Il sì già giovedì sera, ora tutti aspettano il suo discorso in aula

La processione supplice per il bis comincia nel primo pomeriggio, quando tutto è compiuto. Sulla scena, il primo a parlare con Sergio Mattarella è Mario Draghi, in mattinata. Il premier si intrattiene con lui per almeno venti minuti, dopo il giuramento al Colle di Filippo Patroni Griffi come nuovo giudice costituzionale. Dal Quirinale trapela quanto basta. E cioè che “la situazione di stallo” tra i grandi elettori ha una sola via di uscita. Il bis. Che ha il vantaggio, per i due interlocutori, di non avere grosse ripercussioni sul governo.

Da quel momento in poi si forma una valanga euforica di commenti. Tra i leader spicca la telefonata al capo dello Stato di un redivivo Silvio Berlusconi, che poi parla di “sacrificio chiesto a Mattarella”. La valanga è tale che Mattarella “rischia” in teoria l’elezione bis già alla settima votazione, iniziata alle undici. Ma la destra, tranne FdI, si astiene e il presidente si ferma a 387. Il dettaglio non è secondario comunque. Ché conferma l’onda parlamentare che sin dal primo giorno ha sperato e lottato per il bis. Anche per questo, la processione nel pomeriggio è composta dai capigruppo parlamentari (seguiti dai presidenti di Regione) e non dai leader politici come avvenne nel 2013 per il secondo mandato di Giorgio Napolitano.

Le differenze con il bis di Re Giorgio non si fermano qua. La più evidente riguarda i pentastellati: nell’aprile di nove anni fa, i Cinque Stelle non si unirono al coro per Napolitano e votarono sino alla fine per Stefano Rodotà. All’epoca anche la Lega chiese il “sacrificio” al presidente uscente. Non solo. Quella crisi dei partiti, dopo il governo Monti e il primo boom grillino, segnò l’agonia irreversibile della Seconda Repubblica. Questa al momento vanifica senza dubbio il fatidico “cambiamento” dopo le elezioni del 2018, con la vittoria dei due populismi.

E così Mattarella di sabato rimane il dodicesimo capo dello Stato. Non è l’atteso tredicesimo. Accade nel settimo anniversario preciso dell’annuncio di Matteo Renzi ai grandi elettori del Pd, il 29 gennaio 2015: l’allora segretario dem ruppe il patto del Nazareno e propose il nome dell’ex ministro della sinistra dc. Venne eletto due giorni dopo, il 31 gennaio, con 665 voti al quarto scrutinio (M5S e Lega non lo votarono) e giurò il 3 febbraio. Stavolta viene scelto all’ottavo, mai successo nella storia repubblicana, e raccoglie 759 preferenze, il più votato dopo il socialista partigiano Sandro Pertini nel 1978. A sentire gli ambienti del Quirinale, la decisione del presidente non è stata facile. Come non ricordare tutte le numerose dichiarazioni contro la riconferma e le riflessioni sulla necessità di introdurre nella Costituzione il divieto di un secondo mandato e l’abolizione del semestre bianco.

Ma nel suo realismo di marca democristiana Mattarella aveva capito l’esito inevitabile già giovedì sera, di fronte al risultato della quarta votazione che gli attribuiva 166 voti. Due giorni fa, infatti, al Colle si tratteggiavano le condizioni per uscire dal drammatico stallo poi culminato venerdì con il flop catastrofico della presidente del Senato, Casellati. Cioè: voto compatto dell’attuale maggioranza di governo più l’astensione di Fratelli d’Italia, che però non è arrivata. E soprattutto: niente mandato a tempo, per distinguersi proprio da Napolitano. Certo, nel 2023 ci saranno le elezioni e il quadro cambierà. Ma sarebbe azzardato adesso parlare di staffetta con Draghi.

Ecco quindi da dove origina il “senso di responsabilità” di cui ha parlato lo stesso Mattarella ieri sera nel breve messaggio fatto dopo aver ricevuto dai presidenti delle Camere il verbale dell’elezione. Questo il testo: “I giorni difficili trascorsi per l’elezione alla presidenza della Repubblica, nel corso della grave emergenza che stiamo tuttora attraversando sul versante sanitario, su quello economico, su quello sociale, richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento. Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati e naturalmente debbono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti”. Ma adesso l’attesa è tutta per il discorso che farà per il giuramento e l’insediamento, in Parlamento. Nel 2013, Napolitano prese a schiaffi i partiti e questi lo applaudirono. Stavolta?

