Ecco l’anticorpo “chimera” che neutralizzerà SarsCov2

 

Cinque mesi dopo i primi casi Covid in Cina, il mondo intravede l’arma giusta per colpire SarsCov2. Si tratta di un anticorpo particolare che ha due caratteristiche ancora non individuate nei vari IgG e IgM, gli anticorpi prodotti naturalmente dai pazienti affetti o guariti dal Covid. È “monoclonale” e dunque può essere replicato all’infinito. Ed è “neutralizzante”, ovvero ha la capacità di colpire il virus bloccando lo sviluppo dell’infezione. La novità rimbalza dall’Olanda ed era stata anticipata dal Fatto già il 15 marzo. Ieri lo studio che porta la firma dell’Università di Utrecth, Erasmus Medical Center e Harbour BioMed, è stato pubblicato su Nature Comunications. Il 15 marzo il report era stato messo in pre-print sulla piattaforma Biorxiv.

Una buona notiziache già a marzo ci era stata confermata dalla professoressa Maria Rita Gismondo dell’ospedale Sacco di Milano. “Questa – ha spiegato ieri Gismondo – è la strada più veloce per colpire Covid-19, sicuramente più rapida del vaccino. E visto che l’anticorpo ha già tutte le caratteristiche, immagino che a breve potrà iniziare la sperimentazione sull’uomo”.

Il futuro “salvatore” ha un nome alfanumerico. Si chiama 47D11. E ha una missione: colpire le parti del virus che fungono da chiave d’accesso nella cellula umana. Questo anticorpo blocca SarsCov2 all’origine dell’infezione, aggredendo le proteine che stanno sulla parte esterna del patogeno e che sono chiamate spikes. Le proteine S-spikes sono divise in due classi: la S1 che spinge il virus a entrare nelle nostre cellule attraverso l’enzima Ace2 e poi c’è la S2 che aiuta SarsCov2 a fondersi con la membrana cellulare. Ora 47D11 attacca proprio questo sistema, debellando il virus. In particolare, spiega lo studio pubblicato su Nature, l’anticorpo se la prende con la proteina S1, o meglio con quella parte della proteina virale riconoscibile dal sistema immunitario.

Si legge nello studio: “Questo è il primo rapporto di un anticorpo monoclonale (umano) che neutralizza la SarsCov2. 47D11 sarà utile per lo sviluppo di test di rilevazione dell’antigene e test sierologici mirati. Gli anticorpi neutralizzanti possono alterare il decorso dell’infezione nell’ospite infetto a supporto della eliminazione del virus, o proteggere un ospite non infetto esposto al virus”. Conclusione: “Questo anticorpo offre il potenziale per prevenire e curare Covid-19, e forse anche altre future malattie emergenti nell’uomo, causate dalla famiglia dei Coronavirus”.

La prevenzione al Covid non avviene come per il vaccino e cioè inserendo parte del virus nell’organismo per stimolare gli anticorpi. In questo caso si inietta un siero che contiene l’anticorpo, come avviene dopo un taglio che rischia di farci contrarre il tetano.

Questa scoperta è rivoluzionaria anche rispetto alla strada tradizionale di individuazione di anticorpi naturali che, secondo un recente studio cinese, sono presenti nel 100% dei pazienti. Di questi però ancora non sappiamo se rendono immune il paziente, quanto durano nel tempo e se sono neutralizzanti. La via olandese, dunque, sembra più rapida. Berend Jan Bosch, professore associato all’Università di Utrecht e responsabile dello studio su Nature spiega: “Questa ricerca si basa sul lavoro svolto in passato dai nostri gruppi sugli anticorpi destinati alla SarsCov emersa nel 2003. Usando questa raccolta di anticorpi SarsCov abbiamo identificato un anticorpo che neutralizza anche l’infezione di SarsCov2 nelle cellule in coltura”. I ricercatori hanno creato 51 colture di cellule, ricavate da topi cui erano state aggiunte cellule umane, e hanno fatto produrre diversi anticorpi “chimera” per la proteina S. L’anticorpo è stato modificato nuovamente per produrre una versione umana. Che a breve potrà essere sperimentata seguendo, come detto, non la logica vaccinale ma quella, già utilizzata per la prima Sars, dell’immunità passiva attraverso il siero. Un importante passo in avanti verso la cura futura.

