Quando si rivelano utili le Tele-udienze

Il lockdown non ha del tutto sospeso la giustizia. Anche in giornate cariche di bollettini medici e ansie per i mercati, le sue urgenze sono rimaste sotto riflettori. E non sono mancate rappresentazioni grottesche, persino quando ha cercato di far luce su decessi evitabili o speculatori del Covid-19; o si è vista costretta a scelte tragiche tra salute dei detenuti e sicurezza pubblica. Ora la nuova frontiera degli estremismi è la “tele-udienza” nel processo penale, voluta dal “Cura Italia” per evitare il contagio nei tribunali. C’è chi grida alla “strage di legalità” e chi la promuove a farmaco salvifico per tutti i mali della giustizia. Ma quei toni penalizzano una riflessione laica su potenzialità e limiti delle tecnologie applicate al processo, con lo sguardo rivolto oltre l’emergenza. E, forse, sono la causa dell’andamento ondivago di decreti legge varati nello spazio di pochi giorni.

Quelli che parlano di udienza da remoto come “tomba del giusto processo” si pongono fuori dalla realtà. Da tempo, è adottata in Inghilterra e negli Stati Uniti, ordinamenti da sempre presi a modello per le garanzie di oralità e immediatezza. In Italia, poi, la teleconferenza si fa da oltre vent’anni. È la regola nei processi ai boss-detenuti, o quando depongono collaboratori di giustizia e testimoni da proteggere. Le leggi speciali che la prevedono hanno ricevuto l’avallo di Corte Costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo. Insomma, “difesa” e “presenza fisica” non sono un binomio inscindibile per garantire il contraddittorio. In ogni caso, la partecipazione a distanza può essere revocata dal giudice se in concreto danneggia l’imputato.

Con la pandemia, il tele-collegamento diventava una scelta necessitata. Solo la sua estensione a più atti del processo poteva assicurare lo svolgimento “in sicurezza” delle funzioni non procrastinabili della giurisdizione. Si pensi alla verifica di validità di un arresto in flagranza, ai giudizi per direttissima, ai processi con imputati detenuti, alla raccolta di “prove-chiave” a rischio dispersione. Così la “sperimentazione” della tecnologia, imposta dall’emergenza, ha fornito indicazioni utili anche nella prospettiva di riaprire quel cantiere delle riforme chiusosi in marzo.

Ora disponiamo di più elementi per capire che l’udienza da remoto in taluni casi è molto utile, in altri problematica, in altri ancora da evitare. Ad esempio, abbatte costi e inutili attese, per patteggiamenti, opposizioni ad archiviazioni, conferimento incarichi peritali, senza nella sostanza erodere alcuna garanzia. Invece, anche per la non sempre ottimale qualità del mezzo tecnico, può rendere complicate le interlocuzioni riservate tra avvocato e assistito o la produzione tempestiva di documenti importanti, menomando la difesa. E ancora. Vi sono atti che, per la finalità assegnatagli dal codice, sono impensabili con l’udienza da remoto, quali il “riconoscimento di persone o cose” o il “confronto” tra l’imputato e il suo accusatore, per saggiarne l’attendibilità.

Da tutto ciò si trae una lezione: il ricorso alla tecnologia va calibrato al tipo di attività da svolgere. È irragionevole rinunciare a priori all’udienza da remoto prendendo a unico parametro la testimonianza nel dibattimento penale, come fanno i suoi detrattori ad oltranza. Il processo è tanto altro. Un ventaglio variopinto di riti, fasi e fonti di prova. Lo stesso esame in contraddittorio è assai diverso se è il carabiniere a deporre sul piccolo furto o il testimone oculare di un omicidio. Così la tecnologia va vissuta come opportunità e non come regola, per rimettere in asse un sistema che da anni scarica i costi delle sue lungaggini sui diritti delle persone (prescrizione docet).

Più che di stucchevoli derby di ritorno tra garantisti e giustizialisti o tra modernisti e tradizionalisti, c’è bisogno di concretezza. L’uso delle tecnologie assicura efficienza e rispetto delle garanzie solo a certe condizioni. Come constatato in questi giorni difficili, urgono investimenti per risorse tecniche e formazione specifica dei protagonisti del processo. Il che implica non solo opzioni politiche. Ma anche un impegno organizzativo “a monte”, che sia condiviso tra magistrati, avvocati, polizia giudiziaria e personale ausiliario dei tribunali, anche a livello locale.