Mattarella fa bis. La politica si arrende e lascia tutto com’è

E bis fu. Chiama dopo chiama, dal falò dei candidati (e delle vanità dei leader) non è rimasto che tornare a Canossa. E con 759 sì, il Parlamento ha ottenuto il richiamo di Sergio Mattarella. La politica si infila nel congelatore, se ne frega di un nuovo strappo costituzionale, si arrende allo spirito di conservazione. Lo fa presto, di prima mattina, dietro allo scudo della “saggezza” di quel Parlamento che da cinque giorni sta facendo “crescere” il nome dell’attuale capo dello Stato. Inutili gli ultimi vertici tra i capi dei partiti della maggioranza: non sono nemmeno le 11 quando Matteo Salvini, l’unico che mai aveva fatto appello al bis, dice: “tanto vale che la squadra resti così”.

Non fanno nemmeno finta di tirare in ballo il Covid o le bollette impazzite: no, no, per tutti aver richiamato Mattarella è la semplice constatazione di una maggioranza (e di due coalizioni) che sta attaccata con lo scotch: non si può muovere nemmeno un tassello, altrimenti viene giù tutto.

Dentro Montecitorio non è più il giorno degli strateghi, dei conciliaboli. C’è il corpaccione dei parlamentari che si aggira sollevato, quasi inebriato dal finale che tutti adesso dicono fosse già scritto. C’è chi ne fa una questione di pesi: “Quando hai un punto di partenza così, è difficile trovare qualcuno di più alto”. Parlano di Mario Draghi e del fatto che nella ricerca del presidente c’era una variabile in più da considerare, oltre all’accordo impossibile tra i partiti: trovare un nome che non fosse un dito nell’occhio per quel premier che si è candidato e che nessuno ha voluto accontentare. Lo certifica il messaggio di Pier Ferdinando Casini, il centrista che avrebbe potuto tenere insieme un po’ tutti: “Togliete il mio nome dalla discussione”, dice dopo aver twittato solennemente “Prima di noi viene l’Italia”.

Draghi, quindi. Lo sconfitto a cui hanno permesso di avere la “miglior sconfitta possibile”. Non è stato fermo nemmeno ieri, il presidente del Consiglio che ha passato la settimana del voto a tentare il colpaccio con i grandi elettori. A sera, commenta la “splendida notizia” e ringrazia Mattarella per aver “assecondato la fortissima volontà del Parlamento di rieleggerlo per un secondo mandato”. È utile un ripasso dei sinonimi della Treccani, per valutare la scelta del verbo nel comunicato di Palazzo Chigi: “Assecondato”, ovvero agevolato, facilitato, favorito.

Questione di punti di vista. Come tutto, del resto. Quelli che avevano tirato la volata all’ex banchiere ora segnano a futura memoria: “Ricordiamoci che tutti, nessun partito escluso, per tenerlo a Palazzo Chigi hanno detto che era il miglior premier che potessimo avere”.

Non è un caso che Giancarlo Giorgetti, il più draghiano dei ministri, nervoso come non mai, arrivi a minacciare le dimissioni dal governo. Perché la campagna elettorale è già iniziata, i congressi dei partiti pure, e il governo – che già non godeva di ottima salute – ora che non c’è più la mannaia delle elezioni anticipate ballerà ogni giorno di più.

È terreo in volto anche Dario Franceschini, che pure del Mattarella bis è sempre stato sostenitore. I suoi rapporti con Draghi sono incrinati da tempo, ora tutto sarà ancora più in salita.

Lorenzo Guerini in Transatlantico non trattiene uno sfogo di sano realismo: “Il casino vero si apre adesso”. I Cinque Stelle si aggirano per Montecitorio spauriti, ma sono presi più dalla faida interna tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio che è diventata di pubblico dominio che dall’esito dell’elezione. Avrebbero voluto festeggiare la candidatura della donna su cui hanno trattato fino a ieri mattina, ma si accontentano di aver fermato Draghi.

È il paradosso di queste elezioni, dove conta di più chi non è riuscito a salire al Colle di chi chi invece giurerà giovedì. Tanto, al Colle, c’era già.

E, sono già tutti convinti, non ha nessuna intenzione di rimanerci poco.

