Ritardo sulla Cassa in deroga: è guerra tra Inps e Regioni

In attesa che il decreto di maggio semplifichi e acceleri le procedure per distribuire nuovi bonus e prestiti, c’è ancora da erogare una misura agognata da una platea potenziale di 3 milioni di lavoratori, che ormai si sono trasformati negli invisibili della cassa integrazione in deroga. A oggi, secondo i dati diffusi dall’Inps, sono poco meno di 58 mila i beneficiari che hanno ricevuto il pagamento dell’ammortizzatore sociale gestito dalle Regioni, ma pagato dall’Istituto presieduto da Pasquale Tridico. Le domande di Cig in deroga decretate dalle Regioni e inviate all’Inps sono 173.565, ma di queste solo 85.046 sono state autorizzate e 29.600 sono quelle pagate a una platea di 57.975 beneficiari. Meglio va agli altri lavoratori: i beneficiari della cassa integrazione ordinaria e assegno ordinario sono 8 milioni, di cui 5,2 milioni hanno già ricevuto l’anticipo dalle aziende, mentre gli altri 2,8 milioni stanno per essere pagati.

Nel buco nero restano quindi i lavoratori senza più lavoro che non possono richiedere la normale cig come quelli delle micro imprese, i commercianti, gli artigiani e i negozianti con meno di 5 dipendenti che aspettano i soldi da metà aprile. Ma, dopo aver assistito agli svariati annunci che hanno solo ritardato di settimana in settimana il pagamento, ora sono anche costretti a subire il rimpallo di responsabilità tra gli enti locali e l’Inps su chi sia il responsabile del ritardo.

Il primo indiziato, come al solito, è la burocrazia con la sua tortuosa macchina organizzativa. Nel caso della cig in deroga si tratta di una procedura che inizia con un accordo quadro firmato da sindacati e datori di lavoro che poi si trasforma in una domanda da presentare alla Regione che deve esaminarla, istruire la pratica e girarla all’Inps. Insomma, 21 diversi accordi, 21 diverse tempistiche e 21 diverse procedure che hanno determinato già tempi più lunghi rispetto alle altre misure. Con un distinguo tra le Regioni che si sono mosse per prima (spiccano Lazio, Toscana e Campania che, rispettivamente, hanno presentato 36mila, 31.500 e 30mila domande di cui 15.500, 9.700 e 15.600 pagate) e quasi tutte le Regioni di centrodestra che si sono accodate solo due settimane fa, come Lombardia, Piemonte, Abruzzo, Calabria, Liguria e Molise. Un ritardo che gli ha attirato l’accusa di rallentare la macchina. E qui il secondo indiziato si trasforma in una guerra di cifre tra queste Regioni che non ci stanno ad essere attaccate e accuso l’Inps di diffondere dati non aggiornati.

“Siamo di fronte a una alterazione di dati. Se l’Inps continuerà a diffondere notizie infondate e faziose, la Lombardia si difenderà nelle sedi opportune”, tuona l’assessore al Lavoro Melania Rizzoli seconda la quale si sta “assistendo a un quotidiano scaricabarile da parte dell’Inps sulle Regioni per giustificare i mancati pagamenti”. Secondo la Regione Lombardia sono 48.209 le domande presentate all’Inps, mentre per l’Istituto la Regione ne avrebbe presentate solo 37, di cui 33 pagate, per i Comuni dell’ex zona rossa e 19.807, di cui autorizzate 6.484, in tutti gli altri casi. La Rizzoli, insomma, conferma i ritardi della Regione che ha subito un rallentamento per riallineare il sistema informatico, ma spiega anche che la sua macchina è rodata e viaggia sulle 5mila domande al giorno, fino a completare la decretazione entro la fine di questa settimana. Stessa accusa all’Inps arriva dall’assessore al Lavoro del Piemonte Elena Chiorino. “Anche noi siamo partiti dopo, ma le domande presentate sono 10 mila e non le 2.499 che riporta l’Inps. È di Tridico il problema se non riesce a pagarle”, spiega.

Ma c’è anche un terzo indiziato che non allevia il calvario dei disperati in attesa della cassa integrazione in deroga: le aziende che non compilano correttamente il modello che riporta il numero di lavoratori effettivamente in cassa (e non solo quelli presunti) e i loro Iban. Solo una volta ricevuto il modello, l’Inps paga. O meglio, dovrebbe farlo.

Consolo, Innocenzi, Guzzanti: i dolori dei ricchi senza vitalizio

Da quando non è più deputato l’avvocato Giuseppe Consolo deve aver subito un vero e proprio tracollo finanziario. Perché, sebbene abbia sempre svettato nella classifica dei parlamentari più ricchi di sempre con entrate che nel 2005 sfioravano i 3,3 milioni di euro, il taglio del vitalizio deciso alla Camera gli è stato fatale: a leggere le sue doglianze, infatti, si scopre che l’assegno mensile costituiva per lui “una fonte di reddito consistente”.

