduttivo accusare una persona che non c’è più – spiega Augusto Guerriero, legale della famiglia Ficca -, non è il paziente zero. Se fosse stato contagiato prima del suo ingresso, come mai la moglie non è positiva? Ritengo che abbia contratto il virus in quella struttura, il 15 marzo era stato visitato dal suo chirurgo e risultava in buone condizioni fisiche, mentre il 19 ha accusato i primi sintomi e il 23 lo hanno ricoverato in ospedale”.

L’associazione AltraBenevento ha espresso più volte preoccupazione sul focolaio di Villa Margherita, dubitando che Gerardo Ficca potesse essere il paziente zero, e che ci fossero già altri contagiati prima che l’epidemia diventasse di pubblico dominio, tra cui la dottoressa Stefania Fantoni, moglie di Tommaso Zerella (direttore del dipartimento di Prevenzione dell’Asl), anche lui ricoverato per la polmonite bilaterale. Al momento la situazione all’interno di Villa Margherita sembra essere sotto controllo, sono 14 pazienti in isolamento, 2 nei reparti Covid della stessa struttura, e 17 trasferiti in ospedale.

Zero aiuti a chi ha sede nei paradisi fiscali. 5S e Pd provano ad arginare il niet dell’Ue

Erano partiti lancia in resta, ma il niet dell’Unione Europea ha ridimensionato l’operazione. La maggioranza di governo, M5S e Articolo Uno in testa, avrebbe voluto escludere le imprese che hanno sede legale e fiscale nei paradisi fiscali, anche europei, dagli aiuti pubblici per la crisi da Covid-19 ma la Commissione europea ha detto che no, non si può fare. “È illegittimo”, ha avvertito una portavoce pochi giorni fa. E la strategia è quella di “procedere a piccoli passi”, come spiega un parlamentare M5S.

La proposta è stata tirata fuori pochi giorni fa dal Nens, l’ufficio studi fondato da Vicenzo Visco e Pierluigi Bersani: limitare gli aiuti solo alle imprese che hanno sede legale e fiscale in Italia. Secondo Articolo Uno vanno escluse dagli aiuti le imprese che hanno sede non solo nei Paesi inclusi nella blacklist europea (le isole Fiji, le Seychelles e Panama, tra le altre), ma anche quelli all’interno dell’Unione, come Olanda, Lussemburgo, Irlanda, Malta, Cipro. In questo modo sarebbero tagliate fuori grandi multinazionali come Fca (sede legale in Olanda e fiscale in Inghilterra). La proposta, seguita a un appello di Oxfam Italia e diventata anche una petizione con oltre 4 mila firme, è stata colta al balzo dal M5S che ha presentato due emendamenti al decreto Liquidità – che contiene le garanzie statali ai prestiti bancari – per provare a limitare gli aiuti pubblici ai colossi che hanno la sede fiscale all’estero. Anche il Pd, come principio, è d’accordo.

Come detto, però, nei giorni scorsi è arrivato il brusco stop della Commissione Ue che ha fatto sapere che un’azione del genere sarebbe “illegittima” perché contraria al principio “della libera circolazione dei capitali”. Così la maggioranza ha dovuto ricalibrare le misure: il primo emendamento del M5S in commissione Politiche Ue, che ha avuto il parere favorevole della Commissione Finanze, prevede l’esclusione dagli aiuti a tutte quelle imprese con sede nei paradisi extra-europei. Per quelli europei – Olanda, Irlanda e Lussemburgo su tutti – la maggioranza proverà, invece, ad aggirare il niet della Commissione con una strategia che si articolerà sia a livello parlamentare che di governo: il M5s ha depositato un altro emendamento per obbligare chi chiede gli aiuti a presentare un report “country-by-country” che indichi ricavi, utili e quindi la contribuzione fiscale di ogni impresa, Paese per Paese. Lo stesso farà il Pd.

