Maduro sventa “la baia dei Porcellini”

Ci sono anche due cittadini statunitensi – nomi in codice “Aaron” e “Luke” – rispettivamente figlio del generale Raúl Isaías Baduel, Adolfo Baduel, e Juvenal Sequea, un ex funzionario che partecipò al fallito sollevamento nazionale del 30 aprile 2019, guidato da Guaidó, tra i mercenari arrestati dall’esercito venezuelano e parte di un gruppo che il fine settimana scorso ha tentato, secondo il governo, “un’incursione marittima” nel Paese per destabilizzarlo. Un tentato golpe, come l’ha definito il presidente Nicolas Maduro in un lungo discorso andato in onda ieri sul canale televisivo nazionale, con “l’obiettivo finale, di uccidere il presidente”. Otto “mercenari” sono morti in una prima operazione annunciata dal ministro degli Interni, Néstor Revelor domenica, e altri otto tra cui i due cittadini statunitensi sono stati “catturati” mentre tentavano di entrare in Venezuela via Chuao anche “grazie all’aiuto del popolo pescatore”, ha enfatizzato Revelor. Una “Baia dei porci” in miniatura rispetto a quella cubana, denominata “Operazione Gedeon”, preparata, secondo Maduro, con la consulenza del SilverCorp Usa che avrebbe tentato di riprodurre quella ordinata 60 anni da fa dal presidente J.F.K. Kennedy contro Fidel Castro.

A tradire il Venezuela sarebbe stata la Colombia che, secondo il leader chavista avrebbe offerto il territorio per l’addestramento dei “mercenari”, contro cui Maduro ha dispiegato 25mila riservisti. “Sapevamo tutto, anche quello che avevano mangiato e cosa avevano bevuto, chi li ha finanziati, sappiamo che il governo Usa ha designato questa come un’operazione della Dea”, ha svelato il presidente in tv mostrando le immagini dei due americani catturati e attaccando Washington: “Gli Usa ancora non hanno detto nulla sull’incursione terroristica. Sono ex membri forze speciali Usa, Dipartimento di Stato chieda loro rilascio”. Ma il presidente Trump si è limitato a dire che gli arrestati non hanno nulla a che fare con il governo. Contro una nuova escalation in Venezuela ha fatto appello il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Intanto a Caracas c’è chi sostiene che Maduro abbia ingigantito l’operazione Gedeon per distrarre dalla morte il Primo maggio di 47 detenuti nella rivolta del carcere di Guanare. Un caso che il governo non ha ancora chiarito. I familiari dei morti denunciano l’impossibilità del riconoscimento fisico dei cadaveri e la natura ancora ignota delle ferite riportate.

Epidemia, disastro inglese: primato di morti in Europa

L’inossidabile eccezionalismo britannico stavolta ha prodotto il primato peggiore: da ieri il Regno Unito è il Paese europeo con più vittime da Covid-19.

32.313 sono i morti secondo le cifre ufficiali. Poi ci sono le stime: per il Financial Times siamo già a 53.800. Il governo è sempre sulla linea, surreale, dell’autocelebrazione.

Ecco alcuni degli slogan. Il primo: abbiamo evitato che il servizio sanitario venisse travolto. Vero: al contrario di quelli lombardi qui gli ospedali hanno sempre fatto fronte all’emergenza, e ora il picco dei contagi sembra passato e i nuovi ricoveri sono in calo.

Addirittura il Nightingale di Londra, l’ospedale da campo costruito a tempo di record nel centro congressi Excel per ospitare fino a 4.000 malati, non ne ha mai accolti più di poche decine e chiuderà la prossima settimana. A marzo, la sua realizzazione aveva un duplice scopo: la necessità di arrivare pronti ad accogliere senza affanni la prevista ondata di malati, e quella di puntellare, con l’esaltazione dello spirito britannico, un governo messo all’angolo da una gestione dell’emergenza pasticciata e tardiva.

Oggi il Nightingale sembra un altro errore di valutazione, l’ennesimo spreco di risorse che sarebbe stato meglio destinare ad altro, per esempio a proteggere meglio i medici e infermieri morti per carenza di Dpi, le misure di protezione di cui i sanitari in prima linea sono rimasti sprovvisti.

E poi, appunto, serpeggia il dubbio che il sistema sanitario sarebbe stato travolto, se solo avesse accolto tutti quelli che sono morti altrove.

Secondo slogan: abbiamo mantenuto la promessa di completare 100 mila tamponi al giorno entro fine aprile. Impegno irrealistico, preso dal ministro della Salute Matt Hancock in un momento di estrema difficoltà ai primi di aprile. Man mano che passavano le settimane, mantenerlo è diventato il feticcio indispensabile a proteggere il proprio futuro politico dall’ennesima figuraccia. E infatti Hancock si è abbassato a trucchetti da prestigiatore: prima far mandare a 124 mila iscritti al partito conservatore una email con il link per prenotare il test. Poi imporre al suo capo di gabinetto un aggiustamento delle modalità di conteggio dei tamponi: da “realizzati” a “prenotati o inviati per posta”. E voilà, i test diventano magicamente 100 mila, anzi no, addirittura 122 mila al giorno. Obiettivo raggiunto e superato! Il giorno dopo erano di nuovo 73 mila.