Giancarlo Innocenzi, passato in un amen nei primi anni Novanta da Mediaset ai banchi di Montecitorio grazie a Silvio Berlusconi, che poi lo ha piazzato come commissario all’Autorità garante delle comunicazioni, è una furia: anche lui non ha intenzione di mollare di un centimetro sul vitalizio che rivorrebbe tutto, arretrati compresi ché è questione di vita o di morte o più prosaicamente di portafogli. E che dire di Ilona Staller, la pornostar sbarcata in Parlamento grazie ai Radicali di Marco Pannella? Se la passa male, anzi malissimo ma è pronta ad andare fino in fondo e a chiedere anche i danni. Perché dopo la sforbiciata l’assegno, che era “la sua principale se non esclusiva fonte di sostentamento” è dimagrito a tal punto che non riesce a “fronteggiare impegni precedentemente assunti”.

L’Ilona nazionale, come del resto gli altri 1397 che hanno fatto ricorso per riavere il vitalizio tutto intero, spera che le sue preghiere siano accolte. Specie ora che il Consiglio di Giurisdizione, (l’organo di giustizia interna della Camera) ha smussato gli angoli della delibera sui tagli voluta da Fico: eliminato il doppio requisito dell’invalidità e dell’indigenza in molti sperano di vedersi rimpolpare il mensile. Il Consiglio infatti ha messo per iscritto che le “riduzioni hanno raggiunto in alcuni casi una dimensione molto rilevante” e che soprattutto bisogna aggiustare il tiro ricercando soluzioni a tutela di “percettori di redditi esigui o comunque deboli in termini sociali”.

Fatto sta che tra gli ex deputati sono in moltissimi a ritenere che il taglio abbia compromesso le loro condizioni di vita, per via di un ex coniuge particolarmente oneroso che non si riesce più a mantenere, per via dei figli universitari che sono peggio delle sanguisughe o per i mutui da pagare, le badanti o le case di cura per i più anziani: i ricorsi finora presentati sono uno spaccato drammatico capace di far impallidire milioni di italiani in difficoltà, anche se per la verità tra gli ex c’è pure chi non se la passa malissimo. Al giornalista e scrittore Paolo Guzzanti che ha un passato come deputato di Forza Italia, la Camera ha fatto notare che ha ben poco di cui lamentarsi perché il taglio del vitalizio che ha subito è stato appena del 4 per cento, ma lui sembra intenzionato a passarci sopra. Caso diverso quello dell’ex ministro e presidente del Cnel, Antonio Marzano che non ne fa una questione di vil danaro, ma diciamo così, di principio: il vitalizio, a sentir lui, gli spetta per intero perché nella prospettiva di metterci sopra le mani “aveva rinunciato alla propria carriera accademica” sacrificata pur di sedere a Montecitorio. Anche se la Camera si ostina a sostenere che “manca la prova del danno grave e irreparabile” che dice di aver subito. Ma tant’è, lui non molla.

L’altro ex deputato azzurro Giorgio Lainati ha sostenuto che contando sulla riscossione dell’assegno mensile si era messo sul groppone da tempo un contratto un mutuo assai oneroso: la Camera gli ha ribattuto che il mutuo in questione è molto recente e per di più che ha una serie di fabbricati che dovrebbero farlo dormire sereno.

Di indigenti, per la verità, l’Amministrazione di Montecitorio ne ha riconosciuti finora pochini anche perché in molti, pur lamentandosi dell’effetto disastroso del taglio sulle loro finanze, si sono ben guardati di certificare i salassi provocati dalle spese mediche che dicono di non poter più sostenere, meno che mai le documentazioni fiscali che restano top secret.

Amazon, va via il top manager “solidale”

“Rimanere un vicepresidente di Amazon avrebbe significato approvare le azioni che disprezzavo”: così Tim Bray, ai vertici dei servizi web di Amazon (nonché uno dei co-fondatori del linguaggio Xml) ha spiegato in un post perché ha deciso di dimettersi dalla compagnia dopo il licenziamento di alcuni dipendenti che hanno denunciato la mancanza di sicurezza nei magazzini durante l’emergenza Coronavirus. Una decisione che tra “stipendi tecnologici e quote di partecipazione mi costerà oltre un milione di dollari per non parlare del miglior lavoro che abbia mai avuto”.

Racconta l’escalation della politica aziendale nei confronti di chi protesta, iniziata con il fastidio per gli scioperi dei dipendenti di Amazon per la giustizia climatica (organizzati nel gruppo AECJ, di cui Bray faceva parte) quando “i leader furono minacciati di licenziamento” fino a quello per i disordini nei magazzini di Amazon nell’era del Covid-19. “I lavoratori si lamentavano di non essere informati adeguatamente, non protetti e di avere paura – spiega Bray -. Uno è stato licenziato”. Gli addetti dei magazzini hanno così contattato l’AECJ per il supporto: è stata promossa una petizione interna, organizzata una videochiamata con i magazzinieri di tutto il mondo. “Emily Cunningham e Maren Costa, due leader AECJ, sono state licenziate sul posto quel giorno con giustificazioni ridicole”. Bray, da vicepresidente, prova a far ragionare per i canali interni la compagnia. Ma senza risultati. “Così mi sono dimesso. Le vittime non erano entità astratte ma persone reali. E sono sicuro che è una coincidenza che ognuno di loro sia una persona di colore, una donna o entrambi. Giusto?” Poi parla dei magazzini: “È un dato di fatto che i lavoratori affermano di essere a rischio nei magazzini” e nonostante dica di credere nello sforzo di Amazon nel garantire la sicurezza, ribadisce di credere anche alla testimonianza dei lavoratori.