Il Sabato delle Salme

Se ci fosse il bicchiere, potremmo dire che è mezzo pieno, perché ci siamo risparmiati tutti i peggiori al Quirinale. Ma non è rimasto più nulla, neppure il bicchiere. Non è la “sconfitta della politica” (come cianciano i presunti nemici dell’“antipolitica”), perché alcuni politici hanno provato fino all’ultimo a darci una degna presidente della Repubblica. È la sconfitta degli italiani per mano degli altri politici che han fatto di tutto per impedirlo e, non avendo la forza di realizzare le loro cattive intenzioni, si contentano di bruciare le poche buone e buttare la palla in tribuna imbalsamando il Mattarella bis. Che ora tutti i lanciatori di cappelli spacciano per un proprio successo personale: peccato che non lo volesse nessuno (neppure l’interessato), tranne i gruppi parlamentari 5Stelle (per salvare le poltrone) e il pd Orfini.

Mattarella (bis). Aveva ripetuto in tutte le salse di ritenere la rielezione una sgrammaticatura istituzionale, e lo è (per giunta con un tecnico al governo e un politico nell’unico posto dove non dovrebbe stare: la Consulta). Più sgrammaticato del bis ci sarebbe solo una presidenza a tempo in stile Napolitano per scaldare la poltrona a Draghi: speriamo che almeno quella ce la risparmi.

Draghi. Forte (si fa per dire) dell’appoggio del potere finanziario-editoriale e dei suoi camerieri Letta sr. e jr., Di Maio, Giorgetti&C. (più Salvini, ma solo nei giorni pari), il premier ha provato con ogni mezzo a farsi incoronare presidente di una Repubblica presidenziale, travolgendo regole, prassi e buona creanza, a costo di spappolare la sua maggioranza e i relativi partiti e di esporre il governo e l’Italia alla tempesta. Ma non ce l’ha fatta: i primi sconfitti sono lui e i suoi trombettieri. Se la Casellati non avesse fatto peggio, la sua sarebbe la carica istituzionale più delegittimata. La ubris, nella tragedia greca e nella commedia politica, è un peccato mortale.

Conte. Oltre a B., non voleva Draghi né gli invotabili Amato, Casini, Cartabia, Casellati, Cassese&C.: e li ha sventati, dando sponda al no di Salvini sul premier (nei giorni dispari). Come piano B, non gli dispiaceva il Mattarella bis invocato a gran voce dai gruppi M5S: e l’ha avuto. Il suo piano A erano tre nomi di livello e non di parte: Riccardi, Belloni e Severino. Ma giocava con due handicap: non poter votare nessuno dei candidati altrui e dover trattare col coltello di Di Maio conficcato nella schiena. Venerdì sera poteva fare strike dopo il vertice con Letta e Salvini, concordi sulla rosa che includeva la Belloni: l’unica candidata che non aveva veti da nessuno, anzi godeva da giorni dei consensi di tutto il centrosinistra e della Meloni, cui si era aggrappato in corsa pure Salvini dopo lo sfracello Casellati.

Un compromesso “alto” e innovativo, gradito anche a Draghi ormai rassegnato a restare premier. Poi non la “crisi della politica”, ma alcuni politici con nome e cognome – Letta, Di Maio, Tajani e Renzi – l’hanno sabotata e affossata per puri interessi di bottega. Gli elettori se ne ricorderanno, si spera.

Salvini. Da quando qualcuno gli ha parlato del kingmaker senza spiegargli cosa sia, è rientrato in modalità Papeete senza mai azzeccarne una. Ha incenerito una dozzina di candidati, fino al capolavoro Casellati. Poi, per coprirne le tracce, ha avuto un lampo di lucidità sulla Belloni. Ma è stato un attimo. Ieri ha detto che il Mattarella bis è il suo trionfo: come no.

Letta jr. C’è chi aveva diversi candidati, chi molti, chi troppi: lui non ne aveva nessuno. Anzi uno – Draghi – ma non poteva dirlo per non sfasciare il Pd e il centrosinistra. Ha chiesto un presidente condiviso tra i due poli, ha dato tre volte il via libera alla Belloni (“scelta onorevole”) finché non s’è concretizzata e lì, quando l’hanno condivisa i due leader del centrodestra e quello del primo partito, l’ha bocciata perché lui voleva Draghi e Renzi, i renziani Pd e B. volevano Casini. Con i mirabili risultati di spaccare la maggioranza e il centrosinistra, apparire un po’ meno responsabile di Salvini e far incazzare Mattarella. Ora dovrà spiegare agli eventuali elettori perché, grazie a lui, l’Italia non ha la sua prima presidente della Repubblica, ma lo stesso di prima.

