Migranti da regolarizzare: i 5Stelle fan saltare il tavolo

Nessun accordo sulla regolarizzazione dei migranti. Per il secondo giorno di seguito la riunione tra i ministri Luciana Lamorgese (Interno), Teresa Bellanova (Agricoltura), Peppe Provenzano (Mezzogiorno) e Nunzia Catalfo (Lavoro) si riaggiorna a stamattina. Lo scontro radicale è tra la ministra di Iv e quella di M5S. Ma in realtà, Pd, Iv e Leu sono d’accordo sull’impianto che sta cercando di mettere in piedi il Viminale, i Cinque Stelle no. La Bellanova aveva chiesto 6 mesi di permesso di soggiorno per gli irregolari, si stava cercando di chiudere a 3, con la mediazione della Lamorgese. Il tavolo è saltato davanti alla proposta di un mese della Catalfo. “Fare resistenza su questa questione è ignobile. Significa sostenere le forme di caporalato”, è sbottata la Bellanova. Si ricomincia stamattina, con la speranza di trovare una proposta di massima, che poi dovrà essere discussa da Conte e dai capi delegazione.

La giornata era iniziata presto. Più o meno contemporaneamente Vito Crimi, su Radio 24 e Teresa Bellanova su Radio Anch’io hanno alzato i toni. “Se c’è una sanatoria modello Maroni, Bossi, Fini e altri noi non ci stiamo”, dice Crimi. Di più: “Stop anche ai permessi di soggiorno temporanei, perché “consentiamo a queste persone di continuare a svolgere lavoro nero”. Mentre il ministro dell’Agricoltura minaccia dimissioni: “Quella sulla regolarizzazione non è una battaglia strumentale per il consenso. Queste persone non votano. Se non passa, sarà un motivo di riflessione sulla mia permanenza al governo. Non sono qui per fare tappezzeria”.

Le posizioni si irrigidiscono, dopo giorni e giorni di riunioni. Due solo martedì. Una di nuovo ieri pomeriggio. La trattativa si complica. Non senza sospetti incrociati. A partire dal fatto che i renziani cercano una scusa per destabilizzare il quadro.

La Bellanova ha chiesto da settimane la regolarizzazione di 600mila braccianti. La pressione arriva prima di tutto dagli agricoltori, che rischiano di vedere i raccolti restare sui campi, per mancanza di braccia. Con lei Provenzano, che però chiede l’emersione anche di colf e badanti. E l’accesso anche per gli italiani alla misura. A supervisionare, mediare, cercare le soluzioni tecniche è il ministro dell’Interno, Lamorgese. Che da settimane sta cercando di frenare sulle cifre. Oltre a chiarire che l’emersione è necessaria anche per motivi di sanità e di sicurezza. La questione è centrale ed identitaria. I big del Nazareno se ne tengono alla larga. Evidente che l’investimento politico di Iv è più forte. Tanto è vero che Renzi nella enews serale rilancia la questione. Nei Cinque Stelle, c’è anche chi è a favore, come Giuseppe Brescia. Ma molta parte del Movimento non molla, teme di lasciare terreno alla Lega. I renziani assicurano che nessuno vuol far saltare il banco su questo. Eppure, per l’ex premier, l’uscita dal governo sembra praticamente decisa. Resta da capire il come e il quando da qui ai prossimi due mesi. Ma la convinzione che dentro quest’esecutivo non ci sia per lui spazio politico è ormai definitiva. Nel frattempo, sul tavolo ci sono i migranti. Si aspetta la mediazione di Conte. Che a sera convoca per oggi il presidente di Iv, Ettore Rosato e i capigruppo, Maria Elena Boschi e Davide Faraone. Si parlerà soprattutto di piano shock, questione Bonafede e economia. Un gesto di apertura, secondo i renziani.

E intanto il governo ieri ha accettato l’emendamento di Stefano Ceccanti, che chiedeva il parere preventivo del Parlamento ai Dpcm, riformulandolo però come “richiesta di informazione”.

Quando Carnevale liberò i boss e Cossiga firmò “un atto di guerra”

Oggi la causa è l’influenza del contagio Covid nelle carceri, che il presidente della Prima commissione del Csm Sebastiano Ardita ritiene “smentito”. Ventinove anni fa fu una sentenza della Cassazione firmata dal giudice Corrado Carnevale sui termini di custodia cautelare a suo avviso scaduti. La scarcerazione di massa dei giorni scorsi di detenuti mafiosi ha un precedente che risale al 1° marzo del 1991, quando il governo Andreotti, con un decreto legge di dubbia costituzionalità, fornì ai giudici del maxi-processo di Palermo l’interpretazione “autentica” degli articoli 297 e 304 del Codice di procedura penale consentendo ai due pubblici ministeri, Luigi Croce e Vittorio Aliquò, di rispedire in cella 43 boss scarcerati, quasi tutti riarrestati.

In quel caso il contrasto tra i due articoli del codice (il 297 stabiliva il congelamento automatico dei tempi del processo ai fini del conteggio della custodia cautelare, mentre il 304 imponeva un’ordinanza specifica del giudice in caso di sfondamento del tetto che in quei casi non c’era, soluzione adottata da Carnevale), indusse il governo a intervenire.

