“Siamo artisti, non potete trattarci da giullari”

“Continuo a stare a casa”. Ancora? “Sì, e sono due mesi e mezzo”. Stanca? “In realtà non me ne frega nulla: ho davanti il lago e dietro la montagna. I problemi sono ben altri”. Pratica, Katia Ricciarelli. Anche risoluta. E non trattiene una certa stizza, per non cadere in altri termini, rispetto al suo mondo culturale e professionale.

Cosa le manca?

Il lavoro. Senza lavoro mi rompo le scatole; (silenzio) mi è saltato pure lo spettacolo all’Arena di Verona, rimandato al 2021 (altro silenzio).

E…

Sto seriamente riflettendo sulla necessità di mettere in campo qualcosa di serio…

Nello specifico?

Stiamo abbandonando un mondo che ci appartiene. Un esempio? Dal 1600 il Melodramma è una delle nostre vetrine, dei grandi richiami del made in Italy, eppure si sta sgretolando tutto.

Cioè?

In questa fase le persone ritengono gli artisti uguali a dei giullari, mentre il nostro è comunque un mestiere. Un lavoro.

Eppure?

Siamo dimenticati da tutti; quando si parla di “teatro” si sottintende sempre e solo la prosa; (cambia tono) avete idea di quante persone lavorano intorno al Melodramma?

Tante…

Di più, e parliamo di eccellenze mondiali. Ora in tanti mi chiamano, disperati.

E le dicono?

Ci confrontiamo, perché in questa fase tutti ci siamo guardati allo specchio.

Cosa ha scoperto?

(Ride) Quanto sono cojona, potevo impegnarmi in un altro mestiere.

Esagerata.

Non parlo per me, sono di un’altra generazione, ma i nostri giovani già prima non venivano pagati, figurarsi ora.

Quindi?

Trovo un affronto pure i proclami della Scala.

Che succede?

Se lo permettono perché sono La Scala, senza pensare a tutti gli altri teatri che non possono immaginare nulla.

Cosa ha scoperto di sé in questo periodo?

L’acqua fresca; (ride) no, ho capito che siamo tutti con il culo a terra, e allora adesso ci vuole passione e umiltà e non ostentare nulla.

Giammai.

Sarebbe fondamentale proteggere i giovani italiani.

Esempio.

Basta con i cantanti stranieri, puntiamo sulla nostra storia (altro silenzio).

A cosa pensa?

Che tali parole romperanno le scatole a qualcuno, ma non importa.

In questi mesi ha avuto paura?

Sempre, non voglio morire per uno stupido virus; poi uno può anche uscire: il problema è non sapere dov’è questo figlio di… (e si censura).

Un lato positivo.

Ieri è venuta a trovarmi la vicina, mi ha portato una fetta di torta. In tanti anni che abito qui, non ci eravamo mai parlate. Ed è stato molto bello.

@A_Ferrucci

Tra forbici e fasce, abbiamo tutti un sogno: il barbiere

Nel periodo di reclusione forzata ci avete raccontando le vostre giornate, tra nuove abitudini, prove di resistenza e sforzi di fantasia. Vi ringraziamo: le vostre parole sono la conferma che il Fatto non è solo un giornale, ma una comunità viva. Adesso però ci piacerebbe che condivideste con noi anche questi giorni di parziale rientro alla normalità, tra persone che tornano al lavoro e piccole libertà che ci si può finalmente concedere. Qual è stata la prima cosa che avete fatto dopo il 4 maggio? Siete riusciti a incontrarvi con una persona cara? Vi aspettiamo sempre all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it.

 

Le prime gioie: mamma, papà e il caffè al bar

Fatto visita ai miei genitori, che non vedevo da due mesi, ma, strada facendo, la prima cosa che ho fatto è prendere un caffè nel mio bar preferito.