In questo modo, spiega il responsabile economia del Pd Emanuele Felice “si potranno valutare di caso in caso, settore per settore, quelle imprese anche intra-Ue che contribuiscono pochissimo alla nostra fiscalità, con la possibilità di escluderle dagli aiuti: è il principio della responsabilità fiscale”. Insomma, per intenderci, Fca li riceverebbe lo stesso mentre un’impresa che ha la gran parte dell’attività in Italia e paga quasi tutte le tasse all’estero, come quelle digitali, rischia di essere esclusa. A livello parlamentare per il Pd ci sta lavorando Tommaso Nannicini che vorrebbe escludere le stesse imprese anche dalle esenzioni fiscali e non solo dagli aiuti di Stato. Per capire quali sono le multinazionali, bisognerà attendere i singoli report. Ed è proprio su questo che si sta muovendo il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri: l’obbligo di presentare le singole relazioni dovrebbe essere introdotto nel decreto di maggio. Il M5S nel frattempo tira dritto: “Dobbiamo stabilire un principio – dice al Fatto il deputato Francesco Berti, firmatario dei due emendamenti – i finanziamenti devono andare in imprese fiscalmente responsabili, non in imprese che usano i paradisi fiscali come vantaggio strategico. Lo dobbiamo agli imprenditori e ai cittadini onesti che pagano le tasse”.

Recessione storica: “L’Unione sarà più diseguale di prima”

L’Unione europea affronterà quest’anno una “recessione storica”, la peggiore mai vista. Una minaccia alla stabilità della zona euro, quella con l’architettura più fragile e che rischia di uscire dal disastro ancora più diseguale, con i Paesi forti che reagiranno meglio e prima. La crisi sanitaria del Covid-19 ha effetti simmetrici, colpisce tutti allo stesso modo, ma la crisi economica che innesca è asimmetrica perché basata sulla capacità di reazione dei singoli Paesi.

Basta guardare le previsioni di primavera fornite ieri dalla Commissione per averne un’idea. Nelle “ipotesi benigne”, il Pil europeo calerà del 7,4% nel 2020 e la disoccupazione salirà dal 6,7% al 9% nel 2020. Nel 2021 è previsto un recupero che al momento è difficile da prendere sul serio (Pil a +6,1%). All’intera Unione mancheranno quasi 850 miliardi di investimenti. La Grecia, l’Italia e la Spagna subiranno il crollo maggiore, con un Pil che calerà di oltre il 9%. Anche la Francia sarà colpita duramente (-8,2%, simile al Regno Unito). In Germania la ricchezza nazionale calerà invece solo del 6,5% (con un rimbalzo del 5,9% nel 2021). Peggio di tutti farà Atene, all’opposto il Paese meno colpito sarà la Polonia (-4,3%). “La pandemia avrà un grave impatto sul mercato del lavoro”, scrive la Commissione. Sono particolarmente vulnerabili” i Paesi “con un’alta proporzione di contratti a breve termine e in cui una grande fetta della forza lavoro dipende dal turismo”, cioè Grecia, Spagna e Italia, che hanno sperimentato le riforme “strutturali” (leggi Jobs Act), che hanno aumentato la precarietà. Bruxelles le ha caldeggiate in questi anni come rimedio al recupero di competitività, salvo oggi rivelare di aver posto le basi per il disastro.

C’è poi la capacità fiscale di rispondere alla crisi. I Paesi più indebitati avranno più difficoltà. “Recessione e ripresa saranno disomogenee, ci sono notevoli differenze tra i Paesi”, ha spiegato il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni. Per il vicepresidente Valdis Dombrovskis “le economie più forti sono in una posizione migliore per sostenere lavoratori, famiglie e imprese. Dobbiamo evitare di finire con grandi disparità, il motivo per cui dobbiamo subito approvare un piano di rilancio europeo ambizioso”. Un unione senza capacità di bilancio comune rischia la dissoluzione. Gentiloni spera di vedere approvato il Recovery fund – il fondo da 1.500 miliardi (nelle intenzioni di Spagna, Italia e Francia), agganciato al bilancio Ue che dovrebbe sostenere la ripresa – nel Consiglio europeo di giugno, per farlo partire “nella seconda metà del 2020”. Ma al momento il piano è in alto mare: i Paesi del Nord (trincerati dietro Berlino) non vogliono che parte dei soldi arrivi come sovvenzioni ma prestiti, che faranno salire ancora di più i debiti dei Paesi (quello italiano è proiettato al 160% del Pil, Spagna e Francia 110%). “Credo che tutti i governi ragionevoli abbiano chiaro che stiamo rischiando cose fondamentali come la parità di condizioni fra Paesi”, ha detto Gentiloni. La guerra è già cominciata sugli aiuti di Stato (il 52% dei 2.000 miliardi autorizzati sono di Berlino, l’Italia si ferma al 17%).