Test in autostrada, ma alcuni rifiutano. A Caserta Sud, 14 positivi con la febbre

Fino al pomeriggio di ieri, circa 600 rientri in Puglia, 250 in Sicilia, 300 (in treno) in Campania. Il terzo capitolo dell’esodo dal Nord alle regioni del Meridione – quello scattato da ieri, con l’avvio della fase 2 e con l’autorizzazione a raggiungere la propria residenza, domicilio o abitazione prevista dal decreto del premier Giuseppe Conte – dimostra che, almeno per ora, non esiste un caso Sud ma esiste un caso Calabria.

Certo, i tecnici dell’unità di crisi anti-Covid della Regione Campania stimano che in realtà nei prossimi giorni torneranno a casa, dopo essere state bloccate dal lockdown, qualcosa come 5 mila persone (anche se poi tutto dipenderà da quante effettivamente si autosegnaleranno alle aziende sanitarie di competenza, per poi sottoporsi all’isolamento per 14 giorni). E per Puglia e Sicilia la conta è appena iniziata: i dati attuali sono riferiti a coloro che si sono già registrati negli appositi portali, e le dimensioni del fenomeno si avranno solo nei prossimi giorni.

Ma è in Calabria che i numeri continuano a lievitare di giorno in giorno. Alla mezzanotte del 3 maggio avevano già raggiunto quota 7.500 le domande di rientro inoltrate al sito della Regione, per un totale di 4.200 pratiche già completate con l’emissione del documento per rientrare da esibire con l’autocertificazione, in caso di controlli. Un’ondata di arrivi che preoccupa, per il rischio di una impennata dei contagi, e che ha portato la Regione ad allestire dei laboratori mobili sia sull’autostrada A2 (per l’area di Cosenza e Crotone, Catanzaro, Reggio Calabria), sia in otto stazioni ferroviarie (tra la quali quella del capoluogo regionale), sia, infine, all’aeroporto di Lamezia, per sottoporre ai tamponi a chi rientra a casa. La Regione, che fino a ieri ne aveva effettuati oltre 37 mila, li ha promessi a tappeto.

Ma non tutti sono disponibili, come dimostra quanto successo ieri a Lamezia Terme, dove 13 passeggeri su 32, arrivati con un treno proveniente da Roma, si sono rifiutati di sottoporsi al test gratuito. Questo mentre in Campania, al controllo effettuato da una unità mobile al casello di Caserta Sud su chi rientrava in auto dal Settentrione – come raccontato da Tagadà su La7 – ben 14 persone su una sessantina sono risultate positive al test rapido previsto per tutti coloro che hanno una temperatura corporea superiore a 37.5. A Lamezia, qualcuno si è difeso dicendo che “dopo settimane di quarantena il tampone è inutile”. Provocando così l’immediata reazione del coordinatore della centrale operativa del 118, Antonio Talesa: “Molti cittadini ci pregano di fare i tamponi e non abbiamo la possibilità di accontentarli, mentre chi ha la possibilità di farlo si rifiuta”.

Intanto, sempre in Calabria, emergono anche i paradossi. In contrasto con quanto previsto dal decreto Conte, la presidente della Regione Jole Santelli, con l’ordinanza 38 del 30 aprile, per normare i rientri della fase 2 ha fatto riferimento solo ai residenti, escludendo chi in regione ha la propria abitazione o domicilio. Una svista o una ripicca? Resta il fatto che c’è chi ne ha già pagato le conseguenze. Proprio come due coniugi settantenni di Trebisacce, in provincia di Cosenza, che si preparavano a tornare a casa dopo essere stati costretti per oltre due mesi a Bologna (dove si erano recati per la nascita di una nipotina) a causa del lockdown. Lei ha la residenza in Calabria, lui nel capoluogo emiliano (ma con il domicilio a Trebisacce). Non possono rientrare senza separarsi. “In Calabria io e mia moglie abbiamo entrambi il domicilio, ma mi hanno detto che, rientrando io, incorrerei in una sanzione, per l’ordinanza della governatrice”, racconta il marito. “I coniugi conviventi devono stare lontani, perché uno dei due non è residente? E che fine facciamo come ‘congiunti’?”.

Dal Veneto alla Puglia c’è chi apre di più. Botte solo alla Santelli

Ha provato a convincere Arno Kompatscher tra le mura di casa sua, a Bolzano. Se nelle prime due settimane della Fase 2 la curva dei contagi non risalirà, ha detto ieri Francesco Boccia a Palazzo Widmann, dal 18 maggio “potremo procedere a differenziazioni territoriali”. “È una questione di giorni, non di mesi”, la sottolineatura con cui il ministro per gli Affari regionali ha condito la sua prece. “Credo – ha lasciato cadere l’argomento il presidente del Trentino-Alto Adige – che i risultati siano arrivati e che ora ci prepariamo a entrare nella seconda fase”. Tradotto: con l’ok del Consiglio provinciale al ddl varato il 30 aprile dalla giunta Svp-Lega, l’altoatesino – il cui Südtiroler Volkspartei a fine mese ha minacciato Roma di interrompere “ogni cooperazione” – punta a riaprire parrucchieri, barbieri ed estetisti, ma anche bar, pizzerie e ristoranti fin dall’11 maggio. In netto anticipo sulle tempistiche con cui il Dpcm firmato da Giuseppe Conte il 26 aprile conta di far ripartire l’Italia dopo il lockdown.