Meloni. Ha lasciato che Salvini girasse a vuoto fino a rintronarsi e schiantarsi, poi l’ha portato dove voleva lei: sulla Belloni. E s’è pure concessa il lusso di dare del sessista a Letta e di distinguersi dagli altri non votando Mattarella. Con B. al San Raffaele e Salvini al Papeete, si conferma l’unica testa pensante del fu centrodestra.

Renzi. Esistendo ormai solo su tv e giornali, fino a un anno fa era il perfetto Demolition Man: infatti distrusse tre governi (tra cui il suo), il Pd, Iv e se stesso. Ora non riesce più neppure a demolire: la Belloni l’ha affossata il Pd. Ha sponsorizzato fino all’ultimo Casini (che non meritava, poveretto) escludendo il Mattarella bis, e ora finge di averlo voluto lui. Non fiori, ma opere di bene.

Di Maio. È il Renzi dei 5Stelle. Beniamino dei giornaloni (quelli che gli davano del bibitaro), ma non più degli elettori (vedi insulti sui suoi social), ha giocato fin da subito per Draghi (che un anno fa voleva “uccidere in Parlamento”), contribuendo a mandarlo al massacro, contro il suo leader e il suo movimento. Ha incontrato, sentito e promesso voti a tutti, anche a quelli che quattro anni fa non voleva vedere neanche in cartolina. Ha definito “mia sorella” la Belloni, poi ha fatto di tutto per impallinarla. Per molto meno, se fosse ancora il capo dei 5Stelle, si sarebbe già espulso.

La crisi politica italiana è ancora figlia del passaggio dall’89 al 1994

Nel tornare a studiare da vicino quel passaggio storico che si snoda tra il 1989 e il 1994, la storica Simona Colarizi mette in luce la peculiarità italiana chiedendosi perché l’ondata anti-politica e contro la corruzione che caratterizzò, ad esempio, anche la Francia, si sia tradotta in un crollo del sistema politico solo in Italia. Forse per il sistema istituzionale più solido in Francia che in Italia così come in Germania o anche in Spagna. Ma la domanda e l’approccio del libro che torna su quegli anni riconducendoli opportunamente a quanto maturava negli anni 70, è utile a riaprire la discussione.

Colarizi mette insieme elementi diversi per spiegare il passaggio d’epoca: l’impatto dell’89 sul Paese con il più forte Partito comunista dell’Occidente; il passaggio di fase rappresentato dal Trattato di Maastricht e l’esaurimento di quello che definisce “lo Stato progettuale attivo”, ma poi, nello specifico italiano, il peso del debito pubblico e la sfiducia nella rappresentanza politica. Che data da più di un decennio. Le inchieste della magistratura sono patrimonio di un piccolo manipolo di magistrati negli anni 70, ma nel ’77 Aldo Moro dovrà dire in Parlamento che la Dc “non si farà processare nelle piazze” tanta è la sfiducia e la rabbia montante a livello di massa. Il Pci non si sfila dal sistema, anzi lo sorregge con il governo di unità nazionale e recupera la “questione morale” solo quando si sposterà all’opposizione.

A questo filone di ricerca se ne aggiungono altri, in particolare la ridislocazione dei poteri internazionali che passa con il nuovo patto europeo. Ma senza indulgere in nessuna “congiura dei poteri forti”. Le ragioni della crisi stanno dentro la società italiana, affondano negli anni Ottanta e Colarizi cerca di indagarli con lo sguardo di chi vede nelle convulsioni politiche dei nostri giorni il residuo irrisolto di quella crisi epocale.

 

Passatopresente

Simona Colarizi

Pagine: 216

Prezzo: 20

Editore: Laterza

 

Dalla Francia arriva la banda Ventura: quattro evasi che fanno i detective

Dalla Francia all’Italia: stavolta Enrico Pandiani, l’inventore di Les Italiens, inverte il percorso dei suoi noir e inizia una nuova serie con quattro latitanti fuggiti a Torino dopo essere evasi tre lustri prima, durante un trasferimento da Parigi a Lione. Il loro capo è Max Ventura al secolo César Colucci, marsigliese e rapinatore. A Torino, Max ha aperto un ristorante di successo e ha una compagna ignara del suo passato. Un giorno si presenta a pranzo un anziano signore elegante scortato da due vigili urbani. Mangia e poi chiede a Ventura di parlare da soli. In pochi minuti l’uomo misterioso riassume a Max il suo casellario giudiziale. E anche quelli dei suoi tre amici evasi che hanno ricominciato una vita onesta a Torino. Ma l’anziano signore che vuole essere chiamato Numero Uno non intende riportarli in galera né ricattarli. Anzi.

