La destra sta col pm. Ma ieri lo insultava

Come le migliori nemesi, anche questa ha il retrogusto della beffa. Per chiedere le dimissioni del Guardasigilli Alfonso Bonafede, accusato di essersi fatto influenzare dai boss mafiosi nelle nomine ministeriali, i suoi detrattori devono infatti elevare a indiscutibile detentore della verità il magistrato Nino Di Matteo.

Il problema è che gli stessi che gli credono sulla parola – scelta legittima, per carità – ne hanno invece infangato le indagini quando il pm si occupava del processo sulla trattativa Stato-mafia, arrivato a sentenza nel 2018.

Il caso più evidente è quello di Forza Italia. Ieri il senatore Luigi Vitali è stato tra i tanti a chiedere un passo indietro a Bonafede: “A seguito di quanto raccontato da Nino Di Matteo, non solo chiediamo che il Guardasigilli venga a dare spiegazioni in Antimafia, ma che subito dopo si dimetta”. Di più: Giorgio Mulé protesta per come ieri il Tg1 dell’ora di pranzo abbia omesso la notizia: “Lascia basiti che il Tg1 non abbia dato alcuno spazio allo scontro tra Di Matteo e Bonafede. Oramai siamo alla censura preventiva pur di compiacere e non disturbare il governo”.

E pensare che a novembre 2019, quando Di Matteo parlò di trattativa Stato-mafia su Rai Tre, fu coperto di insulti: “un vaniloquio da mitomane” (Andrea Ruggieri), “vergognosa propaganda senza contraddittorio” (Maurizio Gasparri), “una delle più brutte pagine della Rai” (Alessandra Gallone). Per non dire dei commenti sulle indagini e sulla sentenza che confermò buona parte dell’impianto accusatorio: “Il fatto che uno dei pm – attaccò FI – non a caso assiduo partecipante alle iniziative del M5S, si permetta di commentare la sentenza adombrando responsabilità di Berlusconi è di una gravità senza precedenti e sarà oggetto dei necessari passi in ogni sede”.

Di sicuro FI non è l’unico partito ad aver cambiato idea sulla credibilità del pm. Matteo Salvini adesso è irremovibile: “Le accuse nei confronti del ministro Bonafede sono gravissime anche perché arrivano da un uomo di legge, da un uomo di giustizia”. Se non fosse che anche solo accostare B. alla mafia faceva (fa?) rabbrividire il leader leghista: “Ridicolo indagare Berlusconi per le stragi di mafia – disse nel 2017 dopo l’indagine a Firenze sulle stragi del 92/93 – È il solito intervento politico di una parte della magistratura”. Quelle indagini non furono condotte da Di Matteo, ma il pensiero di B. alle prese con quei sospetti faceva scattare anche Matteo Renzi: “Sono attonito. Sostenere, senza uno straccio di prova, che Berlusconi sia il mandante dell’attentato contro Maurizio Costanzo significa fare un pessimo servizio alla credibilità delle istituzioni”. Oggi in Iv è Cosimo Ferri a indicare la via: “Bonafede si dimetta, fa miglior figura”.

E pure la Meloni, che poi in un secondo momento avrebbe preso le distanze da Marcello Dell’Utri (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), fino al 2012 era sicura: “A me continua a sfuggire in ragione di cosa Dell’Utri avrebbe dovuto intrattenere rapporti con la criminalità organizzata per conto di Berlusconi”. Anche lei adesso si fida di Di Matteo: “Fossi Bonafede, rassegnerei le dimissioni”.

Bonafede propose il Dap a Di Matteo sapendo dei boss

Domenica, a tarda sera, avviene l’impensabile: un confronto-scontro a distanza, in tv, tra l’attuale consigliere del Csm, Nino Di Matteo, pm antimafia in prima linea, il pm della trattativa Stato-mafia e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Oggetto: la mancata nomina a capo del Dap (Dipartimento affari penitenziari) dello stesso Di Matteo. A lui fu preferito Francesco Basentini, nel frattempo costretto alle dimissioni per gli errori legati alla gestione dei mafiosi al 41-bis.

Su La7, Massimo Giletti a Non è l’Arena. torna parlare di quanto non sia stato fatto dal Dap per evitare i domiciliari al boss dei casalesi Pasquale Zagaria, mandato a casa, in zona rossa Covid, nel Bresciano, dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari. Giletti ricorda che prima della nomina di Basentini era stato fatto il nome di Di Matteo. Dino Giarrusso (M5S) evoca una trattativa tra il ministro e il magistrato e a quel punto Di Matteo decide di intervenire al telefono: “In realtà – dice – venni raggiunto da una telefonata del ministro Bonafede e mi chiese se ero disponibile ad accettare il ruolo di capo Dap o, in alternativa, quello di direttore generale degli Affari penali, il posto che fu di Giovanni Falcone. Chiesi 48 ore di tempo. Nel frattempo, è molto importante si sappia, alcune note della polizia penitenziaria del Gom, che credo fossero a conoscenza anche del ministro, avevano descritto la reazione di capimafia che dicevano ‘Se nominano Di Matteo è la fine’. Al di là delle loro valutazioni, racconta il magistrato, chiesi al ministro 48 ore di tempo per pensarci. Andai poi a trovare il ministro per accettare la nomina al Dap, ma mi disse che ci aveva ripensato, che avevano pensato per me fosse meglio il ruolo di direttore generale al ministero… Il ministro aveva cambiato idea o era stato indotto a ripensarci, questo non lo posso sapere, perché al telefono mi aveva detto ‘Scelga lei’”.