Mestiere difficile, quello di Boccia, in questo periodo. L’esecutivo moltiplica gli sforzi per contenerle, ma le fughe in avanti dei territori si moltiplicano. Se lo strumento del Dpcm disegna un perimetro nel quale possono muoversi prevedendo ulteriori restrizioni, le Regioni non sono autorizzate ad accordare aperture o allentamenti delle misure. Roma, da parte sua, finora ha scelto di andare allo scontro solo con la Calabria: Jole Santelli ha consentito anzitempo a bar, pasticcerie e ristoranti di servire i clienti all’aperto e per tutta risposta il ministro ha diffidato la governatrice di Forza Italia minacciando di impugnare l’ordinanza. Per farlo occorre che si riunisca il Consiglio dei ministri, e nel frattempo altri presidenti continuano a tirare la corda. Ognuno a modo suo, in base a peculiarità ed esigenze del proprio territorio.

Grazie all’ordinanza numero 20 firmata il 2 maggio da Christian Solinas, ad esempio, dopo una sola settimana di monitoraggio in Sardegna l’11 maggio riapriranno i “servizi alla persona”: in primis “saloni di parrucchieri, estetisti, tatuatori”, specifica il documento. Che consente, poi, “nell’intero territorio regionale lo svolgimento della Santa Messa ordinaria”. Tema sul quale a Roma il premier Giuseppe Conte ha dovuto scontrarsi e poi trovare un accordo con la Conferenza episcopale su una ripresa delle celebrazioni a fine mese. Va per fatti suoi anche la Sicilia. Con la sua ordinanza del 1° maggio Nello Musumeci prevede “qualche forzatura”, rivendica la stessa Regione sul proprio sito, a cominciare “dal permesso alle famiglie di potersi trasferire nelle seconde case, a patto che non facciano la spola con la principale abitazione, ma vi rimangano per la stagione”. L’esatto contrario di ciò che potrà avvenire in Veneto (si potranno raggiungere anche camper e barche, ma solo per manutenzione), in Emilia-Romagna (soltanto nella stessa provincia e in giornata) e in Puglia. Dove lo spostamento potrà avvenire anche “per vacanza” e il governatore Michele Emiliano, del Partito democratico, ha dato via libera anche alla pesca amatoriale e alla riapertura dei centri che fanno la toelettatura degli animali.

Neanche contro il compagno “fraterno” di partito, nonché corregionale (Emiliano è di Bari, Boccia di Bisceglie) il ministro ha proferito parola. Così se i governatori continuano a fare propaganda elettorale in piena epidemia di Covid-19 in barba a qualunque principio di leale collaborazione con il governo, il ministro si muove con circospezione. Memore, probabilmente, dello scontro fratricida con il presidente dem delle Marche, Luce Ceriscioli, che a fine febbraio aveva firmato una seconda ordinanza di chiusura delle scuole dopo che la presidenza del Consiglio aveva vinto un ricorso al Tar contro la prima.

Per ora un po’ di teatro fa comodo a tutti: al governo che deve tenere salde le redini in questo avvio di una Fase 2 i cui risultati sono difficili da prevedere, e ovviamente anche alla Santelli cui fa gioco ergersi a paladina dei diritti e delle economie dei suoi cittadini. Per tirare le somme c’è ancora tempo: lo si farà in base alle risultanze del monitoraggio dei contagi. “Chi sbaglia – ha detto pochi giorni fa il ministro – si assumerà la responsabilità dell’aggravamento della condizione sanitaria del proprio territorio”.

Fase 2, esodo a rate verso sud. Ma i viaggiatori raddoppiano

Le scene degli assalti ai treni alla stazione di Milano Centrale di inizio marzo, ieri, per fortuna, non si sono ripetute. Ma di certo, nel primo giorno della Fase 2, in tanti si sono spostati da una regione all’altra: rispetto alla settimana scorsa, infatti, sono raddoppiati i viaggiatori a bordo di Intercity e Frecce e ieri erano 4.300. Mentre sui treni regionali hanno viaggiato 190 mila persone, l’8 per cento in più rispetto alla scorsa settimana. È la fotografia del primo giorno della Fase 2, quello della ripartenza. Ieri la mobilità ovviamente è aumentata in tutto il Paese: circa 4 milioni e mezzo di lavoratori hanno ripreso la propria attività. E poi ci sono misure meno restrittive: adesso infatti è consentito andare a correre pure lontano da casa o anche muoversi all’interno della propria regione per incontrare i congiunti.