Venerdì l’Eurogruppo dovrà delineare i dettagli tecnici del pacchetto già approvato, tutto a base di prestiti. Gli occhi sono puntati sul Mes, l’Italia non vuole le condizionalità sulla linea di credito da 36 miliardi, ma i documenti preparatori al momento non sono incoraggianti. “Resto convinto che non ne abbiamo bisogno”, ha spiegato il premier Giuseppe Conte.

“Mamma li soviet!”. Lo choc degli orari per Confindustria

Confindustria non molla la presa sul governo. Attacca a testa bassa e mette le mani avanti su qualsiasi misura a sfondo sociale che possa emergere come un’eventuale riduzione dell’orario di lavoro. La proposta è stata avanzata dalla ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo. Si tratta di un articolo del prossimo decreto Maggio, che recita così: “Al fine di consentire la graduale ripresa dell’attività dopo l’emergenza epidemiologica, per l’anno 2020, i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale (…) possono realizzare specifiche intese di rimodulazione dell’orario di lavoro per mutate esigenze organizzative e produttive dell’impresa, con le quali parte dell’orario di lavoro viene finalizzato a percorsi formativi”.

Si tratta quindi di “riformulazione” e non di riduzione. Al ministero del Lavoro si spiega che si tratta di prevedere, per l’emergenza, che un certo ammontare delle ore di lavoro non lavorate siano destinate alla formazione a carico dello Stato. Un provvedimento che, guardandolo meglio, potrebbe essere inteso come un favore alle aziende.

Che il “pericolo” sia poco probabile lo dimostra anche la risposta molto moderata di Maurizio Landini, segretario della Cgil, secondo cui “la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è una discussione che va fatta, ma bisogna vedere quanto aumenta la produttività del lavoro”. Insomma, una ipotesi che rientra nelle corde sindacali viene vista con cautela perché non si vedono rapporti di forza per farla davvero applicare.

Ma a Confindustria basta solo sentire la parola “orario” per mettere mano alla fondina metaforica del no preventivo. Non se ne parla proprio, hanno detto al governo nel corso dell’incontro di ieri mattina gli imprenditori rappresentati dall’attuale direttrice generale, Marcella Panucci, intervenuta al telefono e il cui mandato è in scadenza. Aprire il dossier “orario di lavoro” significa dare fiato a reazioni come quella ben rappresentata dal titolo di apertura dell’Avvenire, quotidiano dei vescovi, “Lavorare meno, tutti” che ieri mattina ha fatto sognare le varie tendenze operaiste e di sinistra.

Ma il nodo è più di fondo e attiene ai rapporti che la Confindustria vuole avere con il governo Conte. Rapporti di distanza e di scontro. Se ieri, nell’intervista al Fatto, il presidente del Consiglio ha invitato il neo presidente degli industriali, Carlo Bonomi, a inviare al governo le sue proposte “purché siano specifiche e concrete, sul sostegno alle imprese”, Bonomi fa sapere al Fatto che le proposte le ha inviate al capo di gabinetto di Palazzo Chigi, senza alcun riscontro, già il 28 aprile. L’episodio aiuta a capire come i rapporti siano destinati a rimanere tesi.

E infatti mentre si svolgeva il freddo incontro con il governo, il neo vicepresidente di Confindustria, e grande elettore di Bonomi, Maurizio Stirpe dettava la linea sul Sole 24 Ore “Le imprese hanno bisogno di indennizzi e non di prestiti. I soldi a pioggia con una logica assistenziale non funzionano. C’è stata finora una visione di brevissimo periodo”.

Intervenendo poi all’assemblea della Piccola Industria della laziale Unindustria, ha rincarato la dose dicendo che “questo governo non ama l’impresa” e adducendo come prova il cambiamento di clima tra governo e sindacato: “Noi non abbasseremo la testa” ha quindi assicurato Stirpe, “il mondo delle imprese non rimarrà con il cerino in mano”.