“Il grosso problema non sono i dettagli della risposta Covid-19. È che Amazon tratta le persone nei magazzini come unità fungibili di potenziale pick-and-pack. E non è solo Amazon, ma il capitalismo del 21º secolo. Amazon è eccezionalmente ben gestito e ha dimostrato una grande abilità nello individuare opportunità e nella creazione di processi ripetibili per sfruttarle. Ha una corrispondente mancanza di visione sui costi umani della crescita e dell’accumulo incessanti di ricchezza e potere”. La soluzione è lottare tutti insieme. “Se non ci piacciono certe cose che Amazon sta facendo, dobbiamo mettere in atto protezioni legali per fermarle. Non abbiamo bisogno di inventare nulla di nuovo; una combinazione di legislazione antitrust e salariale e di emancipazione dei lavoratori, rigorosamente applicata, offre una chiara strada da percorrere”.

Ma non solo. Bray Spiega che la sua divisione, quella cioè che impiega ingegneri informatici e che lavora sulle funzioni web, è un posto più umano perché i lavoratori hanno più potere e più mercato. “I magazzinieri, invece, sono deboli e con assicurazioni sanitarie legate al lavoro. Quindi verranno trattati come merda”. Infine, i whistleblower: “Punirli – conclude – non è un effetto collaterale delle forze macroeconomiche, né dei mercati liberi. È la prova di una vena di tossicità che attraversa la cultura aziendale. Scelgo di non servire né di bere quel veleno”.

Novità: lo stagista sospeso e un copriletto “da Covid”

Nel periodo di reclusione forzata ci avete raccontando le vostre giornate, tra nuove abitudini, prove di resistenza e sforzi di fantasia. Vi ringraziamo: le vostre parole sono la conferma che il Fatto non è solo un giornale, ma una comunità viva. Adesso però ci piacerebbe che condivideste con noi anche questi giorni di parziale rientro alla normalità, tra persone che tornano a lavoro e piccole libertà che ci si può finalmente concedere. Qual è stata la prima cosa che avete fatto dopo il 4 maggio? Siete riusciti a incontrarvi con una persona cara? Vi aspettiamo sempre all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it.

Forse sembra strano, ma rimpiangerò i silenzi
Di questa quarantena mi mancherà il rumore del silenzio. Sì, avete capito bene: il rumore del silenzio.
Nulla tornerà come prima, a mio avviso dentro di noi qualcosa si è spezzato.
Grazie per essere sempre in prima linea con l’informazione.
Zia Polly

Mi manca l’azienda dove “facevo la pianta”
Sto vivendo da due mesi una formula di lavoro innovativa e che si prolungherà anche nella fase 2: lo stage sospeso a tempo indeterminato. Speravo di cominciare la fase 2 con un glorioso ritorno in ufficio, applaudito da responsabili e colleghi in delirio, ritrovando l’orgoglio che solo un rimborso spese da 400 euro mensili sa dare e invece tutto rimandato. Speravo di riprendere il posto che mi spetta nell’organigramma, tra la stampante e il boccione d’acqua, ma a quanto pare dovrò accontentarmi di riprendere le pedalate in campagna. Il che comunque non è affatto poco.
Ovviamente fidanzata e amici continuano a mancarmi. L’unica nota positiva è che a breve porrò fine alla mia sofferenza universitaria con una tesi sociologica. Per il resto combatto ogni giorno contro la tentazione della pigrizia. Un abbraccio agli stagisti, agli studenti, a chi sta lavorando e alla redazione.
P.S. “Oggi cerco Luttazzi e non lo trovo sul canale”, cantava J-Ax. Lieto che sia ricomparso sul Fatto.
Luca Volpi

Anche i cani aspettano l’ora della passeggiata
Vi allego una curiosa immagine di un cucciolo che “sbircia” dal cancello di casa (vedi foto) in attesa della passeggiata.
Ho scattato la foto nei pressi della mia abitazione a Monte Mario.

Alessandro Monti

Regalo all’uncinetto da parte della mamma
Condivido con voi uno splendido lavoro che ho commissionato via Whatsapp alla mia cara mamma Luciana di 68 anni, amante dell’uncinetto (vedi foto), che in tempi di Covid non sapeva dove reperire i gomitoli di cotone.
Allora ne ho comprati 60 online, arrivati presso la sua abitazione in tempo utile all’inizio della quarantena e adesso il copriletto è stato realizzato!
Lei contenta di non aver perso tempo, io felice del lavoro realizzato che spero di recuperare fisicamente al nostro prossimo incontro con la mia congiunta del cuore! Sarà pure la coperta Covid e tale resterà per sempre ogni qual volta la userò, ma devo dire che è bellissima! Non è vero?
Da una vostra lettrice e sostenitrice.
Laura Sasso

Io e il mio ragazzo ci consideriamo stabili
Per fortuna io e il mio ragazza ci possiamo consdierare “affetto stabile” e quindi, dopo due mesi isolati o di incontri a distanza in fila al supermercato ci siamo finalmente potuti vedere. Ora non resta che recuperare le nostre abitudini quotidiane che mi mancano tanto, a partire da una bella pizza fuori con gli amici.