587 in arrivo a Napoli, 656 a Torino

È possibile spostarsi pure fuori Regione per tre motivi (esigenze lavorative, di assoluta urgenza o motivi di salute) ma anche per raggiungere la propria residenza, domicilio o abitazione. Misura che ha allarmato alcuni presidenti di Regione, come il governatore della Campania, Vincenzo De Luca. Stando ai primi dati raccolti ieri, però, l’esodo tanto temuto da Nord a Sud non c’è stato. Sul Frecciarossa da Milano delle 7.10 in direzione Napoli c’erano 322 viaggiatori. Da Torino invece sui due treni diretti nel capoluogo campano (quello delle 8.40 e quello delle 16.20) vi erano in totale altre 265 persone. Molti però si sono spostati in direzione inversa, da Napoli a Torino: 656 passeggeri in totale a bordo di due treni partiti ieri. E non sono gli unici: i cosiddetti “pendolari dell’alta velocità” stanno rientrando in molte città del Nord per lavoro. In ogni stazione comunque sono previsti i controlli delle forze dell’ordine, sia per quanto riguarda l’autocertificazione che per la temperatura corporea. Inoltre i biglietti sono venduti a “scacchiera” per rispettare il distanziamento.

Parchi e zone di movida La mappa dei controlli

Al di là di chi ha viaggiato, la mobilità è aumentata su tutto il territorio. Proprio per questo, i controlli delle forze dell’ordine saranno molto più complessi. Non saranno più rigidi come durante la cosiddetta Fase 1: dall’11 marzo al 3 maggio sono state effettuate verifiche su 12,3 milioni di persone e su 4,7 milioni di esercizi commerciali, con oltre 418 mila tra sanzionati e denunciati.

Adesso però, con un maggior numero di cittadini in giro, non è pensabile ad esempio fermare i singoli automobilisti anche perché questo comporterebbe code infinite, soprattutto nelle grandi città dove il traffico già ieri è aumentato. Ad esempio si è registrato traffico in aumento (40 per cento in più rispetto ai giorni precedenti) ai caselli di Milano e Roma.

In ogni modo all’interno delle città, la maggior parte dei controlli sarà finalizzata a evitare gli assembramenti e quindi le forze dell’ordine già da ieri sono posizionate all’ingresso e all’interno dei parchi, dove ora è consentito l’accesso, e pure nelle aree di movida: non mancheranno verifiche, anche di sera, nelle principali piazze e nei luoghi dove le persone sono solite aggregarsi. Maggiori controlli ci saranno anche nelle zone balneari. Già ieri per esempio vi è stata un’invasione di runner sul lungomare di Napoli, ma è accaduto anche in altre città come Genova.

Fila nelle metro a Roma, Comana piena a Napoli

In questa Fase 2, tutte le città devono affrontare la difficoltà di far ripartire i mezzi pubblici con gli ingressi contingentati, le corse ridotte e il personale limitato per i controlli. Tutto sommato, nelle metropoli la situazione ha retto: a Roma, in alcune stazioni metropolitane, come ad Anagnina, ci sono state file molto lunghe, ma nulla di particolarmente allarmante. Unica vera criticità nel capoluogo campano, in particolare sulla Ferrovia Cumana, che collega l’hinterland con Napoli: il sindacato Usb ha diffuso un video che mostra passeggeri ammassati e senza controlli.

“I passeggeri – ha detto Adolfo Vallini dell’esecutivo provinciale Usb Lavoro privato – sono stati costretti a viaggiare ammassati a bordo del treno, una situazione drammatica che mai ci saremmo aspettati di vedere, in barba alle linee guida emanate del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti”.

