La pandemia, silvio e i suoi scherani tribolati

“Saremo uguali, soltanto un po’ peggiori”, leggiamo a firma Michel Houellebecq, in contemporanea su Repubblica e Corriere della Sera (forse l’epifania del nuovo gruppo Stampubblica della Sera?), e nella prosa di un grande scrittore troviamo la conferma di quanto più modestamente avevamo già avuto sentore. Infatti, mentre in piena pandemia l’avvento di un mondo migliore veniva annunciato nei sogni premonitori dei tanti profeti costretti a deambulare dal tinello alla cucina (“La Ragione sarà sostituita dalla Rivelazione”: Robert Hughes), sui social non toccati dalla pace nel mondo si susseguivano le risse più sanguinose (perfino sulle prime righe di un mio articolo che evidentemente non meritava di essere letto per intero, e me ne scuso). Senza contare che il minaccioso diverbio Donald Trump-Cina, ci sembra un tantino più preoccupante della, diciamo così, divergenza d’opinioni tra Luca Bizzarri e Dino Giarrusso sulla figura di Silvio Berlusconi. Che, sì proprio lui, meriterebbe invece una menzione tra i pochissimi che nella catastrofe virus si sono comportati un po’ meglio di come li avevamo lasciati.

Mentre infatti la destra soffiava allegramente sul fuoco, lui pur rimarcando le “differenze con il governo Conte”, se ne è uscito con questa frase: “Nell’emergenza, essendo un’opposizione responsabile, si lavora uniti intorno alle istituzioni mettendo da parte la polemica politica”. Ora noi più che compiacerci del senso di responsabilità dell’ex Cavaliere abbiamo perfidamente pensato alle facce dei Sallusti, Porro, Del Debbio, Giordano e soci. Impegnati incessantemente a descrivere Giuseppe Conte come una sciagura perfino peggiore del Covid-19, e che si ritrovano un editore, e leader politico, che predica spirito collaborativo tra opposizione e governo. Eh sì, la vita dei giornalisti della destra è davvero piena di tribolazioni.

Nomine e Csm: “Ho visto Ermini Disse che ci avrebbe pensato lui”

Torniamo alla notte del 9 maggio 2019. Quella in cui il pm Luca Palamara e i parlamentari del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti, alla presenza dei consiglieri del Csm Luigi Spina e Corrado Cartoni, decidono di “virare” su Marcello Viola come futuro procuratore di Roma. Mentre conteggiano i futuri voti pare chiaro che, per raggiungere l’obiettivo, può essere necessario quello del vice presidente del Csm David Ermini. “Se c’è una divisione così, a 13 – 14, Ermini vota o no?” si chiedono.

Ermini è un uomo molto legato a Matteo Renzi e Luca Lotti. Nel Pd renziano ha rivestito il ruolo di responsabile nazionale con delega alla giustizia. Ma Ermini “non è un cuor di leone”, si commenta quella notte. “L’avete scelto apposta, diciamo, per certi versi…” obietta Lotti. “Ho capito”, replica Palamara, “però mo non può sfuggire totalmente”. E Lotti conclude: “Però qualche messaggio gli va dato forte”.

Il 21 maggio Lotti racconta a Ferri e Palamara che, effettivamente, un messaggio a Ermini l’ha inviato. E glielo legge: “David io non sono un senatore qualunque che ti scrive messaggi del cazzo… senza di me non eri lì, punto… rispondi, punto…”.

La storia dice che Ermini il segnale non l’ha raccolto: tenta (inutilmente) di rinviare la nomina di Viola. E che Palamara, sebbene non per le strategie sulle nomine in procura, è indagato a Perugia per corruzione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti. Per completare il quadro va però letto l’interrogatorio di Lotti dinanzi ai pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari, che lo sentono per altre vicende, legate all’Eni, ma gli chiedono del messaggio inviato a Ermini. “Nell’occasione”, risponde Lotti, “mi ero fatto portavoce delle richieste fatte da Palamara Ferri e Cartoni i quali, in qualità di rappresentanti delle correnti MI e Unicost, si lamentavano che Ermini non li seguiva sufficientemente. Mi sono fatto portavoce di queste lamentele e (…) ho mandato il messaggio a Ermini, e l’ho incontrato alla Camera dei Deputati intorno alla metà di maggio, per riportargli le lamentele. David Ermini ha preso atto di questa richiesta e mi ha detto che ci avrebbe pensato lui, parlando con i capigruppo delle singole correnti”. E quindi, non solo Lotti gli invia un messaggio, spiegando a Ermini che senza di lui non sarebbe il vice presidente del Csm, ma si premura di riportarlo all’ordine, ricordandogli che deve confrontarsi con Mi e Unicost.

I pm milanesi passano a un’altra domanda: “Lei ha ricevuto delle carte da Descalzi?”. Nelle conversazioni Lotti dice infatti di aver ricevuto dall’ad di Eni,Claudio Descalzi,alcuni documenti su Domenico Ielo, fratello del procuratore aggiunto di Roma,Paolo Ielo.