Cossiga parlò di “mandato di cattura per decreto legge” e la vicenda venne ricostruita nella sentenza del processo Andreotti attraverso le testimonianze dei protagonisti dell’epoca, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga e il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti. “Ricordo – riferì in aula Scotti – che dissi: il ministro degli Interni non può rimanere inerte di fronte alle conseguenze di questa sentenza. E noi facemmo un decreto legge che ricordo portai alla firma del capo dello Stato, il quale mi disse: ‘Questo è un mandato di cattura per decreto legge, siamo al limite costituzionale’ e io dissi che mi sentivo e lo difesi in Parlamento: ‘Siamo al limite certamente, ma una condizione essenziale in questo momento della lotta alla criminalità”. “Ricordo – riferì invece Cossiga – che l’onorevole Andreotti, presidente del Consiglio dei ministri, che già aveva avuto con me (…) delle discussioni su questa materia, siccome è uomo molto diplomatico mi mandò alle 3 del pomeriggio a farmi firmare il decreto il ministro di Grazia e Giustizia e il ministro dell’Interno, mentre normalmente i decreti legge sono portati alla firma dal presidente del Consiglio dei ministri. Io li chiamo i messaggeri, ai quali dissi scherzosamente ‘per molto meno è scoppiata la rivoluzione francese’; ero molto preoccupato per la deroga che, a mio avviso, importava se non alla lettera allo spirito della Costituzione, per introdurre norme interpretative del codice di procedura penale a norme interpretative autentiche, che quindi avrebbero avuto efficacia retroattiva, pur sapendo che la irretroattività riguarda soltanto le norme penali in relazione ad un procedimento in corso. Dissi: ‘Io firmo questo atto e me ne assumo la responsabilità’, dissi scherzosamente: ma non lo considero come un decreto legge, lo considero come un necessario atto di guerra’’.

La sapiente regìa delle rivolte ha premiato killer e gregari

L’ultima scarcerazione è quella di una fimmina di mafia: Rosalia Di Trapani, 72 anni, 8 di condanna per estorsione aggravata e favoreggiamento. È tornata a Palermo, dove nel rione San Lorenzo una volta il padrone era suo marito: Salvatore Lo Piccolo, detto “il barone”, insieme al figlio Sandro voleva prendersi Cosa nostra dopo l’arresto di Bernardo Provenzano. Li hanno fermati alla vigilia di un’altra sanguinosa guerra di mafia. Dal 2007 i Lo Piccolo sono all’ergastolo, ma in questi giorni hanno esultato per la scarcerazione di Rosalia, moglie e madre di mafia, che è tra i detenuti finiti ai domiciliari grazie all’emergenza coronavirus. Sui tavoli delle Procure c’è una lista di oltre 370 nomi: sono i carcerati usciti durante l’epidemia, che adesso il ministro Alfonso Bonafede vorrebbe riportare in cella con un decreto legge.

Quella del Guardasigilli è una reazione per provare a normalizzare una situazione incandescente. L’altro virus, quello della mafie, ha approfittato dell’esplosione dell’epidemia per tornare in circolo. Fuori dalle carceri gli inquirenti fanno notare come Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra non sono mai state tanto presenti nelle borgate ridotte alla fame dalla crisi. Quartieri dove nel frattempo le pattuglie di polizia e carabinieri passano più volte a controllare che i boss ai domiciliari siano regolarmente a casa. Quasi nessuno dovrebbe darsi alla latitanza, anche perché si tratta spesso di uomini anziani e malati. O almeno questa è la speranza degli inquirenti, chiamati a fare gli straordinari in un momento di fibrillazione.

“Ci manca solo che scappi qualche pezzo da novanta”, dice un investigatore. A tornare liberi di recente, infatti, sono stati pure tre detenuti al 41-bis, che per alcuni giudici di Sorveglianza è talmente impermeabile da proteggere pure dal contagio. Per altri magistrati, però, neanche il carcere duro difende dall’epidemia. Tra i primi ci sono quelli che hanno negato i domiciliari al superboss Nitto Santapaola. Tra i secondi quelli che hanno concesso la scarcerazione a Francesco Bonura, uno dei colonnelli di Provenzano: è stato il primo scarcerato eccellente in due mesi di emergenza. Da due settimane ha lasciato il 41-bis per tornare pure a lui a Palermo, dove guidava Cosa nostra insieme a Nino Rotolo e Antonino Cinà: era contro di loro che i Lo Piccolo erano pronti a scatenare la mattanza. È uscito dal carcere duro pure Pasquale Zagaria, la mente economica dei Casalesi: ha avuto un tumore, non può curarsi in carcere – anche perché il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) non ha risposto in tempo ai giudici che chiedevano penitenziari attrezzati per le terapie – e per evitare che si ammalasse di coronavirus il tribunale di Sassari lo ha spedito ai domiciliari in provincia di Brescia, epicentro nazionale del contagio.