 

Buona fede

Tutto potevamo immaginare, nella vita, fuorché di vedere il centrodestra (e dunque anche l’Innominabile e la sua Italia Morta) schierato come falange macedone in difesa di Nino Di Matteo, il magistrato più vilipeso e osteggiato (soprattutto dal centrodestra, ma non solo) degli ultimi vent’anni. Del resto, questa vicenda che lo contrappone al ministro Alfonso Bonafede è tutta un paradosso. Il Guardasigilli viene accusato di cedimenti alla mafia e alle scarcerazioni dagli stessi che gli davano del “giustizialista”, “manettaro” e per giunta colluso col “grillino” Di Matteo. Tant’è che l’altra sera, a “Non è l’Arena: è Salvini”, s’inchinavano deferenti a Di Matteo il capitano “Ultimo” (il neoassessore dell’immacolata giunta Santelli in Calabria, che Di Matteo fece a pezzi in varie requisitorie per la mancata perquisizione al covo di Riina) e l’ex ministro Claudio Martelli, che lo definì “uno stupido, forse anche in malafede” che “naviga nel caos” e “non escludo che si inventi delle balorde” nel processo Trattativa che “finirà in un nonnulla” (infatti, tutti condannati). Una lezione di legalità resa ancor più credibile da maestri del calibro di Flavio Briatore (imputato per evasione fiscale) e dello stesso Martelli (pregiudicato per la maxitangente Enimont). Gl’imputati, ovviamente assenti, erano due pericolosi incensurati: Bonafede e il suo capo uscente del Dap Francesco Basentini, che la vulgata salviniana e dunque gilettiana vuole colpevoli delle decine di scarcerazioni di detenuti (opera di altrettanti giudici di sorveglianza iper “garantisti”), quando tutti sanno che il Dap è corresponsabile solo in quella del fratello del boss Zagaria, scarcerato da un giudice di Sassari con la scusa del Covid e spedito a casa sua a Brescia (epicentro Covid).

Nel bel mezzo di quel frittomisto di urla belluine miste a notizie vere, verosimili e farlocche, fatto apposta per non far capire nulla, ha chiamato Di Matteo per raccontare la sua versione della mancata nomina a capo del Dap a metà giugno 2018. I lettori del Fatto sapevano già tutto. Il 27 giugno 2018 Antonella Mascali la raccontò insieme alle esternazioni di alcuni boss al 41-bis contro l’ipotesi di Di Matteo al Dap. Poi Marco Lillo criticò Bonafede per la “figuraccia” fatta con Di Matteo. L’altra sera l’ex pm ha evocato le frasi dei boss a proposito della presunta retromarcia del ministro sulla sua nomina al Dap. E, anche se non ha fissato alcun nesso causale fra le due cose, Giletti l’ha dato per scontato. Noi ovviamente non eravamo presenti ai tre colloqui (uno telefonico e due al ministero) intercorsi fra Bonafede e Di Matteo. E non ne conosciamo i particolari.

Ma già due anni fa ci facemmo l’idea di un colossale equivoco fra due persone in buona fede. Ecco la cronologia. Quando nasce il governo Salvimaio, voci di stampa parlano di Di Matteo al Dap o in un altro ruolo apicale del ministero della Giustizia. E fanno impazzire i boss (che evidentemente preferivano le precedenti gestioni). Il 3 giugno il corpo speciale della polizia penitenziaria (Gom) sente alcuni di loro inveire contro l’arrivo del pm anti-Trattativa. E il 9 giugno annota quelle frasi in una relazione al Guardasigilli e ai pm. Il 18 giugno, già sapendo quel che dicono i boss, Bonafede chiama Di Matteo per proporgli l’equivalente della direzione Affari penali (che già era stata di Falcone con Martelli) o il Dap. Il 19 giugno Di Matteo incontra Bonafede e dà un ok di massima per gli ex-Affari penali (questa almeno è l’impressione del ministro): ruolo che il Guardasigilli s’impegna a liberare riorganizzando il ministero e ritiene più consono alla storia di Di Matteo, oltreché alla sua esigenza di averlo accanto per le leggi anti-mafia/corruzione che ha in mente (all’epoca il problema scarcerazioni non era all’ordine del giorno). Il pm invece ritiene l’incontro solo interlocutorio. Bonafede offre il Dap a Basentini, ma in serata Di Matteo lo chiama chiedendo un nuovo incontro. E lì, il 20 giugno, gli dice di preferire il Dap e di non essere disponibile per l’altro incarico, forse per aver saputo anche lui delle frasi dei boss. Bonafede insiste per gli ex-Affari penali, imbarazzato perché il Dap l’ha già affidato al suo collega. Invano.
Il 27 giugno il Fatto pubblica le frasi dei boss: a quel punto, come osserva Lillo sul Fatto, Bonafede potrebbe accantonare Basentini e richiamare Di Matteo per dare un segnale ai mafiosi; ma, per non mancare alla parola data, non lo fa. In ogni caso l’ipotesi che la contrarietà dei mafiosi l’abbia influenzato è smentita dalla successione dei fatti, oltreché dalla logica: chi vuol compiacere i boss non offre a Di Matteo il posto di Falcone, ucciso proprio per il ruolo di suggeritore di Martelli agli Affari penali, non al Dap. Ma Di Matteo si convince, memore dei mille ostacoli incontrati nella sua carriera, che “qualcuno” sia intervenuto sul ministro per bloccarlo. Intanto Bonafede continua a sperare di portarlo con sé. Ma ormai il rapporto personale è compromesso, anche se poi Di Matteo non manca di sostenere le riforme di Bonafede (voto di scambio, spazzacorrotti, blocca-prescrizione ecc.) e la recente nomina a vicecapo del Dap del suo “allievo” Roberto Tartaglia, giovane pm del processo Trattativa. Un’altra mossa che a tutto può far pensare, fuorché a un gentile omaggio a Cosa Nostra.