Roberta

Il giovane Felipe: “Voglio tornare a scuola”. La ministra Azzolina: “Devi aver pazienza”

Felipe Bersani, 12 anni, vive a Roma e ha scritto questa lettera al Fatto per rivolgersi alla ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, sulla riapertura delle scuole.

 

Buongiorno direttore, mi chiamo Felipe, ho 12 anni e frequento la quinta elementare a Roma. Le scrivo per dirle che io voglio tornare a scuola. Le spiego perché. Perché voglio rivedere i miei amici e giocare con loro; voglio rivedere le maestre, le bidelle, le cuoche.

Non voglio stare chiuso dentro casa ad annoiarmi. Vorrei andare a casa dei miei amici e sono stanco di stare solo con i miei genitori. A loro voglio molto bene, ma non esistono solo loro.

Può chiedere alla Ministra di far riaprire presto le scuole? A settembre andrò in prima media e vorrei almeno salutare i miei compagni di classe. Grazie dell’attenzione e un ciao a tutte e tutti quelli che leggeranno questa lettera.

Ciao direttore. 

Felipe Bersani – Roma

 

Caro Felipe,

sono felice di sapere che tu voglia tornare a scuola per studiare e incontrare di nuovo i tuoi compagni di classe, le maestre, le collaboratrici scolastiche e le cuoche. Significa che la scuola per te era ed è importante. Sai che alla tua età anche io, per un po’ di tempo, non sono potuta andare a scuola? E mi mancava tantissimo, come adesso sta mancando a te. Mi mancava la mia bravissima maestra, mi mancavano i miei compagni e anche giocare con loro.

La scuola è un posto magico dove si imparano tantissime cose, si stringono legami, amicizie che si ricorderanno per sempre. Io vorrei tanto riaprire le scuole, ma per poterlo fare insieme a tutto il governo, dobbiamo essere sicuri che tu e i tuoi compagni possiate stare bene e al sicuro, che possiate giocare senza ammalarvi, che le maestre e tutto il personale possano starvi vicino, che i tuoi genitori non si preoccupino.

Sai che abbiamo medici bravissimi nel Paese? Tu ti fidi di loro? Hanno salvato tante persone. Io mi fido di loro. E siccome mi fido di loro, so che arriverà il giorno in cui potremo tornare a scuola e sentire il suono della campanella, mangiare a mensa, abbracciare le maestre, le bidelle (come le hai chiamate tu), le cuoche, il dirigente scolastico.

Magari faremo anche una bella festa.

Dobbiamo solo avere un po’ di pazienza.

Lavoreremo affinché quel giorno arrivi presto.

Felipe ricorda che i tuoi compagni di classe della quinta potranno restare tuoi amici per sempre anche se l’anno prossimo cambierai scuola.

Ti abbraccio forte forte.

Lucia, il Ministro dell’Istruzione

Nessuno sa spiegare oltre 11 mila decessi in appena 40 giorni

Per ora il conto si ferma a fine marzo, non comprende nemmeno tutti i Comuni italiani e ci sono almeno 11.600 morti che nessuno, al momento, sa spiegare. Morti che superano le medie del primo trimestre dei cinque anni precedenti e che non sono attribuiti al Covid-19, almeno per ora. Lo dice il rapporto congiunto dell’Istat e dell’Istituto superiore di sanità che “per la prima volta” si riferisce a un numero “consistente” di Comuni, 6.866 (l’87 per cento dei 7.904 complessivi) pari all’86 della popolazione residente in Italia, mentre fin qui i campioni erano più limitati (meno di duemila Comuni) e non sempre erano disponibili i dati sulla mortalità connessa al Sars-CoV-2.

Nei Comuni in questione, dal 20 febbraio quando è iniziata ufficialmente l’epidemia al 31 marzo 2020, sono morte 90.946 persone contro le 65.592 della media 2015-19. La differenza è 25.354: +38,6 per cento. “Di questi – si legge nel rapporto – il 54 per cento è costituito dai morti diagnosticati Covid-19”, che al 31 marzo erano 13.710 nei Comuni del campione e ieri in tutta Italia sono arrivati a 29.079. Tornano al 31 marzo ci sono dunque “circa 11.600 decessi”, scrivono Istat e Iss, per i quali ad oggi si può “soltanto ipotizzare tre possibili cause: una ulteriore mortalità associata a Covid-19 (decessi in cui non è stato eseguito il tampone), una mortalità indiretta correlata a Covid-19 (decessi da disfunzioni di organi quali cuore o reni, probabili conseguenze della malattia scatenata dal virus in persone non testate, come accade per analogia con l’aumento della mortalità da cause cardiorespiratorie in corso di influenza) e, infine, una quota di mortalità indiretta non correlata al virus ma causata dalla crisi del sistema ospedaliero e dal timore di recarsi in ospedale nelle aree maggiormente affette”.