 

Prima o poi pure i capelli rivedranno la luce

Il cane, dopo un’iniziale contentezza di vederla a casa, si era disinteressato di lei spiaggiata sul divano. Usciva per rifornirsi portando a spalla una di quelle borse telate che indicavano agli altri a quale tribù di supermercato apparteneva. Arrivava e si metteva in fila, impegnata a combattere con la mascherina che le appannava gli occhiali e con gli occhiali che si impigliavano con la mascherina. Scrutava le donne in fila: alcune erano curate e carine. Avrebbe voluto fare qualcosa per i capelli: il colore aveva cominciato a ritirarsi piano piano, lasciando delle vaste zone bianche. Non poteva essere tradita così dai suoi capelli. Alla fine era dovuta ricorrere ad una fascia, che nella sua intenzione doveva somigliare a quella indossata nel quadro “La ragazza dall’orecchino di perla”. In realtà sembrava esattamente quello che era: una benda che copriva un disastro. Fu il giorno dopo che incontrò il suo parrucchiere, ricordava che lo aveva chiamato per nome diverse volte come in un’invocazione. Con la speranza che potesse fare una magia lì sul marciapiede… magari un flaconcino di tinta, una spazzola e un phon… Niente. Lui l’aveva guardata comprensivo e le aveva allungato un bigliettino con un numero di telefono: “Chiama presto, abbiamo liste di attesa lunghissime”. Tristezza, mista a speranza: non sapeva quando, ma i suoi capelli avrebbero visto la luce!

 

Mi arrangio come posso, ma sembro Maga Magò…

Lo so che il problema del parrucchiere/barbiere non è prioritario, ma un po’ di pensieri li dà. A casa nostra, per mio marito, da parecchi anni, provvedo io. È uno di poche pretese e sempre meno capelli, quindi gioco facile! Quando nostro figlio, che ha una capigliatura tipo Renga, mi ha chiesto una spuntatina, ho risposto che ci vorrebbe un decespugliatore! Poi, armata di forbici, pettine e pazienza, mi sono accinta all’opera. Risultato: per fortuna i riccioli perdonano molto! I miei capelli invece assomigliano sempre più a quelli di Maga Magò!

Al Tesoro il suk delle nomine senza legge

Le peggiori scelte della politica sono sempre precedute dai segni premonitori delle burocrazie. La partita delle nomine nelle grandi partecipate è un esempio di scuola. Tutto si è deciso in un suk partitico tenuto in due giornate di metà aprile. Già due mesi prima, però, al Tesoro guidato dal ministro Roberto Gualtieri avevano deciso di modificare la direttiva che regola l’intera procedura. Il Fatto ne aveva parlato a febbraio. La principale novità è l’inserimento dell’autocertificazione che i candidati ai consigli di amministrazione devono inviare al ministero per dimostrare “la sussistenza dei requisiti soggettivi e di onorabilità”, cioè l’esistenza di potenziali conflitti di interessi o pendenze giudiziarie. La direttiva è stata pubblicata il 14 aprile senza clamore. La precedente, firmata da Pier Carlo Padoan, prevedeva almeno che la valutazione spettasse agli uffici del Tesoro e non agli interessati.

I funzionari ministeriali avevano dunque capito che cosa stava per accadere. Da quel che risulta, non è stata fatta neanche una verifica a campione sulle autocertificazioni. Solo così si spiegano alcune scelte. Non c’è solo la riconferma all’Eni di Claudio Descalzi, imputato per corruzione internazionale e indagato per gli affari della moglie con l’azienda che guida. Nel Cda del Montepaschi è finito Marco Bassilichi, imprenditore fiorentino storico fornitore della banca. In Enel è arrivata Costanza Esclapon, comunicatrice con una lunga carriera accanto a Luigi Gubitosi di Tim, che deve negoziare con Enel la fusione con Open Fiber. In Leonardo ha trovato posto Carmine America, compagno di classe di Luigi Di Maio con il suocero fornitore di Leonardo. Si potrebbe continuare a lungo. E pensare che nel 2013 la direttiva Saccomanni, eliminata da Padoan, impose l’ineleggibilità perfino in caso di rinvio a giudizio o condanna di primo grado.

Stavolta, il Tesoro azionista e i “cacciatori di teste” non hanno voluto neanche fingere di valutare i candidati. E ciascuno ha garantito per sè.