Ma quell’incontro di persona non è una chiusura definitiva, tanto che lo stesso Di Matteo racconta che il giorno dopo torna dal ministro ed è in quel momento che respinge la proposta di andare agli Affari penali (in realtà ormai Dag, affari generali): “Gli dissi di non contare su di me”.

Replica, sempre in diretta, di Bonafede: “L’idea per cui avrei ritrattato una proposta a Di Matteo (a causa delle reazioni dei mafiosi, ndr) non sta né in cielo né in terra”. Bonafede sostiene che “è una percezione di Di Matteo. Quando è venuto al ministero – prosegue – gli dissi che tra i due ruoli sarebbe stato meglio quello di direttore degli Affari penali che era il ruolo di Falcone, non era un ruolo minore, lo vedevo di più di frontiera nella lotta alla mafia. A me era sembrato che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo, tanto che il giorno dopo mi ha chiesto di incontrarmi”. E il pm rifiuta.

Secondo quanto risulta al Fatto, quelle conversazioni dei capimafia in carcere furono riportate in una relazione del Dap al ministro il 9 giugno 2018, cioè prima che Bonafede prospettasse a Di Matteo le due possibilità: Dap e Affari penali. Telefonata e incontri tra i due si svolgono, infatti, tra il 18 e il 20 giugno.

La mancata nomina di Di Matteo al Dap fu rivelata dal Fatto il 27 giugno quando abbiamo dato conto delle reazioni allarmate dei boss al 41-bis: “ Vogliono fare Di Matteo capo delle carceri. Questi so’ pazzi…”.

Bonafede, ieri, è tornato a rispondere, ma via social, anche in merito a quello che definisce “vergognoso dibattito” di chi, nel centrodestra e non solo, lo accusa di non aver nominato Di Matteo al Dap per le reazioni dei mafiosi: “È un’ipotesi tanto infamante quanto infondata e assurda”.

Rispetto alla tramontata proposta, in 24 ore, di nominare Di Matteo capo del Dap ma di portarlo in via Arenula, Bonafede scrive di avergli spiegato che il suo arrivo al ministero sarebbe stato “un segnale chiaro” ai mafiosi, “mi sembrava fossimo concordi”. Il giorno dopo, però, Di Matteo rifiuta “legittimamente” l’incarico anche se, aggiunge il ministro, gli disse che sarebbe stato “la punta di diamante del ministero contro la mafia”.

Fois gras, basket e lanciafiamme: Kim è uno, nessuno e centomila

Il giovane Kim Jong-un – che ci ha appena preso in giro con l’ennesima trovata planetaria di sparire per riapparire – discende direttamente dal nonno divino, più o meno come il nostro John Elkann. Ma invece di giocare in cameretta con i giornali di carta e le automobiline, maneggia testate nucleari a medio e lungo raggio, minaccia il mondo con il suo esercito di 1,2 milioni di soldati robot e affama la sua intera nazione, 23 milioni di disgraziati, prigionieri nella misteriosa e bellissima Repubblica democratica della Corea del Nord. Che tiene nascosta al mondo, proprio come fa – di quando in quando – con la sua sorte. È malato? È morto? Ma no, sta benissimo. Scherzava.

Quando l’altro giorno è ricomparso davanti a un nastro rosso da tagliare, con forbici e fanfare al seguito, quasi nessuno al mondo se n’è rallegrato. Il quasi comprende due campioni della nostra politica: Antonio Razzi, che tra un viaggio romantico e l’altro a Pyongyang, imita Crozza in televisione. E Matteo Salvini, che ha sempre un debole per i dittatori tagliagole, purtroppo senza condividere la loro medesima fortuna dei pieni poteri. Visitò la Capitale nel settembre del 2014 e ne tornò entusiasta: “Non c’è una cartaccia per terra, non c’è Internet: un paradiso”. Chissà se gli avevano anche fatto vedere la parte più esclusiva del paradiso, i campi di detenzione dove spariscono a migliaia gli oppositori, tutti circondati da un elegante filo spinato con mitragliatrici e vedove.

Ma se il nostro Salvini è solo un capitano credulone in felpa, Kim è un generale a quattro stelle, anzi “Maresciallo della Nazione, “Presidente supremo”, “Sole splendente”, nonché “Genio tra i geni”, come lo incensa il regime che dal 2011 gli garantisce obbedienza assoluta, pena la morte, e financo il premio annuale di “uomo più elegante dell’anno”. Purtroppo fuori dai suoi confini gli appellativi cambiano. I sudcoreani, che condividono 284 chilometri di confine disseminato di mine, carri armati e bunker, lo chiamano Crazy Kim, il pazzoide. Per le diplomazie internazionali è Chubby Brat, il marmocchio paffuto. Mentre il suo amico Donald Trump lo ha battezzato The Nut Job, lo svitato. A parte l’arsenale missilistico di cui dispone e che a ondate bipolari scaglia nel mar del Giappone, di lui si sa poco più dell’essenziale. È nipote del “Presidente eterno” Kim Il Sung, il fondatore, generato dal monte sacro Paektu, dunque divino, sebbene comunista di ortodossia marxista-leninista, spolverato dalla farina del sacco rivoluzionario cinese. Ed è figlio di Kim Jon Il, il “Caro leader”, che ebbe tre mogli, l’ultima una ballerina giapponese che mise al mondo l’Erede in una data ancora controversa, forse nel gennaio del 1982, oppure del 1983. Allevato nel lusso dei palazzi segreti, il piccolo Kim ha trascorso l’adolescenza nei collegi svizzeri sotto le mentite spoglie di figlio di un impiegato dell’ambasciata coreana. Salvo che nella casa di Berna aveva un cuoco, un tutor, una guardia del corpo, un autista che lo accompagnava a scuola su una fiammante Mercedes 600, la più grande di gamma.