A marzo l’aumento dei decessi totali è stato del 49,4 per cento. Istat e Iss hanno diviso l’Italia in tre: aree ad “alta diffusione” dell’epidemia, 3.271 Comuni e 37 province tutte al Nord più Pesaro e Urbino; area a media diffusione, 1.778 e Comuni e 35 province per lo più al Centro-Nord; aree a bassa diffusione, 1.817 Comuni e 34 province per lo più del Centro e del Sud, compresa Roma. “Il 91% dell’eccesso di mortalità si concentra nelle aree ad alta diffusione” dove i decessi sono poco meno che raddoppiati rispetto alla media 2015-19 a marzo e dal 20 febbraio al 31 marzo sono passati da 26.218 a 49.351 (+23.133 )”. Il 52 per cento è costituito dai morti Covid-19 (12.156). Qui le province più colpite riportano incrementi percentuali dei decessi nel mese di marzo 2020, rispetto al marzo 2015-2019, a tre cifre: Bergamo (568%), Cremona (391%), Lodi (371%), Brescia (291%), Piacenza (264%), Parma (208%), Lecco (174%), Pavia (133%), Mantova (122%), Pesaro e Urbino (120%). Nella seconda Italia, “media diffusione”, i dati fanno meno impressione: sono passati da 17.317 a 19.743 (2.426 in più rispetto alla media 2015-2019) ma i morti positivi al Covid-19 erano solo 1.151. Nelle aree a “bassa diffusione” i decessi del marzo 2020 sono mediamente inferiori dell’1,8 per cento alla media 2015-19.

Istat e Iss attestano che le donne contraggono il virus leggermente più degli uomini, il 52,7 per cento dei casi. L’età mediana è 62 anni. Nelle fasce d’età 0-9 anni. 60-69 e 70-79 gli uomini contagiati sono però più numerosi delle donne. Sopra i 90 anni le donne sono più del triplo degli uomini, “probabilmente” per la “netta prevalenza di donne in questa fascia d’età”. Gli uomini comunque muoiono molto di più delle donne, salvo la fascia 0-19 anni. Soprattutto tra i 70 e 79 anni: l’aumento è di circa il 50 per cento. Le donne non vanno oltre il 20 per cento nelle fasce più colpite.

Nel complesso, fin dai primi di marzo nelle aree più colpite i morti Covid-19 superano quelli registrati nel 2017 per altre malattie come il diabete, le demenze e l’Alzheimer. A metà mese superano i decessi per l’insieme delle malattie respiratorie e dei tumori; in poco più di venti giorni i morti Covid-19 sorpassano i morti per tutte le cause del marzo 2017.

Dossier “estate”: la task force e il nodo delle ferie col virus

Entro la fine della prossima settimana consegneranno a Giuseppe Conte il secondo “output” del lavoro che hanno iniziato venti giorni fa. Dopo il primo report in vista della fase 2 – prodotto in una settimana e che non ha potuto particolarmente incidere sugli scenari già disegnati dal governo – ora la task force guidata da Vittorio Colao si è strutturata in gruppi: divisi per settori, anche se alcuni componenti partecipano a più di una squadra di lavoro. Perché le questioni da affrontare sono interconnesse, a cominciare dalla prima – la più urgente – che è sul tavolo dei professionisti chiamati adesso a immaginare la fase 3: “socialità e turismo” sono il titolo del faldone che ha bisogno di essere scritto in fretta. E che paradossalmente è uno dei più complicati da buttare giù.

Proprio il “dossier estate”, infatti, incrocia in pieno le due variabili da tenere sotto controllo, quelle che sono alla base delle “clausole di salvaguardia” stilate dal ministero della Salute: numero di focolai e disponibilità di posti in terapia intensiva. Fattori che diventano più difficili da tenere sotto controllo se gli italiani si spostano.

Un esempio per tutti: una delle capitali del turismo nazionale, la provincia di Rimini, che in inverno conta poco più di 300 mila abitanti, l’anno scorso ha superato i 3 milioni e mezzo di turisti. Ma, ragionano nella task force, le strutture ospedaliere del territorio restano sempre le stesse: e l’ipotesi della nascita di un focolaio, lì come altrove, non è sostenibile per il sistema.

Molto lo farà il buon senso: difficile immaginare che quest’estate ci siano spostamenti di massa verso le località di mare, ma è chiaro che – seppur a numeri ridotti – il turismo avrà un impatto considerevole sulla rete sanitaria locale, soprattutto al Sud. Si ragiona per “corridoi”, magari privilegiando la possibilità di spostamento tra regioni con indici di contagio bassi, anche in virtù del fatto che – dopo il 18 maggio – è intenzione dell’esecutivo procedere con differenziazioni regionali di quel che resta del lockdown. Ma le soluzioni pratiche che il gruppo di Colao sta studiando sono ancora tutte in divenire. Evitano, i suoi componenti, di immergersi nel flusso informativo di social e giornali: “Ci confonderebbe”, spiegano. E lavorano “a ritmi serrati” per presentare al premier Conte questo primo dossier.