“Nel corso di quell’incontro”, spiega Lotti, “Palamara ha riferito sommariamente il contenuto di un esposto presentato dal pm Stefano Fava (indagato per rivelazione del segreto e favoreggiamento nei confronti di Palamara, ndr) nei confronti del dottor Paolo Ielo e del dottor Pignatone. Palamara ha riferito che tra i motivi di denuncia esposti da Fava vi sarebbe stato anche il fatto che sia Pignatone che Ielo avevano svolto delle indagini in una situazione di conflitto di interessi, in quanto i fratelli di entrambi avevano ricevuto incarichi da persone in qualche modo coinvolte nelle indagini”. Incarichi assolutamente legali. Il procuratore aggiunto Ielo si è peraltro astenuto da un fascicolo che riguardava Amara. Lotti spiega: “Palamara ha aggiunto che gli risultava che Domenico Ielo avesse avuto anche degli incarichi dall’Eni e mi ha chiesto se potevo verificarlo …”. E anche questa volta l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio si attiva.

Pochi giorni dopo incontra Claudio Granata (capo del personale Eni, ndr) a Roma. “Tra gli altri argomenti chiesi a Granata se gli risultasse che Domenico Ielo aveva avuto una consulenza da Eni, Granata non mi chiese il motivo di questa domanda e mi rispose che avrebbe verificato, ma che comunque gli incarichi degli esperti legali di Eni erano sul sito”. Lotti racconta di non aver più visto ne Granata né il dossier su Ielo. Però conferma di aver detto a Ferri e Palamara “d’aver ricevuto documentazione da Descalzi, che provava l’avvenuto conferimento dell’incarico da parte di Eni a Domenico Ielo” accennando persino a “un importo di 228 mila euro”. Spiega di non aver neanche controllato sul sito: “Ho millantato”. E perché mai? “Non avevo bisogno di millantare ma con quelle affermazioni rafforzavo la loro linea, quella di censurare il comportamento del dottor lelo, il quale, secondo quello che riferiva Palamara, non si era astenuto”.

Dagli “sciacalli” di Big Pharma una pioggia di euro per medici e Asl

Pubblichiamo un breve stralcio del prossimo libro di Mario Giordano

Nel dicembre 2019 l’Università Statale di Milano ha preso, seppure in sordina, una decisione rivoluzionaria: ha stabilito che non si possono far pagare i medici direttamente dalle case farmaceutiche. (…) Proprio in quel momento, infatti, come ha fatto notare la cronaca locale del Corriere della Sera, al Policlinico si stava svolgendo un concorso per assumere un medico, che avrebbe dovuto svolgere per tre anni attività cliniche e ambulatoriali oltre che di ricerca. E il concorso era sponsorizzato dalla Bayer. La quale Bayer ne aveva finanziato uno simile, di concorso, anche all’ospedale Sacco. (…) La cosa impressionante è proprio questa: la quantità e la diffusione dei finanziamenti girati dalle aziende private alle istituzioni pubbliche. I colossi delle pillole lanciano pacchi di denaro e questi arrivano, a pioggia, praticamente dappertutto: 25.000 euro della Merck alla Asl di Modena, 20.000 della Roche alla Asl 2 di Cuneo, 102.000 della Glaxo alla Asl Città di Torino, 25.000 di AstraZeneca alla Asl di Lanciano, Vasto e Chieti, 10.000 della Bayer alla Asl di Bari. La Asl di Chiavari ha preso 26.856 euro in tre anni da AbbVie e Pfizer, quella di Chivasso 12.000 dalla Pfizer, quella di Napoli 65.000 da AbbVie, Pfizer e Merck, quella di Viterbo 85.184 da Merck e Pfizer.

Ma a che cosa servono questi soldi? Dove vanno a finire? Ci siamo incuriositi e siamo andati a chiederlo alle medesime Asl. Molte non ci hanno risposto. Altre ci hanno risposto in modo molto preciso, come la Asl 1 di Roma: i 10.980 euro ricevuti dalla Glaxo sono stati impiegati per un “evento formativo aziendale”: “Il miglioramento dell’accesso ai servizi, la diagnosi precoce e la qualità della presa in carico della persona con broncopneumopatia cronica ostruttiva”. Alcune ci hanno risposto in modo singolare, come per esempio la Asl 1 di Cuneo (11.445 euro dalla Pfizer nel 2016). (…) Ci ha fatto sapere che la richiesta di informazioni “non può essere accolta” perché “il diritto di cronaca non legittima un giornalista all’accesso ai dati”. (…) Eppure, tutti loro lo sanno che stiamo camminando sul filo. (…) Non a caso anche l’Anac inserisce questi processi fra quelli a elevato rischio. (…) Possiamo fidarci fino in fondo di un sistema sanitario in cui la ricerca, le università, i medici, la formazione dei medici, le associazioni dei pazienti, le Asl, tutti gli operatori che si muovono attorno alla nostra salute sono a libro paga delle aziende farmaceutiche? (…) Senza nessuno che controlli davvero? (…) Il sospetto è pesante. E diventa un macigno quando si scopre che persino l’Istituto superiore di Sanità, braccio operativo del ministero nel campo della salute, il garante di ogni trasparenza, prende soldi dalle case farmaceutiche. La Glaxo gli ha versato 125.660 euro nel 2016, 93.940 nel 2017 e 112.993 nel 2018. In tutto 332.593 euro in 3 anni, che non sono molti. Ma di sicuro sono troppi.