E via così, in un continuo scontro fra la realtà e la sua rappresentazione ufficiale, con il rischio di essere accusati di disfattismo, sia da Whitehall che dal pubblico, se si osa mettere in dubbio la strategia. Alcuni media sposano la propaganda. Altri, anche qualche tabloid, contrattaccano con inchieste e pressioni. Il Guardian per esempio, che ha messo in dubbio la reale indipendenza del Sage, segretissimo comitato scientifico che consiglia l’esecutivo sull’epidemia, rivelando che alle sue riunioni erano presenti il consigliere speciale di Boris Johnson, Dominic Cummings, e un paio di suoi collaboratori legati a doppio filo a società private statunitensi nel settore della raccolta dati.

Alla fine, il governo è stato costretto pubblicare la lista dei partecipanti, con un paio di vistose omissioni e non fra gli scienziati. I vertici del Sage hanno preso le distanze rispondendo così all’altro mantra dell’esecutivo, ripetuto a ogni conferenza stampa, di agire secondo la scienza: sì, noi forniamo il parere scientifico, però poi la politica decide per conto suo. E siccome perfino gli esperti, su una malattia ancora poco conosciuta, hanno opinioni varie e contraddittorie, il precedente consigliere scientifico capo del governo, David King, ha creato un Sage alternativo e “autenticamente indipendente”, che si è riunito lunedì.

La domanda latente la esplicita il Financial Times, non esattamente un quotidiano anti-establishment: è accettabile un governo disonesto in un frangente come questo?

I ricercatori italiani se la passavano già male, ora ci si mette pure il Covid

Nei laboratori non si può accedere o, al massimo, lo si può fare solo in pochi alla volta. È quasi impossibile poi portare avanti indagini sul campo. Visto quello che stiamo vivendo, per il mondo della ricerca pubblica dovrebbe essere il momento della riscossa. Ma non è così e lo si evince dal racconto di chi opera negli atenei italiani, dove le attività – quando non del tutto bloccate – sono state rese molto più difficili proprio per le misure di distanziamento sociale. Una situazione che, tra l’altro, aggiunge nuova precarietà a quella (non poca) di prima e penalizza gli studiosi.

Un gruppo di ricercatori, che ha già raggiunto oltre cento adesioni, ha lanciato l’iniziativa “UniCovid 2020 – La ricerca nella pandemia” per denunciare quello che sta succedendo. Oggi alle 18 ne parleranno durante un’assemblea telematica. Va detto che il problema non nasce col coronavirus: le ultime riforme, in particolare la Gelmini, hanno trasformato la carriera accademica in un percorso frammentato da mille interruzioni. Tra dottorati, assegni e contratti a tempo determinato, può arrivare a superare abbondantemente i dieci anni. L’emergenza sanitaria, imponendo precauzioni, ha solo aggravato il problema. Prendiamo l’esempio di chi fa esperimenti nei laboratori che fino a lunedì sono rimasti chiusi e ora sono stati riaperti con ingressi contingentati. In tutto questo tempo non hanno potuto condurre ricerche e produrre pubblicazioni, da ora in poi potranno rimettersi in moto ma con una marcia molto più lenta. Lo stesso per chi svolge inchieste “sul campo” e le ha dovute interrompere per rispettare l’obbligo di restare a casa. Tutti questi studiosi si ritroveranno con un buco nel proprio curriculum. Un’ipotesi – suggerisce qualcuno di loro – sarebbe prolungare la durata degli assegni di ricerca, per permettere al titolare di portarla a termine, o sospenderli nel periodo di inattività forzata ma coprendo il “buco” con un ammortizzatore sociale. L’Università di Padova ha previsto la possibilità di sospendere gli assegni. Ma nella fase di stop significa lasciare senza reddito il ricercatore.

Poi ci sarà un altro effetto: come detto, oggi uno studioso è costretto a passare da un tipo di contratto all’altro attraverso una corsa a ostacoli. Con i bandi rallentati a causa del Covid-19, gli intervalli tra un contratto e l’altro si allungheranno. Il ministro Gaetano Manfredi ha promesso l’assunzione di 1.600 ricercatori entro la fine dell’anno e ha più volte parlato del piano di arruolarne 10 mila in cinque anni. Questo nelle università. Negli enti di ricerca come il Cnr, invece, ancora non sono state completate le stabilizzazioni dei precari storici previste dalla legge Madia del 2017.