Breve apologo su costo (ed etica) delle mascherine

La prima giornata di fase due l’abbiamo utilizzata per fare un esperimento, di cui rendiamo conto ai lettori qui. Oggetto del test sono mascherine e guanti monouso, i dispositivi di protezione individuale necessari a Milano per uscire e prendere mezzi pubblici. Per quanto riguarda le note metodologiche si sappia che la ricerca si è svolta in centro, in un raggio di cinque chilometri e sono stati sondati tre negozi di ferramenta, quattro supermercati e sei farmacie. Da marzo a oggi avevamo fatto una piccola scorta di mascherine per andare al supermercato: per la precisione erano del tipo chirurgico, quelle altruiste, in confezioni da cinque, vendute prima a 10 euro, nelle ultime due settimane a 8. Per avere il privilegio di acquistare a 2 euro una fascetta di garza che ante-virus costava più o meno 40 centesimi, ci siamo messi in fila. Per tre settimane si è potuta acquistare una sola confezione alla volta. Una decina di giorni fa sono arrivate anche le Fpp2, filtranti e dunque anche un po’ egoiste, al modico prezzo di 6,50 euro cadauna. Da lunedì però, stando almeno alle rassicurazioni del commissario straordinario Arcuri, le mascherine chirurgiche si sarebbero dovute poter acquistare a un prezzo calmierato, cioè 50 centesimi. Noi siamo stati sfortunati: non le abbiamo trovate. In due farmacie nemmeno c’è stato bisogno di entrare: un apposito cartello avvisava che a 50 centesimi le mascherine non erano disponibili. Vade retro. All’ultima farmacia, la più grande, abbiamo chiesto anche i guanti monouso. Non c’erano, ma forse sarebbero arrivati il giorno dopo. Pia illusione: anche ieri niente guanti. Si trattava comunque di monouso da dentista in lattice verde e il costo si aggirava tra i 12 e i 15 euro. Però, precisazione d’obbligo, avevano all’interno l’aloe vera per non rovinare le pelle. Di mascherine a 50 centesimi nemmeno l’ombra, in compenso erano arrivate fresche fresche le monouso in versione deluxe: lavabili e riutilizzabili molte volte, per la modica cifra di 12,90 euro cadauna. Prima del lockdown i guanti (senza aloe, né vera né finta va detto) costavano 2,90 euro. Ma al supermercato (nei quattro visitati) da settimane non ce n’è ombra. Gli ultimi li abbiamo acquistati in una farmacia, dopo Pasqua, al prezzo di 15 euro (senza aloe). Il farmacista, consegnando lo scontrino da dietro il plexiglass, aveva detto imbarazzato: “Mi vergogno a venderli a questo prezzo”.

L’esperimento è finito. La buona notizia è che, rispetto alle prime settimane, almeno le mascherine si trovano (i guanti, come detto, no). Quella molto brutta è che in un momento di gravissima difficoltà economica – in cui le persone si mettono in fila davanti al monte di pietà per impegnare la fede come durante una guerra – siano sempre i più poveri a essere messi in pericolo. Perché è chiaro che con poco denaro a disposizione si sceglie di mangiare e non di spendere 15 euro per i guanti o 10 per una confezione di cinque mascherine. È una questione etica: può lo Stato consentire a questo strozzinaggio? Secondo noi no, specie se quello della mascherina è un obbligo imposto. Nella prima fase dell’emergenza alcuni economisti sostenevano che i prezzi, già stratosferici delle mascherine, fossero aumentati correttamente: così le avrebbero comprate solo quelli che ne avevano bisogno. Era una fesseria, evidentemente, visto che subito dopo è diventata chiara la funzione “sociale” della mascherina. L’idea è che il mercato è intelligente e fa il prezzo giusto. Quando c’è di mezzo la salute pubblica i mercanti dovrebbero levarsi dal tempio. Ma soprattutto: questa crisi ha denudato molti re, idolatrati dai più. Il mercato è uno di questi. Il modello non funziona più: se non viene corretto, e in fretta, andrà in crash.

Da Trump alla Lega, trovato il colpevole: “Hanno stati i cinesi”

Guarda a volte come succedono le disgrazie. La nostra piccola geopolitica quotidiana, fino a ieri relegata alle dispute sui confini del quartiere (sarò a meno di duecento metri da casa? Ho con me il salvacondotto autocertificante?) si allarga di colpo alle questioni planetarie. La sciura Pina in coda dal macellaio non discetta più soltanto di mascherine e disinfettanti, ma si chiede (e lo chiede sgomenta alla sciura davanti a lei) se per caso la Cina sia stata molto cattiva facendo scappare un virus dalle provette dove lo allevava, e se per caso mister Trump farà qualche mossa delle sue, e se poi, nel caso, avremo una guerra mondiale tra la prima e la seconda potenza del pianeta, che disastro, signora mia, moriremo tutti.