I cambiamenti richiedono senso di responsabilità per governarli. Soprattutto per i magistrati, alle prese con una fase di strisciante crisi di credibilità, causata in parte da recenti scandali interni. Non può sfuggire che l’udienza virtuale finisca per ridurre le occasioni di contatto diretto col cittadino (parte del processo o spettatore), col rischio di allargare un solco già problematico. Forse, l’antidoto sta nel coltivare una idea di tecnologia al “servizio della giustizia” e non viceversa.

 

Buone notizie per chi fa sesso con i cadaveri

Da ieri sono consentiti in Italia “gli spostamenti per incontrare congiunti, purché venga rispettato il divieto di assembramento, il distanziamento interpersonale di almeno un metro, e vengano utilizzate protezioni delle vie respiratorie”. Ma chi sono, di preciso, i congiunti? L’ho chiesto a una squadra di giuristi, che stava giocando a calcetto contro una squadra di primari ospedalieri al circolo Aniene. Mi hanno urlato di non rompere i coglioni. L’arbitro, usciere in Cassazione, a cui stavo confidando nello spogliatoio la mia amarezza per la replica sgarbata, mi spiega allora, mentre gli massaggio i polpacci con la canfora, che quelli reagiscono così perché gli scoccia assai di non saperlo, e che non lo sanno poiché i due codici non se ne occupano (che è il motivo per cui i giuristi non sanno nulla neppure degli arcobaleni). Secondo la ministra dei Trasporti De Micheli, i congiunti sono “persone con le quali si intrattengono rapporti affettivi stabili, anche se non formalizzati sul piano giuridico”. Buone notizie per chi fa sesso coi cadaveri e ha bisogno di recarsi spesso alla morgue, dico fra me e me, pensando a un mio zio di Scandicci; ma tutti gli altri?

Come spiega Duccio Favagrossa, penalista presso lo studio legale Tirapelle, Bellomunno & Battilocchio, il decreto del governo è contrario all’articolo 3 della Costituzione, che stabilisce il principio di uguaglianza: “Situazioni uguali devono ricevere trattamenti uguali”, dice Favagrossa, che è sposato con un quintetto di cornamuse. “Il decreto ha alla base i rapporti affettivi, ma la società si è evoluta, e oggi ne considera legittimi alcuni che avrebbero fatto venire un infarto all’estensore del vecchio codice Rocco, Nereo. Due donne che vanno dallo stesso chirurgo plastico non sono forse un po’ parenti? Si assomigliano pure! E che dire dei fratelli di figa?”. “I fratelli di figa?”. “Gli uomini che hanno scopato una stessa donna. Fellini e Craxi, entrambi amanti della Milo, erano fratelli di figa. Non erano forse un po’ parenti? Come le sorelle di cazzo”. “Sorelle di cazzo?”. “Donne che hanno scopato uno stesso uomo. Ci sono pure i fratelli di cazzo. E le sorelle di figa. Per non parlare dei parenti irreali”. “Parenti irreali?”. “Parenti irreali? Ma deve sempre ripetere? Segua il ragionamento. C’è mancato poco che mio padre sposasse una maestrina di Bologna. E se fosse nato un figlio, non sarei stato io. C’è mancato poco che mia madre sposasse un notaio di Ravenna. E se fosse nata una figlia, non sarebbe stata mia sorella. Non sono forse parente di quel fratello e di quella sorella mancati? Sono congiunti non riconosciuti dalla società, irreali quanto si vuole, ma pur sempre parenti. Molto più di certi miei cugini. E due uomini traditi dalla stessa donna, non sono forse fratelli? Due donne dallo stesso uomo, sorelle? Chi può dire quante persone, là fuori, sono miei congiunti, di cazzo, di figa, di corna?”. “Esistono i fratelli di sega?”. “Ovvio”. “E le sorelle di dildo?”. “Chi non lo è? E adesso in piedi (si alza, tirandomi su per un braccio, e canta, la mano sul cuore, mentre parte l’Inno di Mameli) Frateelli. Di fiiga. E di chi la. Mastiiga…