Ripensare i trasporti nell’era del Coronavirus

Partiamo da uno scenario verosimile, cioè escludiamo uno scenario super ottimistico di un vaccino risolutore dei problemi sanitari legati al Covid-19 a breve che ci tolga ogni vincolo (che ovviamente speriamo arrivi).

In questo quadro, è evidente che i modi di trasporto collettivi (ferrovie, autobus, aerei, metropolitane) saranno intrinsecamente più pericolosi dei modi individuali, a due o a quattro ruote (per l’infezione, ma rimarranno molto meno pericolosi in termini di incidentalità).

Per i trasporti urbani e suburbani, diluire le punte orarie e giornaliere per lavoratori e studenti sarebbe la soluzione non solo meno costosa (il dimensionamento di mezzi e personale dei servizi è basato sulle punte “storiche”, alle 9 e alle 5 su 5 giorni), ma anche quella che potrebbe risultare efficace anche in un più lungo periodo, sia per i costi sia perché gioverebbe anche ai fenomeni di congestione (e di inquinamento relativo) dei mezzi individuali.

Per il segmento dei viaggi di media e lunga distanza (treni, bus e aerei) invece saranno possibili solo distanziamenti, mascherine e controlli della temperatura. I costi unitari dei servizi saliranno per tutti questi modi di trasporto, ma lo Stato non avrà molte risorse per tenere basse le tariffe di alcuni di essi, come ha fatto finora. Altre priorità saranno più pressanti. Purtroppo, inoltre, se vi sarà un calo rilevante del reddito e dell’occupazione, anche la domanda di spostamenti si ridurrà.

Ma due fenomeni positivi di calo relativo della domanda forse rimarranno: il telelavoro e il telecommercio. Il telelavoro ridurrà, a parità di produzione, costi individuali e ambientali, e disagi per il tempo perso in pendolarità. Il telecommercio, a parità di volumi richiederà meno viaggi (un furgone in un giro di consegne fa molti km in meno di corrispondenti acquisti individuali), e inoltre accrescerà la concorrenza riducendo i “monopoli spaziali” dei produttori.

Certo colpisce duramente la piccola distribuzione, ma anche quella grande, con dolorose conseguenze occupazionali.

È prevedibile un calo della domanda passeggeri ferroviaria di lunga distanza, e del trasporto merci, quest’ultimo dovuto agli effetti combinati di sovranismo commerciale (già visibili prima del virus, vedi i dazi di Trump), e di calo del Pil, parametro al cui variare la domanda di trasporto varia con forte elasticità.

Questo calo dovrebbe portare a una radicale revisione della priorità di “grandi infrastrutture”, molte delle quali già motivate da previsioni assolutamente irrealistiche di crescita della domanda. Appare a questo proposito stupefacente che il governo in carica si appresti ad accelerarne la realizzazione, e per giunta senza gare, per evitare fastidiosi concorrenti esteri.

Si è già accennato alla verosimile crescita di atteggiamenti protezionistici, che sono un fenomeno “contagioso” non meno del virus, nel senso che ovviamente tendono a essere puntualmente reciprocati. E purtroppo tendono anche a essere accompagnati all’interno dei Paesi da spinte anti-concorrenziali, favorite spesso da collusioni tra industrie protette e organizzazioni del lavoro.

Nel settore dei trasporti questo era un fenomeno già pienamente in corso, con la costituzione della nuova IRI intorno alle ferrovie, avvenuta con l’estensione al settore degli autobus, poi a quello stradale, poi a quello del trasporto aereo nazionalizzato, poi delle ferrovie minori, ma anche al settore delle metropolitane. Ovviamente un assetto di questo tipo è fortemente anticoncorrenziale, a motivo del peso politico che il gruppo esprime (clout nel linguaggio regolatorio). Ora, sembra che l’antieuropeismo sovranista faccia dimenticare che una delle motivazioni fondamentali della costituzione dell’Unione europea è l’accrescimento della concorrenza, e la concorrenza è il fattore che rende più tollerabile il capitalismo e lo rende capace di far crescere il benessere collettivo.

Infine, in un più lungo periodo, vale la pena di configurare uno scenario (verosimile) basato su una mobilità individuale crescente, più sicura in termini di rischi epidemici, e su veicoli non inquinanti: già oggi un veicolo stradale attuale inquina un decimo di venti anni fa, e la tendenza è in accelerazione. Ma sarà anche basata su veicoli meno costosi (il cui costo d’uso oggi è soprattutto legato alla tassazione dei combustibili fossili), e ricordando che un veicolo elettrico ha un terzo di parti mobili rispetto a uno a combustione interna, tanto che Volkswagen prevede una grave eccedenza di manodopera per questa ragione.