Naturalmente ognuno si farà la sua idea, e altrettanto naturalmente se la farà senza alcuna base scientifica o fattuale: l’opinione prevalente degli scienziati, per ora, è che si tratti di una discreta bufala, alla quale si aggiunge un senso vertiginoso di déjà vu. Perché chi ha un minimo di memoria storica guarda il Segretario alla difesa Usa Mike Pompeo dire: “Abbiamo le prove”, e in lui vede il vecchio Colin Powell, Segretario di Stato Usa nel 2003, sventolare altre “prove”, quella boccettina di antrace che “testimoniava” l’esistenza delle armi chimiche di Saddam, bufala poi conclamata, ma che servì a fare centinaia di migliaia di morti.

La disputa dunque è tra un regime dittatoriale che ha isolato con metodi assai spicci 60 milioni di persone salvando in qualche modo una popolazione di un miliardo e 400 milioni di cinesi, e il leader di una democrazia avanzata che vagheggia di iniezioni di candeggina come cura e di complotti internazionali, a sei mesi dalle elezioni. Anche le immagini hanno il loro peso: da una parte la propaganda cinese dove si mostra efficienza svizzera e ferrea determinazione; dall’altra le milizie suprematiste del Michigan che manifestano mitra alla mano per contestare il lockdown e rivendicare il loro diritto a infettarsi alitandosi in faccia slogan nazisti. Così a prima vista non mi piacerebbe vivere né da una parte, dove sei tracciato e controllato anche mentre vai al cesso, né dall’altra, dove i bravi cittadini invece che per le mascherine si mettono in fila per comprare un fucile a pompa.

Quel che sorprende è invece la qualità del dibattito interno, roba nostrana, il famoso made in Italy, dove esperti, politologi, pensosi corsivisti e aspiranti statisti della domenica si sbracciano dicendo la loro, più o meno con le stesse competenze della sciura Pina di cui sopra. Traduco: non ne sanno niente o ancora meno, ma costruiscono ardite teorie sulla nostra fedeltà atlantica, il pericolo cinese, il Risiko delle alleanze planetarie come se parlassero della riapertura dei parrucchieri. Questo riporta la gigantesca, immane, globale riflessione geopolitica alla più consona (per noi) dimensione della farsa.

La Lega di Salvini che, in Regione Lombardia, presenta una mozione per chiedere i danni alla Cina (per ora un acconto di 20 miliardi, poi si vedrà) ricorda la pulce che minaccia l’elefante. Ed ecco che una questione di portata mondiale finisce per somigliare alla pièce esilarante del grande Belushi che inventa scuse per la fidanzata nel sottofinale dei Blues Brothers: “Le cavallette… il terremoto… c’era il funerale di mia madre… la tintoria non mi aveva consegnato il tight…”. La premiata ditta Fontana & Gallera, insomma, responsabile di scelte deliranti durante l’emergenza, che hanno segnato con la loro disastrosa gestione il record mondiale di decessi in rapporto alla popolazione, hanno trovato finalmente un colpevole: hanno stati i cinesi. Se non ci fossero di mezzo migliaia di morti, dolore, lacrime, città martiri come Bergamo e Brescia, ci sarebbe da ridere, ma non lo faremo: prevalga la pietà.

Obiettivo Copyright, così si aiuta l’artista

A breve, spero a brevissimo, il Senato italiano implementerà in Italia la Direttiva europea sul Copyright, cioè sul diritto d’autore, votata a marzo del 2019 dal Parlamento di Strasburgo. Non mi soffermo sugli aspetti tecnici di questa norma. Mi preme invece chiarire alcuni concetti elementari, per sgombrare il campo dagli equivoci demagogici diffusi su questa materia.

