Quella strana Commissione per superare lo stallo Aspi

Su Autostrade arriva la commissione del ministero. Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture, ha nominato una commissione per “individuare le modalità di aggiornamento e revisione del sistema delle concessioni autostradali”. I 14 componenti sono in prevalenza giuristi. Il presidente è Bernardo Giorgio Mattarella, docente di Diritto amministrativo alla Luiss, figlio del presidente della Repubblica e allievo di Sabino Cassese. A cosa serve la commissione? Qualche attento osservatore parla di “strana” commissione. Ci si chiede se ci sia un collegamento tra lo stallo nell’esecuzione del contratto di vendita dell’88% di Autostrade per l’Italia posseduto da Atlantia al consorzio tra Cdp e i fondi Blackstone e Macquarie (che poi è un regalo ai Benetton) e la nascita della commissione.

Perché nominare proprio adesso una commissione per “migliorare i rapporti concessori” autostradali, come dice la nota del Mims del 13 gennaio? Se c’è un problema con le concessioni, perché limitare il campo alle autostrade e non estenderlo ad altre come, ad esempio, aeroporti o energia? Entro quattro mesi la commissione dovrà tra l’altro “verificare (…) la sostenibilità economico-finanziaria del modello concessorio, nonché dell’eventuale applicazione del modello di gestione pubblica diretta da parte dello Stato” e “proporre un’efficace ridefinizione dei ruoli e delle attribuzioni in capo ai soggetti istituzionali cui oggi sono demandati compiti di controllo, vigilanza e regolazione, che consenta un miglioramento del sistema regolatorio autostradale”.

Gli obiettivi sono alti. Qualcuno però avanza un sospetto malizioso. Non sarà che, siccome la Corte dei Conti ha sollevato penetranti obiezioni alle clausole che accompagnano la vendita di Aspi alla cordata Cdp (al prezzo di 8,2 miliardi di euro) ci si premura di trovare una soluzione su un altro tavolo? La commissione potrebbe servire a dare la spintarella perché l’operazione – avallata dal governo – arrivi felicemente al traguardo?

Gli altri commissari sono i professori di Diritto Giuseppe Caia, Marcello Clarich (ex presidente della Fondazione Mps), Monica Del Signore, Giuliano Fonderico, Barbara Marchetti, Angelo Piazza (ex ministro nel primo governo D’Alema), Lorenzo Saltari, i docenti di Economia Cesare Pozzi e Carlo Cambini (ex Cfo all’Autorità dei trasporti), l’ex componente dell’Autorità dei trasporti ed ex dirigente del ministero Barbara Marinali, da due mesi presidente di Open Fiber (60% Cdp, 40% Macquarie). Infine Luca Einaudi della presidenza del Consiglio, il consigliere di Stato Paolo Carpentieri, Antonio Mezzera della Corte dei Conti.

Almeno un paio di commissari sono vicini ai concessionari autostradali. Saltari, professore all’Università di Palermo, è un Cassese-boy e ha difeso i concessionari. Come Mattarella jr. è socio dell’Irpa, istituto fondato dal maestro del diritto amministrativo. E Cassese è vicino alle ragioni dei Benetton: appena acquisita Autostrade dall’Iri, i Benetton lo nominarono nel cda. Cassese c’è rimasto cinque anni e mezzo, fino al novembre 2005, ricevendo tra compensi e consulenze poco meno di 700mila euro lordi. Appena è crollato il ponte Morandi, Cassese ha difeso i caselli privati con articoli sul Corriere della Sera e altri giornali contro la minaccia del premier Giuseppe Conte di revocare la concessione di Autostrade: ha sostenuto che lo Stato non ha competenze per gestire questa società.

Anche Clarich ha scritto un articolo, sul Sole 24 Ore del 17 agosto 2018, in cui metteva dei paletti alla revoca: “Si fa presto a dire revoca (…) Una simile iniziativa non va presa tuttavia sotto l’emozione di un evento così tragico (…). Essa richiede necessariamente una serie di approfondimenti tecnici, giuridici ed economici da avviare con le dovute forme. (…) In primo luogo, occorrerà stabilire se il crollo del ponte sia dovuto a un difetto di manutenzione o a un difetto di progettazione. (…) occorrerà accertare nel modo più preciso possibile le attività concretamente svolte sia dal concessionario, sia dal concedente. L’esito potrebbe anche essere quello di un concorso nelle responsabilità”. Guarda caso, la linea di difesa di Autostrade e dell’ex ad Giovanni Castellucci.

“Ha deciso il ruggito dei peones”

Stefano Fassina (Leu) Sesta e ultima giornata. Finalmente, all’ottavo giro, la meta. Stavolta, la centralità del Parlamento non è stata un irritante ritornello. Il Covid ha fatto spalancare i portali del Transatlantico. La fredda volontà popolare è potuta entrare. Con tante colleghe e colleghi del Pd e del M5S e anche dell’altro campo, l’abbiamo interpretata. Di fronte all’evidente impossibilità per i “leader” di risolvere il puzzle, incasinato dal sedicente kingmaker, come formichine operaie, per 4 giorni, abbiamo accumulato la soluzione: 126, 166, 336, 387 voti per Mattarella e, infine, il traguardo. Abbiamo esercitato la nostra funzione “in rappresentanza della nazione, senza vincolo di mandato”. Nel voto di maggiore rilevanza costituzionale, il ruggito dei “peones” è stato davvero decisivo. Volevamo evitare il “bis”. Non ci siamo riusciti. Ma non è stato tempo perso: ci siamo riconosciuti, al di là degli schieramenti. Ora, va avviata una fase costituente istituzionale e politica. Grazie Presidente Mattarella.