Attenti agli sciacalli

Lo sciacallaggio è un fenomeno che purtroppo si ripresenta a ogni emergenza. Dopo i terremoti, sciacalli si aggirano fra le macerie per rubare le poche cose rimaste, lo stesso accade dopo i bombardamenti e non potevano mancare anche nell’attuale pandemia. Ignobili che approfittano della paura della gente per derubarla con la vendita di prodotti fasulli o addirittura dannosi. Abbiamo assistito alla vendita di mascherine che non servivano a proteggere se non dalla polvere; a saturimetri che non indicavano il vero livello di ossigenazione nel sangue; a termometri che, paragonati con altri “veri” misuravano la temperatura corporea con una differenza di almeno un grado. Da quando poi si sono diffuse notizie su farmaci attivi in caso di Covid, già esistenti in commercio per altre indicazioni, la gente è corsa a comprarli, anche su siti Internet. Con quale prescrizione sono andati in farmacia? Ultimi a entrare in scena: i test sierologici, già molto limitati nel loro uso, spesso non utili o addirittura non validi. Sui social girano offerte di studi privati di test a domicilio ai prezzi più disparati, fino a 100-150 euro! Un test diagnostico, sappiatelo, costa da 7 a 10 euro, ai quali vanno aggiunti gli altri costi (personale, ecc). Spesso, per ignoranza o per trarre il massimo profitto, se ne usano di pessima qualità. Il rischio è dare al paziente un risultato falso con conseguenze anche per la sanità pubblica. Nell’Unione europea – fa notare l’Oms – la conformità normativa per la diagnostica relativa a Sars-CoV2 è auto-dichiarata dal produttore. Perciò attenzione, meglio farsi consigliare da enti istituzionali accreditati e non darsi al fai da te.

L’Oscar di Gedi dileggia Scalfari

Oscar Giannino non le manda a twittare. Lo speaker di Radio Capital, emittente del Gruppo Gedi, ha avuto l’idea non brillantissima di contestare Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, che di quel gruppo è ancora la testata più prestigiosa. Giannino si è rivolto a Scalfari senza nominarlo, ma dedicandogli un messaggio un po’ sprezzante: “Se grandi giornalisti-intellettuali col cuore a sinistra arrivano a dire che forse Conte è erede di Moro, Cavour, fratelli Rosselli… O considerano Salvini così imbattibile, da mitizzare Conte con accostamenti che sono bestemmie storiche. O è la quarantena, che fa brutti effetti”. Non sono parole che grondano rispetto per il padre nobile di Repubblica e del giornalismo italiano. D’altra parte, Giannino con Scalfari non è mai stato generoso: spesso gli sfugge qualche cinguettio pieno di acrimonia. Come due anni fa, aprile 2018: “Quindi Scalfari tifa per un governo 5S-Pd, un Gentiloni-Di Maio. Nel nome di Enrico Berlinguer, addirittura…. Va di lusso che non invochi anche una benedizione inventata di Bergoglio. Mioddio”. O nel 2016: “Mi dispiace dirlo, ma il decano dei giornalisti italiani mostra di sparare numeri a caso, come e peggio della politica”. E altre volte ancora. Chissà cosa ne pensa John Elkann.

De Luca, Zaia e Toti: come è cambiato il consenso

In attesa che Maurizio Crozza ci proponga uno dei suoi faccia a faccia tra Vincenzo De Luca e Vittorio Feltri, sul palpitante confronto tra le “misure” dei meridionali e quelle dei settentrionali, non v’è chi non veda come il Covid-19 abbia in poco tempo riscritto, e in alcuni casi ribaltato, le graduatorie del consenso politico ed elettorale. In Campania, per esempio, il protagonismo del presidente “sceriffo” di Ruvo del Monte, con l’innegabile teatralità nel cavalcare i social sull’epidemia e quant’altro hanno messo in ombra il suo possibile antagonista nelle Regionali di autunno, il ministro grillino dell’ Ambiente, Sergio Costa, assai meno presenzialista e “maschera” napoletana.