I compagni di scuola lo hanno descritto come diligente, introverso, appassionato di basket e Playstation, non un ragazzino memorabile, salvo la ricchezza e l’appetito. Per la laurea in Informatica ha prudentemente scelto l’università militare di casa, intitolata al nonno e governata dal padre, promosso a pieni voti.

L’ascesa al potere è rapida e spietata. Secondo i dossier dei servizi segreti occidentali cinque dei sette dignitari che trasportano la bara del padre, spariranno o moriranno nei mesi in cui Kim perfeziona la sua nuova squadra di fedelissimi. A cominciare dallo zio che fa arrestare durante il comitato centrale, trascinato via in manette, poi fucilato, insieme ad altri alti ufficiali, da un plotone che per liquidarli usa mitragliatrici antiaeree.

Le armi sono la sua passione. Nei molti omicidi politici che costellano il suo regime compaiono, oltre alle ordinarie fucilazioni, corde, coltelli, un lanciafiamme, una muta di cani affamati. Il più spettacolare è l’uccisione del fratellastro, avvelenato il 23 febbraio 2017, da due agenti incuranti delle telecamere dell’aeroporto internazionale di Kuala Lumpur, Malesia, usando una dose letale di gas nervino.

Secondo gli analisti americani che lo studiano con la pazienza degli entomologi, è “capriccioso, lunatico, cattivo”. Vive nel perfetto isolamento della sua corte. Si sposta su treni privati e blindati. Mai in aereo. Ha una intera brigata di agenti addetti alla sua sicurezza, compresi gli assaggiatori. Ma è capacissimo di farsi del male da solo. Fuma due pacchetti di sigarette Yves Saint Laurent al giorno. Beve troppo whisky. Mangia troppo, specialmente fois gras. Pesa 130 chili e a 36 anni è già ammalato di diabete.

Fino al lisergico incontro con Donald Trump, a Singapore, 12 giungo 2018, con scambio di insulti e poi abbracci, pochissime persone straniere sono state ammesse al suo cospetto: il suo idolo del basket Dennis Rodman, Kenji Fujimoto un cuoco di sushi giapponese che ha servito per anni in casa del padre, il presidente cinese Xi Jinping che gli copre le spalle e il deficit, in cambio delle molestie all’America.

Il solo legame speciale esibito è con la sorella Kim Yo-jong, 31 anni, che pare sappia fronteggiare i suoi eccessi d’ira e che lui ha spedito tra i nemici della Corea del Sud, sorridente, gentile, imperscrutabile, nei panni di capo delegazione ai Giochi olimpici invernali del 2018.

Massimo esperto in paranoia, Kim non si trova poi così male nel nuovo paesaggio internazionale delle democrature, visto che a forza di minacciare il mondo è passato dalla cronaca nera a quella diplomatica. Armandosi ha chiesto il disarmo della Corea del Sud e la fine delle sanzioni americane. Ha mangiato il famoso hamburger con il suo nuovo amico Donald. E negli stessi giorni ha sperimentato la sua nuova bomba all’idrogeno. Dunque non è malato, non è morto. Ma soprattutto non scherza affatto.

Il contagio dei vip e la fame dei poveri: il Covid minaccia il socialismo di Obrador

In Messico anche il Covid-19 va a due velocità. Una, quella di ingresso, rapida, ha viaggiato assieme alla classe dirigente e finanziaria del Paese: ricca, ben vestita, festaiola, cosmopolita e internazionale. La stessa che a marzo ha imbarcato con sé il virus sui voli di rientro dalla settimana bianca a Vail, Colorado, la Aspen di chi non ne può più di Aspen. Un luogo di baite in stile tirolese incastonato tra le Montagne Rocciose per le cui stradine si aggirano famiglie legate al presidente degli Usa, Donald Trump, o ai fratelli Koch così come imprenditori latinamericani. Quattrocento persone che a marzo, finito il torneo di snowboard insieme con sci e bauli pieni di equipaggiamenti all’ultima moda e abiti da sera di accompagnatrici abbronzate, portarono a casa in Messico, anche il coronavirus. La seconda velocità, è quella che odora di frutta, verdura, carne, spezie e salumi del più grande mercato all’ingrosso di Città del Messico. Ha il viso pallido di un contadino che da Jalisco guida un furgone ricolmo di cassette raccolte dai campi: ha 33,5 di temperatura come verifica la polizia che cerca di frenare il virus nello stabilimento che rifornisce l’intero Stato, grande cinque volte il Vaticano. “Zona ad alto contagio”, recita il cartello sul cancello aperto ai commercianti. L’altro, quello per la vendita al dettaglio è abbandonato.

Non entra più nessuno da quando, due giorni fa, il mercato è diventato zona rossa: 25 casi, un morto e 8 ricoverati. Il crocevia del cibo messicano rischia di diventare off limits con conseguenze sociali ed economiche inimmaginabili per l’intero Paese. Intanto Jaime Ruiz Sacristan, il presidente della Borsa, uno dei 50 contagiati della località turistica di Vail è morto, un suo consigliere ancora non si riprende e finanche il re della fiesta di Vidal, Juan Domingo Beckmann, amministratore delegato della tequila più famosa nel mondo, José Cuervo, se l’è vista brutta oltre ad aver contagiato a sua volta Placido Domingo, il cantante lirico chiamato a omaggiarlo al suo compleanno.