Il calcio si affida a Guido Alpa per convincere Conte a dire sì

Il calcio ha estirpato da anni la sua radice sportiva. La pandemia lo strangola come una qualsiasi industria – definizione dotta che piace ai dotti – e allora la riapertura del campionato è bieca faccenda di denaro, interessi, politica, antipatie e manovre più o meno indicibili. I patron di Serie A – esclusi i furbi che temono la retrocessione – sono pronti a sfidare il Covid-19 a mani nude. Ci si avvale di ogni mezzo. Persino di una consulenza dell’avvocato Guido Alpa, amico e mentore del premier Giuseppe Conte. Ufficialmente per un parere legale sulla delicata materia dei diritti tv, ma la speranza è accogliere Palazzo Chigi nella curva di chi pianifica di tornare in campo in giugno. Lì dove il capo-ultrà è Matteo Renzi di Italia Viva, per una volta in sintonia con gli ex compagni di partito dem, lì dove c’è posto anche per Matteo Salvini. Un blocco che ha emarginato il pentastellato Vincenzo Spadafora, oltranzista della prudenza, “ministro dello Sport e non del calcio”, come adora definirsi.

La Lega di Serie A – perché, se non s’è detto, di campionato si tratta soltanto per la A e gli altri marciscano in cassa integrazione – ha ingaggiato l’avvocato Alpa per scrivere un parere sull’unico contratto che fa palpitare Claudio Lotito&C.: quello con le televisioni a pagamento Sky e Dazn, che vale circa 230 milioni di euro per il pezzo finale di stagione. Già presidente del consiglio nazionale forense e docente di Diritto civile alla Sapienza, Alpa ha una lunga carriera costellata dai più svariati incarichi, ma nell’ultimo tratto viene spesso trascinato in beghe sportive per il suo rapporto col premier Conte. Era giù successo un anno e mezzo fa per il Coni. Quando Giovanni Malagò vedeva franare il suo impero, assediato dai barbari della Lega sotto la regia del sottosegretario Giancarlo Giorgetti, pensò di chiedere una consulenza al “maestro” del premier pur di trovare intercessione a Palazzo Chigi. Soldi sprecati, è bastato l’addio del governo gialloverde. La riforma è annacquata e l’influenza del Coni intatta, anche sul pallone.

La stessa idea è venuta alla Lega calcio, che ha reclutato Alpa a metà marzo, quando l’emergenza Coronavirus era già scoppiata, ma il pallone non era ancora sul lastrico. Sky e Dazn hanno appena chiesto uno sconto, ma il suo parere, consegnato alle società, sostiene che la conclusione della stagione obbligherebbe le emittenti a pagare l’intera rata da 230 milioni, anche con le partite ammassate una dietro l’altra, a porte chiuse, in orari improbabili e in piena estate. Un po’ diverso il discorso in caso di sospensione definitiva: il contratto è blindato, le emittenti dovrebbero pagare lo stesso perché sono “intervenute cause di forza maggiore”, cioè la pandemia.

Se i presidenti sono divisi sulla ripresa (quelli messi peggio in classifica come Urbano Cairo del Torino o Massimo Cellino del Brescia preferiscono azzerare la stagione), si muovono compatti sui soldi. Così in Lega è tornata l’unanimità.

Il supporto di Palazzo Chigi è fondamentale per ragioni istituzionali e normative sia per riprendere il campionato per limitare i danni con lo stop. Alpa è un’invenzione del presidente Paolo Dal Pino, il manager chiamato a gestire gli isterismi e i veleni in Lega. Con questo colpo di tacco, all’insaputa di Alpa, intende scavalcare Spadafora e trattare direttamente col premier, con il famoso tavolo da convocare a Palazzo Chigi. A un certo punto la Lega aveva pensato anche di scrivere una lettera al premier per silenziare il ministro.

Spadafora è il bersaglio del sistema pallone, il muro non ancora caduto per provare a ricominciare con un dilemma irrisolto: che accade se un calciatore risulta positivo al virus? Come per l’economia, la linea italiana sul pallone dipende dai tedeschi. Sarà Angela Merkel a decidere le sorti della Bundesliga e, di conseguenza, a influire sulle decisioni di Roma per la Serie A. Tutti sono aggrappati alla Merkel con ottime premesse. Se va male, toccherà all’avvocato Alpa salvare Lotito, De Laurentiis e colleghi.

“Il plasma funziona” Ma dal ministero nessuna risposta

“Il trattamento dà esiti incoraggianti, ma è necessario terminare l’analisi di tutti i parametri biologici e clinici relativi ai 50 pazienti trattati, analisi tuttora in corso, e superare il vaglio della comunità scientifica, prima di poter affermare se e quanto funziona”. A sedare le polemiche sulla terapia anti Covid cosiddetta del plasma iperimmune è proprio Cesare Perotti (dirigente di Immunoematologia del Policlinico San Matteo di Pavia), responsabile dello studio che ha coinvolto anche l’ospedale Carlo Poma di Mantova, con il collega del centro trasfusionale Massimo Franchini, l’infettivologo Salvatore Casari e il pneumologo Giuseppe De Donno. Sul cosiddetto plasma iperimmune – quello donato dai pazienti convalescenti, e per questo ricco di anticorpi neutralizzanti per il virus – De Donno ha già rivelato i risultati a giornali e tv: nessun decesso e 48 guariti. Sui giornali ha accusato l’Istituto Superiore di Sanità e il ministero della Salute di non essersi interessati a una terapia che dà esiti preziosi. Secondo fonti del Fatto, il gruppo avrebbe scritto fin da marzo al ministero della Salute per chiedere un coordinamento della raccolta del sangue dei guariti. Senza ricevere alcuna risposta. Anche il Comitato tecnico scientifico del governo per il Covid (Cts) non avrebbe manifestato grande interesse.