Il Numero Uno ha studiato i loro profili e vuole ingaggiarli per una non meglio precisata squadra investigativa che deve indagare su un vecchio caso rimasto senza soluzione: l’incendio nel novembre del 2016 di una comunità di rifugiati. Sedici morti, tra cui un bianco mai identificato, e tre sopravvissuti, due neri e una donna. Così Max si mette all’opera con Abdel (Rachid Belghazi), Sanda (Florence Narindra) e Vittoria (Giselle Hartmann). A questo punto i quattro sono costretti a rivelare la loro vera identità ai propri cari. Una sorta di battesimo per affrontare l’insolito lavoro da investigatori e che porterà alla luce un gigantesco intrallazzo fatto di morte e soldi, naturalmente. Ma è un giallo ed è meglio non aggiungere nulla. Al solito Pandiani ha una cifra sociale tipica del noir transalpino, coniugata con uno stile scoppiettante. C’è da scommettere che la banda Ventura avrà una vita molto lunga.

 

Fuoco

Enrico Pandiani

Pagine: 379

Prezzo: 16

Editore: Rizzoli

L’anonima penna amata dai teen: un feuilleton 2.0

Erin Doom non esiste. O meglio, Doom con quel cognome che in inglese significa destino, esiste solo sulla carta. È uno pseudonimo che cela l’identità di una giovane autrice italiana. La biografia che filtra è scarna come un telegramma: emiliana, non ancora trentenne, studi giuridici. “Una semplice ragazza che scrive per passione” dice di sé mentre i suoi due romanzi pubblicati da Magazzini Salani – Fabbricante di lacrime uscito nel maggio dello scorso anno e Nel modo in cui cade la neve in libreria da un paio di settimane – irrompono nella top ten dei più venduti macinando decine di migliaia di copie.

Senza che gli addetti ai lavori ne fiutassero le proporzioni ecco un fenomeno che costringe ancora una volta l’arena mediatica a fare i conti con il genere Young Adult. Proprio come nel caso dell’americana Anna Todd e del suo fortunato After, anche Doom ha scelto dapprima la strada dell’autopubblicazione sulla piattaforma Wattpad e costruito in Rete il suo pubblico di lettori. Un successo generazionale tanto clamoroso che, per citare due esempi riferiti al Fabbricante, su Amazon Sofia scrive: “Finito in un giorno solo ma avrei voluto non finirlo mai!” e su Tik Tok Adriana singhiozza: “Non dimenticherò mai questo libro”. Su Youtube si rincorrono video dentro camerette piene di peluche con ragazzine estatiche che stringono al petto i due volumi come fossero talismani. La stessa autrice, dal suo profilo Instagram, civetta con l’immaginario delle sue seguaci. A corredo di citazioni dalle sue opere un repertorio di foto patinate di modelli teenager. Un rapporto che salta ogni mediazione critica, tutto giocato su iperboli emotive se è vero che su Facebook ci si imbatte persino in sentenze di lesa maestà: “Erin Doom con la sua straordinaria maestria ha superato anche Emily Brontë”. Eppure le sue pagine non marcano nessuna singolarità, anzi sembrano attingere ai fondi di magazzino di un immaginario più che usurato.

Entrambi i romanzi – ricalcati sullo schema fisso di un amore contrastato che si scioglie in un lieto fine – puzzano di artificio. Non solo per lo scenario nordamericano, ma soprattutto per una mimesi adolescenziale che fa il verso a tanti, troppi cliché (una specie di Frankenstein letterario che centrifuga i Teen Drama in onda su Netflix). Lo stile sfiora il grado zero, avvitato su un lirismo slabbrato. Nel Fabbricante di lacrime, fior da fiore, si rincorrono espressioni come “riccioli di gelo che sfiorano la pelle”, “lividi nelle pupille”, “occhi grigi come il mare d’inverno”, “urla mute incastrate nel petto”. I passaggi consacrati alla passione sono da feuilleton dozzinale: “La sua bocca si chiuse sulla mia e un brivido mi crepitò con dolcezza nella carne”.