La classe di Klopp ai tempi dei Lotito

Se c’è una squadra al mondo che in caso di stop definitivo del campionato avrebbe il diritto di urlare all’ingiustizia, questa è il Liverpool; che al momento del blocco era al comando della Premier League a + 25 sul Manchester City, il tutto a nove giornate dalla fine, che corrispondono a un massimo di 27 punti conquistabili; il che significa che con una sola vittoria il Liverpool si sarebbe laureato campione dopo 30 anni d’attesa. E sì, avete capito bene; l’ultimo trionfo dei Reds si perde nella notte dei tempi, stagione ’89-’90, quando il campionato si chiamava ancora Football League, la squadra era allenata da Kenny Dalglish e Ian Rush, rientrato all’ovile dopo la fallimentare esperienza alla Juventus ’87-’88, alla soglia dei 30 anni si era riscoperto cannoniere di razza: i suoi 18 gol sommati ai 22 dell’immenso trequartista John Barnes, che andò a un passo dal soffiare il titolo di capocannoniere a Lineker del Tottenham, posero il suggello a una stagione strepitosa nobilitata da una difesa di ferro, la meno battuta del torneo, composta da Grobbelar, dall’ex viola Hysen, Ablett e Hansen.

Trent’anni esatti sono passati da allora. E nonostante il Liverpool non abbia mai smesso di giganteggiare in Europa (due Champions vinte contro Milan e Tottenham, due perse contro Milan e Real Madrid), il titolo in patria è diventato una chimera; irraggiungibile anche quando sembrava al sicuro in cassaforte, come nel 2013-’14, quando Steven Gerrard inciampò sul pallone nel finale di Liverpool-Chelsea provocando l’inizio della fine.

Il titolo prese la strada di Manchester, sponda City, che sentitamente ringraziò. Oggi il sortilegio sembra continuare. Il Liverpool di Klopp, 27 partite vinte su 29, al quale bastavano 3 punti per tagliare il traguardo, rischia di vedersi cancellare sia il titolo sia la strabiliante cavalcata. E mentre in Italia ci sono Lotito che pesta i piedi per giocare sentendo odore di scudetto, la Juve che fa l’indiana avendo avuto tre giocatori contagiati, Cairo e Ferrero che pregano affinchè il Big Ben dica stop e non li faccia rotolare in serie B, a Liverpool c’è un uomo che risponde al nome di Jurgen Klopp. Che invece di disperarsi per la colossale beffa che potrebbe abbattersi sulla sua squadra, sente il dovere di prendere carta e penna e scrivere ai tifosi.

“Non penso – dice – che questo sia un momento in cui i pensieri di un allenatore di calcio dovrebbero essere importanti, ma capisco che i nostri tifosi vogliano sentirmi parlare e dunque lo farò. Ho già detto che il calcio è la cosa più importante di quelle meno importanti; ma dico che oggi le partite e il calcio stesso non sono importanti affatto. Ovviamente non vogliamo che tutto venga sospeso, ma se questo serve per salvaguardare la salute di tutti, lo facciamo senza fare domande. Se dobbiamo prendere una decisione tra il calcio e il bene della comunità, non può esserci gara. Abbiamo visto ammalarsi giocatori delle squadre contro cui dobbiamo competere. Ai nostri rivali, colpiti da questo virus, rivolgiamo i nostri pensieri e le nostre preghiere. Nessuno di noi sa come andrà a finire. Ma voi mettete la salute al primo posto. Non correte alcun rischio. Pensate a chi è vulnerabile e agite con compassione nei suoi confronti. Per favore, prendetevi cura di voi e degli altri. You’ll never walk alone”. Firmato: Jurgen Klopp.