Nel Veneto, di possibili competitori di Luca Zaia non se ne vedeva neppure l’ombra già prima che il governatore surclassasse, quanto a efficienza e risultati, il collega leghista della Lombardia, Attilio Fontana. Tanto che Zaia, sull’onda dell’accresciuta popolarità potrebbe ambire a sostituire il declinante Matteo Salvini al vertice del Carroccio (ma è troppo furbo per farsi bruciare inutilmente). Chi invece non cerca di nascondere la sua propaganda virus dietro una mascherina, anzi “1 milione di mascherine gratis per i residenti in Liguria”, è il presidente uscente, e lui spera rientrante, Giovanni Toti. Che ha sommerso la regione di appositi volantini, attraverso i quali l’offerta di due mascherine due, accompagnate dal simbolo di “Toti presidente”, ricorda le scarpe che Achille Lauro distribuiva agli elettori napoletani. Tra i presidenti in cerca di riconferma chi ha cercato di non confondere troppo la campagna sanitaria con la campagna elettorale, è Michele Emiliano. Che ha alzato la voce solo quando la Puglia ha rischiato l’invasione dei “contagiati” provenienti dal Nord. Poiché anche nella catastrofe è lecito promuovere la propria politica ma senza per questo ritenere che gli elettori abbiano l’anello al naso.

I bar in ordine sparso: a Napoli i più cauti

Il cartello #iononriapro è attaccato alla vetrina. La fase 2 qui non c’è ancora. “La gatta frettolosa fece i gattini ciechi”, dice Massimiliano Rosati, socio e responsabile commerciale del Gran Caffè Gambrinus di via Chiaia a Napoli, bar e pasticceria ma non solo, locale storico per eccellenza, galleria d’arte, salotto letterario, punto di riferimento dell’altissima borghesia partenopea e tappa obbligata di quasi tutti i leader politici, economici e culturali in trasferta nella capitale del mezzogiorno.

Il Gambrinus ha deciso così di rimanere nella fase 1: resta chiuso per emergenza Covid-19, chiuso anche lo spiraglio delle consegne a domicilio e dell’asporto, e l’antico proverbio della saggezza popolare è il modo scelto da Rosati per spiegare perché la saracinesca non si alza. E perché non intende prendere posizione nel dibattito sulla riapertura anticipata alla somministrazione, per ora prevista il 1 giugno in tutta Italia, nelle zone meno contagiate come la Campania, dove il pressing per aprire almeno il 18 maggio è fortissimo.

“Ci atterremo alle disposizioni del premier Conte e del governatore De Luca, che sapranno valutare la situazione”, riflette Rosati. Conte ha lanciato segnali di disponibilità a un’apertura anticipata nelle regioni meno colpite, mentre il rigore di De Luca è noto. “L’importante – conclude l’imprenditore del Gambrinus – è che la data venga decisa in modo che ci sia la massima sicurezza per noi esercenti e per i cittadini. Quando ci saranno queste condizioni, allora riapriremo pienamente al pubblico”. I tavolini con vista su piazza del Plebiscito dovranno aspettare, scelta simile a quella di molti altri bar tra via Chiaia e corso Umberto, dove la ripresa è molto timida. Ma perché non provare a riaprire per le consegne negli uffici di qualche caffè e di qualche sfogliatella? “Ne abbiamo discusso stamane in videocall noi soci – risponde Rosati – abbiamo fatto un’analisi costi-benefici e abbiamo concluso che per ora non ne vale la pena, non si coprono nemmeno le spese. Anche perché nel frattempo abbiamo chiesto per i nostri dipendenti (circa una trentina, ndr) la cassa integrazione e le misure di sostegno del decreto Cura Italia”.

Anche a Milano c’è chi fa scelte simili al Gambrinus. E’ il caso della pasticceria Marchesi in Galleria Vittorio Emanuele, un’altra delle insegne storiche milanesi, oggi di proprietà del gruppo Prada, che ieri non ha alzato i battenti, mentre il ristorante dirimpettaio di Cracco si è concesso all’asporto. Marchesi però riapre la sua storica sede di Milano in via Santa Maria alla Porta, e sulla pagina Facebook ha indicato mail e numeri di telefono dove effettuare le prenotazioni prima di passare al ritiro.

I bar stanno riaprendo un po’ ovunque, dal centro alla periferia, grazie alla possibilità offerta da ieri di poter ritirare cibo e bevande e consumarle all’esterno dei locali. Primi, timidi, segnali di normalità, cui i milanesi si affacciano con l’aria di chi riscopre un piacere che un tempo dava per scontato. In Toscana invece c’è la voglia di riaprire subito ed ovunque negozi, bar e ristoranti dal 18 maggio. Ieri la protesta di Confcommercio è andata in scena in tutti i capoluoghi: saracinesche alzate e luci accese all’interno. Ovviamente senza far entrare i clienti, che è vietato.