Questo scenario è tuttavia a rischio di gravi fenomeni di congestione, per cui certo deve connettersi con una maggior dispersione territoriale delle residenze e dei luoghi di lavoro (come auspicata anche dall’architetto Stefano Boeri), con recupero di luoghi e di infrastrutture oggi in stato di semi abbandono. Occorre poi ricordare che efficienti politiche tariffarie, note come road pricing, per combattere la congestione (come quelli adottati con successo a Milano, Londra, Singapore ecc.), non faranno che rendere relativamente più appetibili localizzazioni decentrate, con un effetto sociale aggiunto di una riduzione importante della rendita urbana (costa meno risiedere in localizzazioni decentrate).

Appalti veloci anche con le leggi vigenti: arriva la guida dell’Anac

L’Anacla definisce una “Rassegna ragionata” ma in sostanza il vademecum di 13 pagine con le modalità di bandi e gare rapidi e agili in emergenza è soprattutto un modo per spiegare, a chi invoca un decreto che applichi il “modello Genova” su scala nazionale, che l’iter per procedere in emergenza e velocità e semplicità esiste già. Eche è previsto proprio in quel codice degli Appalti che tanto si vuole sospendere. Si va dalla riduzione dei termini per l’aggiudicazione di gara alla possibilità di ricorrere alla procedura negoziata senza pubblicazione del bando, che consente quindi di trattare direttamente con i potenziali contraenti e con un numero minimo di candidati. O, addirittura, permette di ricorrere all’affidamento diretto ad un operatore economico preselezionato se risulti essere l’unico in grado di consegnare le forniture necessarie. E ancora: l’esecuzione anticipata delle prestazioni qualora si rischiasse “un grave danno all’interesse pubblico, dalla perdita di finanziamenti comunitari all’ovviare a situazioni di pericolo per persone, animali o cose, per l’igiene e la salute pubblica e per il patrimonio storico, artistico e culturale. Senza contare le autocertifiazioni per i subappaltatori (con controlli ex post) e la modifica del contratto durante il periodo di efficacia in caso di “circostanze impreviste e imprevedibili (compresa la sopravvenienza di nuove disposizioni legislative o regolamentari o provvedimenti di autorità od enti preposti alla tutela di interessi rilevanti) a condizione che la modifica non alteri la natura generale del contratto”.

Cibo a domicilio, stangate le App sulla sicurezza anti-Covid dei rider

Altre due sonore batoste per i colossi del cibo a domicilio. Anche dopo aver ascoltato la difesa di Just Eat, il Tribunale di Firenze ha stabilito che la piattaforma ha il dovere di fornire ai rider mascherine, guanti, gel per le mani e prodotti alcolici per pulire gli zaini. Da un’indagine del nucleo ispettorato del lavoro dei carabinieri di Milano, inoltre, è emerso che Deliveroo e Glovo sono state carenti nel tutelare i lavoratori durante la pandemia, limitandosi a consegne sporadiche di dispositivi, senza inserire i fattorini nel “documento di valutazione dei rischi”.

Un mese fa, un decreto del Tribunale di Firenze ha ordinato a Just Eat di consegnare gli strumenti di protezione a un rider che aveva fatto ricorso assistito dalla Cgil e dagli avvocati De Marchis, Bidetti e Vacirca. Si trattava di un provvedimento d’urgenza emesso dal giudice prima di sentire le ragioni dell’azienda. Anche con il contraddittorio, però, le cose non sono cambiate: l’ordinanza conferma la decisione e smonta in toto la memoria difensiva di Just Eat. La piattaforma sosteneva di non essere tenuta a distribuire i prodotti poiché considera lavoratori autonomi gli addetti in bicicletta. Ha aggiunto di averlo comunque fatto (dopo la pronuncia del giudice), ma solo “volontariamente” e “in ottica socialmente responsabile”. Il Tribunale ha invece ripetuto, citando la legge approvata a fine 2019 e la sentenza della Cassazione di gennaio 2020, che ai rider spettano le tutele del lavoro dipendente, quindi le app hanno l’obbligo – non la facoltà – di fornire mascherine e gel.

L’indagine diretta dalla Procura di Milano, invece, ha appurato che Just Eat ha quantomeno adeguato il documento di valutazione dei rischi ricomprendendo i rider. A differenza di Glovo e Deliveroo, che invece hanno erogato dispositivi solo in modo sporadico e lasciando spesso al rider stesso la responsabilità di procurarseli. I militari hanno chiesto anche informazioni a UberEats, ma l’indirizzo di posta rilasciato è risultato inibito alla ricezione di email.

Adesso resuscita pure l’Alta velocità di Firenze

La firma sul contratto dovrebbe arrivare a giorni e poi, forse entro l’estate, potrebbero riprendere i lavori dopo due anni di stop. È un fulmine a ciel sereno quello che arriva da Roma: l’emergenza da Covid-19 non ferma le grandi opere e non lo farà nemmeno con il Tav di Firenze, bloccato al palo da anni a causa delle inchieste della magistratura, del fallimento delle aziende costruttrici e per le opposizioni politiche. Anzi, l’emergenza potrebbe dare al nuovo tunnel che sotto-attraverserà il capoluogo toscano e alla stazione Foster, un’accelerata improvvisa a cui pochi credevano.