Riaprono i rivenditori: ma non sarà come prima

Oggi si riparte. O, almeno, ci si prova. Sono stati mesi duri per tutti, con l’auto che ha pagato un prezzo salato alla pandemia di Covid 19. Tra i concessionari, molti (almeno il 15%) non hanno superato l’emergenza, e oggi non riapriranno i battenti come gli altri. La maggior parte delle filiali italiane dei vari costruttori ha cercato, per quanto possibile, di sostenere la rete di vendita. Ma con le mancate immatricolazioni di marzo (-85,4%) e la debacle di aprile (-98% circa), non si poteva salvare tutti. Del resto, come potete leggere in questa pagina, i numeri delle trimestrali per il comparto automotive sono abbastanza impietosi, dando il polso del ridimensionamento a livello mondiale, e non solo italiano.

Come ripartire, dunque? Con molte incognite. A cominciare dalle modalità con cui vendere auto, che non saranno più le stesse. Guanti, gel, mascherine, e ancora distanziamento sociale e sanificazione delle vetture per i test drive e nei concessionari, dove con ogni probabilità si entrerà solo per appuntamento, evitando assembramenti. Del resto, i protocolli governativi sulla sicurezza parlano chiaro. A patto, ovviamente, di riuscire ad arrivare dai dealer: per la circolazione vige sempre l’obbligo di autocertificazione, su cui specificare lo stato di necessità. Bisognerà dunque affidarsi alla sensibilità della pattuglia di turno addetta alle verifiche, se fermati. Una cosa è certa: come molte altre cose del nostro quotidiano, comprare una macchina non sarà più come prima.

Tesla va contro mano: utili su, Model 3 da record

Nell’automotive che non guadagna più come prima c’è un’eccezione che si chiama Tesla. Ed è quasi sorprendente, viste le acque agitate in cui navigava fino a poco tempo fa. Il bilancio degli ultimi nove mesi è passato dal colore rosso a quello nero, con l’ultima trimestrale che ha registrato utili per 16 milioni di dollari: non un risultato sconvolgente, se rapportato a un costruttore da 370 mila auto all’anno, ma comunque lusinghiero. Specie se si pensa che tra gennaio e marzo dello scorso anno a Palo Alto si leccavano le ferite dopo aver perso 702 milioni di dollari, e che i numeri del primo trimestre 2020 sono stati funestati dall’emergenza Covid 19. Certo, non bisogna dimenticare gli introiti da crediti di carbonio, quelli cioè versati da altri costruttori nelle casse di Tesla per sanare la propria posizione riguardo alle emissioni negli Usa. Come Fca, ed esempio, che fino al 2023 sborserà 1,8 miliardi di dollari. Si rischierebbe di essere ingenerosi, tuttavia, se non si riconoscesse il grande contributo alla causa dell’ultima arrivata nella gamma del costruttore californiano: la Model 3. Delle 88.500 vetture vendute da gennaio a marzo 2020 (+40%), ben 76.266 sono proprio Model 3, le cui immatricolazioni sono cresciute del 50% rispetto allo stesso periodo del 2019, in Europa e Usa. Nonostante il Coronavirus. E nel Vecchio Continente, a marzo, la Model 3 è stata la seconda auto più venduta dietro sua maestà la Volswagen Golf. Un risultato, certo, figlio di congiunture magari irripetibili, ma che forse neanche i bookmaker inglesi avrebbero mai quotato.

La tempesta perfetta. Primo trimestre, conti a picco

Vendite in caduta verticale, ricavi e utili a picco e una liquidità bruciata a ritmi vertiginosi per sostenere onerosi costi fissi: è la tempesta perfetta che sta colpendo l’industria dell’auto da quando è iniziata la pandemia da Covid-19. I dati trimestrali, concomitanti con la chiusura degli stabilimenti produttivi, sono agghiaccianti. Prendiamo la Renault: in tre mesi ha bruciato 5,5 miliardi di euro di liquidità – dai 15,8 miliardi di fine 2019 – e visto le vendite calare del 25,9% a 673 mila unità.

I ricavi della Losanga sono scesi a 10,125 miliardi, con una flessione del 19,2%. Sicché, per mettere in sicurezza la situazione patrimoniale, Renault ha ottenuto dall’Eliseo garanzie statali su prestiti bancari per 5 miliardi di euro. Non va meglio ai concorrenti di Psa, che hanno registrato una flessione delle vendite del 15%: il gruppo parigino, però, dispone di una liquidità per 9,4 miliardi di euro (cui si aggiunge la nuova linea di credito da 3 miliardi) e, al momento, non vuole chiedere aiuti di Stato.