Perotti ribadisce soltanto che per parlare di terapia efficace serve prima una pubblicazione scientifica di tutti i risultati, che arriverà prestissimo. Se i sintomi sembrano scomparire – come dice De Donno – non si sa ancora che esito abbia dato, ad esempio, il parametro della viremia, cioè la quantità di virus presente nell’organismo dei pazienti prima e dopo l’infusione di anticorpi. Ma sul carro della terapia del plasma iperimmune è già saltato anche Matteo Salvini, reiterando le accuse di De Donno al governo: “Nessuno ne parla”. Il virologo Roberto Burioni ha invece definito la terapia “la nuova pozione miracolosa”, schernendone l’efficacia. Sebbene anche lui riconosca che usare il plasma di chi ormai è immune a un patogeno per curare chi ne sta morendo, è un approccio che la scienza medica applica da 120 anni, anche per Spagnola, Ebola, Mers, Sars. E che è un approccio che oggi costa poco (90 euro a paziente, a carico del Servizio sanitario nazionale) e che tutto avviene nell’ambito del pubblico, visto che “il plasma non è commerciabile in Italia,” spiega Casari, coautore dello studio, al Fatto. “Al massimo si può cederlo a un’altra struttura sanitaria, con rimborso del costo vivo”.

Sono tre gli studi su pazienti Covid gravi di Wuhan pubblicati finora, uno già il 27 marzo. Tutti e tre dicono che la terapia sembra salvare vite umane. Tutti e tre sono apparsi su riviste scientifiche, non sui giornali generalisti. Come gli autori dei tre studi già pubblicati, anche Perotti e i co-autori chiedono che la terapia al plasma iperimmune venga testata nell’ambito di studi più ampi e randomizzati, cioè dove sia previsto anche un gruppo di pazienti cosiddetti di controllo, che abbiano cioè sintomi molto più lievi dei primi, o che siano trattati con un altro farmaco, per poter confrontare la reale superiorità, in termini di efficacia, della terapia al plasma. Cosa che finora nessuno ha ancora fatto, data l’emergenza. “Senza studi randomizzati, non si può essere sapere se i pazienti sono guariti a causa di una terapia sperimentale o nonostante essa”, si legge il 7 aprile sulla rivista medica Jama in merito alla terapia del plasma iperimmune.

Il protocollo di Pavia e Mantova è stato chiesto da molti altri Paesi nel mondo. Inclusi gli Usa. Lì ora sono già pronti 2.089 ospedali, 4.600 medici, 10 mila pazienti arruolati e 5 mila sono stati già trattati con il plasma iperimmune, pur essendo partiti ben dopo l’Italia. “Negli Usa si fa la medicina come si fa la guerra, si raccoglie tutto il plasma che c’è”, commenta Perotti. Da un lato è un bene, perché c’è una grande attenzione, cosa che in Italia è mancata come indicherebbe la freddezza del ministero e del Cts. Dall’altro è bene partire per gradi, per poter valutare la reale efficacia della terapia prima di coinvolgere migliaia di pazienti.

Il gruppo ha ceduto parte del plasma anche a molti altri ospedali italiani per trattare altri 50 malati gravi, fuori dal protocollo di sperimentazione. “Anche da lì stanno emergendo risultati interessanti, che presto verranno pubblicati”, ha detto Perotti.

Il padre insegnava karate a uno Zinga boy Il figlio nell’affare “mascherine fantasma”

“Se continua a tempestarmi di telefonate, la denuncio per stalking”. È il 20 marzo, in tutta Italia si sta raggiungendo il picco dell’epidemia di Coronavirus e questa è la risposta che una funzionaria della Protezione civile del Lazio ha fornito a Filippo Moroni, imprenditore italiano in Cina che nei giorni precedenti si era offerto di vendere delle mascherine Ffp2 alla Regione Lazio. La telefonata fa parte di un servizio del programma di Italia 1 Le Iene, andato in onda ieri sera, dal quale spunta un nuovo preventivo scartato dall’Ente guidato da Nicola Zingaretti, nonostante l’emergenza in corso.

L’assist è arrivato dall’ex deputata europea di Fd’I Roberta Angelilli. L’agenzia regionale, come reso noto dall’inchiesta de ilfattoquotidiano.it pubblicata il 18 aprile scorso, in quei giorni ha preferito affidare commesse per oltre 100 milioni di euro a una dozzina di società sconosciute, spesso non legate al mondo delle forniture mediche (editori, venditori di lampade, naturopati, ecc…) o con sedi in noti paradisi fiscali. Gran parte del materiale è arrivato in forte ritardo. La commessa più importante, assegnata fra il 16 e il 20 marzo alla Eco Tech srl – ben 7,5 milioni di mascherine Ffp2 e Ffp3 per circa 30 milioni di euro – è rimasta inevasa. Sulla vicenda indagano la Procura di Roma e la Corte dei Conti, mentre la Regione Lazio il 25 aprile ha deciso di revocare l’affidamento.