La somma di queste due direttrici porta dritto agli ospedali di un sistema sanitario fragile, con poche risorse e già saturo, mentre il Messico aspetta il picco di contagi per il fine settimana con 2.000 operatori sanitari contagiati. “Quando sono cominciati ad arrivare i pazienti – racconta a El Pais Clemente Zúñiga, uno dei medici dell’Ospedale Generale di Tijuana appena guarito – non avevamo mezzi per assistere neanche i pazienti non Covid, immaginatevi quando sono arrivati quelli affetti da una malattia così grave e sconosciuta. Non avevamo mezzi sufficienti e non sapevamo neppure come utilizzarli”. Da Vial a Tijuana, dalla classe dirigente ai 20.739 casi positivi e 1.972 morti in tutto il Paese. In mezzo, il governo socialista di José Manuel Lopez Obrador che – unico nella Regione – non ha chiuso gli aeroporti per paura delle ripercussioni economiche, ma ha obbligato i cittadini al lockdown e alla chiusura delle attività non essenziali. Ma Amlo ha decretato il taglio del 25% degli stipendi degli alti funzionari, inimicandosi l’Amministrazione pubblica.

D’altro canto il governo – che minaccia di anticipare il referendum confermativo di un anno rispetto alla data stabilita per metà mandato nel 2021, pur di mettere a tacere una volta per tutte le critiche – ha tagliato anche la spesa pubblica e non ha stanziato fondi per la pandemia. “Basterà rafforzare le misure di welfare già esistenti per sostenere la popolazione più fragile e le piccole e medie imprese”, ha giurato Amlo. Eppure non tutti sono d’accordo: a chiedere misure eccezionali non è solo la Confindustria messicana, ma anche i sindacati, ultimi sostenitori di un governo che hanno sempre sostenuto ma che appare sempre più in difficoltà. A completare il quadro della crisi, le pressioni di Donald Trump, non solo sul versante dell’immigrazione, quella proveniente dal Centro e Sudamerica che gli Usa ora giurano di respingere con ancora più forza brandendo la minaccia del coronavirus negli Usa. Forte degli aiuti economici promessi a Lopez Obrador, Trump spinge anche per la riapertura delle fabbriche di frontiera, parti di una stessa catena di montaggio che si è bloccata un mese fa e che gli Usa vorrebbero riprendesse al più presto, incontrando la resistenza di Amlo e degli imprenditori a Sud del Rio Bravo. “Abbiamo bisogno di controllare la situazione giorno per giorno e trovare le misure adeguate per riprendere la produzione”, ha spiegato a El Pais il presidente di Volkswagen Messico, Steffen Reiche, chiarendo che l’ultima parola sulla velocità di ripresa, questa volta, spetta al Messico.

Francia, la rivolta dei sindaci: “Presto per aprire le scuole”

Bisogna rinviare la riapertura delle scuole: oltre 300 sindaci della regione di Parigi si ribellano alla decisione del governo, che si scontra anche con il parere del comitato scientifico, di far tornare i bambini delle materne ed elementari sui banchi di scuola sin dall’11 maggio, lunedì prossimo. In 316, compresa Anne Hidalgo, la sindaca Ps di Parigi, hanno lanciato un appello a Macron sul quotidiano La Tribune. I sindaci sono preoccupati.

L’Île-de-France è la regione più colpita dall’epidemia, con più di 6mila morti, e l’11 maggio resterà “zona rossa”: ciò vuol dire che la circolazione del virus e la pressione sugli ospedali restano alte. Secondo i sindaci il calendario imposto dal governo è “impossibile da rispettare”: non ci sono abbastanza tempo e risorse per garantire “l’applicazione stretta del protocollo sanitario”. Una “guida” di oltre 60 pagine, con regole dalla sanificazione dei locali all’organizzazione delle mense, che è stata distribuita alle scuole solo domenica. Molti sindaci hanno deciso di lasciare i cancelli degli istituti chiusi. Ma la fronda non piega l’esecutivo. “La riapertura delle scuole è una priorità pedagogica, sociale, repubblicana”, ha ribadito ieri il premier Edouard Philippe, ricordando che il ritorno dei bambini in classe non è obbligatorio e che saranno i genitori a decidere. Ieri il piano per la ripartenza di Philippe è stato respinto dal Senato, con 89 voti contrari, 81 favorevoli e 174 astenuti (ma il voto non è vincolante).

Macron ha detto ai francesi che bisogna affrontare la ripartenza “con calma, pragmatismo e buona volontà”. Ma tanti sono gli insoddisfatti. A meno di una settimana dalla fine del lockdown e di un mese dalla seconda tappa fissata per le riaperture, il 2 giugno, diversi settori, turismo e cultura in testa, non hanno nessuna indicazione sul da farsi. Il ministero del Lavoro ha pubblicato ieri le regole per le aziende del settore privato che riaprono lunedì prossimo: spazio minimo di quattro metri quadrati a persona, orari sfalsati anche per la pausa caffè, percorsi a senso unico per evitare che i dipendenti si incrocino, limitazione del numero di persone negli ascensori, divieto di testare i dipendenti. Il virus ha già ucciso in Francia 25.201 persone. Questi dati comprendono i decessi in ospedale (15.826) e nelle case di riposo (9.375). Ma il numero reale di vittime del Covid sarà noto solo a giugno quando, come annunciato dal ministro della Salute Véran, sarà comunicato anche il numero dei morti a casa.