Non sarà l’ultimo però: il mandato della task force, come noto, non si esaurisce nelle prossime settimane ma prevede obiettivi di “ripartenza” a più lungo raggio. La scuola, i trasporti, il lavoro, la pubblica amministrazione, i tempi di vita delle città, la digitalizzazione: i tecnici daranno al governo una serie di indicazioni che non guardano tanto alle scadenze immediate – quelle che l’esecutivo ha deciso insieme al comitato tecnico scientifico – ma, negli auspici, dovrebbero ridisegnare l’intero stile di vita del nostro Paese. A cominciare dall’immaginare soluzioni che non creino “ulteriori marginalizzazioni” delle donne italiane, su cui in questa fase sono ricaduti come al solito i maggiori carichi sociali, dovuti innanzitutto alla chiusura delle scuole. Proprio ieri Conte ha risposto ai numerosi appelli di chi gli chiedeva una maggiore rappresentanza di genere nei pool di esperti che lo affiancano (nel comitato, gli scienziati sono tutti uomini). “Oggi stesso chiamerò Vittorio Colao e Angelo Borrelli per comunicargli l’intenzione di integrare i comitati con un’adeguata presenza femminile. Analogo invito rivolgo anche a tutti i ministri, affinché tengano conto dell’equilibrio di genere nella formazione delle rispettive task force e gruppi di lavoro”.

Finora, dal punto di vista economico, si è pensato di tamponare la crisi con bonus baby sitting e congedi parentali. Strumenti del tutto insufficienti, soprattutto considerando che il tema della conciliazione resterà particolarmente centrale fino a settembre. È una delle questioni che saranno oggetto del decreto maggio (già “aprile”) che il consiglio dei ministri si è impegnato a varare questa settimana. Ieri, il titolare dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, in audizione alla Camera, ha dato numeri nerissimi su quello che ci aspetta: ad aprile la produzione è calata tra il 50 e il 55 per cento (lo dicono le fatture elettroniche emesse), una flessione che si aggiunge a quella di marzo, quando già si era perso più del 30 per cento. “Non riusciremo mai – ha constatato il ministro – a pareggiare il danno”.

“La causa alla Cina è una trovata mediatica”

“Non uscirà un soldo dalla causa che la Lega lombarda ha fatto a Pechino. Si tratta più che altro di un atto dimostrativo per rinforzare i nostri rapporti con gli States: ma non ce n’era nessun bisogno”. La vede così, Michele Geraci. Ex sottosegretario al Mise nel governo giallovederde, entrato in quota Lega, poi progressivamente, durante quell’esperienza, si era avvicinato ai Cinque stelle. Ancora oggi rivendica di essere stato lui a volere fortemente il Memorandum of Understanding Italia-Cina sulla “Via della Seta”. Il nostro Paese fu il primo del G7 a firmare l’accordo, nonostante più di una critica da parte di Washington. All’epoca, Geraci scavalcò i suoi compagni di partito per vicinanza a Pechino. Ma la Lega non lo sconfessò ufficialmente.

La Lega lombarda chiede 20 miliardi di danni alla Cina. Cosa ne pensa?

Credo si tratti di una trovata mediatica, mirata soltanto a rinnovare il sostegno all’America, cosa di cui comunque non c’è bisogno, perché i rapporti con gli Usa sono sempre stati ottimi.

Eppure oggi da Trump e da Pompeo sono arrivate delle accuse piuttosto gravi sul fatto che il virus sia arrivato da Wuhan e Pechino lo abbia nascosto.

Ci sono delle risposte che la Cina deve dare e sta pian piano dando. Ha ammesso che Wuhan ha avuto dei ritardi nel dare le informazioni, ha licenziato tutti i capi del partito della provincia dello Hubei e proclamato martire il medico che all’inizio denunciò la pandemia.

Quindi, la Lega lombarda sbaglia?

Premetto che non sono iscritto al partito. Per giudicare un’azione, bisogna sempre partire dal suo obiettivo. E non lo conosco. Ma credo di aver capito che si tratta solo di un annuncio, un’intenzione di fare causa. Che poi magari sarà dimenticata. La Lombardia fa più di 5 miliardi di export verso Pechino, il Veneto 1,7. Sono numeri che contano. Io rifirmerei il Memorandum. Le aziende italiane erano d’accordo, nessuna si è lamentata. La parte geopolitica la curavano il ministro Moavero e il premier Conte. E non dimentichiamo il sostegno del presidente Mattarella che, come me ed altri, non mette in dubbio il nostro atlantismo.

Quindi, questo cambio di posizione da parte della Lega è sbagliato?