Le richieste, al momento non elencate in nessun documento – ma è anche vero che Confindustria vive il passaggio di consegne degli organi dirigenti e Bonomi non si insedierà prima del 20 maggio – puntano soprattutto ai fondi per le imprese da tradurre in effettivi crediti di imposta. E si temono poi “le nazionalizzazioni” come un po’ pomposamente e con un allarmismo eccessivo, vengono definite le proposte di intervento diretto del governo nel capitale delle imprese che avranno difficoltà di liquidità e che andranno così ricapitalizzate. In un’audizione in Parlamento del 4 maggio, il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, si è dovuto addirittura difendere dall’accusa di “sovietizzazione” delle imprese. L’idea del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, in realtà era quella di offrire alle imprese con capitale tra i 5 e i 50 milioni di euro, un euro di capitale pubblico con ingresso nell’azionariato per ogni euro stanziato dall’azienda. Non risulta che Gualtieri sia un estimatore di Lenin.

Il dramma di Matteo, solo terzo in classifica: non funziona più nemmeno come bufalaro

Il problema non è tanto finire sul podio tra i più grandi propalatori di bufale del mondo su Covid-19 insieme a un fascio-negazionista che la definisce “un’influenzetta” e a uno psicolabile che consiglia di debellarla con un’endovena di candeggina. Il problema, per uno come Salvini – che un tempo era un abile contaballe, capace di convincere a colpi di lampredotto quasi la metà degli italiani che fosse in corso una sostituzione etnica – è arrivare terzo. La classifica della Bbc sui diffusori di fake news – Trump, Bolsonaro e appunto Salvini – dev’essere stata per lui una doccia fredda.

Ma come: il 21 febbraio “chiudere l’Italia”; il 27 febbraio “riaprire tutto”; il 10 marzo “fermiamo l’Italia”; l’11 marzo: “chiudiamo l’Europa”; il 4 aprile “riaprire le chiese”; il 14 aprile “riaprire tutto”; il 16 aprile “riapriamo la Lombardia”, e solo terzo?

Il nostro eroe di ricotta ci ha provato, a scalare la vetta, prima con la originale tesi, sostenuta in forza di un programma di Rai3 del 2015, secondo cui il virus è stato creato in un laboratorio cinese, e poi, in extremis, col complottismo anti-castale che vuole i governi del mondo, primo fra tutti il nostro, impegnati a nascondere la cura per il coronavirus, che ovviamente già c’è ma che i potenti tengono per loro per non scontentare le case farmaceutiche. È un video del 5 maggio: “Il plasma è gratis, non c’è dietro un business, quindi governo e Istituto Superiore di Sanità se ne disinteressano”. Niente, sempre terzo. Cioè, nemmeno come bufalaro Salvini funziona più, surclassato da autentici e molto più pericolosi cazzari, uno dei quali, Trump, quando fa dire al suo segretario di Stato che “ci sono le prove” che il virus sia uscito da un laboratorio cinese, potrebbe scatenare una guerra mondiale, non un’ospitata da Giletti (era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti).

L’unica speranza di non essere ultimo, per Salvini, sarebbe stato che al contest della Bbc partecipasse l’altro perdente di successo, quello che ha sempre voluto riaprire tutto (tanto mica ci va lui, a lavorare), nemmeno un po’ imbarazzato di essere contestualmente andato alla Cnn a denunciare “gli errori” del governo di cui fa parte, errori consistenti nel non aver chiuso tutto prima (pare se lo contendano come conferenziere, impareggiabile nell’esportazione del metodo sicuro per perdere referendum e elezioni e passare dal 41% al 2% in 5 anni).

Ci viene persino il dubbio che Salvini sia stato inserito in osservanza al tipico esotismo inglese più che per meriti reali, vedendolo annaspare in cerca di un’identità, con occhiali e senza, con mascherina e senza, saldo solo nell’appoggio suicida ai due pasticcioni Fontana e Gallera, che hanno giusto chiesto 20 miliardi di danni alla Cina per aver creato il virus, aver infettato 82mila loro connazionali (per rendere tutto più credibile) e averli mandati a uccidere i lombardi, più o meno negli stessi giorni in cui Salvini era fisso al cannocchiale per abbattere ogni barcone proveniente dall’Africa.