Il resto dei detenuti scarcerati, invece, era recluso soprattutto nei reparti di Alta sicurezza, quelli che ospitano i gregari dei clan e i killer delle cosche. Sono le stesse sezioni che non hanno fatto registrare troppi disordini durante le rivolte di marzo. A protestare contro il rischio contagio nelle celle sono stati soprattutto i detenuti comuni, “quelli delle terze brande” come li chiamano in gergo gli uomini della polizia penitenziaria. Nei letti a castello dormono più in alto perché contano meno. I capi, invece, no: loro stavano fermi e tranquilli. Un elemento che, sommato alla contemporaneità delle ribellioni – 22 penitenziari esplosi quasi nelle stesse ore tra il 7 e il 9 marzo – ha rafforzato negli inquirenti un sospetto: quelle rivolte erano coordinate da un’unica regia criminale. L’obiettivo era sfruttare l’emergenza per ottenere qualche beneficio. Anche per questo motivo i provvedimenti varati dal governo escludevano i condannati per mafia dalla possibilità dei domiciliari.

Ad agevolare la scarcerazione degli uomini dei clan, però, è arrivata la circolare del Dap. Inviata il 21 marzo, di sabato, firmata dalla dirigente delle relazioni esterne per conto del direttore generale, quella nota chiedeva alle case circondariali di stilare la lista dei detenuti più esposti al virus, cioè i malati con più di 70 anni. Sarebbe poi toccato ai giudici decidere chi liberare. In questo modo è tornato a casa anche Franco Cataldo, 85 anni, all’ergastolo per essere stato tra i carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e sciolto nell’acido. E poi Giacomo Teresi di Brancaccio, padrone della macelleria dove i mafiosi progettavano di uccidere Gian Carlo Caselli. Nel quartiere dei Graviano è tornato pure Antonino Sacco, tra i reggenti del clan dei fratelli delle stragi. E poi ancora Antonino Sudato, killer del clan di Siracusa. Hanno tutti una relazione sanitaria che indica la presenza di alcune patologie e il diritto alla salute. I nomi sulla cartella clinica, invece, raccontano storie terribili di sangue e violenza.

“Troppi via libera, al 41-bis stanno più al sicuro di noi”

Sono 376 i detenuti ritenuti pericolosi che sono stati scarcerati in queste settimane di emergenza virus. Tra essi, un boss di Cosa nostra come Francesco Bonura e uno della Camorra come Pasquale Zagaria. E Cataldo Franco, custode del piccolo Giuseppe Di Matteo che fu poi sciolto nell’acido per punire il padre diventato collaboratore di giustizia. E, ancora, Domenico Perre, uomo della ‘ndrangheta tra gli autori del sequestro Sgarella.

Alessandra Dolci, procuratore aggiunto a Milano e capo della Direzione distrettuale antimafia, indica l’origine delle scarcerazioni nella nota del 21 marzo emessa dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, allora guidato da Francesco Basentini, oggi estromesso.

Che cosa diceva quella nota del Dap?

Invitava le direzioni degli istituti penitenziari ‘a segnalare con sollecitudine’ ai Tribunali di sorveglianza i detenuti con una serie di patologie, affinché potessero prendere in considerazione le istanze di scarcerazione, in considerazione dell’emergenza sanitaria determinata dalla possibilità di contagio per il coronavirus. Da questo si è scatenata un’alluvione di istanze di detenuti di ogni tipo. Continuano ancora ad arrivare. Sono oggi ne ho viste, qui a Milano, una decina.

Domande presentate anche da mafiosi?

La nota del Dap non distingueva tra detenuti comuni e detenuti per mafia, tra regime penitenziario ordinario e quello speciale. Così sono stati scarcerati anche detenuti al 41 bis, cioè al carcere duro previsto per i mafiosi, e detenuti As1, cioè usciti dal 41-bis, e As3, cioè condannati per reati di competenza delle Direzioni distrettuali antimafia, come per esempio il traffico di stupefacenti. Ebbene: i detenuti al 41-bis sono in isolamento, sono in cella singola e possono incontrare un numero limitato di detenuti, quattro al massimo. Vivono dunque in assenza di promiscuità e dall’eventuale contagio sono di fatto più protetti di noi.

A decidere le scarcerazioni sono stati i Tribunali di Sorveglianza.

Sì, le istanze di scarcerazione sono state esaminate dal magistrato di sorveglianza, che in via d’urgenza le ha accolte, valutando che ci fosse un pericolo di contagio: davvero ipotetico, nel caso di detenuti al 41-bis. Ora le decisioni dovranno essere prese in considerazione dal Tribunale di sorveglianza, cioè l’organo collegiale, che le potrà confermare o revocare. E poi potranno eventualmente essere impugnate dalle Procure generali. Queste sono le regole.

A chi è stato scarcerato sono state imposte alcune prescrizioni.

Sì, il divieto d’incontrare altri pregiudicati, l’obbligo di comunicare gli spostamenti da casa… Prescrizioni che vanno bene per i detenuti comuni, non per i mafiosi, e tanto più per quelli al 41-bis, a cui devono essere impediti tutti i contatti con il contesto criminale da cui provengono.

Ma la salute è un bene da tutelare a ogni costo.

Certo. Ma nei provvedimenti che ho potuto leggere il differimento della pena per motivi di salute è stato concesso senza una precisa documentazione sanitaria. Non solo: la norma dice che il differimento può essere concesso solo se non c’è il pericolo di reiterazione del reato. Insomma: nei provvedimenti che ho visto, non c’erano a mio avviso i presupposti per l’accoglimento. Perché asserivano gravi condizioni di salute, senza documentarle adeguatamente. E perché non consideravano la caratura criminale di chi le presentava: come Bonura, esponente apicale di Cosa Nostra, o Perre, uomo di vertice della ‘ndrangheta. Non c’erano, a mio avviso, i presupposti per concedere la detenzione domiciliare. I magistrati di Sorveglianza avrebbero potuto chiedere quali erano le misure che il carcere metteva in atto per evitare il contagio: distanziamento eccetera. Solo allora avrebbero avuto un quadro completo della situazione, per decidere adeguatamente.