Gianni Pittella (Pd) Montecitorio vive la sua giornata di sollievo. Leggo negli occhi dei colleghi un sentimento duplice, la consapevolezza di aver rimesso in mani sicure la massima carica dello Stato ma anche qualche ammissione di debolezza per non aver saputo produrre risultati diversi. È anche diffusa l’idea che occorra cambiare il sistema di elezione del capo dello Stato. Prevale la convinzione che Mattarella sia una garanzia assoluta in una fase in cui si intrecciano la sfida della ripresa economica, quella sanitaria, geopolitica ed energetica.

Roberto Occhiuto (Forza Italia) Eravamo così disabituati a giocare da soli, senza un arbitro che ci imponesse non solo le regole del gioco, ma anche la direzione da dare alla palla, che quando ci siamo trovati a dover decidere ci siamo impapocchiati, imballati e infine perduti a noi stessi. Così, per spirito di sopravvivenza e con la paura che l’immobilismo sarebbe stato foriero di guai peggiori, abbiamo scelto di rinunciare alle nostre prerogative e di fare affidamento sul presidente uscente, l’usato sicuro, il garante politico di questo Parlamento e di questo governo. Avrebbe avuto un’altra dignità fare questa scelta da subito invece che arrivarci quasi schiantati dall’incapacità di trovare un accordo. Purtroppo il mio centrodestra paga dazio davanti a queste prove. È successo alle Amministrative e ora per il Quirinale. Tra un po’ sapremo quale sarà il prezzo da pagare (il rischio è che la coalizione non esista più).

Michele Anzaldi (Italia Viva) Vedo sorrisi, volti distesi, gente felice. I grandi elettori hanno scelto Mattarella, hanno portato i propri leader a indicarlo, perché era l’unico nome che evitava con certezza il ritorno alle urne. Certo, mi sono chiari anche i rischi e l’irritualità di una rielezione che lo stesso rieletto non chiedeva. Però è stata l’unica via d’uscita possibile, e c’è una parte che ha vinto e una che ha perso. Chi ha vinto? Se permettete, ancora Renzi.

Covid, economia, giustizia: tutte le spine di Draghi&C.

A Palazzo Chigi si tende a riassumerla così: “Si riuscirà a portare a casa soprattutto Pnrr e dossier internazionali”. Per la verità, finita la giostra quirinalizia, il governo Draghi qualche decisione dovrà prenderla e non da poco: dalle “riforme” in sospeso del Pnrr all’emergenza Covid, fino alla giustizia. Partite incagliate dallo sfaldamento della sua maggioranza. L’unica certezza è che la composizione dell’esecutivo non cambierà. Si vedrà se sarà così anche per la forza del premier di imporsi.

Covid. Da martedì il green pass non dura più nove mesi ma sei, quindi scadranno quelli di chi ha fatto la seconda dose da più tempo o è senza richiamo. Fonti di governo assicurano che non accadrà a chi ha ricevuto la terza dose, specie operatori sanitari e anziani che hanno iniziato a settembre. Si parla di una proroga o di una durata illimitata del pass dei trivaccinati – con seri dubbi sulla costituzionalità del rinnovo senza scadenza delle restrizioni – almeno fino a un’eventuale decisione sulla quarta dose. Forse già domani potrebbe intervenire invece anche sul decreto del 7 gennaio per semplificare il groviglio di regole su test e quarantene nelle scuole. Si punta a contenere la Dad uniformando le regole di primarie e secondarie (tutti a casa solo al terzo positivo in classe) e accorciando la quarantena da 10 a 5 giorni, senza però ammettere a scuola i positivi asintomatici (richiesta delle Regioni). Andrà poi messo mano al sistema dei colori/restrizioni: potrebbero sparire le zone gialle e arancioni lasciando solo quelle rosse dove l’occupazione dei posti letto supera soglie piuttosto alte. Nei bollettini probabilmente saranno poi separati i ricoveri “per” e “con” Covid (altra richiesta delle Regioni). Scadono domani la chiusura delle discoteche e l’obbligo di mascherina all’aperto in zona bianca: quest’ultimo dovrebbe essere prorogato.

Siamo poi a due anni dalla dichiarazione dello stato d’emergenza (31 gennaio 2020). Il limite biennale, secondo la legge sulla Protezione civile, non si sarebbe dovuto superare, ma è bastato un decreto per portarlo al 31 marzo: il governo dovrà decidere cosa farne. Alcune misure come l’obbligo di green pass per lavorare e l’obbligo vaccinale per gli over 50 al momento durano di più, fino al 15 giugno.

Economia. Nel breve il banco di prova è il dl Sostegni ter con tre quarti della maggioranza che vuole far saltare i nuovi limiti al Superbonus inseriti dal ministro Daniele Franco in asse con Draghi. Il duo dovrà poi vedere se resistere alla richiesta di intervenire ancora sul caro bollette e nuovi ristori Covid (servirebbe uno scostamento di bilancio, Draghi e Franco non sono propensi). Vanno poi portate a casa le due “riforme” previste dal Pnrr (in forma di leggi delega): su quella fiscale al Senato sarà battaglia sul Catasto (inviso al centrodestra), mentre quella degli appalti si è impantanata. Altro scontro sarà sul ddl Concorrenza, specie su servizi pubblici e balneari. C’è poi il capitolo Pnrr: sono 100 le misure da centrare nel 2022, molte a carico del più caotico dei ministeri, quello della Transizione ecologica. Sul fronte internazionale, la madre di tutte le battaglie sarà la riforma del Patto di stabilità (se Roma perde, addio ripresina).