A Firenze il sindaco Dario Nardella si è schierato con gli esercenti. “Le attività commerciali all’aperto devono poter aprire prima, il rischio contagio è minore rispetto ai luoghi al chiuso, sarebbe un segnale concreto per migliaia di aziende che sono alla disperazione”.

Ombrellone sì o no? I balneari chiedono risposte al governo

Aprire o non aprire. Il termometro sale, il mare si è spianato e ha preso il suo azzurro estivo. Ma gli operatori balneari si trovano di fronte un dilemma degno di Shakespeare. C’è l’incognita del virus, delle decisioni del governo, ma pesano anche i conti che si annunciano amari. Così qualcuno è tentato dalla resa: dopo la scuola e il calcio, un altro simbolo dell’Italia rischia lo stop. Un settore che conta 35mila imprese e 100mila addetti, per un totale di 140 milioni di presenze l’anno. Ma alla fine sta prevalendo la fiducia, di cuore più che di testa.

Non è questione di soldi, sottolinea Simone Battistoni dai Bagni Milano di Cesenatico, della sua famiglia da quasi un secolo: “Sarà una stagione di lacrime e sangue”, sospira Battistoni nel suo accento romagnolo che sa di spiaggia e riviera, “È una responsabilità morale. Noi siamo concessionari di spazi pubblici ed è doveroso offrire un servizio”, è convinto Battistoni che è anche presidente del Sindacato Italiano Balneari (Sib) per l’Emilia-Romagna. Una questione morale, la stessa parola usata da Alessandro Berton, presidente Sib Veneto: “Sì, è nostro dovere aprire. In Veneto il turismo balneare vale 20 miliardi di pil. Ci sono quasi 40mila addetti e altrettante famiglie che ci campano”.

Aprire, dunque. Ma una cosa è certa: “Dovremo reinventare l’idea di spiaggia”, è convinto Battistoni. Arriveranno le famose barriere di plexiglass? “No, per carità. Dopo mezz’ora dovrei chiamare il 118 perché la gente dentro frigge”. Quindi? “Compatibilmente con diffusione del virus e sicurezza ci saranno attività possibili e altre no. Si potrà giocare ai racchettoni, a bocce. Magari anche il pedalò, purché tra persone dello stesso nucleo familiare. Ecco, cambierà la socialità sulle spiagge”. Addio al mitico vitellone romagnolo a caccia di tedesche? “Scherzando le potrei dire che chi vuole fare il tombeur de femmes può munirsi di certificato medico. Parlando seriamente le dico che sì, sarà molto diverso. A parte il fatto che di stranieri ne vedremo pochi”, conclude Battistoni.

La speranza è di partire a giugno, ma in tutte le spiagge d’Italia si alza la marea dell’inquietudine: ieri 350 degli stabilimenti toscani (l’80% del totale) ha aperto simbolicamente per un’ora in segno di protesta contro la decisione del governo di non includere le spiagge nella Fase 2. C’era solo una persona, il bagnino, con tanto di mascherina. Ma c’è chi ancora non esclude di lasciare chiusi gli ombrelloni. In Campania nei giorni scorsi i gestori hanno posto una domanda alla Regione: “Senza chiarimenti abbiamo le mani legate. Si rischia di sprecare tempo e denaro. Gli incassi saranno il 30-40% degli anni passati”. Mentre a Sorrento gli operatori hanno iniziato a montare scalette e installazioni semoventi, a Positano è tutto fermo, come conferma il sindaco Michele De Lucia: “Mancano le linee guida del ministero. Siamo in attesa di capire”.

Anche in Basilicata c’è chi tende al pessimismo. Un gruppo di imprenditori guidati da Rocco De Filippo minaccia di riconsegnare le chiavi degli stabilimenti alla Regione: “Siamo 240 concessionari tra Maratea e le località della costa ionica e protestiamo contro la disapplicazione, unica regione in Italia, di una legge che prevedeva la proroga delle concessioni demaniali al 2033. Senza la proroga non possiamo accedere ai prestiti agevolati delle banche previsti nelle misure dell’emergenza. Siamo pronti a fermarci per tutta l’estate”.