Bonafede lancia il decreto: “I boss tornino in carcere”

La gogna in Parlamento che il centrodestra avrebbe voluto per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, accusato di essersi piegato alla mafia, non è andata in porto. Il ministro, proprio alla Camera, ha rilanciato con l’anticipazione di un altro decreto Antimafia. Vuole dare la sponda normativa alla magistratura per poter disporre il ritorno in carcere dei boss che sono finiti ai domiciliari in seguito alle loro istanze per rischio contagio da Covid-19, rese più facili da una circolare dell’ex direttore del Dap, Francesco Basentini, costretto poi a dimettersi.

Ieri Bonafede era alla Camera per rispondere all’accusa del centrodestra di non aver nominato due anni fa il pm antimafia Nino Di Matteo come capo del Dap, perché intimidito dai boss. L’annuncio del decreto in Parlamento, tra i brusii delle opposizioni, è il segnale che su questo il governo è compatto: “È in cantiere un decreto legge che permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario (numeri del contagio in calo, ndr) di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni di detenuti di alta sicurezza e al regime di 41-bis”. Tecnicamente si sta studiando se l’indicazione possa essere diretta ai Tribunali di Sorveglianza, che hanno emesso le ordinanze o se invece si dovranno muovere le procure generali (o le Dda) con una impugnazione sulla quale poi decideranno i giudici. Il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, che approva l’idea del decreto, aggiunge un elemento: “Probabilmente rappresenterà che sono disponibili i posti nei centri ospedalieri”.

Intanto al Dap c’è stato il cambio di passo, perché il neo vicecapo, Roberto Tartaglia, ex pm a Palermo, appena insediatosi, sabato ha fatto inviare una circolare a tutti i direttori delle carceri affinché comunichino al Dipartimento ogni istanza presentata da detenuti al 41-bis o del circuito alta sicurezza. D’altronde, ricorda Bonafede alla Camera, dopo quelle scarcerazioni è stato approvato un decreto legge che per il futuro prevede il parere obbligatorio di Dna e Dda sulle richieste dei boss mafiosi detenuti.

L’interrogazione parlamentare era del deputato di FI Pierantonio Zanettin: “Ci deve spiegare perché prima ha offerto il posto di capo Dap a Di Matteo e poi ha cambiato idea” (nominando Basentini, ndr). Il ministro ha confermato quanto già spiegato a Non è l’Arena di La7: “Nel giugno 2018 non vi fu alcuna interferenza diretta o indiretta sulla nomina del direttore del Dap”. Pensò per lui sia il vertice del Dap sia “un ruolo equivalente a quello che fu di Falcone” al ministero. Poi si convinse che Di Matteo lo voleva al ministero, “al mio fianco”. Per dare un segnale “inequivocabile alle mafie”. Il pm rifiutò, aveva scelto l’altra opzione non più valida, il Dap. Ma Bonafede, alla Camera, ha rivendicato la sua libera scelta di Basentiini: “Ogni altra ipotesi o illazione è del tutto campata in aria perché le dichiarazioni di alcuni boss (allarmati per l’eventuale nomina di Di Matteo, ndr) erano già note al ministero dal 9 giugno 2018 e quindi ben prima di ogni interlocuzione con il diretto interessato”. E, a scanso di equivoci rivendica la “discrezionalità” che ha in merito, pure rispetto alla nomina del neo capo Dap Dino Petralia, Pg di Reggio Calabria: “Ho seguito mie valutazioni personali”. L’unico a intervenire dopo il ministro è Enrico Costa, FI, che attacca a testa bassa sia Bonafede sia Di Matteo: “Il ministro della Giustizia ha una responsabilità grande come una casa: aver legittimato personaggi che mettono sotto i piedi la presunzione di innocenza”. Di Matteo è il pm del processo sulla trattativa Stato-mafia. Marcello Dell’Utri, condannato, fu mediatore, scrivono i giudici, tra la mafia e Berlusconi. Imperdonabile per Forza Italia.

Il trucco c’è, ma non si vede

Uno dei danni collaterali della polemica Di Matteo-Bonafede, oltre al festoso banchettare dei peggiori avvoltoi, è che oscura il vero motivo delle scarcerazioni di boss mafiosi e delinquenti comuni col pretesto dell’emergenza Covid. E cioè l’orientamento di un bel gruppo di giudici di sorveglianza che passano per “garantisti”, ma in realtà sono semplici “decarceratori”. In questo Paese a corto di senso dello Stato, è molto diffusa, anche nella magistratura (e non solo nelle correnti di sinistra), l’allergia al carcere. C’è pure chi lo abolirebbe, non ne fa mistero e, alla prima occasione, mette fuori tutti quelli che può. Che le carceri siano sovraffollate, promiscue e spesso terrificanti lo sappiamo. Ma non per i troppi detenuti (che anzi sono sotto la media europea), bensì per la penuria di posti cella (che va colmata costruendo o allestendo nuovi reparti). In ogni caso i giudici devono applicare il Codice penale che prevede la “reclusione” (c’è scritto proprio così) per una serie di reati. Prima si dava per scontato che – a parte reati gravissimi, o lievi ma commessi da poveracci senza tetto né difesa – la reclusione fosse finta, grazie a prescrizioni, amnistie, indulti, condoni, leggi svuotacarceri, pene alternative, liberazioni anticipate, sconti, attenuanti, condizionali, limiti d’età, scappatoie e cavilli vari. Il famoso Codice Spaventapasseri: da lontano fa paura, da vicino fa ridere.