Giustizia. La grande riforma in sospeso è quella del Csm. La ministra Marta Cartabia – per aspirazioni quirinalizie, dicono i maligni – avrebbe voluto farla approvare dal Cdm prima di Natale, ma Draghi l’ha bloccata. E sono molti in maggioranza a pensare che non andrà in porto sia per evitare altri scontri che per motivi di tempo: il rinnovo dei togati è a fine luglio. Mattarella, però, la vuole. Un fatto è certo: il maggioritario bi-nominale, pensato da Cartabia per eleggere i togati, non piace ai magistrati, che l’hanno bocciato con il referendum Anm. C’è anche un’altra riforma in sospeso, sull’ergastolo ostativo e i benefici per i mafiosi detenuti non collaboratori, obbligata da una sentenza della Consulta, che ha concesso tempo fino a maggio. Per veti incrociati, la maggioranza ha votato un testo in Commissione giustizia della Camera solo a novembre e Cartabia non ha ancora presentato il suo parere. C’è poi un serio problema in stand by: l’impossibilità di applicare la norma sull’arresto per gli stalker che violano il divieto di avvicinamento. È l’emendamento Annibali, inserito nella riforma Cartabia di ottobre, che contiene un clamoroso errore: la mancata necessaria modifica contestuale di un articolo del codice di procedura penale, il 381. Le procure lo hanno segnalato, a dicembre è stata inserita la correzione nel ddl contro la violenza sulle donne approvato dal Cdm. Il provvedimento, però, è fermo alla Ragioneria generale dello Stato. Risultato: gli stalker pericolosi circolano liberi.

Quelli che “è fatta per Draghi”: lutto nelle maratone tv

Noi, che stiamo belli comodi alla scrivania e ogni tanto ci alziamo per deambulare, rifocillarci ed espletare i bisogni fisiologici, ignoriamo le tribolazioni del maratoneta notista politico, diuturnamente assiso dentro uno studio televisivo per la diretta del Quirinale, microfonato alle 9 di mattina e smicrofonato all’una di notte, sottratto per sei giorni all’affetto dei suoi cari per spiegare alla nazione i sottili equilibri, le strategie e i retroscena delle elezioni del presidente della Repubblica.

L’esperto analista ha passato 144 ore in diretta, semi-digiuno e con le piaghe da decubito sulle terga, a disquisire, ragionare, rivelare, analizzare, calcolare, considerare, ma soprattutto a ribadire il Postulato Primo dell’analista da maratona tv: il prossimo Capo dello Stato sarà Mario Draghi.

Qualunque manifestazione della realtà non ha fatto che convincerlo vieppiù dell’unica cosa certa, del centro di gravità permanente nel caos italiano: o Draghi o morte (o Tajani, che fa lo stesso).

Chino sul cellulare, costantemente sollecitato da lanci di agenzia e soffiate da “fonti altissime e attendibili” (che poi sono quasi sempre messaggini di quarte file, WhatsApp di Gasparri, tweet di Marattin, vocali di Luciano Nobili), l’analista-podista ha dimostrato il polso che ha del Paese. I parlamentari si sono sanificati le mani con l’Amuchina meno spesso di quanto Cazzullo-Mieli-Franco-De Angelis-Cerasa-Sala-Di Bella, dalla sedie di La7, Rai 3, Sky Tg24, hanno fatto convergere gli eventi dentro l’imbuto della “soluzione Draghi”, che poi era la permuta della Costituzione della Repubblica italiana con quella del Ducato di Città della Pieve, in ciò aiutati (sviati) dai geni che abbiamo per leader politici, arruolati dai poveri inviati per biascicare davanti alle telecamere che siccome le “rose” di papabili includevano personaggi sempre più improbabili, l’ipotesi Draghi era tutt’altro che tramontata, e anzi l’apparente retrocessione del Migliore era la conferma che di lì a poche ore Fico avrebbe letto il suo nome almeno per 505 volte.

Salvini lancia candidature ridicole? Vuol dire che Giorgetti sta lavorando per Draghi. Draghi ha telefonato a Casini? Allora si sta virando su Draghi. In 400 si sono astenuti? Non vogliono bruciare Draghi. Un sacco di schede bianche? È il grido di dolore dei parlamentari per Draghi. Conte, Salvini e Meloni candidano una donna? Allora è praticamente fatta per Draghi. Votano in massa per Mattarella? È un messaggio in codice per dire “Draghi”. In sei giorni nessuno dei lungometristi ci ha spiegato perché, se il Parlamento voleva Draghi, non ha votato Draghi.

La notte di venerdì, un refolo di principio di realtà è spirato nelle redazioni (la Belloni aveva per un attimo allertato l’attenzione mitografica dei fondisti, col suo casale nelle campagne toscane e i tre pastori alsaziani): Renzi, fan di Draghi (almeno finché Draghi non si è auto-candidato, facendogli venire il sospetto che in Italia esista uno più vanitoso ed egocentrato di lui), si aggirava randagio in piazza Monte Citorio per collegarsi con le maratone e informare la nazione che il capo dei Servizi non poteva diventare Capo dello Stato, e che Draghi, il nostro “Maradona” e “fuoriclasse”, poteva anche “andare al Quirinale, ma attraverso un percorso politico, non un concorso a premi”. Ahia.