Il prezzo delle mascherine iscritto nella determina di assegnazione alla Eco Tech è di 3,60 euro, contro 1,89 euro che proponeva Moroni. La prima proposta dell’imprenditore, secondo quanto dichiarato alle Iene, è del 19 marzo: “Oltre 120 email tra protezione civile e Regione Lazio, non ho mai ricevuto risposta”, dichiara. Poi la telefonata con la funzionaria, stretta collaboratrice del direttore della Protezione civile laziale, Carmelo Tulumello: “Decida lei, o continua a tempestarmi di telefonate e però io ad un certo punto la denuncio per stalking o la smette di mandarmi mail in cui dice che manchiamo solo noi e ci attribuisce la morte delle persone”.

Il preventivo di Moroni è almeno il secondo, a detta dei protagonisti, più conveniente del prezzo fatto a Eco Tech. L’altro sarebbe quello di Este Italia srl di Luciano Rattà, che proponeva prodotti della svizzera Exor Sa al costo unitario di 2,53 euro, la stessa società a cui si e’ rivolta poi Eco Tech. “Un prezzo chiavi in mano”, secondo l’avvocato di Este, Giuseppe Cavallaro. “Non comprensivo delle spese”, secondo la Regione.

Ma chi ha portato, materialmente, il nome di Eco Tech in Regione? Sempre su “dritta” di Angelilli, Le Iene hanno intercettato l’imprenditore Ivan Gilardi, figlio di Bruno Gilardi. Quest’ultimo ammette di essere stato il maestro di karate di Andrea Cocco, vice capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, che secondo il suo racconto, mette in contatto Ivan con il vicegovernatore Daniele Leodori e poi con Tulumello. “Speriamo che non siamo stati truffati, se siamo stati truffati chiederemo giustizia”, ha risposto di nuovo Zingaretti, incalzato dagli inviati del programma Mediaset.

Il Nord-Ovest e la Fase 2: – “È ancora troppo presto”

In Lombardia e in Piemonte la gente è tornata per strada. Che la fine del lockdown comporterà un aumento dei contagi dalla terza settimana di maggio in poi è pressoché scontato. Il punto è: quanto aumenteranno? Ma soprattutto, le due regioni più colpite dal SarsCov2 si stanno preparando adeguatamente?

LOMBARDIA Il piano regionale per dare benzina alla medicina del territorio, incrementare il numero dei tamponi e dei test sierologici pare ancora fermo nonostante ieri sia stato il secondo giorno della fase 2. “Non siamo ancora pronti, ci vuole un po’ di tempo in più”, ha spiegato ieri al Fatto l’assessore Giulio Gallera. La giunta di ieri prevista per dare sostanza al progetto, accolto con favore dal Pd, di tamponi domiciliari fatti dalle Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) non ha trovato la giusta quadra. Va così in archivio l’ennesima fumata nera (la delibera è attesa per domani) su un tema fondamentale per evitare di tornare all’emergenza: la sorveglianza dei focolai. “Siamo ancora al palo – spiega il consigliere regionale Pd Samuele Astuti –, le Usca sono meno di 50, dovevano essere almeno 200”. Quanto ai tamponi, l’ordine è di farne il più possibile. Al momento ne vengono processati circa 12 mila al giorno (ieri 6.455), cifra ancora bassa. Spiega Astuti: “Solo il 50% è fatto su persone nuove, il resto sono pazienti già positivi”. Ci sono poi i test sierologici. La Lombardia ne ha ordinati circa 2,5 milioni. Facendo qualche conto: se si arriverà a fare 60 mila test al giorno e dando come risultato un terzo dei positivi, la Regione si troverà sulle spalle almeno 20 mila nuovi tamponi da fare in più. “Non ci sono alternative – spiega Gianluigi Spata, presidente dell’Ordine dei medici lombardi e componente del comitato tecnico scientifico in Regione –. Bisogna fare più tamponi e più medicina territoriale, che significa fare sorveglianza”. Le Usca in questo senso sono preziose. Dovevano essere 200, sono meno di 50. Eppure quelle operative funzionano molto bene. Sono composte da un medico e da un infermiere e intervengono in meno di 24 ore su richiesta del medico di medicina generale quando si ritiene che la condizione del paziente domiciliare si stia aggravando. La direzione presa dalla Regione è giusta. La strada è una sola: monitorare il territorio per tenere sotto controllo “R con zero”, ovvero il tasso di riproduzione di base di SarsCov2. Cosa che non è stata fatta prima e che, in parte, ha contribuito alla diffusione esponenziale del virus. Oggi “R con zero” in Lombardia è 0,75, il più basso a livello nazionale, a febbraio era 3.