Concedeteci di rivolgere un pensiero commosso, però, ai sovranisti, che avevano trovato in questo statista da tavola calda lo stratega, forse inconsapevole, e dunque il mezzo, per arrivare alla sovranità dei popoli, al “momento Polanyi”, alla rivolta contro le élite.

Nessuna dissonanza cognitiva, in gente pur coltivata e di buone letture: il baciatore di rosari, salami e madonne, che pare sempre un po’ alticcio e recita l’Eterno Riposo con Barbara D’Urso, poteva ben essere uno statista che usa la credulità popolare per realizzare i bisogni di quello steso popolo che sta infinocchiando.

La Bbc se n’è accorta, da noi i talk show ancora lo invitano, forse per accarezzare la nostalgia dei tempi normali, quando lasciava donne e bambini a cuocere sotto il sole di Sicilia o andava a stanare nordafricani casa per casa sulla base di una soffiata della signora del terzo piano, ed eravamo tutti più sereni.

Nell’emergenza virus Conte superstar in tv. Salvini di casa a Rete4

Grazie all’emergenza nazionale, Conte è diventato la star incontrastata della tv nel mese di marzo con oltre 16 ore di parlato. Ma non si pensi che sia una enormità: per dire, soltanto ad ottobre Salvini ne incamerava, senza nessuna calamità alle porte (e con Alberto Barachini, il forzista presidente della Commissione Vigilanza Rai, silente), oltre 15. Secondo le ultime rilevazioni Agcom dietro Conte c’è Gallera, poi Salvini, la Meloni e Fontana, a conferma, checché se ne dica, della complessiva torsione destrorsa dell’informazione nostrana. Se poi qualcuno si chiedesse chi paga il prezzo più alto, televisivamente parlando, dello stato d’eccezione, la risposta sarebbe: i due Matteo, il Partito democratico, i 5 Stelle.

Salvini in realtà arretra rispetto alla debordante presenza dei mesi scorsi, ma è sempre di gran lunga il primo dei leader di partito per tempo di parola. Renzi invece scende dalle quasi sei ore di parlato di febbraio ai 97 minuti di marzo: e qui è consentito preoccuparsi per il silenzio di Anzaldi.

Il Pd, con Zingaretti fuoriscena, rimane penalizzato soprattutto nei tg, mentre nei programmi la presenza di sindaci e governatori gli permette di non essere del tutto silenziato. I grillini scontano più di tutti la preminenza del premier e la mancanza di un partito, nonché la marginalizzazione sulle reti Mediaset i cui tg dedicano al M5S tempi di parola da prefisso telefonico.

Dunque l’uomo del Papeete, nonostante gli acciacchi mediatici, si gode un’esposizione non indifferente nei programmi, questo grazie anche alla totale disponibilità di Rete4 ed anche alla benevolenza di La7 e di Giletti.

Al riguardo, occorre aggiungere che nemmeno una catastrofe epocale impedisce ai talk di Rete4 di fare il braccio armato del centrodestra. La sanzione inferta dal garante a RTI per le offese antimeridionali di Feltri è poca cosa rispetto allo scempio dell’equo confronto che viene fatto. La rete che a marzo pur garantisce al premier una copertura inedita (un’ora e 41 minuti di parlato) è comunque riuscita nei suoi talk: 1) a dare la parola (dopo Conte) per il maggior tempo possibile nell’ordine a Meloni, Gallera, Salvini, Toti, Sgarbi e Tremonti che parlano per 5 ore e 50 minuti, lasciando infondo alla classifica Casini, Emiliano e Renzi con poco più di mezz’ora a testa; 2) a far scomparire il centrosinistra nella filiera dei primi sette politici che parlano di più; 3) a trasformare Salvini e Meloni in conduttori e Porro, Del Debbio e Giordano in ospiti dei loro programmi (copyright Bottura).