Poi il ministro Bonafede ha ridotto il gap fra pene scritte nel Codice, irrogate nelle sentenze e scontate in carcere. Prima per i tangentari (Spazzacorrotti), poi per evasori e frodatori fiscali (ultima Finanziaria), infine per i mafiosi (il dl Cura Italia li esclude dalle pene alternative che i giudici possono concedere, in base alla svuotacarceri Alfano del 2010, a chi deve scontare meno di 18 mesi durante l’emergenza virus) e in futuro per tutti (blocca-prescrizione per i reati commessi dal 2020). A quel punto il sistema si è ribellato e, con esso, alcuni giudici decarceratori. Hanno messo fuori Formigoni dopo 5 mesi (su 70 da scontare) tradendo la legge Spazzacorrotti con un’interpretazione “non retroattiva” contraria a 30 anni di giurisprudenza costante in materia di esecuzione penale, dopodiché la Corte costituzionale con agile piroetta s’è contraddetta per avallare quell’assurdità. Poi è partita la canea sull’imminente “strage”, anzi “apocalisse” da Covid nelle carceri, con appelli ad amnistie, indulti e scarcerazioni di massa. E molti giudici di sorveglianza han cominciato a liberare centinaia di condannati, anche mafiosi, anche al 41-bis (cioè gl’individui col minor rischio di contagio al mondo).

Il tutto con la scusa che il Dap, sotto il fuoco dei “garantisti” (i radicali avevano persino denunciato in Procura Bonafede e Basentini per “procurata epidemia colposa”), si era cautelato con una circolare che chiedeva ai direttori delle carceri di segnalare i malati gravi, più esposti all’infezione, per “le determinazioni di competenza” (cioè isolarli, o sottoporli a tampone, o a visite mediche, o a trasferimenti in strutture sanitarie, non certo per mandarli a casa). E chi accusava Bonafede e Basentini di non scarcerare nessuno ha cominciato a strillare che scarceravano tutti, con le trombette di Salvini & Meloni e il megafono di Giletti che usa gli errori del Dap nel caso Zagaria per gettare 400 scarcerati addosso a Bonafede anziché a chi li ha messi fuori: i giudici di sorveglianza. Ora si spera che il decreto annunciato ieri consenta di rispedire in cella chi ne era uscito. Ma si deve sapere chi l’aveva fatto uscire. E con quali strabilianti motivazioni.

Il boss dell’Uditore Francesco Bonura è passato dal 41-bis nel carcere di Opera alla sua casa di Palermo grazie a un giudice di Milano che cita il “rischio di contagio, indubitabilmente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere, che espone a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani e affetti da serie patologie”. Una barzelletta, visto che il carcere è isolato per eccellenza, tantopiù per i detenuti al 41-bis, reclusi in celle singole senza contatti con gli altri. Il giudice scrive pure che “deve ragionevolmente escludersi il pericolo di fuga o di reiterazione dei reati” anche per “l’età e il complesso quadro clinico”. Cioè un boss di 78 anni non farà più il boss per raggiunti limiti di età (infatti l’ultimo boss della Cupola catturato nel 2018, Settimo Mineo, di anni ne aveva 81). Dunque, malgrado i domiciliari, potrà uscirne anche per “sedute dentistiche” sue e della moglie, e per “matrimoni, battesimi, eventi luttuosi, 25 e 26 dicembre, Domenica di Pasqua e Lunedì dell’Angelo (sic, ndr)”. E chi legge l’ordinanza che ha scarcerato il fratello del boss Zagaria dal 41-bis a Sassari scopre che sarebbe uscito comunque, anche senza i pasticci del Dap (che in quell’unico caso ci sono stati, come documentato da Giletti), perché la Corte d’Appello di Napoli lo definiva incredibilmente “non pericoloso” e il giudice di sorveglianza riteneva impossibile curarlo sia in carcere sia in ospedale. Quindi l’ha mandato a casa sua a Brescia, cioè nell’epicentro del contagio. Geniale. Ecco: il polverone Di Matteo-Bonafede sta coprendo tutto questo. E tutti gli altri decarceratori seriali pronti a riprovarci.

“Abbiamo un’Utopia: una nuova casa editrice di ragazzi under 30”

“Oggi i lettori non si affidano più al marchio, scelgono i libri non sapendo più distinguere una casa editrice da un’altra. Mancano identità forti e riconoscibili.” Gerardo Masuccio, classe 1991, già funzionario editoriale in Bompiani, prima che il Coronavirus paralizzasse la nostra economia ha radunato a Milano un gruppo di otto giovanissimi collaboratori (tra i quali lo scrittore Giorgio Ghiotti) e azzardato la scommessa di dare vita a una nuova realtà, che inizierà le pubblicazioni da settembre.