PIEMONTE “Ci accusano di non avere un’analisi precisa di come i casi potrebbero evolvere? Io dico che lo scenario che dobbiamo prevedere è uno solo: il peggiore, ossia un ritorno a metà di aprile”. Così Ferruccio Fazio, ex ministro della Sanità a capo della task force nominata dalla Regione Piemonte per affrontare la “Fase 2”. Da queste parti la preoccupazione non si nasconde, il contagio – seppur in ritirata – in Piemonte ha galoppato più che altrove nelle ultime settimane e sia l’assessore alla Sanità Luigi Icardi che il virologo Giovanni Di Perri (task force) hanno più volte sottolineato che la scadenza del 4 maggio per il Piemonte fosse prematura.

Anche qui la parola d’ordine è tamponi. L’Unità di crisi dichiara di aver testato 182 mila persone, ossia il 4% circa della popolazione. A oggi la potenzialità è di circa 6-7 mila al giorno: “L’obiettivo – spiega Fazio – è arrivare a 15 mila entro metà giugno”. Una soglia che, secondo un addetto ai lavori, “potrebbe essere raggiunta solo se nessun’altro al di fuori del Piemonte avesse bisogno di tamponi e reagenti. Ma non è così. Già oggi non possiamo farne più di 5 mila al giorno perché non abbiamo i reagenti”. E infatti la difficoltà di accedere a un tampone rimane la vera nota dolente. Sono ancora in attesa moltissimi lavoratori delle Rsa torinesi e tra le forze dell’ordine, racconta un poliziotto, “i tamponi li fanno solo a chi è a rischio ma in maniera non razionale. Ci sono colleghi con mogli positive a cui non sono stati fatti. Al massimo sono stati messi in isolamento, ma senza tampone di controllo”.

Quanto al tracciamento dei contagi e al contenimento degli infetti, la task force di Fazio invierà oggi in giunta un decalogo per il cosiddetto tracciamento attivo, ossia la mappatura dei contatti partendo da un infetto “sul modello Vo’ Euganeo – sempre Testi – cosa qui mai fatta”. Anche in Piemonte sono state attivate le Usca, ma le 54 attualmente operative sono poco più della metà di quelle previste, mentre sul versante dei test sierologi, è iniziata lunedì l’analisi su 70 mila operatori sanitari. La Regione ha inoltre autorizzato test sierologici privati negli ambulatori autorizzati.

La nuova battaglia in Europa è sugli aiuti di Stato: vince il Nord

C’è un nuovo fronte che rischia di minare la coesione dell’Ue: lo scontro sugli aiuti di Stato autorizzati da Bruxelles per contrastare la recessione innescata dal coronavirus. L’Unione ha da sempre regole ferree sui contributi pubblici, per evitare che i Paesi che hanno finanze pubbliche più floride possano mettere in campo una massa maggiore di sostegni alle imprese, mandando in crisi il mercato unico e deformando la concorrenza a vantaggio delle loro aziende. I governi che violano le norme europee subiscono sanzioni pesantissime. Con il dilagare del contagio, però, le maglie sono state allargate: così ora la Commissione cerca di riequilibrare i paletti comunitari. Ma la Germania ha elargito sostegni sproporzionati rispetto alle dimensioni della sua economia e va allo scontro con Italia e Spagna.

Il diritto europeo sulla concorrenza considera illegali gli aiuti di Stato, a meno che non vengano approvati dalla Commissione Ue. Le norme però consentono sostegni mirati a compensare i danni causati da catastrofi naturali ed eventi eccezionali, come la pandemia, o a rimediare a “gravi perturbazioni dell’economia”. Con il contagio da Covid19 e i lockdown, Bruxelles il 19 marzo ha adottato un quadro temporaneo sugli aiuti di Stato per consentire ai Paesi membri piena flessibilità nei sostegni. Le norme, varate per permettere di erogare liquidità alle aziende, sono state ampliate il 3 aprile per autorizzare piani di sostegno economico e fiscale a imprese e lavoratori e investimenti nella ricerca medica.

Si è così innescato il “rompete le righe”. Secondo gli ultimi dati, la Commissione Ue ha già autorizzato aiuti di Stato per un totale di 1.900 miliardi erogati da 26 Stati membri più il Regno Unito. La Germania però da sola ha ottenuto il via libera della Ue a stanziamenti per mille miliardi, il 52% di tutti gli aiuti approvati. Un dato pari al doppio del peso reale dell’economia tedesca su quella complessiva della Ue. L’Olanda ha poi chiesto che l’autorizzazione agli aiuti sia ulteriormente prolungata e l’Austria vuole addirittura la sospensione di tutti i paletti europei per l’intera durata della crisi.

Ma le iniezioni di liquidità e gli aiuti a breve termine potrebbero non bastare e la Commissione sta valutando se autorizzare i Governi a entrare nel capitale delle imprese e a sottoscriverne le obbligazioni, a patto che le aziende beneficiarie non paghino dividendi, non possano riacquistare azioni proprie né versino bonus o premi a manager e dipendenti. La nuova riforma però fisserebbe limiti come la natura temporanea degli interventi ed escluderebbe dagli aiuti le società che erano già in difficoltà a fine 2019. Insomma, taglierebbe fuori Alitalia, mentre consentirebbe ad Air France di ricevere 7 miliardi da Parigi e a Lufthansa di ottenerne 10 da Berlino.