Stando al sindacato dei medici generici Mg France, sono almeno 9mila le persone morte per il virus in casa tra il 17 marzo e il 19 aprile. Intanto una scoperta dell’ospedale Jean-Verdier di Bondy, nella regione di Parigi, riscrive la storia dell’epidemia di Covid in Francia, accertando la presenza del virus nel paese sin dal 27 dicembre 2019. Il dottor Yves Cohen, primario del reparto di terapia intensiva a Bondy, ha verificato dei test realizzati all’epoca su 24 pazienti ricoverati per gravi polmoniti. Uno è risultato positivo al Covid-19: un francese di 50 anni, ora guarito, che non aveva viaggiato in Cina. In Francia invece i primi due casi ufficiali di contagio, due turisti cinesi, erano stati annunciati il 24 gennaio.

“Abbiamo le prove”: il mantra americano che si rivela un bluff

“Abbiamo le prove”: dal 6 febbraio 2003, quelle parole, quando sono pronunciate da un esponente dell’Amministrazione Usa, fanno correre un brivido lungo la schiena. Quel giorno, Colin Powell, Segretario di Stato di George W. Bush – la persona migliore di quell’Amministrazione, la più stimata e la più credibile – presentò al Consiglio di Sicurezza dell’Onu le “prove” che l’Iraq possedeva armi di distruzione di massa. Gli Stati Uniti chiedevano alle Nazioni Unite il via libera, che non fu loro dato, per invadere l’Iraq: il discorso di Powell terminò nel gelo; quello a seguire, di segno opposto, del ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin, fu subissato da un uragano d’applausi. Non servì. Sei settimane dopo, il 20 marzo, gli Stati Uniti bombardarono Baghdad e diedero il via all’invasione: il regime di Saddam Hussein fu rovesciato; l’Iraq fu trascinato ina una guerra civile uno dei cui frutti è stato il sedicente Stato islamico; le armi di distruzione di massa non furono mai trovate. Perché non c’erano.

“Abbiamo le prove” è un mantra che ritorna spesso nell’America di Trump: le prove che il regime di Bashar al-Assad è dietro attacchi chimici in Siria, -e scattano ritorsioni missilistiche; le prove che l’Iran è dietro attacchi nel Golfo contro petroliere in transito o il lancio di missili su impianti petroliferi sauditi; le prove che il generale Soleimani prepara attentati contro interessi americani, e viene assassinato con un drone a Baghdad; ora le prove che il coronavirus è stato prodotto in Cina, in un laboratorio di Wuhan, cui è sfuggito o che l’ha addirittura diffuso.

Il fatto è che le asserite prove, in genere, non ci sono e, comunque, non vengono prodotte. Mettere la Cina sul banco degli imputati e fare ripartire l’America: sono le due priorità, le due ossessioni, del presidente Trump e della sua Amministrazione in questo momento. Da domenica, è una raffica di dichiarazioni anti-cinesi sulle tv Usa. Intanto i decessi per coronavirus domenica sono stati 1.450: il totale delle vittime, secondo i dati della Johns Hopkins University, è a 69 mila, quello dei contagiati supera 1.166.000. Trump, che collocava a 70 mila il tetto dei decessi – sarà superato entro oggi –, parla ora di 75/100 mila vittime. E c’è chi prevede che la riapertura raddoppierà il numero dei morti. Ma è la Cina a tenere banco. Prima Trump twitta: “L’intelligence mi ha detto che avevo ragione: non ha sollevato il tema del coronavirus fino a fine gennaio, poco prima del mio divieto” di viaggi tra Cina e Usa. Secondo quanto riferito da un funzionario della sua Amministrazione ai media Usa, il presidente ebbe due briefing dall’intelligence sul coronavirus alla fine di gennaio, otto giorni prima d’imporre le restrizioni ai viaggi da e per la Cina. Poi vengono le dichiarazioni alla Abc del Segretario di Stato Mike Pompeo, secondo cui “ci sono numerose prove sul fatto che il coronavirus arrivi dal laboratorio di virologia di Wuhan” – asserzione in contrasto con le evidenze scientifiche che il virus abbia origini naturali – e alla Cnn del consigliere di Trump per le politiche commerciali Peter Navarro, un falco: “La Cina ha nascosto il virus al mondo, la domanda ora è se la Cina vada ritenuta responsabile per la pandemia”. Gli esperti dell’Oms, nel corso del consueto briefing di ieri sera, hanno definito “speculazioni” le teorie circa un’origine in un laboratorio cinese del coronavirus e hanno sottolineato di non avere ricevuto alcuna prova da parte degli Stati Uniti. Ma il presidente Trump tira dritto e risponde a domande dei cittadini sulla Fox dal Lincoln Memorial: “Penso – dice – che i cinesi hanno cercato di nasconderlo, ma non ci sono riusciti” e hanno consentito che il virus si diffondesse… Xi Jinping è un brava persona ma ciò non sarebbe mai dovuto accadere”.

Parole che allarmano i mercati: in Borsa, è un lunedì nero. A breve sarà diffuso un rapporto Usa su coronavirus e Cina: secondo anticipazioni stampa, Pechino tagliò l’export di forniture mediche “prima di notificare all’Oms che il Covid-19 era contagioso” e avrebbe “pubblicamente sempre negato di aver imposto un bando sull’esportazione di mascherine e altre forniture mediche”.

I media cinesi giudicano “pazze ed evasive” le parole di Pompeo, benzina sul fuoco sulle complesse e difficili relazioni sino-americane; e lo invitano a “presentare queste cosiddette prove al mondo… Pompeo non ha alcuna prova… sta bluffando.” L’Amministrazione Trump “continua a impegnarsi in una guerra di propaganda senza precedenti” per coprire la cattiva gestione dell’emergenza Usa. E la Cina ha “regolarmente” fornito dal 3 gennaio informazioni all’Oms, agli Usa e ad altri Paesi. Ma Trump perse altri due mesi. Pompeo e l’ex consigliere Steve Bannon sono “due clown bugiardi”.