A livello istituzionale, le bocche sono cucite e si resta sul vago: “Speriamo che i cantieri partano presto ma non sappiamo ancora niente, sicuramente entro l’anno” dice l’assessore regionale Vincenzo Ceccarelli. Ma che la ripartenza dei lavori in tempi brevi possa essere più concreta del previsto, lo rivela l’accordo di massima raggiunto a inizio aprile tra Rete Ferroviaria Italiana (Rfi) e i commissari di Condotte, il colosso in amministrazione straordinaria che prima aveva rilevato i lavori dal consorzio Nodavia e poi era entrata in crisi profonda. Come ha scritto anche Repubblica Firenze qualche giorno fa, con questo accordo Rfi acquista i rami dell’azienda legati a macchinari e dipendenti e poi li passerà a Ifr (Infrarail Firenze), la società fondata da Rfi per completare i lavori. A quanto risulta al Fatto, manca solo la firma e poi si potrà partire con i lavori di preparazione della talpa: d’altronde la manutenzione dei cantieri c’è già mentre per l’inizio degli scavi si andrà più in là, forse in autunno.

Una tempistica a cui non crede l’associazione ambientale Idra che a metà aprile ha ricevuto le controdeduzioni di Infrarail in cui tutte le parti sul progetto sono coniugate al futuro senza indicare date precise. “La soluzione in house senza appaltare ad altre società è sicuramente un passo avanti – dice al Fatto Girolamo Dell’Olio di Idra – ma manca ancora una Valutazione d’impatto ambientale alla stazione Foster e ci sono dubbi sulla destinazione delle terre di scavo per cui i tempi potrebbero essere più lunghi. A ogni modo noi non demorderemo, ci batteremo perché si faccia invece un dibattito pubblico: farla ripartire in questa emergenza non è una buona idea”.

Chi pena che le grandi opere siano bloccate dalla burocrazia dovrebbe studiare il caso del Tav di Firenze: ha un percorso travagliato da vent’anni e fino a oggi sono già stati spesi 800 milioni degli 1,6 miliardi totali solo per scavare (per un quarto) la grande vasca lunga 450 metri per 22 di profondità: i lavori per i due tunnel, la parte più rilevante, non sono ancora partiti. Negli anni i lavori si sono fermati a causa di ben tre inchieste ancora aperte (due a Firenze sulle terre di scavo e sull’assegnazione dell’appalto e una a Roma sulla prima fresa) e alla crisi delle imprese Coop Sette e Condotte. Nel 2013 le inchieste avevano coinvolto anche la politica: l’ex presidente della Regione Umbria Maria Rita Lorenzetti (Pd) era finita agli arresti domiciliari, mentre erano stati indagati i dirigenti del ministero delle Infrastrutture Ercole Incalza, vero ras delle grandi opere italiane, e Giuseppe Mele (poi prosciolti).

Poi c’è stato lo scontro politico col M5S, da sempre contrario all’opera, che ha fatto opposizione prima di doversi arrendere all’analisi costi-benefici della commissione guidata da Marco Ponti, che a novembre 2019 ha assegnato un valore positivo dell’opera: secondo i tecnici, col nuovo tunnel i viaggiatori da nord a sud risparmierebbero 15 minuti decongestionando la stazione di Santa Maria Novella. Rinunciare invece porterebbe una perdita pari a 333 milioni. A fine gennaio il ministro Paola De Micheli ha annunciato la riapertura del cantiere “entro l’autunno”.

Neanche il virus ferma il Tav Il ministero: “Andiamo avanti”

Che fine farà il Tav Torino-Lione, nell’Europa della crisi post-virus? I governi italiano e francese dovranno fare i conti con una fase difficile, in cui i costi del super-tunnel sotto le Alpi (9,6 miliardi) saranno difficilmente compensati dai benefici del traffico merci, già scarso ora e destinato a esserlo ancor di più nei prossimi anni. La nuova Commissione europea, che dovrebbe finanziare il 50 per cento dell’opera, non solo dovrà affrontare le conseguenze economiche continentali della pandemia, ma ha anche promesso una riconversione green della spesa europea.

In queste condizioni, il movimento No-Tav è convinto che il progetto del tunnel tra Italia e Francia sia destinato a svanire e finire nel nulla. Di tutt’altro avviso il ministero delle Infrastrutture italiano, secondo cui l’opera prosegue secondo i programmi. Tanto che Telt, la società pubblica impegnata nella costruzione del tunnel, controllata al 50 per cento dai governi di Italia e Francia, ribadisce che le gare d’appalto vanno avanti. Unica variazione: un ritardo di cinque settimane, concesse alle aziende come proroga in seguito all’emergenza sanitaria.