Per questi motivi la discussione sulla riforma, che secondo il premier Conte a breve porterà a un accordo, ha scatenato lo scontro tra i Paesi ricchi del Nord e quelli poveri del Sud Europa. Per la Spagna, gli interventi dei governi stanno distorcendo il mercato unico e creano il rischio che la ripresa possa essere asimmetrica: Madrid ha chiesto a Bruxelles di mantenere limiti di portata e di calendario agli aiuti pubblici. La Commissione Ue ha risposto di voler preservare le condizioni di parità sul mercato interno, ma le spinte dai Paesi del Nord non mancano.

Le preoccupazioni per la concorrenza nella Ue sono confermate da una ricerca di Massimo Motta dell’Università di Barcellona e Martin Peitz dell’Università di Mannheim: “Se solo alcune imprese in un determinato settore possono accedere ai fondi pubblici e altre no la concorrenza ne uscirà distorta. La cosa è inevitabile se gli aiuti sono offerti da alcuni Paesi e non da altri, ad esempio perché solo alcuni Stati possono finanziarli o perché Stati diversi supportano settori diversi”, scrivono Motta e Peltz. Per i due ricercatori, solo un vero programma di sostegno pubblico della Ue, con decisioni prese a livello europeo sulla base di obiettivi concordati e beneficiari indipendenti dai Paesi di residenza, eviterebbe di aggravare i divari tra economie forti e deboli.

Il sindacalista di Berlino: “L’Italia non può essere lasciata sola, serve debito comune”

La corona-crisi ci colpisce tutti. Noi sindacalisti tedeschi abbiamo visto con sgomento che portata ha assunto in Italia. Mentre pare che gli Stati europei stiano riuscendo lentamente a venire a capo della pandemia, si riuscirà a comprenderne le conseguenze soltanto gradualmente. Saranno di carattere politico, sociale ed economico – in Italia, in Europa e nel mondo.

Dallo scoppio del Coronavirus l’Italia e altri Stati dell’Ue hanno agito con fermezza in tempi brevissimi e hanno adottato delle misure significative per tutelare la popolazione e sostenere l’economia: ogni Paese per se stesso. Ed è stata cosa buona e giusta, perché si tratta di compiti che spettano agli Stati nazionali.

Ma queste misure costano molto e così il debito pubblico cresce. Adottare a questo proposito contromisure per attenuare le conseguenze in modo efficace in Europa è anche compito dell’Unione europea, o almeno lo dovrebbe essere, perché l’Ue è un progetto comune. È importante trovare soluzioni condivise proprio durante la crisi. Non è accettabile che alcuni Stati escano dalla crisi relativamente indenni, mentre altri vengono lasciati soli coi loro problemi.

Bisogna riconoscere che la Banca centrale europea ha lanciato un programma per l’emergenza pandemia con il quale ha potuto acquisire titoli pubblici e privati per stabilizzare i mercati finanziari. Inoltre, senza esitare, la Commissione ha mobilitato risorse già esistenti a sostegno delle piccole e medie imprese, così come a favore delle spese per i sistemi sanitari negli Stati membri, e successivamente ha stanziato prestiti per il sostegno temporaneo della cassa integrazione. Se è vero che queste misure sono senz’altro importanti, sono anche limitate nel volume e inoltre producono la crescita del debito dei Paesi che beneficiano di questi crediti.

Anche i prestiti dell’Ue a tassi agevolati alla fine rappresentano comunque debiti degli Stati. Ma se in tempi come questi i singoli Stati vengono lasciati soli coi loro debiti cresce il rischio che sui mercati finanziari internazionali si cominci a speculare contro questi Paesi. Al momento, questi rendimenti sono ancora gestibili, ma la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ha fatto vedere che gli interessi possono salire velocemente e mettere così a rischio la solvibilità degli Stati.

Adesso, dunque, è necessario rafforzare la coesione europea e adottare misure in grado di evitare un’altra crisi europea del debito sovrano. Serve ora uno strumento solidale con cui i paesi dell’Eurozona possano far fronte insieme alle manovre di salvataggio e di ricostruzione che in questa fase si rivelano necessarie. In questo momento l’Europa solidale ha bisogno di titoli comuni con cui possiamo contrarre congiuntamente prestiti a condizioni migliori in un regime di responsabilità solidale.

Anche in Germania si moltiplicano le voci favorevoli a questa soluzione comune. Essendo stata campione mondiale dell’export per molti anni, la Germania ha profittato particolarmente del mercato unico europeo. Anche per questo motivo il governo tedesco deve finalmente smettere di fare ostruzionismo e promuovere una delibera dell’eurozona a favore di titoli comuni. I sindacati tedeschi sono impegnati già da tanto tempo in questa direzione, perché noi in Europa siamo indissolubilmente legati gli uni con gli altri.

Gli approcci nazionali non rappresentano più una soluzione, mentre uno spazio economico e monetario comune può funzionare solo rimanendo insieme. Le cittadine e i cittadini lo devono sapere: l’Ue non è solo capace di agire, ma agisce anche! La solidarietà è un prerequisito affinché un buon futuro per tutti sia possibile.