Mail Box

 

Sallusti si mette nei panni dei poveracci: è da ridere

Dalla Gruber come faceva Marco Travaglio a rimaner serio quando Sallusti si metteva nei panni della povera gente che non aveva ricevuto il dovuto e temeva le barricate per mancanza di cibo?!… Da scompisciarsi!

Cesare Fioravanti

Caro Cesare, grazie per la sua comprensione.

M. Trav.

 

L’istrionica foga di Meloni sulle carceri in rivolta

La Meloni a Non è l’arena ha sostenuto con istrionica foga che “il governo di fronte alla rivolta delle carceri se l’è fatta sotto e ha preferito scendere a patti, ecco perché ci sono le scarcerazioni”! Passi che un parlamentare non possa essere perseguito per le cazzate che dice, ma Giletti?

Caro Antonio, stendiamo un velo pietoso…

M. Trav.

 

Dopo la militanza renziana mi sono “arreso” al “Fatto”

Ebbene sì. Mi sono arreso. Dopo lunga militanza renziana, ho cominciato a leggere il Fatto. Vi ho “odiato” per tante cose e ancora oggi ovviamente non rinnego le mie convinzioni in contrasto con le vostre. Conte si sta rivelando una persona seria, viceversa, l’opposizione di Salvini e Meloni credo si sia dimostrata la peggiore nelle democrazie occidentali: Renzi, il 2,7 che vuole fare e disfare governi pro domo sua; buon ultimo episodio, la “mossa del cavallo” della famiglia Agnelli alla direzione di Repubblica. Mi hanno convinto. A scegliere voi.

Mauro Branchesi

Caro Mauro, benvenuto in famiglia!

M. Trav.

 

Travaglio senza mascherina? Non era obbligatoria

Caro direttore, ho visto su Dagospia una sua foto al supermercato senza mascherina, con la dicitura “Travaglio combatte il virus a mani nude e senza mascherina”. Cosa risponde?

Gianni Dati

Caro Gianni, la foto risale a circa tre settimane fa, quando nel Lazio (mi trovo a Roma) non c’era alcun obbligo né di guanti né di mascherina. Da ieri c’è per la mascherina, almeno nei locali chiusi ma aperti al pubblico e all’aperto per le coppie. Infatti ho cominciato a indossarla nei negozi, pur pensandone le stesse cose che pensano molti scienziati, come Ilaria Capua che ha dichiarato in tv di non indossarla. Pubblicare quella vecchia foto proprio ieri, primo giorno di mascherina obbligatoria, è un gesto che qualifica chi l’ha fatto. Dagospia è stato appena diffidato dal continuare a pubblicare i nostri articoli a sbafo: nei prossimi giorni mi aspetto di tutto.

M. Trav.

 

La democrazia non ha sudditi, ma cittadini liberi

Credo che il passaggio dalla Fase uno alla Fase due debba essere inteso soprattutto nei rapporti fra lo Stato e il cittadino: se nella prima fase era lo Stato a dire cosa il cittadino dovesse fare; nella seconda è il cittadino che si dovrà porre il problema. Questo è il senso della democrazia, ovvero di quel sistema in cui gli appartenenti al corpo politico non sono semplici sudditi ma autocoscienti cittadini. La democrazia non è la cornice in cui ognuno possa pensare di poter fare ciò che vuole; è invece lo spazio in cui a ognuno viene affidata la responsabilità del rapporto con l’altro. La responsabilità di saper individuare di volta in volta il punto di equilibrio fra i diritti di uno Stato liberale: la vita, la salute, la libertà e la proprietà. I medici ci mettono in guardia sulla salute; gli economisti sulla proprietà. Senonché la capacità di individuare il giusto mezzo fra la salute e la proprietà risiede nel diritto pensato come congenere alla stessa vita: la libertà.

Giuseppe Cappello

 

Noi medici e pazienti stufi dei “Bolsonari de noantri”

Gentile Travaglio, ho letto sul Fatto il suo articolo sui “Bolsonari de noantri”: finalmente parole corrette e sensate. Io, i miei colleghi, gli infermieri, i pazienti e i parenti dei ricoverati e deceduti siamo rimasti sbigottiti e abbiamo tutti il desiderio di incontrare lo Statista di Rignano. Altre parole non ci sono. Grazie per il suo articolo, che almeno ci rasserena, pensando che anche se le nostre voci non vanno in tv, sono ascoltate da chi, come lei, può pubblicamente prendere le distanze dall’imbecillità.

Dottor Luca Lorenzi, Massa

 

Di voi apprezzo buonsenso, serietà e ragionevolezza

Sono solo pochi mesi che vi leggo. Vi ho scoperto in età matura, ma è stata per me incredibile la sintonia nel leggere i temi scelti e l’impostazione: è come se conoscessi da sempre i vostri giornalisti e lei, direttore, proprio perché provo grande empatia. Nel Fatto trovo ragionevolezza e buonsenso; perciò ringrazio lei e i suoi giornalisti.

Amedeo Maestrello

 

Approvino un’equa tassa sul reddito per aiutare tutti

Gentile redazione, sono un abbonato e apprezzo gran parte della vostra linea editoriale. Sono d’accordo con l’unico vostro “faro”: la Costituzione. E in ragione dell’art. 53 (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”), avrei una proposta: cosa ci sarebbe ora di più giusto se non una tassa di scopo sul reddito degli italiani (non sul patrimonio) con più “capacità contributiva”? Sarei personalmente ben felice, con una percentuale equa sul mio reddito, di aiutare chi non ha potuto lavorare.