Il Diritto d’autore è una conquista civile della Rivoluzione Francese con la quale viene riconosciuto per la prima volta il diritto di proprietà di un bene immateriale, di un bene poetico. Prima di questa conquista i musicisti e gli artisti di corte erano omologati più o meno alla servitù. È ben curioso che nell’era della rivoluzione digitale si debba ancora lottare per difendere questo diritto, perché venga riconosciuta la creazione immateriale – come è un sonetto o una sinfonia – riconosciuta e protetta come è protetta la proprietà di un bene materiale. Provo a spiegarmi con un esempio: uno smartphone ha fra le sue funzioni quella di trasmettere musica. Quella musica è di proprietà dell’autore che l’ha creata, esattamente come lo smartphone è di proprietà di chi l’ha costruito. Se io rubo uno smartphone commetto un furto, e su questo concordiamo tutti; ma se poi uso poi lo smartphone per fruire un’opera gratuitamente, ignorando i diritti di chi l’ha scritta, di chi la interpreta, con quello smartphone partecipo a un altro furto. È criterio ben gretto pensare che soltanto i beni materiali siano beni di proprietà, mentre i beni spirituali sarebbero di tutti. Un poema, un articolo di giornale, un tema musicale appartengono a chi li ha creati, e il profitto che un privato ricava dal loro uso deve essere condiviso con i creatori di quei contenuti. Il diritto d’autore è la fonte dei proventi per chi lavora scrivendo, componendo, interpretando un’opera dell’ingegno; opera immateriale, che non si tocca con mano, frutto di un lavoro altrettanto rispettabile di quello di chi costruisce un computer, un frigorifero, un ombrello. Insomma: il diritto di girare liberamente in bicicletta non implica il diritto di rubare biciclette.

Questi principi sembravano acquisiti fino a qualche anno fa. Il diritto d’autore è regolato nel mondo occidentale da leggi non proprio uniformi, ma tutte ispirate al principio della equa retribuzione.

Le cose sono cambiate con l’arrivo di sua maestà La Rete, grande e preziosa conquista che ci permette un uso trasversale e libertario della comunicazione. Ma, come è noto, gran parte della gestione di ciò che passa in Rete è nelle mani di pochi giganteschi gruppi multinazionali, i quali hanno poca simpatia per la democraticità, sono guidati dalla RMP – Religione del Massimo Profitto – quella religione che per esempio li porta a scegliere dove fare finta di pagare le tasse. È la stessa religione che li induce a pretendere di usare a titolo gratuito i frutti del lavoro di pensatori e artisti, grandi e piccoli. Dalla messa in Rete di quei contenuti essi ricavano giganteschi introiti pubblicitari: possiamo parlare senza dubbio di furto metodico. Le multinazionali hanno messo in campo molte lobby – alcune trasparenti altre forse no – per fare pressione sui parlamentari europei. Ricordo l’emozione della mattina del 26 marzo 2019 a Strasburgo, quando, per una manciata di voti, la direttiva è stata a sorpresa approvata: quando David la spuntò su Golia. Un Parlamento Sovrano che la spunta su speculatori privati miliardari non capita spesso.

Trovo utile ricordare ai lettori che nella direttiva Ue vengono esonerati dal pagamento del Copyright quei siti non profit che non usano inserti pubblicitari, come ad esempio la preziosa enciclopedia Wikipedia.

In questi giorni le attività artistiche teatrali, musicali, cinematografiche sono penalizzate, come tante altre, dall’epidemia. I proventi dalle Società degli Autori subiranno un calo drastico, per colpa di nessuno se non del virus. Soffrono i piccoli autori, i piccoli artisti che normalmente vedono retribuito il proprio lavoro con limitati ricavi – sui quali pagano regolarmente le tasse previste dallo Stato Italiano. I grandi e ricchi autori hanno tutte le risorse per superare la crisi e aspettare tempi migliori.

Il nostro governo sta cercando di combattere i disastri derivati da questo tragico contagio, e lo fa lottando contro il tempo, le difficoltà economiche, i fuochi nemici e i fuochi amici; e anche contro le critiche del “si potrebbe fare meglio”. Concordo, si potrebbe certo fare meglio, ma non dimentico che si potrebbe anche fare peggio, molto peggio.

In questa situazione, accelerare l’attuazione della direttiva europea sul Copyright mi sembrerebbe un passo bello e non costoso per aiutare la categoria degli artisti; quella categoria che tutti dicono di avere molto a cuore.

Ketchup, cetriolo, cipolla: la messa in salsa McDonald’s

Lo stop alle messe ha fatto incazzare la Cei come una biscia: “Non possiamo accettare che sia compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che non pagare l’Ici nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. Bergoglio ha smadonnato, e i vescovi sono subito rientrati buoni buoni nei loro attici; ma Conte ha annunciato lo stesso un protocollo per consentire ai fedeli di partecipare alle funzioni in condizioni di sicurezza.