Il plot è un concentrato di stereotipi. Siamo in Alabama. Nica, orfana, e Rigel, abbandonato dalla famiglia in un cesto di vimini, crescono insieme in un orfanotrofio e all’età di 17 anni vengono entrambi adottati da una coppia di coniugi. La convivenza forzata tra i due ragazzi è scandita da una reciproca ostilità e quando scoppia l’amore viene a galla un passato comune di abusi e di sevizie. La storia si conclude con i protagonisti a 34 anni, genitori di una bambina.

Nel modo in cui cade la neve, fedele al marchio di fabbrica, Doom sciorina perle del rango “il mio orgoglio tremò come una bestia in catene”, “il mio corpo si accartocciò come un fiammifero riarso dal fuoco”, “un universo di fuoco e di stelle mi tuonò dentro le vene”. Ivy, anche qui una ragazza alle soglie della maggiore età, resta orfana e dal Canada approda in California, adottata dal padrino di battesimo John. Costretta alla convivenza burrascosa con Mason, il figlio di John, viene salvata da un annegamento nell’oceano proprio dal fratellastro e sboccia l’attrazione. A metà libro il romance vira al crime perché la protagonista viene inseguita da agenti della Cia e da un’organizzazione criminale per carpirle il codice di un software inventato dal padre. Dopo un ritorno in Canada della ragazza ecco il sospirato happy end.

A Erin Doom, per la quale i lettori sono “come quel pezzettino preferito di dolce che conservi da parte”, non difetta il coraggio se è vero che nella pagina dei ringraziamenti scrive che “non bisogna temere di sentirsi imperfetti”.

I matti sono soltanto un’invenzione dei sani

Tutti la chiamano “Génie la matta”. Da piccola era vivace, poi, a 17 anni, avviene la “disgrazia”. Il muratore Ernest vuole sposarla, lei rifiuta, lui la violenta, lei partorisce Marie, la bastarda, e si trincera nel silenzio, ripudiata dai parenti di buon nome. Pazza non è, cova solo un dolore indicibile, la muta rabbia di chi è stato schiacciato, costretto, tradito.

Génie attraversa ogni dì le campagne francesi e la piccola Marie, che l’ama incondizionatamente, le corre appresso, ha il terrore di esser abbandonata, dimenticata. Senza mai rompere quell’assenza di parole tenta di accorciare la distanza fisica quanto più può, sempre un passo indietro, però. Stanno in una casa diroccata sotto cespugli di salici, mentre la bianca dimora di famiglia si staglia in cima, con un cipresso nero ritto verso il cielo quasi fosse un dito che giudica. In cambio di cibo o vecchi vestiti, Génie taglia siepi e legna d’inverno, zappa vigne, campi di piselli e fave in primavera. D’estate fienagione e vendemmia. S’ammazza di lavoro, accordandosi alle stagioni. Il giovedì, quando non c’è scuola, Marie va con lei. Raccoglie rametti per far fuoco, tulipani, songino e porri selvatici per cena. Quando le si avvicina lei le dice “non starmi tra i piedi”, alla fine della giornata “va a letto”, sempre lontana, gli occhi color delle lacrime, ripetendo come una litania “non ho avuto niente”. La risposta di Marie è sempre: “Hai me”. Sembra non bastare. Sono sole, vite ai margini, tra gente che nega calore umano e che dei matti ha bisogno per dirsi normale. A Marie infanzia e innocenza, come se orrore e sofferenza si passassero col sangue, vengono rubate con la profanazione del corpo. L’oltraggio per mano dello stesso uomo che spense il sorriso della madre la costringe a letto mesi, ammalata nell’anima. L’esistenza di Marie, al pari di quella di Génie, sarà costellata da gioie minime e flebili fiducie spazzate via dalla siccità, dalla guerra, dalla cattiveria, da un destino infausto. In particolare il secondo conflitto mondiale le ruba l’aviatore Pierre, che incontra in una notte alla stazione dei treni, quando è ormai giovane studentessa a La Rochelle, prova di emancipazione. Lui che le promette isole azzurre, profumate di sabbia, sole e frangipani, lui che ogni volta che parte le giura tornerà, lui che le dice “Avremo un figlio. Un figlio è la memoria della vita”. Anche la luce che s’accende nel petto di Génie, quella d’un secondo figlio non frutto di sopruso, si spegnerà con uno strappo ineffabile.