Salvatore Di Turi

Le opposizioni Criticare Conte è lecito, ma non si possono ingannare i cittadini

 

Sono Katia, ho 29 anni e vivo a Cassino (FR). Sono una donna come tante, impiegata in una piccola società della zona e “guadagno” poco più di 700 euro al mese. Rientro tra quelli che non hanno ancora ricevuto 1 euro; nel mio caso, la cassa integrazione. Nei giorni scorsi ho deciso di ascoltare le argomentazioni di deputati e senatori in risposta all’informativa di Conte.

Alla Camera ho trovato pietoso l’intervento dell’on. Borghi (Lega): l’unica cosa che è riuscito a trasmettermi è il senso del ridicolo. L’intervento dell’on. Occhiuto (Forza Italia) mi ha profondamente colpita per la solitudine: nemmeno i suoi lo stavano ad ascoltare! La Meloni andrebbe ignorata solo per i toni: il suo intervento è stato scritto con l’invidia. Al Senato, la prima ad attirare la mia attenzione è stata la sen. Unterberger (Autonomie), non per il contenuto, ma per la confusione. E poi, il capolavoro: Renzi. Non voglio nemmeno commentare il discorso sui morti che avrebbero voluto farci ripartire perché francamente non ci sono parole. E poi la perla sulla garanzia del lavoro. Scusate, ma ricordo male o è stato lo stesso Renzi a contribuire al precariato della mia generazione e non solo?! È stato o no lui che ha preso l’articolo 18 e l’ha reso un numero su una lista da saltare?!… Il sen. La Russa lo nomino solo per la sua barzelletta: “Noi le cose le diciamo in faccia”. Finalissimo, Salvini. “È grazie a noi se ci sono i 55 miliardi, perché il centrodestra ha votato!”. Ma che cosa nuova! Hanno fatto il loro dovere: essere presenti e votare!

Di questo pomeriggio di ascolto mi restano la confusione, gli ultrasuoni, gli acuti dell’opposizione: ognuno di loro ha accusato Conte di cercare consensi. Io credo che il primo ministro abbia fatto la cosa più impopolare che potesse fare: mettere in pausa le nostre vite, ma nonostante ciò le persone credono in lui. Con questo non voglio santificare Conte, ma mi domando: se questa situazione l’avessimo vissuta con uno dei premier precedenti?

Katia

Cara Katia, dal tuo approfondito resoconto sul dibattito parlamentare dell’altro giorno (che abbiamo dovuto tagliare per ragioni di spazio) trova conferma la celebre frase di J. F. Kennedy per cui si può ingannare tutti una volta, qualcuno qualche volta, mai tutti per sempre. Perché è lecito, ci mancherebbe altro, criticare Giuseppe Conte e anche, da parte dell’opposizione, impegnarsi a sostituirlo. Purché tutto avvenga a viso aperto, con argomenti solidi e, senti che ti dico, finalizzati al bene comune, se è quella la spinta polemica. Il guaio dell’intervento di Renzi, pretestuoso fino al ridicolo quando ha accusato il premier di aver calpestato la Costituzione, è che neanche lui ci credeva. Dopo aver cercato di ingannare tutti una volta, non riesce più neppure a ingannare se stesso.

Antonio Padellaro

Ineffabile Zinga, se ci sei (con Conte) batti un colpo

La sensazione, forse sbagliata, è che Giuseppe Conte venga mandato al fronte senza troppe difese. Quasi che il suo destino, per opposizione (e ci sta) e maggioranza (e qui ci sta un po’ meno), fosse per forza quello di vivere l’inevitabile mitraglia. Antonio Padellaro ha scritto che, nella sua storia di cronista, non ha mai visto un presidente del Consiglio così linciato. Già questo è sintomatico, perché di presidenti del Consiglio peggiori ce ne sono stati tanti (quasi tutti) e sfuggono le colpe imperdonabili di Conte. A meno che, il virus, l’abbia creato lui in persona a Wuhan. Eppure larga parte dell’informazione, compresa quella “nuova” Repubblica così incerta da avere esordito con titoli alla “Libero garbato” (si perdoni l’ossimoro) e con un editoriale in prima pagina di Stefano Cappellini (come se Mick Jagger sostituisse Keith Richards con Povia), continua a macellarlo. Sognando l’inciucio à la Draghi e intervistando Renzi – i cui sondaggi grondano comicamente sangue – come se fosse sul serio uno statista.