Il punto, secondo Antonio Capacchione (presidente nazionale Sib) è uno: “Noi stiamo alle decisioni del governo. Ma qualcosa devono dircela. Noi dobbiamo organizzarci e investire: attrezzare una spiaggia richiede da 20 a 40 giorni di lavoro e investimenti di decine di migliaia di euro”. Per non dire di mille altri nodi da sciogliere: le spiagge libere, per dire. Bisogna garantire sicurezza e sorveglianza anche nei tratti dove non ci sono gestori. “Quando si varca l’ingresso del tempio dei sogni, lì c’è il mare”, diceva Luis Sepùlveda. Ma chissà se quest’estate ci sarà spazio per i sogni.

“Facite ’a faccia feroce”: a Bonomi viene bene

Confindustria ha avuto tanto finora, ma a quanto pare non basta. E utilizzando lo schema per cui lamentarsi significa lucrare vantaggi, il neo presidente, Carlo Bonomi, torna all’assalto con una intervista al Corriere della Sera in cui afferma che “la logica del dividendo elettorale garantendo un po’ di soldi a ciascuna categoria sociale” non ci porterà fuori dalla crisi e rischia di provocare “un collasso sociale”. Quello che serve, invece, manco a dirlo, è destinare risorse alle imprese.

Interventi come la cassa integrazione o i vari bonus da 600 euro, hanno in realtà permesso alle persone di sopravvivere. Per Bonomi però servono altre misure: “Sbloccare le opere pubbliche già finanziate, incentivi all’industria 4.0 e il pagamento dei debiti alle imprese” nella forma di credito di imposta.

Scompare la lunga lista di provvedimenti già presi per tutelare e garantire le imprese italiane. Il lockdown del 23 marzo ha lasciato al lavoro circa 10 milioni di lavoratori che, con le 200 mila deroghe dei giorni successivi e la fase 2 iniziata ieri, ha garantito un’attività che, come dimostra uno studio Inps, ha contribuito ad alimentare i contagi. Le aziende sono rimaste aperte anche in zone disastrate come la Val Seriana nel Bergamasco e il protocollo sulla sicurezza siglato con i sindacati non prevede sanzioni in caso di violazioni.

Il governo ha certamente tutelato le categorie deboli – non tutte e con mancanze che, forse, saranno sanate dal secondo decreto –, ma alle imprese non ha fatto mancare nulla. Ha sospeso di fatto qualsiasi prelievo fiscale, con misure ad hoc in tema di contratti, di redazione del bilancio, di finanziamenti. Ha garantito la rinomata “liquidità” già con il “Cura Italia”, poi con il decreto omonimo e ancora altro farà con il decreto in gestazione. In cui, soprattutto, è prevista la ricapitalizzazione di Cassa Depositi e Prestiti per poter garantire finanziamenti societari alle imprese che dovessero non farcela, ma hanno comunque una prospettiva. Ieri, il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, in un’audizione parlamentare, molto apprezzata da tutti i gruppi, ha elencato una serie di interventi tra cui i “contributi a fondo perduto e sostegno al capitale”, ma anche il ristoro al 100% per gli affitti commerciali per tre mesi (valore stimato in 1,7 miliardi) e il ripristino dell’industria 4.0 oltre al pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione. Praticamente tutte le richieste di Bonomi.

Patuanelli ha diffuso anche i dati del Mediocredito centrale secondo cui le domande di liquidità arrivate al 30 aprile sono state 65.800, di cui 31.411 accolte generando “un importo di 4,6 miliardi di finanziamenti”. Bonomi dice che i fondi alle imprese non sono arrivati, ma sa bene che esistono delle responsabilità precise delle banche (non a caso ha lanciato diverse punzecchiate in passato all’ad di Intesa Carlo Messina).

Il punto è che Confindustria sta già pensando alla fase 3 e a come gestire l’enorme intervento pubblico che si annuncia per dirottare verso le imprese quanti più fondi possibili.

Ma ha anche un altro obiettivo: giocare d’anticipo sul fronte delle relazioni sindacali. “Inizia la stagione dei doveri e dei sacrifici”, ha detto ieri Bonomi e la sua proposta di derogare sui contratti di lavoro è già un avviso. Non a caso la “mite” Annamaria Furlan, segretaria della Cisl, ha replicato che “non è tempo di conflitti”. Facite ’a faccia feroce, diceva quel motto. Alla nuova Confindustria viene benissimo.