In realtà, non c’è stato nessun cambio. I rapporti commerciali con la Cina sono benvenuti e l’Alleanza atlantica è solida.

Ma la posizione del Carroccio sembra un’altra.

Salvini ha detto “né con Pechino, né con Berlino”. Uno slogan che interpreto come un invito a proteggere i nostri asset strategici. E fa bene. Del resto, io sono stato il più forte sostenitore di un piano di screening contro acquisizioni predatorie straniere. Con attenzione anche alle azioni dei nostri amici europei.

L’America anche all’epoca sollevò delle obiezioni sul 5G. E non ha mai smesso.

Sono altri i Paesi europei che stanno facendo entrare il 5G, non noi. E abbiamo una forte Golden Power. Oggi Trump parla per tenere alto il tenore del dibattito. Non ci dimentichiamo che tra pochi mesi negli Usa si vota. E la guerra commerciale con la Cina è uno degli argomenti di campagna elettorale. Ma quando sono andato in America a negoziare sui dazi sono stato accolto benissimo. Noi siamo un vaso di coccio tra i vasi di ferro: le guerre commerciali lasciamole ai protagonisti.

A Brescia s’è persa 1 mail su 3 con i dati sanitari dei malati

Solo un problema tecnico, un “disguido prontamente risolto” assicura l’Ats di Brescia. Fatto sta che “molte” segnalazioni di sospetti casi di Covid-19 inoltrate dai medici di medicina generale alla Regione Lombardia sono “scomparse”. E la perdita dei dati doveva essere così significativa da giustificare una comunicazione ufficiale, inoltrata lo scorso 27 aprile dal dipartimento cure primarie dell’Ats Brescia, a tutti i pediatri e i medici di famiglia che fanno capo all’agenzia: “Spiacenti per il ‘disguido’ rappresentato dalla ‘scomparsa’ di molte vostre segnalazioni in Mainf (il sistema di segnalazione delle malattie infettive della Regione Lombardia, ndr), vi assicuriamo che con i referenti regionali ci si sta adoperando per recuperare ogni scheda”.

Un caso analogo, raccontato il 15 aprile scorso dal Fatto, è accaduto in Piemonte: centinaia di email con segnalazioni di casi Covid sparite, come denunciato sempre dai medici di base. Per l’Ats bresciana il caso è già chiuso: “Solo un disguido squisitamente tecnico – ha precisato il direttore Claudio Sileo al Giornale di Brescia –: abbiamo ricevuto da Regione Lombardia gli elenchi nominativi degli assistiti che, evidentemente, non erano andati persi ma semplicemente erano risultati non visibili momentaneamente ad Ats”. Come si sia verificato esattamente questo problema nel sistema informativo sanitario regionale però è tutt’altro che chiaro. “Non l’abbiamo capito neanche noi – spiega il dottor Angelo Rossi, segretario bresciano della Fimmg, la Federazione medici di famiglia – c’è stato un non meglio precisato problema tecnico, per cui nel sistema centrale mancava mediamente il 30% delle segnalazioni fatte. Quindi abbiamo dovuto inserire nuovamente i pazienti già segnalati alla Regione”. Il Fatto ha chiesto a tutte le Ats lombarde se anche nel loro distretto si sia verificato lo stesso problema, ovvero se segnalazioni di sospetti casi Covid-19 (o di sindromi respiratorie acute o polmoniti ad eziologia sconosciuta) inserite nella piattaforma Mainf o in altri sistemi informativi siano sparite per un certo periodo o siano andate perdute, ma non ha ricevuto risposta. La domanda è stata inoltrata anche all’assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera, e all’azienda regionale Aria, che gestisce il sistema informativo sanitario, senza avere più fortuna.

Il sistema Mainf è una piattaforma di raccolta dati per la sorveglianza sanitaria delle malattie infettive che prevede l’inserimento, in un database centralizzato, dei casi sospetti che poi vengono inviati dalla Regione al ministero della Salute. “Siamo preoccupati – commenta il segretario della Fimmg Lombardia, Paola Pedrini –, la Regione Lombardia per la ‘Fase due’ vuole rendere obbligatorio proprio il sistema Mainf, che evidentemente non è molto affidabile. Non so se il problema si sia verificato anche in altre province, perché ogni Ats usa metodi diversi: a Bergamo ad esempio si mandano delle email, a Milano usano un sistema dedicato alternativo al Mainf.

È impossibile quindi capire la dimensione di questa perdita di dati”. Dal database delle malattie infettive le segnalazioni vengono passate al servizio di igiene e al ministero della Salute, e oggi è da quegli elenchi che si stanno estraendo i cittadini lombardi da sottoporre al test sierologico. “A Bergamo questo sistema Mainf non è molto utilizzato – racconta il presidente del locale Ordine dei medici, Guido Marinoni – ma posso dire che da noi l’intero sistema è saltato durante il picco. Non si riuscivano più a seguire i casi Covid e a fare gli isolamenti. Anche la dottoressa responsabile del servizio Igiene e sanità pubblica è morta per il Coronavirus”.