Avanti tutta anche per la Commissione europea, un cui portavoce risponde al Fatto che “la galleria di base Lione-Torino è un ottimo esempio di progetto europeo transfrontaliero. È importante non solo per la Francia e l’Italia, ma per l’Europa nel suo insieme. Unirà le regioni e rafforzerà la coesione economica e sociale in Europa. Come dimostrato dall’attuale pandemia di coronavirus, l’Europa ha assolutamente bisogno di infrastrutture transfrontaliere moderne e rispettose dell’ambiente che consentano un agevole scambio di merci”. Per questo la Commissione “ha accolto le richieste avanzate nel settembre 2019 da Parigi e Roma e il 17 aprile 2020 ha prorogato” fino al dicembre 2021 i finanziamenti che scadevano il 31 dicembre 2019. Sono solo 813 milioni, la metà dei quali già spesi in opere preliminari. E la nuova Commissione non ha ancora deciso i nuovi finanziamenti. Ma intanto Telt ha dato il via a gare per 3,3 miliardi.

Per il tratto francese del tunnel di base – tre lotti, 45 chilometri totali, valore 2,3 miliardi di euro – Telt nel dicembre 2019 ha inviato i capitolati di gara alle aziende che entro il 28 maggio 2019 avevano dichiarato interesse a partecipare ed erano state successivamente ritenute idonee. Queste ora stanno elaborando le offerte e le potranno consegnare entro fine maggio (invece che ad aprile, come era stato stabilito prima dello scoppio dell’epidemia). Riguardano i tre cantieri che dovranno realizzare l’intero tratto francese del tunnel, tra Saint-Jean-de-Maurienne e il confine italiano. A giugno la commissione giudicatrice comincerà a esaminare le offerte, per decidere i vincitori entro la fine del 2020.

Più incerti i tempi per il lotto italiano del tunnel di base – 12,5 chilometri, valore 1 miliardo di euro – per il quale si è conclusa a settembre 2019 la fase di presentazione delle candidature, avviata nel giugno 2019. Nei prossimi mesi, Telt invierà i capitolati d’appalto alle società giudicate idonee, queste presenteranno le loro offerte e infine la commissione di gara deciderà le assegnazioni, che potrebbero arrivare nel 2021. Sono un centinaio le imprese italiane, francesi e internazionali che hanno presentato la candidatura per i quattro lotti del tunnel.

Come saranno finanziati i cantieri? L’Italia, sulla base di un impegno di spesa contratto dal governo Monti nel 2013, pagherà lavori che sono in gran parte in territorio francese: si è impegnata a pagare il 58 per cento del tunnel di 57,5 chilometri, che però è per 45 chilometri – il 79 per cento – in territorio francese. La Francia finanzia di anno in anno la sua quota di lavori, attraverso l’agenzia governativa Afitf. E l’Europa? La precedente Commissione aveva promesso di alzare al 50 per cento il finanziamento dell’opera. La nuova Commissione conferma l’importanza del progetto, ma dovrà fare i conti con l’annunciato green deal europeo e, soprattutto, con i tempi cupi e le coperte corte dell’era post-pandemia.

Ecco le super detrazioni Lavori a costo zero per risollevare l’edilizia

Passa ancora una volta per le detrazioni fiscali la spinta al disastrato settore delle costruzioni. Con l’atteso decreto di maggio le aliquote per detrarre le spese per ecobonus, sismabonus e per l’installazione dei pannelli fotovoltaici arriveranno al 110% con la possibilità per le famiglie che fanno i lavori da luglio 2020 a dicembre 2021 di ricevere uno sconto in fattura del 100% e per le imprese che li eseguono di cedere questo credito alle banche, così da ottenere una liquidità immediata. La misura arriva su indicazione del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro (M5s). L’obiettivo è creare un meccanismo virtuoso in cui le famiglie possono effettuare lavori di ristrutturazione di fatto senza alcun esborso, le imprese lavorare di più e gli istituti di credito acquistare il credito d’imposta dalle aziende che hanno svolto i lavori per pagare meno tasse.