Masuccio, la nuova casa editrice che ha fondato si chiama Utopia. Non sembra una sigla proprio beneaugurante.

Al contrario, è indovinata e ci rappresenta. Quando abbiamo pensato alla nostra avventura ci è parsa tanto irrealizzabile da rasentare un’utopia. Quando poi i nostri sforzi si sono concretizzati abbiamo voluto lasciare alla casa editrice il nome di un sogno.

Perché a 28 anni ha deciso di mettersi sulle spalle una responsabilità tanto impegnativa?

Dopo la gavetta come dipendente in Bompiani ho compreso che non mi bastava un tratto della filiera e che adoro occuparmi di un libro in tutte le sue fasi: dalla scoperta fino alla promozione.

Come ha reperito le risorse finanziare?

Ho impiegato tutti i miei risparmi e coinvolto alcuni sostenitori che hanno creduto nel progetto. Non me lo sarei mai aspettato, ma in poco più di un mese ho tirato su il necessario per partire. Voglio credere sia stato anche un atto di fiducia e di speranza nei confronti di noi ragazzi degli anni 90.

Vi siete dati un orizzonte temporale per dirvi sommersi o salvati?

Per trarre un primo bilancio aspettiamo due anni. Abbiamo già acquisito più di 20 titoli. Ne pubblicheremo una decina l’anno. L’obiettivo è curare pochi testi e promuoverli come se ciascuno fosse unico e fondamentale.

Primi autori in libreria: Massimo Bontempelli, premio Strega 1953, e lo spagnolo Camilo José Cela, premio Nobel nel 1989. Perché proprio loro e come siete riusciti ad acquisirli?

Sono autori che molti italiani non hanno mai potuto leggere perché di fatto irreperibili. Mancano nelle librerie da dieci, quindici anni. Abbiamo corteggiato gli eredi di Bontempelli e Cela perché siamo lettori fedeli e appassionati delle loro opere. Gli eredi ci hanno dato fiducia nonostante non potessimo garantire offerte competitive da major. Credo si siano convinti quando hanno capito che da noi i testi saranno ristampati come novità principali e non come tascabili in mezzo a decine di altri tascabili.

Quali saranno i titoli successivi?

La quasi totalità saranno testi inediti e da noi tradotti. Monitoriamo tutte le aree linguistiche non ancora sdoganate. Per intenderci: abbiamo un autore francese ma d’oltremare, uno di lingua inglese ma non statunitense o britannico. Abbiamo un arabo, due autori russi ma uno uzbeko e uno siberiano. E poi ancora un norvegese, un brasiliano. Facciamo scouting in tutto il mondo, alla scoperta di autori che in Italia ignoriamo, ma che sono centrali nel dibattito critico dei loro Paesi. Siamo piccoli ma agguerriti. Se arriviamo prima riusciamo a sgominare i grandi.

Puntate sulla qualità, ma ci sono ancora lettori dal palato esigente?

Esiste un nucleo di lettori forti che ha fame di opere letterarie di altissimo profilo. La nostra sfida è portarli in libreria e indurli quasi a non badare alle sinossi dei nostri romanzi perché la speranza e insieme l’obiettivo è che scelgano Utopia come garanzia di una selezione identitaria cui affidarsi. Noi sopravvivremo solo se saremo coerenti e se anziché seguire il mercato saremo noi a orientarlo.

Serie tv e geopolitica: l’altra faccia del Ramadan

Il Ramadan che è iniziato il 23 aprile è la stagione televisiva più grande e redditizia dell’anno in Medio Oriente e nel mondo arabo in generale. È qualcosa – televisivamente parlando – che assomiglia alla finale dei Mondiali di calcio, solo che dura un mese intero invece di una serata. Durante il mese sacro, la tv – che nel mondo arabo è una solida industria – è l’unica cosa che unisce famiglie di diversa estrazione sociale e in contesti socio-economici diversi. Con la maggior parte di cinema e luoghi di svago chiusi, il piccolo schermo è sempre stato il veicolo principale di svago per milioni di arabi – e non è mai stato così vero come ora in epoca di Coronavirus. Sono centinaia le produzioni che vanno in onda dal Libano al Marocco, dall’Egitto al Golfo Persico, che affrontano i temi più diversi. C’è il modello libanese (e turco) più versato per la soap opera o quello egiziano indirizzato verso il fantasy e l’action.

La tv araba è un flusso economico sostanziale per i governi che spesso hanno un interesse nelle emittenti, quando non le possiedono direttamente, è una grande fonte di distrazione per mantenere a casa le masse arabe sempre più inquiete e certamente un abile strumento per veicolare consenso. Tematicamente i serial si concentrano sul sociale, documentando le varie trasformazioni della società araba negli ultimi 70 anni, dai cambiamenti delle dinamiche familiari all’ascesa di forze politiche, all’impatto del capitalismo, della tecnologia, della corruzione. Il contenuto raramente si avventura nella sacra trinità degli argomenti tabù nell’Islam: sesso, religione e violenze domestiche.

