La processione supplice per il bis comincia nel primo pomeriggio, quando tutto è compiuto. Sulla scena, il primo a parlare con Sergio Mattarella è Mario Draghi, in mattinata. Il premier si intrattiene con lui per almeno venti minuti, dopo il giuramento al Colle di Filippo Patroni Griffi come nuovo giudice costituzionale. Dal Quirinale trapela quanto basta. E cioè che “la situazione di stallo” tra i grandi elettori ha una sola via di uscita. Il bis. Che ha il vantaggio, per i due interlocutori, di non avere grosse ripercussioni sul governo.
Da quel momento in poi si forma una valanga euforica di commenti. Tra i leader spicca la telefonata al capo dello Stato di un redivivo Silvio Berlusconi, che poi parla di “sacrificio chiesto a Mattarella”. La valanga è tale che Mattarella “rischia” in teoria l’elezione bis già alla settima votazione, iniziata alle undici. Ma la destra, tranne FdI, si astiene e il presidente si ferma a 387. Il dettaglio non è secondario comunque. Ché conferma l’onda parlamentare che sin dal primo giorno ha sperato e lottato per il bis. Anche per questo, la processione nel pomeriggio è composta dai capigruppo parlamentari (seguiti dai presidenti di Regione) e non dai leader politici come avvenne nel 2013 per il secondo mandato di Giorgio Napolitano.
Le differenze con il bis di Re Giorgio non si fermano qua. La più evidente riguarda i pentastellati: nell’aprile di nove anni fa, i Cinque Stelle non si unirono al coro per Napolitano e votarono sino alla fine per Stefano Rodotà. All’epoca anche la Lega chiese il “sacrificio” al presidente uscente. Non solo. Quella crisi dei partiti, dopo il governo Monti e il primo boom grillino, segnò l’agonia irreversibile della Seconda Repubblica. Questa al momento vanifica senza dubbio il fatidico “cambiamento” dopo le elezioni del 2018, con la vittoria dei due populismi.
E così Mattarella di sabato rimane il dodicesimo capo dello Stato. Non è l’atteso tredicesimo. Accade nel settimo anniversario preciso dell’annuncio di Matteo Renzi ai grandi elettori del Pd, il 29 gennaio 2015: l’allora segretario dem ruppe il patto del Nazareno e propose il nome dell’ex ministro della sinistra dc. Venne eletto due giorni dopo, il 31 gennaio, con 665 voti al quarto scrutinio (M5S e Lega non lo votarono) e giurò il 3 febbraio. Stavolta viene scelto all’ottavo, mai successo nella storia repubblicana, e raccoglie 759 preferenze, il più votato dopo il socialista partigiano Sandro Pertini nel 1978. A sentire gli ambienti del Quirinale, la decisione del presidente non è stata facile. Come non ricordare tutte le numerose dichiarazioni contro la riconferma e le riflessioni sulla necessità di introdurre nella Costituzione il divieto di un secondo mandato e l’abolizione del semestre bianco.
Ma nel suo realismo di marca democristiana Mattarella aveva capito l’esito inevitabile già giovedì sera, di fronte al risultato della quarta votazione che gli attribuiva 166 voti. Due giorni fa, infatti, al Colle si tratteggiavano le condizioni per uscire dal drammatico stallo poi culminato venerdì con il flop catastrofico della presidente del Senato, Casellati. Cioè: voto compatto dell’attuale maggioranza di governo più l’astensione di Fratelli d’Italia, che però non è arrivata. E soprattutto: niente mandato a tempo, per distinguersi proprio da Napolitano. Certo, nel 2023 ci saranno le elezioni e il quadro cambierà. Ma sarebbe azzardato adesso parlare di staffetta con Draghi.
Ecco quindi da dove origina il “senso di responsabilità” di cui ha parlato lo stesso Mattarella ieri sera nel breve messaggio fatto dopo aver ricevuto dai presidenti delle Camere il verbale dell’elezione. Questo il testo: “I giorni difficili trascorsi per l’elezione alla presidenza della Repubblica, nel corso della grave emergenza che stiamo tuttora attraversando sul versante sanitario, su quello economico, su quello sociale, richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento. Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati e naturalmente debbono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti”. Ma adesso l’attesa è tutta per il discorso che farà per il giuramento e l’insediamento, in Parlamento. Nel 2013, Napolitano prese a schiaffi i partiti e questi lo applaudirono. Stavolta?