La dimenticata Inès Cagnati, di cui Adelphi pubblica ora Génie la Matta (1976), Prix des Deux Magots, nata nel ’37 in un paesino del dipartimento del Lot-et-Garonne, figlia di contadini italiani immigrati in Francia, svolse tutti i lavori da fattoria, poi divenne insegnante e scrittrice. Di quel periodo “mi è rimasto l’amore per la terra ma anche quello del silenzio e della pazienza”, disse in un’intervista del ’77. Sapeva di che cosa scriveva. Autrice di tre romanzi (questo è il secondo) e una raccolta di racconti, fu influenzata da Camus, Proust, Apollinaire, Salinger, Duras. Questa preziosa riscoperta è un’opera di “terribile semplicità”, “sconvolgente sobrietà”, devastante lirismo. Da lettori se ne esce provati, ossa rotte e cuore gonfio, eppur grati.

 

Génie la matta

Inès Cagnati

Pagine: 184

Prezzo: 18

Editore: Adelphi

“Pretty Woman” è più contagioso del virus: numeri da record e sold-out

A grande richiesta, in seguito a ripetuti sold out, il musical di Pretty Woman tornerà in scena al Teatro Nazionale di Milano a partire dall’11 febbraio fino al 5 marzo.

Dopo il debutto del 28 settembre, lo spettacolo ha fatto registrare sempre nuovi record di vendita; prima durante il periodo di capienza ridotta, poi con il successivo ritorno al 100 per cento di pubblico in sala.

Scritto da Garry Marshall e Jonathan F. Lawton, rispettivamente regista e sceneggiatore della pellicola del 1990, questo adattamento mantiene l’impianto narrativo del film con Julia Roberts e Richard Gere: Vivian, una giovane prostituta interpretata qui da Beatrice Baldaccini, incontra per caso a New York il ricco e affascinante uomo d’affari Edward Lewis (Thomas Santu) arrivato da Los Angeles per concludere un affare. Dopo una notte passata insieme, fra i due si instaurerà un rapporto sempre più intenso, con però diversi grattacapi per entrambi.

Prodotto da Stage Enterteinment, lo spettacolo vanta una colonna sonora che è un mix di canzoni pop e romantiche scritte dal noto cantautore canadese Bryan Adams, accompagnata ovviamente dall’indimenticabile Oh, Pretty Woman di Roy Orbison; tutti brani sono eseguiti dal vivo da una band di sei elementi, con uno stile pop-rock anni Novanta che restituisce appieno l’estetica dell’epoca. Matteo Forte, direttore dei teatri Nazionale e Lirico di Milano, descrive la decisione di tornare nuovamente in scena come “un messaggio positivo. Oggi, nonostante una recrudescenza delle infezioni e quindi con molta incertezza, vogliamo dare un messaggio di forza e speranza all’intero settore che è in grandissima difficoltà. Proviamo a resistere proponendo qualcosa che il pubblico ha dimostrato di apprezzare molto”.

In scena accadono certi “Miracoli”…

Due anni di tamponi e quarantene, sì-vax e no-vax, Green pass e mascherine rinforzate… Uno se ne va a teatro quando ogni passione è spenta, e niente sembra capace di lasciare traccia. Poi si abbassano le luci, e – colpo di scena – tutto si ribalta. Risa, silenzio e adrenalina per due ore e mezza filate, perché in era di pandemia gli intervalli sono vietati (siamo a teatro, mica al centro commerciale). Le luci si riaccendono e il pubblico si alza in piedi per ringraziare la compagnia, che a sua volta ringrazia. L’occhio cerca un solo posto vuoto in platea, e non lo trova. È la forza della presenza, che si ricorda di esistere, e si ribella a questa vita parcheggiata in remoto. È la forza miracolosa del teatro, che su Zoom non si può fare, e sul tablet non si può vedere. In questa rabbia allegra e liberatoria c’è la prima ragione del successo di Miracoli metropolitani, ultimo, riuscito parto della Carrozzeria Orfeo e del suo Teatro Pop, un passaparola che corre veloce alla quinta drammaturgia firmata da Gabriele Di Luca, per la regia tripla dello stesso Di Luca con Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi.

La scena è proprio una carrozzeria, con tanto di forno dove si riverniciano umori e animi con alterno successo; memorie e illusioni dal sottosuolo, ovvero nei sotterranei delle fogne metropolitane, tra miasmi e sversamenti, fogne a rischio implosione definitiva, ma nel frattempo convertite in cucine per cibi da asporto. Qui si incontrano, si amano, si sbranano e smadonnano alcuni personaggi alquanto familiari di questi tempi, primi tra tutti il Plinio di Federico Vanni, chef un tempo stellato caduto in disgrazia e ridotto a preparare pappette da asporto, e la Clara di Beatrice Schiros, sedicente donna manager affamata di follower, che sogna di diventare la Ferragni delle fogne. Ma ci sono anche una nonna hippy rimasta ai tempi di Woodstock, una lavapiatti immigrata che invece tornerebbe volentieri in Etiopia, un rider che spera di diventare un divo del cinema (ma forse bisognerebbe spiegargli che ormai c’è la fiction) e un tenero professore allo sbando, l’unico destinato a veder realizzata la propria aspirazione (ma, come suol dirsi, non vogliamo spoilerare).