I serial sono anche una traccia evidente per capire il mood nei vari Paesi. Costumi, società, famiglie, ruolo della donna, amori, rivalità, tutti elementi che diventano lo specchio del Paese. Quest’anno due – una di produzione egiziana, l’altra saudita – stanno provocando molte polemiche.

La prima, in onda in Egitto, è El-Nehaya (La Fine) parla di un ingegnere informatico che vive nel 2120, un futuro distopico dominato da cyborg. Nel primo episodio, un insegnante racconta a una classe di studenti “la guerra per liberare Gerusalemme”, che avvenne meno di 100 anni dopo la fondazione di Israele nel 1948. L’insegnante dice ai ragazzi che gli ebrei in Israele “scapparono e tornarono nei loro paesi di origine” in Europa e lo Stato venne cancellato dalle mappe mondiali. Naturalmente il ministero degli Esteri israeliano ha prontamente protestato, soprattutto perché l’Egitto è uno dei due Paesi arabi (l’altro è la Giordania) ad avere da 41 anni un trattato di pace con Israele. Questo serial è prodotto, insieme a molti altri, da Synergy, una delle più grandi società di produzione egiziane, che ha forti legami con il governo del presidente Abdel Fatah al-Sisi e va in onda sul network “ON”, di proprietà di una società pro-governativa.

L’altra Umm Haroun (La madre di Haroun), è una serie immaginaria su una comunità multi-religiosa in uno stato arabo del Golfo non specificato negli anni 30-50, messa in onda venerdì scorso dalla MBC, la rete controllata dall’Arabia saudita dal 2018 che è la più grande di tutto il mondo arabo. Lo “scandalo”, se così vogliamo chiamarlo, è rappresentato dal fatto che uno degli eroi positivi nella comunità è la levatrice, che è ebrea.

Un’innovazione nella narrazione islamica che arriva in un momento in cui diversi Stati del Golfo hanno rotto con il recente passato e fatto aperture verso Israele, con il quale hanno trovato un terreno comune nell’affrontare l’Iran. Umm Haroun è stata subito attaccata da Hamas. Da Gaza un boss del gruppo palestinese, Basim Naeem, ha condannato la serie affermando che ritrarre gli ebrei in una luce comprensiva è “un’aggressione culturale e lavaggio del cervello”, altri gruppi islamisti si sono mobilitati per boicottare questo “serial malvagio”. Ma l’MBC taglia corto, stando ai suoi dati Umm Haroun è il serial più votato dai telespettatori.

I nostri musei fanno scuola: portiamo lì gli studenti

Come ripartiranno i musei italiani? La riapertura dal 18 maggio di “musei e mostre” annunciata dal presidente del Consiglio sembra più motivata dal desiderio di provare a salvare il business delle seconde che non da una reale conoscenza dello stato dei primi. Il Mibact ha una pianta organica vuota per oltre il 43 per cento, e la mancata bigliettazione impedisce di contare sul personale precario delle società che tenevano in piedi il patrimonio culturale. Se a questo si somma la necessità di rilevare la temperatura, sanificare e gestire una visita cadenzata e distanziata, non saranno molti i siti in grado di riaprire. Ma, al di là della gestione materiale della Fase 2, quel che manca è un cambio di passo: una visione, insomma, che riesca a distinguere un museo da un albergo di lusso.

La prima domanda da porsi è: sparito (almeno per un po’) quel turismo di massa che rendeva insieme vana e superflua qualsiasi politica culturale, a quale pubblico si rivolgeranno i musei italiani?

I primi segnali non sono incoraggianti: gli Uffizi, per esempio, hanno condiviso una serie di video su Tik Tok che lasciano basiti per gli errori (Federico da Montefeltro chiamato “Fernando”…) e per il penoso tentativo di forzare quei capolavori a stare sulla notizia (la Medusa di Caravaggio che urla: “Cornavairus!”). Un’iniziativa che Fulvio Cervini, storico dell’arte all’Università di Firenze e presidente della Consulta Universitaria Nazionale per la Storia dell’arte ha commentato così: “Sinceramente non pensavo si potesse arrivare a tanto… in un Paese che si avvia ai 30.000 morti per Covid, dove ripartire dalla cultura deve essere un imperativo categorico, questa roba mi fa semplicemente vomitare”. Difficile ricordare uno scollamento altrettanto radicale tra mondo della conoscenza e musei ridotti a luna park. Dunque, da dove ripartire?

Nella ultima seduta del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, tenutasi naturalmente in forma telematica, ho avanzato una proposta che potrebbe ridare ai musei la loro interlocutrice naturale, da troppo tempo dimenticata: la scuola.

A settembre le scuole italiane avranno, come è noto, un enorme problema di spazi: vengono al pettine i nodi antichi (e vergognosi) di classi troppo numerose e di un’edilizia scolastica assolutamente inadeguata. Ebbene, perché non pensare che i musei (a loro volta, al contrario, semivuoti per il crollo del turismo) non si prestino a trasformare le loro sale in aule scolastiche? Per uno o due giorni alla settimana (o anche di più, ove possibile) i musei (anche del rango degli Uffizi) potrebbero essere riservati alle scuole, dalle primarie alle superiori di secondo grado. E non solo per tenervi lezioni di storia dell’arte, ma anche di storia, italiano, geografia e, di fatto, di ogni altra materia: i nessi tra le opere esposte e le materie scolastiche sono infiniti, evidenti, stimolanti. So bene che una iniziativa del genere metterebbe non poco sotto stress l’organizzazione di scuole e musei: riuscirebbe solo se Miur e Mibact si impegnassero a snellire, instradare e portare a compimento la burocrazia necessaria. Certo, gli insegnanti (categoria eroica a cui davvero si fatica a chiedere qualcosa in più), le famiglie (già provate da mesi di vuoto scolastico) e il personale dei musei (allo stremo) avrebbero una settimana più complicata, ma i benefici sarebbero straordinari: per i ragazzi, innanzitutto, e poi per la scuola e per i musei.