La misura. Quella delle detrazioni è una strada che da oltre un decennio è battuta da tutti i governi. I benefici sono evidenti: per questi sconti fiscali non c’è bisogno di una grande copertura fiscale nell’immediato. Non essendo strutturali, il loro costo ha un impatto immediato basso e si autofinanzia grazie al circolo virtuoso che innesta: nel caso dell’edilizia, un miliardo di sgravi fiscali genera un effetto moltiplicativo pari a circa 3,5 miliardi di euro nell’intera economia. Si stima che gli incentivi abbiano veicolato dal 1998 al 2019 investimenti per 321 miliardi di euro. La necessità di queste misure è chiara. Il settore dell’edilizia non si è mai ripreso totalmente dalla crisi del 2008: da allora c’è stata una diminuzione di 619 mila lavoratori, mentre si continuano a costruire meno case con il livello complessivo degli investimenti che è calato di oltre il 25% (da 186 miliardi del 2008 ai 139 del 2018) anche a causa della chiusura dei rubinetti delle banche sui mutui. Insomma, un settore che annaspa e che ora potrebbe avere la sua ciambella di salvataggio grazie a questo super bonus del 110% per gli interventi green e antisismici che, spiega il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro, consentirà “anche la salvaguardia dell’ambiente contribuendo alla ripresa economica, alla crescita occupazionale e all’aumento del Pil”.

Le tipologie. Tre gli interventi che rientrano nel maxi bonus del 110%. Si tratta, in particolare, di quelli per l’isolamento termico delle facciate e delle coperture dei palazzi fino a una spesa di 60mila euro moltiplicato per il numero delle unità immobiliari; degli interventi sulle parti comuni degli edifici, o su singoli edifici, per la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale esistenti con impianti centralizzati a pompa di calore, anche abbinati all’installazione degli impianti fotovoltaici, per una spesa non superiore a 30mila euro a unità immobiliare; degli interventi per la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale esistenti alimentati a gasolio con impianti a pompa di calore o caldaie a condensazione con efficienza energetica di classe almeno pari alla A per una spesa non superiore a 10mila a unità immobiliare. Ma se congiuntamente a un’opera strutturale di riqualificazione energetica o di messa in sicurezza degli edifici, una famiglia vuole fare anche altri lavori di riqualificazione energetica, restaurare la facciate esterna dell’edificio o installare un impianto fotovoltaico, tutti i lavori riceveranno la detrazione al 110%. Mentre per l’installazione degli impianti fotovoltaici il tetto di spesa è di 48mila euro. Sul fronte della tempistica, si starebbe anche ragionando sulla possibilità di applicare il bonus a chi ha avviato e sospeso i lavori a causa del lockdowm. A fare fede sarà la fattura dei lavori. E come al solito a vigilare sulla correttezza della procedura saranno l’Agenzia delle Entrate e l’Enea.

Il meccanismo. Se una famiglia effettuerà lavori sulla propria abitazione che ricadono all’interno degli interventi elencati per un importo pari a 1.000 euro, nella dichiarazione dei redditi riceverà una detrazione pari al 110% del costo dei lavori (in questo caso quindi 1.100 euro), che potrà usare in compensazione in 5 quote annuali di pari importo, contro i 10 anni previsti oggi. Se, ad esempio, si mette in sicurezza il proprio edificio da un punto di vista sismico con dei lavori di un valore complessivo pari a mille euro, si riceverà dallo Stato una detrazione pari a 1.100 euro. Le famiglie saranno così più che rimborsate della loro spesa iniziale.

Sconto in fattura. Ma, oltre all’aumento delle aliquote, le famiglie potranno anche ricevere, a fronte della cessione della detrazione fiscale, uno sconto in fattura pari al 100% del costo dei lavori da parte dell’impresa che ha effettuato la ristrutturazione. In pratica potranno fare importanti lavori di ristrutturazione senza alcun esborso: basterà pagare l’impresa che ha svolto i lavori cedendogli la detrazione fiscale. Dal canto loro le imprese potranno utilizzare il credito d’imposta in compensazione sempre in 5 quote annuali oppure potranno cederlo a terzi per avere subito indietro i soldi. Dopo la prima cessione del credito (dalla famiglia all’impresa tramite sconto in fattura), l’impresa potrà infatti cedere a sua volta il credito alle banche (una pratica fino a oggi vietata) a un prezzo sufficientemente alto per coprire per intero il costo dei lavori. In questo caso è richiesta la stipula di una polizza a copertura del rischio di eventi calamitosi che potrà essere detratta al 90%.

Il meccanismo ha il benestare del governo, ora serve che venga tolto lo stallo sul decreto maggio.

Dr Messina e Mr Cairo i due volti opposti di un sistema infetto

L’allarme più secco è dell’ex presidente del Consiglio, Enrico Letta: “La nostra classe dirigente non sembra avere la consapevolezza del disastro che ci si prepara. L’immagine davanti ai nostri occhi è quella dell’abisso che ci può inghiottire”. Una frattura profonda divide quel che resta della borghesia italiana.

Da una parte ci sono gli spaventati, e il loro uomo simbolo è Carlo Messina, il banchiere di Intesa Sanpaolo. Da settimane chiede di cacciare i soldi a chi li ha, cioè ai ricchi. Il suo ragionamento sta in piedi senza bisogno di supporti etici: chi comanda in genere fa pagare il prezzo delle crisi a chi sta sotto, cioè ai più poveri; se però il problema è così grosso che spolpare i poveri non basta, meglio che i ricchi facciano un piccolo sacrificio subito per non farne uno enorme dopo.