Miracoli metropolitani è un esilarante girotondo a vuoto, un cannocchiale a specchio della perplessa disperazione contemporanea, ad affannarsi negli inferi da asporto della Carrozzeria Orfeo ci siamo noi, come siamo, come vorremmo essere, come temiamo di essere ma non osiamo dirlo nemmeno a noi stessi. La distopia va forte da un pezzo, lo sappiamo, vai al cinema e nove volte su dieci esci più depresso di prima (per non parlare delle serie tv), ma questa è una distopia lieve, quasi dietro l’angolo, più Houellebecq che Philip Dick, una distopia nelle cui fogne – ecco il secondo colpo di scena – dilaga gusto dell’assurdo. Fatalmente, con il senso del teatro per l’assurdo arrivano il comico, i suoi ritmi, le sue battute, tutto gestito dalla compagnia dei carrozzieri con sicura mano pop, che conferma non solo un genere di successo, ma anche uno stile proprio. Frammenti di Ionesco e di Beckett galleggiano lieti per i pozzi neri, come fossero a casa loro; ma l’omaggio più esplicito è per il Sisifo di Camus, emblema della condizione umana e insieme della sua consapevolezza. Tra un macigno e l’altro da portare invano sulla cima, per ingannare l’eternità possiamo provare a ridere della nostra condizione; e perfino riuscirci se andiamo a teatro. Miracolo!

 

Miracoli metropolitani

Carrozzeria Orfeo

In tour fino al 13 marzo

“L’amica geniale”, Lenù & Lila diventano grandi con Luchetti

Lenù & Lila. Piccole scugnizze crescono, chi abbracciando positivamente la luce della conoscenza, chi corteggiando negativamente l’oscurità come sfida ai compromessi. Amiche diversamente geniali, reciprocamente attratte e dipendenti perché, appunto, polarizzate. Di certo irresistibili a una platea mondiale di lettori e quindi a quella di telespettatori da 130 Paesi, raggiungendo in Italia il 28% di share. Insomma, il franchise L’amica geniale di Elena Ferrante non necessita introduzioni, solo di mantenere qualità nell’adattamento seriale che dal 6 febbraio su Rai1 in prima serata (quattro appuntamenti domenicali da due episodi ciascuno) proporrà la sua terza stagione titolata Storia di chi fugge e di chi resta, ispirata al terzo e omonimo romanzo della quadrilogia best-seller pubblicata da Edizioni E/O.

Squadra che vince non si cambia, a eccezione della regia che la produzione Fandango, The Apartment, Fremantle e Wildside per la committenza Rai Fiction con HBO ha deciso di affidare a Daniele Luchetti, che prende il testimone dal già deus ex machina di stagioni 1 & 2 Saverio Costanzo il quale, tuttavia, mantiene la firma di co-sceneggiatore accanto a Laura Paolucci, Francesco Piccolo e la stessa Ferrante. E dalla visione dei primi due capitoli il passaggio di staffetta è già percepibile, a partire dallo sguardo appassionato sulle giovani famiglie, ma anche sulla militanza studentesca-operaia tra il ’68 e i Settanta, da sempre territori d’interesse di Luchetti, e che corrispondono al cuore narrativo di questo terzo viaggio di formazione di Elena Greco e Lila Cerullo. Adottando il cosiddetto “metodo Cassavetes” (direzione degli attori che incoraggia l’improvvisazione), il regista romano ha nutrito la grandiosa “ma rischiosissima” sceneggiatura a sua disposizione della propria esperienza famigliare, (“alle donne della mia famiglia patriarcale è stato impedito di studiare per paura degli spostamenti in città”). In tal senso il nucleo “femminile” de L’amica geniale diviene anche femminista, laddove le due giovani donne, a loro modo, sfidano lo status quo rivendicando autonomie allora inimmaginabili. Donne che cambiano affinché il mondo cambi, e le ormai 19enni Margherita Mazzucco e Gaia Girace ne sono esemplari interpreti.