Si fa un gran parlare (spesso a sproposito) del dopo-Covid come di un nuovo Dopoguerra: ebbene, tra i progetti rimasti incompiuti dagli anni Quaranta del secolo scorso, c’è quello per cui ogni italiano avrebbe dovuto “imparare la storia dell’arte… da bambino, come una lingua viva: se vuole avere coscienza intera della propria nazione” (Roberto Longhi). I vecchi del mio quartiere, l’Oltrarno fiorentino, ricordano ancora le notti passate a Palazzo Pitti come sfollati, nell’agosto 1944: quanto più una intera generazione ricorderebbe di aver fatto scuola, per mesi, nello stesso Pitti, a Capodimonte, a Brera, alle Gallerie dell’Accademia! Sarebbe molto più che un escamotage logistico: sarebbe la via per far ridiventare finalmente popolari i musei dello Stato, da rendere, a questo punto, tutti e sempre gratuiti. Per ridare al nostro patrimonio culturale quella missione civile che è la sola capace di traghettarlo nel futuro.

Libano, corruzione e fame: il Covid-19 rilancia le proteste

La crisi economica libanese da una settimana ha ripreso il sopravvento, aggravata da due mesi di lockdown per fermare il Covid-19 in un Paese dove persino l’elettricità pubblica è garantita solo poche ore al giorno e il sistema sanitario nazionale eroga a malapena i servizi di base. Nelle ultime settimane, la valuta si è schiantata, perdendo oltre la metà del suo valore dopo essere stata agganciata al dollaro dal 1997, con il conseguente aumento dei prezzi dei beni primari e dell’inflazione. L’epicentro delle nuove proteste è nel nord, a Tripoli, seconda città del paese, un tempo porto cruciale per l’import-export, da anni polveriera settaria tra sunniti e alawiti sostenuti dalla Siria, ora luogo disseminato di disoccupati, universitari senza futuro e anziani costretti a rovistare nella spazzatura e a vivere nei sottoscala, come il maestro 65enne Fares. Non potendo più insegnare a causa del Parkinson, e non potendo più pagare l’affitto, si è trovato senza un tetto.

“Qui in Libano la pensione di anzianità non esiste. Si può solo farsela privatamente. Ma io non potevo. Adesso che i miei pochi risparmi si sono più che dimezzati con la svalutazione, se voglio mangiare non posso pagare la retta. Per l’estate starò all’aperto”, dice alle telecamere con la voce rotta dalla disperazione. Se lo scorso ottobre i manifestanti chiedevano che “tutti ma proprio tutti” i politici e i membri del governo rassegnassero le dimissioni a favore di tecnici in grado di mettere il Libano sulla strada dello sviluppo strutturale e di combattere la corruzione endemica, questa volta la gente vuole che il neo primo ministro, Hassan Diab – successore del dimissionario Saad Hariri – imponga alle banche di riaprire l’erogazione di valuta locale, da mesi contingentata, e di permettere anche il trasferimento e ritiro di valuta straniera. Per questo il bersaglio dei manifestanti a Tripoli, ma anche a Beirut, così come a Sidone e in altre città, sono gli istituti di credito presi d’assalto con spranghe e molotov. Cinque giorni fa un giovane manifestante è stato ucciso da una pallottola sparata da un soldato, dopo che l’esercito è stato mandato a presidiare le strade di Tripoli. Le autorità militari, ovviamente, negano. “Si immagini come si sentirebbe se fosse disoccupato ma avesse un piccolo gruzzolo di denaro in banca e però non potesse accedervi per dar da mangiare ai figli, pagare la scuola, il medico. Per questo sono in strada a rischiare la vita. Qui il ceto medio è stato ucciso dalla corruzione e dalla casta politica, dalle famiglie che ci governano dall’indipendenza”, ci dice in videotelefonata Sarah, 48 anni, commerciante di abbigliamento. A marzo, per la prima volta nella storia, il governo non è riuscito a rimborsare i propri debiti ai possessori di Eurobond locali e internazionali. La scorsa settimana, il governo di Diab ha presentato il tanto atteso piano quinquennale di salvataggio con cui avrebbe cercato assistenza finanziaria presso il Fondo Monetario Internazionale.

Hassan Nasrallah, il leader del potente partito sciita Hezbollah, creato e finanziato dall’Iran, ha appoggiato la mossa di Diab, ma non vuole che sia l’Fmi a dettare le condizioni. È proprio l’ascesa al vertice del Libano di Hezbollah, oltre alle mancate riforme economiche e anti-corruzione ad aver spinto i donatori internazionali, come la Francia a sospendere il versamento di 11 miliardi di dollari stanziati nel 2018.