L’esperto della diretta è sempre un po’ fuori sync: convinto che tutto ciò che è reale è razionale purché non si distacchi dalle sue certezze – così come era convinto che al referendum di Renzi avrebbe vinto il Sì (pena la procedura fallimentare per l’Italia), che il M5S non avrebbe preso 11 milioni di voti, che Meloni non avrebbe sorpassato Salvini, che Conte non avrebbe mai ottenuto i soldi del Pnrr, che il Pd aveva un candidato illustre per il Quirinale (a parte Draghi) – ieri ha preso atto del Mattarella bis e ha ripiegato sul “ticket Mattarella-Draghi”, che comunque è una mezza vittoria. Coi segni del cuscino sui capelli, stropicciato dalla brandina abborracciata dalle produzioni nei sottoscala per farlo tornare tonico e lucido l’indomani, il maratoneta analista politico ci ha spiegato come va il mondo. A esso tutta la nostra solidarietà.

Le Rose, i cecchini e l’uovo: i 6 giorni della marmotta

Mesi di chiacchiere, sei giorni di ammiccamenti e un lentissimo rituale barocco, per tornare al presidente di prima. Lunedì Sergio Mattarella traslocava ai Parioli, sabato rientra al Colle, dopo una processione di supplicanti che l’ha imbullonato alla presidenza della Repubblica. La settimana della marmotta: un grande spreco di energie per misurare la distanza iperuranica tra la politica e il pianeta Terra.

Lunedì. Silvio Berlusconi riposa in un reparto del San Raffaele: doveva essere The last dance, l’ultimo ballo, lo osserva da una stanza di ospedale. Sergio Mattarella, ancora ignaro, inizia il trasloco verso la nuova residenza romana, quartiere Parioli-Pinciano: ecco le prime foto, col materasso presidenziale calato nell’appartamento. Inizia il dramma del kingmaker: Salvini è ipercinetico. Incontra tutti, è un tour de force: Toti-Lupi-Conte-Letta-Tajani-Meloni, soprattutto Draghi. Montecitorio è un circo, squadroni di giornalisti muovono in massa piazzando microfoni sotto al naso di qualsiasi persona in giacca e cravatta. Seicentosettantadue schede bianche, la foto del giorno è Renato Brunetta che si arrampica verso l’urna-insalatiera per schiacciare la sua scheda come un cestista: diventa subito un meme accanto a Micheal Jordan e LeBron James. Mattarella prende 16 preferenze.

Martedì. Un Conte fluviale, in versione pandemica, esplode un arringa anti-Draghi dal sapore schettiniano: “Il premier è il timoniere che non può lasciare una nave in difficoltà”. Pier Ferdinando Casini comincia a farci la bocca, poco presidenziale ma molto giovanile, su Instagram: foto da ventenne Dc e didascalia allusiva “La politica è la mia vita!!”, con due punti esclamativi, cuoricino e tricolore italiano. Il kingmaker Salvini inizia a sfornare rose e rosette: la prima terna da bruciare è Pera-Moratti-Nordio. Mattarella passa da 16 a 39 voti. Il suo agente immobiliare è ancora relativamente tranquillo.

Mercoledì. Prosegue il raptus salviniano (secondo il Foglio incontra anche Sabino Cassese), ma intanto Meloni riesce nell’impresa di far prendere 114 voti a Guido Crosetto. A trasloco quasi ultimato, con un certo presentimento e forse un filo di disperazione, Mattarella si fa pizzicare dalle telecamere in visita alla nuova casa ai Parioli. Insensibili, i grandi elettori lo issano a 125 voti.

Giovedì. Il giovane Casini si fa vedere a Montecitorio con la sciarpa del Bologna. Il kingmaker verde è fiduciosissimo, continua a fare riunioni e ne secca altri tre: Frattini-Massolo-Cassese. Intanto prepara il capolavoro Casellati. Si fa largo nei gruppi la figura dei “cronometristi”, quelli che contano quanti secondi impiega il parlamentare a depositare l’urna per dedurre se ha rispettato gli ordini di scuderia. Mattarella sale a 166 voti. L’agenzia immobiliare trema, Maria Elena Boschi s’indigna: “È una mancanza di rispetto verso il presidente della Repubblica, che ha già fatto sapere la sua opinione”.

Venerdì. Segni inequivocabili di squilibrio collettivo. Il kingmaker va alla prova di forza: Casellati prende una musata epica, si ferma a 382 voti. Si contano 71 franchi tiratori, un livido Ignazio La Russa dà la colpa a Toti in Transatlantico: “Stai già festeggiando?”. Il ligure, poveraccio, mica è così importante: “Sarei felicissimo di avere 71 parlamentari”. Vincenzo De Luca invece sfotte Luca Zaia: “Complimenti, Casellati è stata un’intuizione luminosa!”. Poi passa a Cassese, con somma eleganza: “Un’altra buona intuizione, mi ricorda Cernenko, quando lo tenevano in piedi con la stecca” (il povero Cernenko fu eletto segretario del partito comunista sovietico, nell’84, quando era già molto malato). Zaia se la ride: il sottotesto è che entrambi stanno prendendo per i fondelli il kingmaker. Si unisce alla conversazione Vittorio Sgarbi, che alza il livello: “Io e Bossi litigavamo molto. Un giorno io stavo con Milly D’Abbraccio. Lui mi guarda e mi fa: siamo divisi su tutto, solo la figa ci unisce”.