Anche Fiat valuta se usare la garanzia statale sui prestiti

Il sospetto era venuto già il 6 aprile scorso. Il giorno in cui il Consiglio dei ministri ha approvato il “decreto liquidità” che stanzia garanzie dello Stato fino a 200 miliardi di prestiti, il titolo Fiat Chrysler Automobiles era salito dell’8%in Borsa. Secondo rumors finanziari il colosso dell’auto controllato dalla Exor, la cassaforte degli Agnelli, starebbe infatti valutando di chiedere la garanzia pubblica sui debiti. La richiesta non è ancora arrivata ufficialmente alla Sace, la controllata della Cassa Depositi e Prestiti incaricata di concedere le garanzie. Ma, stando a quanto filtra, Fca avrebbe fatto balenare l’ipotesi su una linea di credito da 6 miliardi (cifra vicina ai dividendi, ordinari e straordinari, previsti nel 2020-2021, prima dell’emergenza covid). Contattata dal Fatto, la società replica che “declina di commentare su speculazioni”.

Che con la crisi del coronavirus ci sia un problema di liquidità per i colossi dell’auto non è un mistero, tra blocco della produzione e crollo delle vendite. Per dare l’idea, Fca ha venduto ad aprile in Italia 1.620 auto, il 96,3% in meno rispetto al 2019. Nei primi quattro mesi dell’anno le immatricolazioni del gruppo sono state 87.504, in calo del 50,39%. Già a marzo il gruppo si era assicurato una linea di credito “ponte” di 3,5 miliardi. Due settimane fa, per far fronte all’emergenza, ha prelevato 6,25 miliardi dalle linee “revolving” ottenute a giugno 2015 e rinegoziate a marzo 2019. A questi si sono aggiunti 1,5 miliardi su “altre linee di credito bilaterali del gruppo”. In teoria anche Exor potrebbe garantire la liquidità alla controllata, visto che di recente ha incassato 9 miliardi dalla vendita del colosso assicurativo Partner Re. Di sicuro la garanzia pubblica permetterebbe di risparmiare sui costi di finanziamento di un gruppo che ha chiuso il 2019 con ricavi per 108,2 miliardi (e utili per 6,6 miliardi) a fronte di debiti per 12,9 miliardi e il cui rating è mantenuto su livello “investment” solo dall’agenzia Fitch. La cifra ipotizzata è notevole, se si considera che a oggi risultano in corso 170 potenziali operazioni di garanzia Sace per 12,5 miliardi. Se decidesse di chiederla, Fca dovrebbe passare per l’istruttoria “ordinaria”, il cui via libera finale è affidato a un decreto del ministro dell’Economia.

La decisione, se si dovesse concretizzare, solleva un tema dirimente. Fca ha sede legale in Olanda (e fiscale nel Regno Unito) dal 2014, come centinaia di holding di controllo e aziende italiane, grazie a una tassazione di estremo favore e a molti benefici sul controllo degli assetti societari. Il decreto liquidità vincola le garanzie alle società “con sede in Italia”, quindi anche controllate da gruppi con sede legale e fiscale all’estero, a condizione che li usino “per le attività italiane”. Fca può quindi usare la garanzia statale per prestiti diretti a finanziare la gestione dei tanti stabilimenti che ha in Italia.

Nei giorni scorsi Mdp- Articolo Uno ha proposto di negare gli aiuti pubblici alle aziende con sede nei paradisi fiscali, includendo tra questi anche “Irlanda, Malta, Lussemburgo e Olanda”, che da sole valgono il 90% delle tasse sulle imprese perse dall’Italia (circa 6 miliardi). L’idea di negare aiuti pubblici alle imprese con sede nei paradisi fiscali è stata sposata da Francia e Danimarca, che però nella loro black list non prevedono Stati membri dell’Ue. E il motivo è semplice: il mercato unico permette alle aziende di spostare la sede all’estero senza che gli Stati possano impedirlo, né tantomeno negare loro eventuali aiuti pubblici. Il 29 aprile scorso la Commissione europea ha fatto sapere che “gli stati dell’Ue non possono escludere le società dai regimi di aiuto sulla base della sede o della residenza fiscale in un altro paese dell’Unione”.