La messa sarà reinventata secondo il modello di un’altra multinazionale, controversa come la Chiesa cattolica, ma almeno in regola col Fisco: McDonald’s. Immaginate lo spazio delle funzioni come un triangolo. La base è rappresentata dalle panche, su cui i fedeli fanno ginnastica alzandosi e sedendosi a comando, separate da un corridoio centrale alla cui estremità viene posto il prodotto finito, l’ostia. Il lato di sinistra ospiterà uomini e bambini, mentre quello di destra sarà la cosiddetta “zona fighe”. Al vertice, un’isola centrale, l’altare, con la tostatrice dell’ostia (detta pisside) (ah ah ah!), e il vassoio con le ampolline del vino e dell’amuchina. L’ostia, altra novità, verrà condita con senape, ketchup, cipolla, cetriolo e formaggio cheddar; chiusa con un’altra ostia; incartata; e consegnata al cliente. La messa funzionerà come una catena di montaggio, con tempi dettati da timer e beep. Prete, chierichetti, coro e fedeli dovranno essere coordinati, muoversi insieme come gli ingranaggi di un orologio, con l’obiettivo di ricordare il sacrificio di Cristo il più velocemente possibile, in modo da ridurre al minimo l’esposizione di tutti al Coronavirus, che sarà comunque inevitabile. Per darvi un’idea: da quando una beghina si metterà in fila, a quando riceverà l’ostia, dovranno passare 100 secondi al massimo.

La messa consisterà sempre di due parti principali (la Liturgia della Parola e la Liturgia eucaristica) e di una serie di riti, così strettamente congiunti tra loro da formare un’unica rottura di palle, ma il tutto sarà cronometrato da un sagrestano addetto a tempi e metodi, munito di fischietto. Esempi: ingresso prete con chierichetti più canto d’ingresso: cinque secondi. Fischio! Segno di croce: 1 secondo. Signore pietà, due letture, salmo responsoriale e alleluia: 10 secondi. Fischio! Omelia: cassata (evvai!). Offertorio: 3 secondi. Preghiera eucaristica (dal prefazio alla dossologia): 5 secondi. Segno di pace: non ci si stringerà più la mano, ma il pacco (uomini) (fischio!) o il seno (donne, trans). Facciamo pure un minuto abbondante. Comunione: ogni baciapile avrà 2 minuti di tempo per mettersi in fila cantando, ricevere in mano il cartoccino con l’ostia, tornare al posto, scartare l’involto, e cibarsi del corpo di Cristo, nelle varietà Crispy (con bacon), McChicken (con pollo), Big Mac (tre ostie), Filet-o-fish (bastoncini di pesce, che con un miracolo potrebbero moltiplicarsi) e McWrap (ostia-tortilla, con pollo, insalatina, pomodoro e scaglie di grana). I fedeli non potranno bere al calice, neppure con una cannuccia, ma potranno sostituire il sangue di Cristo con la Coca Cola. Uscita: precipitosa, calpestando donne e bambini.

Mail box

 

 

Il Covid-19 colpisce i vasi: la magneto-terapia è utile?

Gentile dottoressa Gismondo, visto che sembra ormai sicuro che il Covid-19 colpisce, prima di tutto, i vasi sanguigni perché non pensare di utilizzare la magneto-terapia per stimolare la microcircolazione? Io la uso da alcuni anni e, come tutti coloro a cui l’ho consigliata, ho verificato grossi benefici. Mi scuso per l’intromissione ma penso che la filosofia di questo giornale lo permetta.

Rino Alessandrini

 

Gentilissimo, non è un’intromissione, è proprio lo spirito di aperta discussione del giornale che, in questo periodo , mi sta concedendo spazio per alcune considerazioni. La sua idea non è infondata. Bisognerebbe che si presentasse ad Aifa per l’approvazione dello studio.

MRG

 

Sugli F-35 ha ragione Ferrara: quei soldi vadano alla sanità

Ho letto con interesse l’articolo sul senatore Gianluca Ferrara, che ha firmato assieme ad altri 50 un’interrogazione per chiedere la moratoria dell’acquisto dei caccia F-35, devolvendo così una cifra ingente, intorno al miliardo di euro, per il potenziamento della sanità militare: i soldi rimarrebbero nelle disponibilità del ministero della Difesa… Perché anche in questo tempo è così difficile razionalizzare le spese militari?… La seconda parte dell’interrogazione chiede al ministro Guerini di ridimensionare il programma degli F-35: una scelta condivisibile e che, a differenza delle bugie dette, non comporta penalità contrattuali. Il mio appello rivolto al ministro, ma anche a Conte, Zingaretti, Renzi, è di prendere in considerazione quest’interrogazione che può migliorare la “salute”, ma anche la “sicurezza” dell’Italia.