Clemente Mastella va in televisione brandendo un uovo: “È l’uovo di Mastella! Ve lo dico io come va a finire”. Nessuno chiama l’ambulanza. Più tardi dà il suo numero di telefono, sempre in diretta da Mentana. Elisabetta Belloni viene proclamata presidente della Repubblica da Beppe Grillo sui social. Sorpresa: non basta. Renzi al 347esimo intervento televisivo, si stizzisce per un’interruzione di Mentana e minaccia di passare subito a Sky. Mattarella sale a 330 voti.

Sabato. Standing ovation. Tutti i partiti, sconfitti, rivendicano il merito di Mattarella. Enrico Letta fa una foto alla matita con cui l’ha votato e la posta su Twitter. Poesia. Casini su Instagram: “Viva il Parlamento! Viva la Costituzione!”. Boschi non è più offesa: “Per noi è una vittoria”. Il kingmaker, sfinito: “È la soluzione più seria”.

Le rese dei conti con i draghiani interni

Destra Salvini leadership in cenere: ora Giorgetti minaccia e Meloni rompe

“Coma”, “morto”, “in cenere”. Bastano le metafore funeree di ieri per capire come esce il centrodestra dalla settimana presidenziale. Un appuntamento che Matteo Salvini e Gorgia Meloni stavano preparando da mesi assicurando che “il centrodestra sarebbe stato compatto dall’inizio alla fine”. Così non è stato. Ed è bastata la prima difficoltà per vedere liquefarsi una coalizione che, per dirla con Guido Crosetto, si reggeva già “con lo scotch”. Perché, oltre a bruciare dieci candidati tra cui la seconda carica dello Stato Casellati, è nella notte di ieri che si consuma lo psicodramma sul nome di Elisabetta Belloni. Forza Italia e Coraggio Italia, in una riunione notturna al ristorante Maxela, decidono di trattare in autonomia e puntare su Pier Ferdinando Casini, Matteo Salvini e Antonio Tajani vengono quasi alle mani. Così ieri mattina, prima della settima chiama, si consuma la scissione.

I tre partiti del centrodestra prendono tre direzioni diverse: Salvini ripiega sul Mattarella bis, FI e i centristi lanciano Casini e quando Giorgia Meloni scopre dalle agenzie la giravolta di Salvini, va su tutte le furie: “Non posso crederci” twitta. E ancora: “Manco il gattopardo, siamo al nulla cambi perché nulla cambi” attacca spiegando che “il centrodestra non esiste più” e ponendosi già come leader di una coalizione che “va rifondata”. Per questo ieri FdI ha votato Carlo Nordio.

Chi ne esce più ammaccato è Salvini, che da kingmaker in pectore deve arrendersi al mantenimento dello status quo. Ora è sulla graticola. La prima grana, che coinvolge il governo, riguarda Giancarlo Giorgetti, il suo numero due che lo spingeva a sostenere Draghi al Colle fino a fare da mediatore venerdì ospitando un incontro tra i due nei suoi uffici di Via Veneto. Di buon mattino, quando il bis di Mattarella è ormai fatto, Giorgetti minaccia le dimissioni dal governo: “Oggi è una svolta? Sì, per qualcuno porta al governo, per me a casa”. Dimissioni? “È un’ipotesi – dice – magari c’è da migliorare la squadra”. Un malumore che è un segnale del numero due anche al capo. Quando le dichiarazioni di Giorgetti fanno il giro del Palazzo, Salvini lo richiama e i due si presentano insieme davanti ai cronisti alla Camera. “Sostituirò Giancarlo con nomi di alto profilo…” ironizza il leader riferendosi alle tante figure bruciate. Niente dimissioni, ma la richiesta di un incontro lunedì con Draghi per “fare una nuova proposta al Paese” e “cambiare il metodo di governo”: “Sarà un anno difficile tra referendum e amministrative – dice Giorgetti – il metodo del governo cambiare, non si può rimanere bloccati”. Un messaggio anche a Salvini: niente campagna elettorale nell’ultimo anno di legislatura. Ma il leader del Carroccio dovrà affrontare anche le beghe interne al partito. L’ala nordista dei governatori Massimiliano Fedriga e Luca Zaia è pronta a chiedere un congresso subito e una discussione sulla linea politica. Ieri i leghisti in Transatlantico si aggiravano con sguardi terrei: “Chi glielo spiega adesso ai nostri elettori che abbiamo votato per il bis?”. Uno di questi si azzardava a pronunciare la parola “dimissioni” per “aprire una fase congressuale”. Per non parlare della coalizione, ormai in mille pezzi. Ora partirà l’opa di Giorgia Meloni sui territori – è pronta a “rubare” alla Lega decine di amministratori – e alle Comunali il centrodestra potrebbe presentarsi senza i centristi. La prossima settimana si concretizzerà la federazione tra Coraggio Italia e Italia Viva e la prima richiesta sarà una legge proporzionale. “Diremo no” dice Meloni. Anche Salvini è d’accordo: “Non ci provassero”. FI, divisa tra governisti e filo-salviniani, dovrà scegliere con chi stare.