Quest’ultimo sembrerebbe un brillante paradosso ma non lo è: nei primi tre mesi dell’anno nei talk di Rete4 la Meloni ha goduto di 4 ore e 56 minuti di parola, Salvini di 4 ore e 10, e il primo dopo di loro è Sgarbi che fa la metà di Salvini. Di Di Maio e Zingaretti non c’è traccia. Ricordiamo che la legge prevede per gli operatori tv il rispetto del pluralismo, dell’imparzialità e dell’obiettività. Sempre. Forse è il caso che Agcom prenda nota.

B. cancella Forza Lega e sceglie la linea Letta

Un colpo al cerchio e uno alla botte. Per non spaccare il partito, già sul punto di esplodere. Parliamo di Silvio Berlusconi e della sua svolta moderata che trova molti estimatori in Forza Italia, ma sta pure generando malumori da parte di chi, negli ultimi anni, ha fatto da sponda a Matteo Salvini dentro il partito azzurro. “I senatori di Salvini”, li definisce qualcuno, come la capogruppo Anna Maria Bernini, l’avvocato Niccolò Ghedini e la “badante” Licia Ronzulli. Più defilati i “salviniani” della Camera, molti dei quali già riposizionati.

Così ieri, in un’intervista al Giornale, Berlusconi ha tentato di tenere insieme capra e cavoli spiegando che “non esiste la possibilità di accordi politici con questo governo”, ma ribadendo che “nell’emergenza noi ci stringiamo intorno alle istituzioni e cerchiamo di dare una mano”. Le elezioni “ora sono impossibili”, ma dopo, “se in Parlamento dovessero emergere le condizioni per un esecutivo diverso, più rappresentativo degli italiani, se ne può parlare…”. Insomma, non si esclude nulla, ma queste parole sono un de profundis per i fan forzisti di Salvini, quelli che volevano consegnargli il partito azzurro impacchettato e con un bel fiocco sopra.

A sorridere, invece, sono gli altri, a cominciare da Gianni Letta. Il regalo più bello che l’ex premier potesse fargli per i suoi 85 anni, compiuti il 15 aprile, è proprio quello di portare Fi su un terreno meno estremista. Letta è tornato a vestire i panni del gran ciambellano della Repubblica in coppia con l’europeista Antonio Tajani.

La svolta filo governativa sta innervosendo Salvini e Meloni, ma ha riportato l’ex Cavaliere al centro della scena politica. Una strambata che sta facendo pure risalire i sondaggi, visto che il partito azzurro viaggia intorno all’8% (secondo Tecnè), con una Lega sempre più calante. La sensazione è che Fi abbia ritrovato identità politica, riuscendo a imporre i suoi temi (a partire dal sì al Mes), senza più rincorrere Lega e Fdi nella gara a chi è più sovranista e anti-Europa.

“Berlusconi è fatto così: quando sente che il Paese vive un momento difficile, vuole aiutare chi governa. Lo avrebbe fatto con tutti, a maggior ragione con un signore (Giuseppe Conte, ndr) di cui ha una certa stima…”, racconta Gianfranco Rotondi. Da più parti, del resto, si dice che B. si sia preso una sorta di “cotta” politica per l’avvocato del popolo come, anni fa, se la prese per Renzi. “Conte gli piace innanzitutto esteticamente…”, continua Rotondi. Gli abiti di buon taglio, il capello a posto, il vezzo della pochette, sono particolari che l’ex Cav sa apprezzare, niente a che vedere con il look da scappato di casa di Salvini. “Bossi in confronto era un elegantone…”, si dice in Fi.

In più Conte gli piace “per la preparazione acquisita sul campo, l’impegno, l’arte d’incassare e di mediare che però non sconfina nell’arrendevolezza”. Insomma, se B. dovesse indicare un futuro leader… Gianni Letta, per dire, col premier ha un’interlocuzione non assidua ma diretta. Come pure con Nicola Zingaretti. Anche se poi è a Tajani che spettano i rapporti più settimanali e “politici”: col premier, con Franceschini, con Spadafora.