La delibera per la riorganizzazione della sanità territoriale lombarda è attesa per i prossimi giorni: e il sistema Mainf, per la segnalazione delle malattie infettive, potrebbe avere un ruolo centrale per la “Fase due” in tutta la Lombardia.

Pd e M5S: “Sfiducia a Gallera”. La Lega: “È colpa di Pechino”

“È stato come guidare a fari spenti nella notte”, proclamò Giulio Gallera, assessore regionale al Welfare (e dunque alla sanità), sotto accusa per la sua gestione dell’emergenza virus in Lombardia. È il suo tentativo di spiegare, giustificare, difendere, scusare il comportamento suo e del suo assessorato soprattutto nelle prime settimane della diffusione di Covid-19, quando Milano e la regione lombarda si avviavano a diventare l’epicentro europeo del contagio, l’area del continente con più infetti e con il maggior numero di morti. Difesa incongrua, ma resa necessaria dalla richiesta formale di dimissioni avanzata dal Pd e discussa ieri in Consiglio regionale: come non togliere la patente, del resto, a chi “guida a fari spenti nella notte”?

La risposta è stata: tutta colpa della Cina. Nel primo giorno della fase due, a Milano lo scontro è titanico. Mentre il Consiglio regionale discuteva della mozione di sfiducia a Gallera (Forza Italia), la Lega (che con Forza Italia guida la Regione) gettava la palla lontano, fino in Cina. Da giorni ha annunciato una richiesta di danni, per 20 miliardi di euro, al Paese da cui Covid proviene.

La mozione del Pd contro Gallera non è passata: l’hanno votata, oltre al Partito democratico, i Cinquestelle e i Lombardi civici, raccogliendo 23 voti. Non sufficienti a bilanciare i 49 no della maggioranza di centrodestra, Lega e Forza Italia, che hanno votato contro. In mezzo al guado sono rimasti i Radicali e Italia Viva: si è astenuto Michele Usuelli, radicale di +Europa, ed è uscita dall’aula al momento del voto Patrizia Baffi, del partito di Renzi: “Voglio la commissione d’inchiesta per accertare le responsabilità. La mozione di sfiducia del Pd invece è controproducente, ha ottenuto il risultato di ricompattare il centrodestra”. Forse l’accontenteranno: Lega e Forza Italia la premieranno con la presidenza della nascitura commissione regionale sull’emergenza sanitaria in Lombardia.

Vittoria schiacciante di Fontana e Gallera, comunque: hanno raccolto tre voti in più dei loro rappresentanti presenti in aula. Qualcuno ha tradito, e già Pd e Cinquestelle si accusano a vicenda. “Ma la paura di andare sotto”, dichiara Pietro Bussolati, capogruppo del Pd, “li ha portati a segnare il voto, rendendolo riconoscibile: chi ha votato con una croce, chi con un cerchietto. Ricorreremo nelle sedi opportune”.

Mentre Gallera incassa la sua vittoria, la Cina è lontana. Annunciata con tuoni mediatici e social, non è neppure arrivata in aula la mozione della Lega sui risarcimenti. L’aveva anticipata Paolo Grimoldi, segretario della Lega Lombarda: “Siamo pronti a mandare all’ambasciatore cinese un acconto di richiesta danni da 20 miliardi. Chiederemo al Consiglio regionale di dare per questo un mandato legale agli avvocati per chiederli alla Cina. Usa, Australia e Gran Bretagna si dirigono decise in questa direzione. Sappiamo bene che il governo giallorosso è invece genuflesso a Pechino”. Non si era mostrato del tutto entusiasta dell’idea, in verità, neppure il presidente (leghista) della Regione, Attilio Fontana: “È un’iniziativa presentata in Consiglio regionale”, aveva spiegato a Radio Padania. “Valuteremo cosa fare dopo la discussione in Consiglio regionale”. La proposta non è stata però portata in Consiglio, per ora, e rischia dunque di risolversi in una battuta da far circolare tra gli attivisti della Lega. Non senza ironie in rete sull’attacco lumbard alla Cina. “Seguire il deputato Grimoldi nel suo folle intento”, ha commentato il cinquestelle Gregorio Mammì, “avrebbe esposto la nostra regione, le nostre imprese e i nostri cittadini a una situazione pericolosa, visti i rapporti di import-export instaurati. Consigliamo comunque ai cinesi di chiedere una dilazione del pagamento in 80 anni, come fa la Lega per i 49 milioni che ha fatto sparire”.

Soddisfatto il presidente Fontana, che ha vissuto il voto su Gallera come un voto di fiducia alla sua giunta. “Gli attacchi alla Regione Lombardia? Sono una vergogna inqualificabile”, ha dichiarato. “Vedi a livello nazionale che attacchi vengono rivolti alla Regione Lombardia? È una vergogna nazionale e internazionale che si raccontino tante bugie, che si facciano processi quando ancora la situazione non è completata. È una cosa che ti lascia capire la qualità delle nostre opposizioni, dei nostri avversari politici, che cercano di speculare in ogni modo anche su un dramma come quello che stiamo ancora vivendo. Cose indegne di un Paese civile”.