Giacomo Salvini

 

5 Stelle Si apre la guerra in casa con Di Maio (stavolta per davvero)

L’avvocato è uscito vivo dalla battaglia del Quirinale. Ha schivato Mario Draghi, e per lui vale già quasi tutto. Ma adesso Giuseppe Conte la guerra ce l’ha in casa, la scissione da ombra si fa realtà, incarnata da una voce e un volto, quelli di Luigi Di Maio. “Nel M5S va aperta una riflessione politica interna, alcune leadership hanno fallito, hanno alimentato tensioni e divisioni” scandisce il ministro alle 21 e qualcosa, davanti a Montecitorio. Attorno a sè ha un nugolo di parlamentari, per dimostrare che è forte, uno con i numeri per combattere. Ha i lineamenti tirati come una corda, mentre accusa: “Questo stallo l’ha risolto il Parlamento grazie anche a Mario Draghi”.
È il guanto di sfida a Conte, pubblico. Ora sarà lotta per prendersi il M5S. “Oppure si spaccherà tutto” geme un big. Di sicuro non può rifiatare un attimo, Conte, che nel pomeriggio dentro la Camera aveva raccontato la sua verità. “Non spostare Draghi da Palazzo Chigi con un’emergenza in atto era il nostro primo obiettivo” ha giurato. Senza dire che anche nomi come Pier Ferdinando Casini e Giuliano Amato l’avrebbero messo in sicura difficoltà e probabili guai. Li ha evitati grazie a Sergio Mattarella, “la nostra opzione di garanzia”. Però adesso davanti a sè ha solo fronti aperti, l’ex premier. Quello con il Pd, a cui di fatto rimprovera di essere tornato indietro rispetto al suo sì ad Elisabetta Belloni, la vera carta di Conte per il Colle. E c’è la guerra civile nel M5S, lo scontro con Di Maio, quello che venerdì sera era esploso: “Trovo indecoroso buttare in pasto al dibattito, senza un accordo condiviso, un alto profilo come quello di Belloni”. Meno di 24 ore dopo, l’avvocato gli risponde che di quelle frasi ne dovranno riparlare: “Arriverà il momento per chiarire il significato di queste uscite. La nostra è una comunità in cui ogni esponente politico deve innanzitutto rispondere non al leader di turno ma agli iscritti”. Ma la sua prima risposta al ministro l’avrebbe già data già venerdì notte, con un messaggio in una chat: “Ti invito a essere più cauto nelle dichiarazioni, ma capisco la tua premura nei confronti di Belloni, visto che la consideri tua sorella…”. Nessuna risposta dal ministro, che già meditava la mossa di ieri sera. Ore prima, appena Mattarella ha superato il quorum dei voti per l’elezione, ha celebrato la notizia con i “suoi” deputati in Transatlantico. Applausi e abbracci, con in prima fila Laura Castelli e Sergio Battelli.
Sembrano esserci già due partiti nello stesso Movimento, quello che i partiti li voleva demolire. “Conte ha gestito tutto malissimo, altro che vittoria” sibilano dal suo fronte. “Questo scontro è una valanga, da qualche parte arriverà” sussurra un deputato che sa di cosa parla. Tutto attorno è già campagna di annessione. In mezzo alle due fazioni del M5S c’è una vasta area grigia, rincorsa dai lealisti come dai dimaiani. Nell’attesa, Conte dice la sua sul Quirinale: “Non ci sentiamo vincitori, né sconfitti. Abbiamo assicurato continuità all’azione di governo, ma ha vinto il Paese”. Piuttosto, “non siamo riusciti a eleggere una donna come presidente, e su questo il Paese ha perso”. Parla a voce alta, scatta con facilità. “Asse gialloverde? Non dite fesserie”. Si lamenta: “Sono state scritta schifezze in questi giorni, ma il M5S non deve giustificarsi di nulla”. Racconta di aver chiesto un incontro a Draghi, perché “vogliamo condividere l’agenda politica con lui”. Non vuole sentir parlare di rimpasti: “È roba verso la quale non abbiamo alcuna sensibilità”. In serata, a Mattarella eletto, scende in Transatlantico a stringere mani e a concedere selfie. È la risposta simbolica a Di Maio. La guerra a 5Stelle è già qui, è già ora.

Luca De Carolis

Mezzo Pd già assedia il segretario

“Mattarella per il Paese è la scelta migliore in assoluto”, perché “un altro governo con Draghi al Quirinale non so se saremmo riusciti a farlo e sarebbe stato più debole”. Enrico Letta arriva in conferenza stampa che sono da poco passate le 16 per svelare che in realtà la sua prima scelta era il bis, che, sì, ha lavorato per il premier, ma in realtà ha sempre avuto in mente il Capo dello Stato. Dopo 6 giorni in è apparso vero tutto e il contrario di tutto, il segretario del Pd decide che è questa la verità che vuole lasciare scolpita nella pietra. D’altra parte, una settimana fa l’aveva detto a Che tempo che fa da Fabio Fazio, creando più di un sobbalzo, (“Mattarella per noi sarebbe la soluzione ideale”). Va detto che Matteo Orfini, che ha lanciato ufficialmente il bis in un’intervista qualche settimana fa, e Stefano Ceccanti, che non ha mai smesso di indicarlo come unica opzione possibile, hanno indicato una linea. Da martedì i dem avevano iniziato a far arrivare dei voti al Presidente.