Paolo Pescucci

 

Sono fiera del governo: serio e pacato pur nella crisi

Sono un’impiegata politicamente modificata. Il ricordo della pre-pandemia mi riporta alla mente il clamore delle urla e delle frasi a effetto. Nella mia nuova realtà di cassintegrata, seduta sul mio divano a divorar notizie, rimango rapita dal garbo e dall’onestà intellettuale del nostro governo, ritrovatosi improvvisamente a dover fronteggiare un subdolo quanto invisibile nemico: uomini normali diventati giganti ai miei occhi. Ho così imparato che i nani urlatori non mi rappresentano affatto.

Clara Brachini

 

Criticare la scienza è facile, ma nessuno ha soluzioni

Egregio direttore, nelle varie trasmissioni in tv sento tanti commentatori e politici attaccare pesantemente il governo e gli scienziati, dicendo che hanno sbagliato tutto. Quello che mi lascia basito, però, è che nessuno poi è in grado di dare risposte su cosa avrebbero dovuto fare per contrastare una tale pandemia. Perché nessun intervistatore chiede a costoro qualche soluzione? Criticare è molto facile, sono le soluzioni a essere difficili, oltretutto in una situazione mai avvenuta prima.

Roberto M.

 

Lo scandalo del concorso per Dirigenti scolastici

Buonasera dottor Travaglio, le scrivo per dare voce a un problema che coinvolge circa 4.000 persone. Al termine del 2018 veniva indetto il concorso per Direttori dei servizi generali e amministrativi (Dsga). Le prime prove si sono tenute lo scorso anno, ma a oggi hanno pubblicato gli esiti solo poche Regioni, mentre le altre sono cadute in un sonno catatonico. Sono mesi che la ministra Azzolina ripete quanto sia importante concludere questo concorso entro settembre, senza dire come. Il rovescio della medaglia sono i “Facente funzione”, non laureati che da anni svolgono impropriamente il ruolo del Dsga e che ora pretendono di essere, mediante sanatoria, assunti nel ruolo. Anche i sindacati si stanno battendo per loro, mentre noi che abbiamo sostenuto il concorso – il primo dopo 20 anni – siamo soli: nessuno ci rappresenta. Le chiedo di darci voce affinché la nostra storia sia raccontata.

Federica Colantuoni

 

Diritto di replica

In riferimento all’articolo “De Luca, Zaia e Toti: come è cambiato il consenso”, pubblicato ieri sul Fatto, si precisa che i fatti riportati relativi al presidente della Regione Liguria Giovanni Toti non corrispondono a realtà. Si chiede la rettifica delle seguenti affermazioni: “Chi invece non cerca di nascondere la sua propaganda virus dietro una mascherina, anzi ‘1 milione di mascherine gratis per i residenti in Liguria’, è il presidente (…) Toti. Che ha sommerso la regione di appositi volantini” con “l’offerta di due mascherine due, accompagnate dal simbolo di ‘Toti presidente’”. Si precisa che Regione Liguria ha predisposto la distribuzione gratuita ai cittadini di 3 milioni e 500 mila mascherine chirurgiche in buste sigillate, contenenti ciascuna due mascherine: sulle buste è apposto esclusivamente il logo della Protezione civile regionale, che ne ha organizzato non solo la distribuzione ma anche, nelle scorse settimane, l’approvvigionamento, per garantire che tutti i cittadini potessero avere questo indispensabile dispositivo di protezione individuale. In particolare, 2 milioni e 500 mila mascherine sono state distribuite al domicilio attraverso un accordo con Poste Italiane e, nei Comuni sotto i duemila abitanti, tramite i Sindaci. Nei prossimi giorni, un ulteriore milione di mascherine chirurgiche sarà distribuito attraverso la rete delle farmacie.

Ufficio Stampa Regione Liguria

 

Il volantino con il simbolo Giovanni Toti presidente e con il testo: “1 milione di mascherine gratis per i residenti in Liguria” è quello che ho citato. Di Regione Liguria non si fa cenno nel pezzo. Si deve arguire comunque che il milione di mascherine gratis propagandate da Giovanni Toti le ha pagate di tasca sua. Complimenti.