In un simile scenario post-atomico e oltremodo capovolto, colpisce il silenzio pressoché assordante di Nicola Zingaretti. Per carità, l’uomo vanta da sempre il carisma dei salumai di provincia, contenti come bimbi quando riescono a venderti due etti in più di finocchiona tagliata a mano (“Che faccio, lascio?”; “Lasci sor Nicola, lasci pure!”). La squisita e quasi inseguita assenza di qualsivoglia grinta, nell’ineffabile Zinga, è ormai cifra distintiva. E del resto essere carismatici non è (forse) un requisito indispensabile per un politico, che dovrebbe piuttosto vantare onestà, coraggio e lucidità. Tutte doti che senz’altro Zingaretti ha. Per questo il suo silenzio, o le sue mezze parole, sembrano figlie del comportamento di un leader (ehilà!) ridotto a fare il pesce in barile. Un po’ perché ha paura dei tanti colleghi interni al partito restati renziani e pronti a defenestrarlo in Parlamento, un po’ perché il Pd dipende non poco da quel che pensa e scrive il Gruppo Espresso (cioè Repubblica, cioè Gedi). E un po’, forse, perché lo stesso Zingaretti non sa quel che pensare. A inizio governo Conte 2, il segretario del Pd si è rivelato molto più propositivo di Di Maio. È stato bravo. Come lo è stato nello smussare gli angoli, di fronte ad alleati assai litigiosi. Zingaretti ha poi sottovalutato (come tutti) fino a fine febbraio la pandemia, esortando addirittura a fare aperitivi a Milano quando il Covid-19 era già spietato (a insaputa sua e nostra). Si è ammalato, è guarito. Ma non ha ritrovato la voglia di parlare: non chiaramente, almeno. La sua pagina Facebook sembra quella di un caro estinto gestita da un biscugino laterale. Le sue (rare) interviste hanno la forza degli abeti vilipesi. E nel frattempo il governo, di cui è parte integrante, cresce nei consensi ma viene massacrato quasi sempre a torto (perlomeno nei toni). Da qui la domanda: oh, Zinga, ci sei? Ci fai sapere, più prima che poi, se in questo governo credi ancora? Te la senti di schierarti a fianco di Conte, sul serio e senza politichese, o temi che il farlo scateni una grandine di fuoco amico? Venerdì scorso, ad Accordi&Disaccordi, il ministro Boccia ha detto chiaramente che non vede in futuro nessun governo che non contempli il Pd e M5S accanto: non in questa legislatura, quantomeno. È troppo chiedere altrettanta chiarezza da Messer Tentenna Zingaretti? Il segretario Pd è ancora convinto della bontà del Conte 2, oppure anche lui sotto sotto sogna un nuovo inciucio travestito da Draghi? Facci sapere, sor Nicola. Con comodo, ma neanche troppo.

Il fondo comune europeo: così si salva l’unione

L’integrazione europea non avanza automaticamente attraverso le crisi. Un decennio marcato da eventi straordinari non ha portato alcun salto verso una maggiore integrazione politica. Anzi, il nostro continente sembra oggi più diviso che mai.

L’emergenza del Covid-19 non pare essere da meno. Se da un lato mostra la necessità di una comune politica economica, sanitaria e sociale, dall’altro il triste balletto degli eurobond ci racconta purtroppo una storia diversa.

La disintegrazione dell’Unione europea non si manifesta necessariamente a partire da un singolo evento critico. Ma può consistere nel graduale venire meno dei legami sociali, di solidarietà e dunque politici. Uno sfilacciamento più che un collasso.

Sarà importante lottare perché il Recovery Fund serva a ridurre e non aumentare la divergenza fra le economie del continente. E per assolvere a questo compito deve essere composto principalmente da nuove risorse europee trasferite agli stati. Perché non regge un sistema che porta l’Italia ad arrivare al 160% di debito/Pil per poi partire con un altro ventennio di austerity.

Il governo italiano sembra conscio dei problemi connessi a questa sfida. E non è costretto alla falsa dicotomia tra il compromesso al ribasso e la rottura nazionalista. È senz’altro possibile immaginare l’utilizzo virtuoso del veto: perché alle volte una crisi istituzionale, con le sue incognite e opportunità, è preferibile a una lenta agonia. Ma c’è anche un’altra strada parallela da percorrere.

Nelle ultime settimane un insieme di nove paesi che rappresentano oltre la metà del Pil europeo – fra cui Italia, Francia e Spagna – hanno condiviso l’esigenza di dotarsi di strumenti più avanzati al fine di trovare un finanziamento comune che non vada a pesare sui singoli debiti nazionali.

L’Italia, svolgendo un’adeguata iniziativa politica e diplomatica, potrebbe sondare la disponibilità degli stati favorevoli ad avanzare autonomamente verso una maggiore integrazione. Questo significherebbe creare un fondo comune da cui emettere titoli di debito finalizzati alla rinascita – una sorta di Istituto per la Ricostruzione europea. Capace di emettere eurobond a basso tasso di interesse – e in buona parte acquistabili dalla Bce – e di sviluppare linee guida di una politica industriale comune, a partire dalla necessità di una riconversione ecologica del sistema produttivo. Si tratterebbe di creare un coordinamento permanente tra alcuni stati che li porti anche a esprimere sistematicamente una posizione unica all’interno delle istituzioni europee. Così si cambierebbero anche gli equilibri all’interno dell’Eurogruppo e del Consiglio europeo, dando una scossa allo stesso fallimentare impianto intergovernativo. Pensiamo alla questione dei paradisi fiscali.

Tutto questo avverrebbe con la massima apertura nei confronti degli altri stati membri e all’interno dell’Unione europea stessa, quindi senza rifiutare a priori un’eventuale attivazione degli strumenti comuni che saranno definiti per l’area euro.

Una tale iniziativa potrebbe essere intrapresa tempestivamente qualora le trattative in corso portassero, come è probabile che sia, a una soluzione di compromesso che finirebbe per impattare drasticamente sui debiti pubblici. Si tratterebbe in tal caso di una soluzione che rafforzerebbe e non indebolirebbe l’Ue, dando vita a una punta avanzata dell’integrazione e a un primo nocciolo di una vera federazione europea. Abbiamo bisogno di quello che è mancato nell’ultimo decennio: un’iniziativa coraggiosa che porti l’Unione su un’altra rotta. I veti incrociati che paralizzano l’Unione europea attuale sono il virus che uccide l’ideale di un’Europa unita. È giunta l’ora di fare vivere tale ideale. Che siano i suoi nemici, questa volta, a inseguire.