D’altra parte, il bis è quello che consente a Letta di non rompere con Giuseppe Conte, di non far esplodere il Pd, di evitare di mettere mano agli equilibri di governo. Per ora. La precarietà dei vari risultati ottenuti si misura dalla perentorietà di alcune risposte del segretario in conferenza stampa. E dal clima arroventato che resta anche dopo la rielezione del Capo dello Stato. “Mi fido di Conte”, dice Letta. Ma i sospetti (reciproci) sono stati il leit motiv di questi ultimi giorni, da quando è arrivata sul tavolo l’ipotesi di Franco Frattini (per i dem portata avanti dai gialloverdi) alla vicenda di Elisabetta Belloni, voluta da Conte, fermata da Renzi e dal gruppo Pd (oltre che da FI e dai centristi). “Basta con i 5Stelle”, era una frase che si sentiva risuonare in Transatlantico. E c’è da scommettere che molti dem ripartiranno con il refrain del “Draghi premier forever”. Su un altro punto, Letta è stato perentorio: “Per il Pd, il governo va bene così“, ha detto, stoppando le ipotesi di rimpasto. D’altra parte i timori di Dario Franceschini e Andrea Orlando di essere sostituiti ha avuto il suo peso nella loro ferma ostilità all’ipotesi di Draghi al Quirinale. I dubbi sulla possibilità del governo di andare avanti serpeggiavano già ieri tra i dem. Da scommettere, che partirà l’assalto alla delegazione. D’altra parte, Franceschini ha condotto una contro-trattativa perenne, lavorando di sponda con Renzi su Casini, prima di tornare sul bis. Resteranno gli strascichi. Intanto, il segretario una cosa l’ha detta subito: “La legge elettorale deve essere nell’agenda dei prossimi 14 mesi. L’attuale credo sia la più brutta che ci sia mai stata regalata”. A lui piace il maggioritario, ma il Pd vuole il proporzionale. Ammesso che il Parlamento riesca a realizzarla, la riforma è sul tavolo. In vista di una maggioranza Ursula, con quel che resta di Forza Italia.

Niente donna al Quirinale: così Letta ha silurato Belloni

Giovedì pomeriggio, ora di pranzo. Il flusso delle agenzie restituisce due lanci. Il primo è di LaPresse, che cita fonti del Pd secondo cui Elisabetta Belloni sarebbe “una soluzione onorevole” per il Quirinale. Poco dopo, AdnKronos conferma: Belloni è definita “plausibile”. Parole che aiutano a capire lo stupore con cui Matteo Salvini e Giuseppe Conte ieri hanno raccontato come si è arrivati alla convergenza su Sergio Mattarella, ultima spiaggia dopo il naufragio della candidatura della direttrice del Dis, l’unica che in questi giorni aveva dato la sensazione di poter arrivare all’elezione (“ero stato delegato dalla coalizione a incontrare Salvini”, ha spiegato ieri Conte).

Venerdì sera sembra quasi fatta, sabato mattina Belloni sparisce. Cosa è successo in poche ore?

L’idea.Il nome della diplomatica circola da mesi. Il primo a farlo è Conte, che nelle interlocuzioni preliminari lo cita ai diversi leader raccogliendo buoni riscontri sia da Letta che da Giorgia Meloni, la quale a sua volta riferisce un’apertura di massima da Salvini.

Quando si comincia a votare, la destra inizia a bruciare i suoi candidati, perdendo la possibilità di eleggere un profilo di partito con un blitz in Aula. E così il nome di Belloni torna attuale, anche perché a inizio settimana Conte incontra di nuovo Letta ed è addirittura il segretario dem a rilanciarne la candidatura. In quel momento i giallorosa decidono di non sponsorizzare alcuna lista alternativa a quella del centrodestra, anche per evitare di bruciare i nomi in campo, ma la trattativa su Belloni va avanti.

Venerdì.Tanto è vero che due giorni dopo, quando Salvini ha esaurito le cartucce, il leghista si siede di nuovo al tavolo con i leader del centrosinistra e si sente di nuovo proporre la numero 1 del Dis. Matteo sa che Meloni non ha cambiato idea e che quindi, se il suo partito terrà, Belloni potrà essere eletta. Dopo il vertice del pomeriggio, Salvini si prende qualche ora e poi conferma a Conte: “Noi ci siamo”. Anche senza Forza Italia e i renziani, perché se i giallorosa reggono e la Lega consolida l’asse con Fratelli d’Italia c’è margine per riuscire.

Il passo indietro.Siamo alla sera di venerdì. Letta si presenta prima ai microfoni di SkyTg24 confermando di lavorare a “una presidente” e poi a quelli della Maratona Mentana, insistendo sul fatto che possa essere eletta una donna: “Bisogna trovare una soluzione per una presidente o un presidente che sia in grado di essere all’altezza di Mattarella”. Alle 20, le solite “fonti Pd” mandano una velina alle agenzie, dando per buoni cinque nomi: “Draghi, Mattarella, Casini, Belloni e Cartabia”.

In realtà oggi fonti del Nazareno chiariscono che il segretario “ha sempre detto agli alleati di dover verificare il nome di Belloni nei gruppi”, così come quello di Paola Severino. Fatto sta che nel giro di pochi minuti, Letta cambia idea. Sonda il suo partito e capisce che una parte dei parlamentari non lo seguirà, soprattutto tra gli ex renziani e gli eletti vicini a Lorenzo Guerini (lui stesso favorevole a Belloni fino a qualche giorno fa). Vale anche per qualche decina di grandi elettori del Movimento 5 Stelle (l’area riconducibile a Luigi Di Maio) ma Conte tira dritto e chiede a Letta di fare altrettanto. Il ministro degli Esteri – come scritto ieri anche dal Foglio, che l’ha pizzicato a chiacchierare con Beatrice Lorenzin – fa asse con Guerini: “Quei due furboni (Salvini e Conte, ndr) giocavano sul fatto che io non ne sapessi niente”.