 

Stangata tedesca sulla Bce Adesso l’eurozona trema

Le Corti costituzionali, absit iniuria verbis, fanno politica e quella tedesca non fa eccezione: fanno politica nel senso che gli effetti delle loro decisioni sono ovviamente politici e la fanno perché tengono conto del contesto. La sentenza di ieri con cui i giudici di Karlsruhe – all’esito di una guerra con la Bce che dura dal 2012 – promuovono con moltissime riserve il Quantitative easing 2015-2018 di Mario Draghi ne è una plastica esemplificazione: la Corte tedesca – mentre formalmente dice sì al Qe e si perita di escludere gli interventi decisi durante l’emergenza Covid – sconfessa la Corte di Giustizia dell’Ue (CgUe), mette in questione l’indipendenza della Banca centrale e stabilisce per un futuro non troppo lontano una serie di paletti all’istituto guidato da Christine Lagarde tali da impedirgli di fare il suo lavoro (tenere in piedi la baracca).

Breve riassunto. Karlsruhe nel 2016 aveva già, con una sentenza assai simile, posto paletti stringenti al programma Omt della Bce (quello scaturito dal whatever it takes di Draghi) dopo un sostanziale via libera della Corte di Giustizia dell’Ue l’anno prima: l’accusa era la stessa di oggi, vale a dire quella di aggirare il divieto di finanziamento monetario degli Stati presente nei Trattati Ue. Come detto, la Corte costituzionale della Germania modificò di fatto l’impianto iniziale delle Omt perché fossero conformi ai Trattati e alla “legge fondamentale” tedesca: gli aiuti, tra le altre cose, non possono essere illimitati e senza vincoli temporali, vanno riservati solo a titoli che abbiano ancora mercato e siano di recente immissione, più altre cosette. Pochi lo hanno ben capito finora per il motivo che le Omt non sono mai state usate…

Nel 2017 la sfida si spostò appunto sul Quantitative easing e anche stavolta (dicembre 2018) la Corte di Giustizia dell’Ue disse che la Bce non aveva valicato i suoi limiti in una sentenza che in Germania venne considerata “un affronto” (Die Welt). E si arriva a oggi. Cosa dice Karlsruhe? Che la sentenza della CgUe dà “un’interpretazione dei Trattati non comprensibile” e quindi “va oggettivamente considerata arbitraria”: “Almeno per quanto riguarda la Germania, queste decisioni mancano del minimo di legittimazione democratica”. Uno schiaffo all’idea stessa di un diritto comunitario preminente rispetto alle leggi nazionali: l’enorme discrezionalità affidata alla Bce e il lassismo nei controlli della CgUe, scrive la Corte in un suo comunicato, “apre la strada a una continua erosione delle competenze degli Stati membri”.

Quanto al Qe – che, giova ricordarlo, è in corso in una versione bis fino a fine 2020 – non è che sia illegale in sé, ma per com’è strutturato rischia di violare i Trattati e la legge fondamentale tedesca, finendo per sostituirsi alla politica economica nella direzione della condivisione dei rischi, esplicitamente vietata e mai sottoposta al Parlamento tedesco.

Perché non sia incostituzionale, insomma, il Quantitative easing dev’essere come le Omt “riformate”: non illimitato, non eterno, eccetera. In particolare per Karslruhe contano il limite del 33% dei titoli di uno Stato in possesso della Banca centrale e il principio della capital key, cioè che gli acquisti vanno fatti in proporzione al peso che ogni Stato ha nel capitale della Bce: questi paletti “impediscono l’adozione di misure selettive a beneficio dei singoli Stati”. Ad aprile, per capirci, il capital key è stato largamente violato a favore di Italia e Francia, bisognose di sostegno, a scapito della Germania, che non ne ha bisogno (e così si è contenuto lo spread, in futuro chissà…).

E ora che succede? “Il governo federale tedesco e il Bundestag hanno il dovere di prendere le dovute iniziative contro il Qe nelle sue forme attuali”, dice la Corte. La Bce, invece, ha tre mesi per convincere i giudici dell’impossibile: che quei limiti sono stati rispettati tra il 2015 e il 2018. Se non lo farà, nessun pezzo delle istituzioni tedesche – ivi compresa la Bundesbank, che è la principale azionista della Bce – potrà “partecipare allo sviluppo, all’attuazione, esecuzione o messa in atto di atti ultra vires”, cioè fuori dai poteri previsti dalle leggi.

E qui entra in scena la politica. La Corte tedesca lascia infatti un po’ di tempo ai governi per trovare una via d’uscita che a livello legale pare impossibile: a Trattati europei vigenti, sta dicendo Karlsruhe, esiste solo il modello Grecia (prestiti dietro condizioni capestro). La Bce, da parte sua, ha risposto ribadendo che la CgUe le ha dato ragione e che resta “pienamente impegnata a fare qualunque cosa necessaria, nel suo mandato”.

Il tempo però è agli sgoccioli: il prossimo ricorso sarà contro il Pepp, il programma di acquisti da 750 miliardi almeno, lanciato contro la crisi finanziaria da Covid-19, che è ancor meno conciliabile del vecchio Quantitative easing coi diktat della Corte tedesca.

Il presidente dell’Ifo, Clemens Fuest, economista organico alla Cdu di Angela Merkel (corrente “falchi”), l’ha messa così: la sentenza, in sostanza, “limita la possibilità di acquistare titoli di Stato italiani”. È una bomba a orologeria sotto il tappeto dell’Eurozona, che in autunno rischia di esplodere. Nelle condizioni date, e visto che è messa peggio di come le piace apparire, è la Francia a dover decidere cosa fare.