Non ridono neanche i coreani di Hyundai-Kia: l’utile netto ha subito un calo del 42% a 415 milioni di euro, a causa di una diminuzione delle vendite dell’11,6% a 90.371 unità. A Seul, poi, si attendono un ulteriore “indebolimento della redditività nel secondo trimestre, poiché l’impatto del Covid-19 continua a penalizzare la domanda di auto in tutto il mondo”. In America la Ford ha tagliato i compensi dei manager, cancellato i dividendi e i target annuali. Il colosso di Dearborn ha richiamato linee di credito (come Fca, che diffonderà i propri conti solo domani) non utilizzate per 15,4 miliardi di dollari ed emesso bond per 8 miliardi di dollari con un interesse tra l’8,5 e il 9,625%. Il tutto per arginare una perdita da 2 miliardi di dollari su ricavi in flessione del 15,7% a 34 miliardi. E ci si attende una perdita operativa di 5 miliardi nel secondo trimestre.

In Germania la Daimler ha registrato ricavi per 168 milioni di euro (da 2,15 miliardi), in calo del 92% su base annua. Il gruppo ha venduto circa 644 mila veicoli, il 17% in meno rispetto al primo trimestre 2019. L’utile operativo, al netto delle componenti straordinarie, è passato da 2,31 miliardi di euro di un anno fa a 719 milioni. La liquidità netta industriale è scesa da 11 miliardi a 9,3 miliardi e i flussi di cassa risultano negativi per 2,3 miliardi.

In Volkswagen, infine, i ricavi sono stimati in circa 55 miliardi, contro i 60 del corrispondente periodo 2019 e l’utile operativo in calo da 4,8 miliardi ad appena 900 milioni di euro, con un margine in discesa dall’8,1% all’1,6%. La liquidità è passata dai 21,3 miliardi al 31 dicembre 2019 a 17,8 miliardi, e in tre mesi è stata bruciata cassa per 2,5 miliardi.

Come evitare perdite disastrose? Investire in titoli di Stato degli Usa

Chi ha soldi da parte, si chiede cosa fare in questi momenti. Pensiamo però in particolare a quanti sono alla ricerca di sicurezza, più che (baldanzosamente) di alti rendimenti. Purtroppo non è scontato che l’epidemia e la conseguente crisi economica siano davvero in via di soluzione. Né si può escludere una crisi finanziaria generalizzata, con ripercussioni ben più ampie di quelle viste finora. Per adesso il coronavirus ha provocato veri e propri crolli solo per le azioni e quasi tutti gli investimenti a esse collegati: fondi comuni, etf, fondi pensione, certificati ecc. Ma la situazione potrebbe peggiorare.

Perché non mettere qualcosa in titoli di Stato americani e in particolare in quelli reali, simili ai Btp-i italiani? Per esempio negli Usa Tips 0,5% 15-04-2024, codice Isin US9128286N55, dove la sigla Tips sta per Treasury Inflation Protected Security. Hanno un taglio minimo bassissimo, per la precisione 100 dollari, e godono della tassazione ridotta al 12,5%.

In tal modo uno sistema parte dei propri risparmi in un’attività priva di rischi di default, qualunque cosa capiti all’Italia, all’euro e all’Unione Europea. Gli Stati Uniti d’America non saranno mai insolventi, già solo perché possono “stampare” tutti i dollari che vogliono. Certo che emettere troppa moneta favorirebbe l’inflazione, ma i titoli in questione sono appunto quelli che coprono tale rischio.

Il risultato finale dell’investimento dipenderà dall’andamento del dollaro, esente comunque da rischi di tracolli simili a quelli della lira turca o del peso venezuelano.

Per chi cerca soluzioni difensive quella tratteggiata è un’alternativa logica, addirittura ovvia come forma di diversificazione. Non sarebbe neanche il caso di parlarne, se non fosse che banche e falsi consulenti non la propongono mai, perché non gli permette corposi guadagni a danno dei clienti. Ben altra è la roba che vogliono sbolognargli.

Un problema possono essere proprio le banche italiane, perché alcune si rifiutano, in buona o mala fede, di eseguire ordini di acquisto per tali titoli. Sostengono che la normativa li riserva agli investitori professionali. Nella sostanza sarebbero troppo rischiosi, perché cedole d’interessi e rimborso finale dipendono da un indice, quello dei prezzi al consumo negli Usa. È il contrario, proprio perché indicizzati all’inflazione, sono al contrario meno rischiosi di quelli a tasso fisso, liberamente acquistabili. Ciò conferma che un risparmiatore deve identificare il suo primo nemico nella propria banca o nel proprio sedicente consulente finanziario.