Il lockdown non ha del tutto sospeso la giustizia. Anche in giornate cariche di bollettini medici e ansie per i mercati, le sue urgenze sono rimaste sotto riflettori. E non sono mancate rappresentazioni grottesche, persino quando ha cercato di far luce su decessi evitabili o speculatori del Covid-19; o si è vista costretta a scelte tragiche tra salute dei detenuti e sicurezza pubblica. Ora la nuova frontiera degli estremismi è la “tele-udienza” nel processo penale, voluta dal “Cura Italia” per evitare il contagio nei tribunali. C’è chi grida alla “strage di legalità” e chi la promuove a farmaco salvifico per tutti i mali della giustizia. Ma quei toni penalizzano una riflessione laica su potenzialità e limiti delle tecnologie applicate al processo, con lo sguardo rivolto oltre l’emergenza. E, forse, sono la causa dell’andamento ondivago di decreti legge varati nello spazio di pochi giorni.
Quelli che parlano di udienza da remoto come “tomba del giusto processo” si pongono fuori dalla realtà. Da tempo, è adottata in Inghilterra e negli Stati Uniti, ordinamenti da sempre presi a modello per le garanzie di oralità e immediatezza. In Italia, poi, la teleconferenza si fa da oltre vent’anni. È la regola nei processi ai boss-detenuti, o quando depongono collaboratori di giustizia e testimoni da proteggere. Le leggi speciali che la prevedono hanno ricevuto l’avallo di Corte Costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo. Insomma, “difesa” e “presenza fisica” non sono un binomio inscindibile per garantire il contraddittorio. In ogni caso, la partecipazione a distanza può essere revocata dal giudice se in concreto danneggia l’imputato.
Con la pandemia, il tele-collegamento diventava una scelta necessitata. Solo la sua estensione a più atti del processo poteva assicurare lo svolgimento “in sicurezza” delle funzioni non procrastinabili della giurisdizione. Si pensi alla verifica di validità di un arresto in flagranza, ai giudizi per direttissima, ai processi con imputati detenuti, alla raccolta di “prove-chiave” a rischio dispersione. Così la “sperimentazione” della tecnologia, imposta dall’emergenza, ha fornito indicazioni utili anche nella prospettiva di riaprire quel cantiere delle riforme chiusosi in marzo.
Ora disponiamo di più elementi per capire che l’udienza da remoto in taluni casi è molto utile, in altri problematica, in altri ancora da evitare. Ad esempio, abbatte costi e inutili attese, per patteggiamenti, opposizioni ad archiviazioni, conferimento incarichi peritali, senza nella sostanza erodere alcuna garanzia. Invece, anche per la non sempre ottimale qualità del mezzo tecnico, può rendere complicate le interlocuzioni riservate tra avvocato e assistito o la produzione tempestiva di documenti importanti, menomando la difesa. E ancora. Vi sono atti che, per la finalità assegnatagli dal codice, sono impensabili con l’udienza da remoto, quali il “riconoscimento di persone o cose” o il “confronto” tra l’imputato e il suo accusatore, per saggiarne l’attendibilità.
Da tutto ciò si trae una lezione: il ricorso alla tecnologia va calibrato al tipo di attività da svolgere. È irragionevole rinunciare a priori all’udienza da remoto prendendo a unico parametro la testimonianza nel dibattimento penale, come fanno i suoi detrattori ad oltranza. Il processo è tanto altro. Un ventaglio variopinto di riti, fasi e fonti di prova. Lo stesso esame in contraddittorio è assai diverso se è il carabiniere a deporre sul piccolo furto o il testimone oculare di un omicidio. Così la tecnologia va vissuta come opportunità e non come regola, per rimettere in asse un sistema che da anni scarica i costi delle sue lungaggini sui diritti delle persone (prescrizione docet).
Più che di stucchevoli derby di ritorno tra garantisti e giustizialisti o tra modernisti e tradizionalisti, c’è bisogno di concretezza. L’uso delle tecnologie assicura efficienza e rispetto delle garanzie solo a certe condizioni. Come constatato in questi giorni difficili, urgono investimenti per risorse tecniche e formazione specifica dei protagonisti del processo. Il che implica non solo opzioni politiche. Ma anche un impegno organizzativo “a monte”, che sia condiviso tra magistrati, avvocati, polizia giudiziaria e personale ausiliario dei tribunali, anche a livello locale.
I cambiamenti richiedono senso di responsabilità per governarli. Soprattutto per i magistrati, alle prese con una fase di strisciante crisi di credibilità, causata in parte da recenti scandali interni. Non può sfuggire che l’udienza virtuale finisca per ridurre le occasioni di contatto diretto col cittadino (parte del processo o spettatore), col rischio di allargare un solco già problematico. Forse, l’antidoto sta nel coltivare una idea di tecnologia al “servizio della giustizia” e non viceversa.