A. P.

 

I nostri errori

Ieri di Kim Jong-un abbiamo detto che apprezza il “fois gras”, che però si scrive foie gras.

Tamponi Più se ne fanno, più casi positivi si trovano, ma servono a monitorare il virus

 

Buongiorno direttore, le scrivo in quanto lettore del suo giornale e fiducioso del fatto che questa mia email la raggiunga. Sempre più spesso si fa riferimento ai nuovi contagiati rapportandoli ai nuovi tamponi effettuati, certo, meglio di chi parla di nuovi positivi senza fare minimo accenno ai tamponi effettuati, ma da qualche giorno abbiamo a disposizione (fonte Protezione civile) il dato dei casi testati, al netto quindi di chi sta effettuando un secondo, terzo o più tamponi. Ovviamente rapportandosi a un numero minore, quello dei nuovi effettivamente testati, la percentuale dei positivi sulla popolazione è maggiore ma segnatamente corretta.

Mi è venuta l’idea di scriverle leggendo l’articolo di Marco Pasciuti del 1° maggio, in quanto si parla proprio di tamponi e non di popolazione testata. Mi piacerebbe iniziare a vedere che si trattassero i numeri e le informazioni da essi veicolati in maniera corretta, ecco perché scrivo a lei. Grazie.

Anthony Abissino

 

Gentile signor Abissino, ha ragione, rapportare il numero dei nuovi positivi a quello dei casi testati dà una misura del modo in cui la malattia incide sulla popolazione. Ovviamente al netto del fatto che, a detta di tutti gli esperti, fare i tamponi solo ai sintomatici non è il modo migliore per avere contezza dell’andamento dell’epidemia. Tuttavia il numero dei contagi giornalieri è strettamente legato a quello dei test effettuati: più se ne fanno, più casi positivi si trovano e viceversa. Finora le due curve hanno avuto un andamento sostanzialmente parallelo.

C’è poi un motivo pratico per cui è importante rendere sempre conto anche del numero dei tamponi effettuati: perché è fondamentale tenere d’occhio le effettive capacità del sistema nel monitorare l’andamento dell’epidemia. Specie in questo incerto avvio di Fase 2 e dopo che nelle ultime settimane più regioni hanno denunciato gravi carenze in fatto di materiali necessari a effettuare il test, come i reagenti necessari per analizzare l’Rna del virus. Bisogna tenere alto il numero dei tamponi per circoscrivere appena possibile eventuali nuovi focolai.

Marco Pasciuti

Non pensate sia finita qui

“Report 20: uso della mobilità per stimare l’intensità di trasmissione di Covid-19 in Italia: analisi a livello regionale e scenari futuri”. È pubblicato sul sito dell’Imperial College. Spiega che cosa accadrebbe se l’Italia oggi tornasse all’improvviso alla normalità dopo l’emergenza, seppur solo parzialmente, come prima del blocco dell’intero Paese causa epidemia di Covid-19. Se il 20 per cento dei cittadini tornasse a mobilità e comportamenti come quelli di prima del lockdown che ha chiuso l’Italia, e senza le dovute precauzioni, ci potrebbero essere tra i 3.000 e i 5.000 decessi in più; se invece a farlo fossero il 40 per cento, le nuove vittime potrebbero essere fino a ulteriori 23.000.

È certamente uno degli scenari peggiori, come gli stessi ricercatori inglesi affermano, ma possibile. Nella fase 2 non si può puntare solamente sui controlli, ci salverà solo la responsabilità personale. La palla passa a ciascuno di noi.

A guardare il traffico che da ieri è tornato sulle strade delle nostre città, le code fuori dai bar e dalle pizzerie, non si può certo stare tranquilli. Dentro gli esercizi commerciali autorizzati si entra in numero controllato. E fuori, sul marciapiede, però, ci sono agglomerati di persone. Anche i supermercati hanno allentato i controlli. Seppur con mascherina e guanti e dopo il controllo della temperatura corporea, il numero di clienti è aumentato vertiginosamente.

Spero davvero che non si aspettino numeri preoccupanti di risalita del contagio per intervenire. Dal momento in cui dovessimo accorgerci di un’inversione del trend, dovremmo intervenire immediatamente, e da quel momento dovremmo per giorni aspettarci un aumento di malati e decessi, fino a ritrovare i benefici di nuovi interventi restrittivi.

È il modello cinese di Wuhan, prima città focolaio del SarsCov2, che ci piaccia o no.