Secondo Messina i capitalisti nostrani, di cui lui come banchiere sa tutto, “spesso con notevole ricchezza accumulata in Italia o all’estero, dovrebbero lasciare le garanzie di Stato ai settori deboli e rispondere a un altro imperativo morale. È l’ora di far tornare i loro soldi nelle aziende”. Insomma, chi non ne ha bisogno non chieda aiuto allo Stato, e anzi, per evitare una patrimoniale, compri titoli di Stato prima che l’Italia vada in default.

Il volto politico degli spaventati è quello di Pier Luigi Bersani che denuncia l’autolesionismo dei furbi: “Possibile che in Italia solo il 6% dei contribuenti dichiarano più di 50 mila euro? Questi dati li leggono anche in Germania e in Olanda e ricavano una semplice conclusione: che gli italiani non vogliono tirar fuori i soldi che hanno”. La linea degli spaventati è che lo Stato deve spendere molto per salvare l’economia (le famose politiche keynesiane) e per sfamare chi non ce la fa. Ma chi i soldi li ha deve contribuire perché pagare tutto con nuovo debito pubblico è impossibile.

Alla parte opposta ci sono quelli che non si rendono conto. E che pensano anche stavolta, per inveterata abitudine, di poter trarre profitto dalla situazione. Il frontman è Urbano Cairo, editore del Corriere della Sera e di La7, l’uomo che all’inizio della crisi Covid si produsse nel celebre video in cui incitava i suoi venditori di pubblicità a vedere nella catastrofe spazio per grandi affari. Di quello show si è poi sostanzialmente scusato, ma la misura della sua responsabilità sociale l’ha data con i prepensionamenti. Il 5 febbraio, quando già si parlava di Covid, ha rivolto al ministero del Lavoro la seguente richiesta: siccome nei primi 9 mesi del 2019 il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport hanno perso 20 milioni di ricavi, pari al 6 e rotti per cento, tanto che per la Rcs i profitti del 2019 sono stati di soli 68 milioni di euro contro gli 85 del 2018; e questo nonostante l’indefesso impegno del manager (Cairo) che è stato infatti premiato dall’azionista (Cairo) con uno stipendio di 2,5 milioni, in aumento del 6 e rotti per cento (per fare pendant) rispetto al 2018; tutto ciò visto e considerato, per migliorare le prospettive dei dividendi futuri, si prepensionano 38 dei 353 giornalisti del Corriere, naturalmente a spese dello Stato. Una decina di milioni che il governo darà a una società che fa utili mentre non sa come pagare la cassa in deroga o il bonus di 600 euro ai professionisti alla fame.

Cairo incarna quella filosofia della borghesia miserabile riassunta nell’antico proverbio “chi non piange non succhia”. Un anno e mezzo fa si è fatto convincere dal suo avvocato Sergio Erede a fare causa al fondo americano Blackstone che nel 2013 aveva comprato dalla Rcs la storica sede milanese di via Solferino, secondo Cairo a prezzo vile. Dicono le malelingue che l’obiettivo very italian fosse di scucire un po’ di soldi per togliersi la scocciatura. Invece Blackstone – che stava per vendere il palazzo e ha visto scappare l’acquirente – l’ha presa male e ha fatto causa a sua volta a Rcs chiedendo 600 milioni. Nella comunità finanziaria di Milano è quasi unanime la convinzione che Cairo perderà e che l’unica via d’uscita perché Rcs non salti è un accordo bonario tra Intesa, principale creditore di Rcs e a suo tempo finanziatrice della scalata di Cairo, e Blackstone, previo ovviamente cambio della guardia in via Solferino. Ma Cairo non vuole cedere, mentre intorno a lui insigni imprenditori, pensosi più degli affari loro che della guerra al Covid, stanno cercando di sfilargli l’azienda.

La brigata di quelli che non si rendono conto (o fingono di) ha trovato il suo profeta politico in Matteo Salvini che domenica scorsa, in un’articolessa sul Sole 24 Ore che sembrava scritta da un economista, con parole arcane tra cui reshoring, ha proposto la ricetta del Bengodi: opere pubbliche e soldi pubblici alle aziende e alla povera gente, cioè Keynes a manetta. Ma anche condono fiscale e condono edilizio e riduzione della pressione fiscale, cioè il contrario della politica keynesiana: è la vecchia leggenda reaganiana della curva di Laffer, cioè tu abbassi le tasse e l’economia ne trae tale slancio che il gettito fiscale aumenta. Nessuno però aveva mai proposto di abbassare le tasse e aumentare la spesa. La ricetta di Salvini è che sarà la Bce a stampare moneta e a darla allo Stato italiano, che così potrà pagare tutto, anche i prepensionamenti di Cairo.