A ogni modo, se chiedesse l’accesso all’aiuto pubblico, Fca non potrebbe distribuire dividendi per 12 mesi. Per questo ha rinviato a giugno l’assemblea che doveva deliberare 1,1 miliardi di dividendi ordinari. Nella complessa fusione con Psa è in ballo invece un dividendo straordinario di 5,5 miliardi, ma per quello si andrà al 2021.

Arriva, si spera, il “redditino” di emergenza

Il lento travaglio del decreto fu aprile pare arrivato al termine o almeno lo si spera. Mentre il giornale va in stampa è in corso l’ennesimo vertice politico tra Giuseppe Conte e i capi delegazione dei partiti di maggioranza per sciogliere gli ultimi nodi, ma “l’obiettivo è approvarlo questa settimana, io spero già a metà di questa settimana”, ha detto ieri in Parlamento il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri.

Il decreto, che vale 55 miliardi di maggior deficit e punta (col gioco delle garanzie dirette o via Cdp) a movimentarne 155, è in ritardo di almeno un mese, ma questo non sembra aver chiuso la partita. L’ultimo irrituale scontro ha visto contrapposti domenica notte da un lato il Tesoro e dall’altro il ministero del Lavoro e l’Inps su quanti fondi del testo assegnare al comparto lavoro: alla fine saranno 16 miliardi, tre in più rispetto alle bozze circolate prima del weekend, sufficienti – dicono tutti – a finanziare i molti impegni presi coi cittadini. Si parla di cose non secondarie: pagare la proroga di 9 settimane della cassa integrazione (ordinaria e in deroga) e degli altri ammortizzatori tipo Naspi, pagare il bonus per gli autonomi (che passa a mille euro), sostenere le decine di migliaia di colf e badanti oggi senza lavoro con un assegno una tantum da 400 a 600 euro e, infine, a istituire un “reddito di emergenza” per quei lavoratori (precari, in nero, eccetera) che erano rimasti scoperti – come quelli domestici, d’altronde – dal decreto di marzo.

L’accordo nel governo è stato trovato, ma l’intervento pare stentato: a una platea potenziale di 2,8 milioni di persone – ma il Forum Disuguaglianze, per dire, ne calcola oltre il doppio – dovrebbe essere riservato un miliardo di euro (forse uno e mezzo). Facendo i conti della serva, sarebbero meno di 360 euro a testa (e circa 540 nel secondo caso). Problema: all’inizio si era sostenuto che l’assegno – da 400 euro a salire fino a 800 per figli e familiari a carico – sarebbe stato erogato per tre mesi, ieri la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ha detto “un paio di mesi”. Quale che sia la durata, i fondi paiono insufficienti all’enormità della crisi per queste fasce di lavoratori, a meno di non porre paletti all’ingresso tanto rigidi da diminuire ex lege la platea. Ciliegina sulla torta: i soldi arriveranno praticamente nella fase 3, a giugno inoltrato.

Il disaccordo politico più forte, però, in questa fase riguarda gli aiuti alle imprese o, più specificamente, la possibilità per lo Stato di ricapitalizzare quelle in difficoltà. C’è una linea di faglia che riguarda i soldi: il ministero dello Sviluppo vuole usare fondi veri, il Tesoro spinge per uno sconto sulle tasse (ma se stai fermo o il tuo bilancio è in forte perdita le tasse sono l’ultimo dei problemi). La seconda linea di faglia invece – se, come sembra, è passata la linea dei soldi veri, è più politica: senza entrare troppo nel tecnico l’idea, infatti, è di dare 5mila euro a fondo perduto alle piccolissime imprese (commercio e artigiani, per capirci), aiuti diretti a quelle con fatturato sotto i 5 milioni l’anno (sempre a perdere) e concorso nella ricapitalizzazione degli altri.

E qui c’è lo scontro. Nelle imprese grandi entrerebbe in qualche forma Cassa Depositi e Prestiti, mentre sotto i 50 milioni di fatturato sarebbe un veicolo statale a realizzare la ricapitalizzazione per poi uscirne “a sconto” se la situazione è migliorata: un meccanismo “statalista” secondo i renziani e un pezzo del Pd. Peraltro sugli aiuti (di Stato) alle imprese il ministro Gualtieri vuole aspettare le indicazioni di Bruxelles: dovrebbero arrivare oggi, ma altri Paesi si sono comunque già portati avanti.