Un cambio di passo che per ora resterà confinato all’emergenza, ma che rappresenta un segnale importante per il premier. “Berlusconi ha rimesso il partito al suo posto. Non posso che trarne soddisfazione”, ha twittato esultante Mara Carfagna, che da sempre spinge per smarcarsi dalla Lega. “Fi sta recuperando quell’identità liberale che l’ha sempre contraddistinta. E che oltretutto porta voti”, osserva Alessandro Cattaneo. Anche Renato Brunetta è tornato a nuova vita. Altri, invece, mugugnano a denti stretti e tentano di riconquistare terreno. Contando su chi continua a sparare a palle incatenate sul governo e a portare acqua a Salvini: i programmi Mediaset. Ma lì si ragiona in termini di share e introiti pubblicitari, tutt’altro mondo.

Sanatorie da 20 anni, pochi i braccianti “emersi”

Mentre l’idea di una sanatoria scatena la rissa politica, al punto che la ministra Teresa Bellanova minaccia le dimissioni, c’è una certezza nei dati e nei risultati delle regolarizzazioni degli ultimi vent’anni: dicono che, per il mondo agricolo, sono state un flop. Quella del 2012, che ha coinvolto anche le aziende dei campi, ha avuto pochissime domande e un effetto nullo sull’emersione dei lavoratori in nero. Anzi: in quell’anno gli irregolari nel settore sono addirittura aumentati. Molti imprenditori hanno preferito continuare a correre il rischio di essere beccati e sanzionati piuttosto che accettare le condizioni per sistemare le illegalità degli anni precedenti.

Otto anni fa, le adesioni totali – non solo quelle dell’agricoltura – si erano fermate a 134.576. Quelle dalle imprese che lavorano la terra erano solo una piccola parte. Molti rifiutarono “il tariffario” proposto dall’esecutivo. “Quell’intervento – ricorda Jean René-Bilongo, sindacalista Flai Cgil e coordinatore dell’osservatorio Placido Rizzotto – richiedeva al datore di pagare mille euro come contributo forfettario e sei mesi di contributi previdenziali. Eravamo nel pieno dell’altra crisi e in pochi inviarono la richiesta. Oggi ci avviamo verso una nuova crisi, le aziende chiedono aiuti a fondo perduto e condizioni agevolate per regolarizzare”.

La platea. Calcolare la platea dei potenziali interessati non è semplice. Secondo la Flai Cgil, nel 2017 i lavoratori esposti allo sfruttamento e “ospitati” nei ghetti informali erano già 130 mila. Nel frattempo, però, sono intervenuti i decreti Sicurezza firmati da Matteo Salvini, provvedimenti che hanno fatto lievitare i numeri. Oggi gli extra-comunitari che potrebbero ottenere un permesso tramite l’emersione del rapporto di lavoro agricolo sarebbero tra i 200 e i 220mila. Molto più prudente, è la stima presentata da Tito Boeri: secondo l’ex presidente dell’Inps, attraverso l’agricoltura si potrebbero raggiungere al massimo 65mila persone. Leggendo le tabelle Istat, il totale degli occupati irregolari nei settori agricoltura, silvicoltura e pesca nel 2017 era di quasi 220mila, 164mila di questi erano dipendenti di aziende.

Il dato non può essere considerato nella sua totalità perché non conteggia solo gli stranieri extra-Ue e quindi bisognerebbe sottrarre i cittadini comunitari. Al tempo stesso, però, potrebbe essere sottostimato perché 164mila esprime la media annua: di conseguenza gli addetti irregolari potrebbero essere molti di più. In pratica, a causa dell’alta stagionalità che caratterizza questo settore, un operaio agricolo lavora in media 104 giornate all’anno (e il 30% resta sotto le 50 giornate). Insomma, sono dati che forniscono indicazioni ma che non possono dare una risposta precisa.

Ad ogni modo, se davvero le aziende agricole risentono della carenza di manodopera così come emerso nelle scorse settimane, una eventuale regolarizzazione potrebbe avere più successo che in passato anche tenendo conto del fatto che associazioni agricole come la Cia si sono espresse in favore della misura. Sarebbe certamente un inedito per il nostro Paese: sempre i dati del passato dicono infatti che finora a beneficiarne sono state soprattutto colf e badanti: nel 2002 era stata la regolarizzazione Bossi-Fini a far emergere centinaia di migliaia di rapporti di lavoro irregolari tra le famiglie e cittadine provenienti da nazioni dell’Est, che al tempo erano fuori dall’Unione Europea.