Le dichiarazioni.L’accordosalta. Letta non vuole perdere il partito né rompere con i “riformisti” (Italia Viva e parte di Forza Italia: sempiterna influenza dello zio), quindi si tira indietro. Salvini e Conte provano comunque a forzare la mano davanti alle telecamere, confidando che mettere il segretario dem di fronte al fatto compiuto possa vincere le sue resistenze.

Il leghista si dice convinto di poter eleggere “una presidente donna in gamba”, Conte lo segue rivendicando di aver provato per primo, con il Movimento, a eleggere una presidente. Il nome di Belloni diventa esplicito quando Beppe Grillo la sostiene sui social e quando Di Maio, pubblicando quella che sembra una difesa alla capa del Dis, in realtà ne affossa definitivamente la candidatura. Letta ormai non torna indietro, anche perché gli oppositori di Belloni la stanno già impallinando in diretta tv, approfittando anche del silenzio dem.

Tutto all’aria.La mattina seguente – sabato, settima votazione – restano le macerie. L’ultimo tentativo per rimanere su una presidente donna è convergere su Marta Cartabia, ma l’ipotesi di confermare Sergio Mattarella sembra poter togliere tutti dai guai.

E così, quando Mario Draghi telefona ai leader per confermare la disponibilità del presidente al bis, si archivia ogni altra trattativa. Per la donna servirà aspettare almeno un altro giro.

I social contro Letta e Di Maio “Siete incapaci e inadeguati”

La rielezione di Sergio Mattarella ha provocato rabbia e delusione da parte di molti italiani, dando vita a un gran numero di commenti di sdegno sotto i profili social dei principali leader politici. Fra i più bersagliati c’è Enrico Letta, che ieri pomeriggio ha pubblicato un video in cui lui e i grandi elettori del Pd applaudono Mattarella. Inadeguatezza e incapacità sono fra le parole più utilizzate, come nel commento di Alessio (“Dovreste prendere atto della vostra inadeguatezza”) o in quello di Sergio (“Auguri al presidente che contro la sua volontà è caduto nella trappola della vostra incapacità”). Luigi Di Maio non ha pubblicato nulla riguardo al Quirinale, ma questo non l’ha salvato dall’indignazione dei più, con l’accusa ricorrente di aver sabotato il M5S. Sotto il suo ultimo post risalente al 25 gennaio, dove il ministro degli Esteri rilanciava un articolo sull’export, tanti gli danno del “democristiano”, “che pensa a sopravvivere in Parlamento ritagliandosi la sua corte”. Non si salvano i due Matteo, Renzi e Salvini. Sotto l’esultanza del leader di Italia Viva, un commento con la citazione del Gattopardo (“Perché tutto cambi bisogna che tutto resti com’è”) raccoglie quasi 1000 like. Il leghista pubblica invece l’intervista concessa al Tg1: “Questo è l’inizio della tua fine”, gli commentano.

Draghi lo sconfitto: rimane premier, ma la maggioranza ormai pensa al voto

“Partiti chi?”. A sera, la battuta gira nei corridoi di Palazzo Chigi. Mario Draghi resta presidente del Consiglio, dopo aver visto in 6 giorni tramontare la sua ambizione di diventare Capo dello Stato. E aver assistito a uno spettacolo che valuta inqualificabile. E dunque, se nello stesso Parlamento che sta rieleggendo Sergio Mattarella, dopo aver passato una settimana a bruciare un nome dopo l’altro, lo sport preferito diventa ipotizzare un rimpasto, il premier non ha intenzione di toccare una virgola, di spostare alcun equilibrio. Anzi, vuole esercitare il suo ruolo con tutto il decisionismo possibile.

Come si prevedeva dall’inizio, da prima che partisse il film del “nonno al servizio delle istituzioni”, è stato lo stesso premier a portare a Mattarella la richiesta di dare la disponibilità al bis. I due si sono incontrati ieri mattina (anche se contatti informali erano partiti venerdì sera), durante la cerimonia per l’elezione di Giuliano Amato a presidente della Corte Costituzionale. Poi, il premier ha chiamato a uno a uno i leader dei partiti (e Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri dei Cinque Stelle, che ha lavorato per lui mentre Giuseppe Conte era ferocemente contrario). Conversazioni non fotocopia, ma tutte piuttosto vivaci. Il premier ha chiarito che a quel punto della storia non c’erano alternative al bis. Stoppando così anche l’ultimo tentativo di Matteo Renzi, che continuava a raccogliere firme per l’elezione di Pier Ferdinando Casini. Un’ipotesi che per il premier era dall’inizio da scongiurare: per i maligni perché avrebbe tarpato le ali alla sua volontà di riprovarci all’inizio della prossima legislatura (va detto che il Capo dello Stato ha già detto che il suo non sarà un mandato a tempo). Ma anche perché avrebbe favorito un cambiamento del quadro, con uno slittamento al centro del baricentro politico.

Domani ci sarà il primo Cdm della nuova era Draghi. In settimana ne sono previsti due. Dopo una settimana di stop e due mesi rallentatissimi, le emergenze crescono. Dalla pandemia al Pnnr. Non saranno mesi facili, la “tonnara” di questi giorni ha lasciato il segno, la stessa immagine di Draghi ne esce ammaccata. Quanta della sua autorevolezza sarà riuscito a conservare alla fine della legislatura è tutto da vedere. Quanto il governo potrà funzionare, anche. Ma questa è un’altra storia. Intanto, ieri sera, Draghi festeggiava la rielezione: “Sono grato al Presidente per la sua scelta di assecondare la fortissima volontà del Parlamento”.