Mascherine, per una famiglia costi fino a 260 euro al mese

Dalla speculazione sulle piattaforme di e-commerce ai sequestri della Guardia di finanza di milioni di mascherine (da quelle chirurgiche alle Ffp3) vendute come dispositivi medici (Dm) o dispositivi di protezione individuale (Dpi) con marchio “CE” che però è falso e non ha le previste certificazioni. E poi c’è il fenomeno del “tutto esaurito” sia nei supermercati che nelle farmacie. Questa la sintesi degli eventi che nelle ultime settimane hanno affrontato gli italiani alle prese con il nuovo simbolo della lotta alla diffusione del contagio da Covid-19. Ma, tra tanta confusione, per ora c’è una sola certezza: nella fase 2 partita oggi, oltre al distanziamento sociale, le mascherine saranno indispensabili per entrare nelle attività che hanno riaperto dopo quasi due mesi di stop o per prendere i mezzi pubblici. Così come vanno indossate da tutti i lavoratori che condividono spazi comuni.

Insomma, un obbligo che ha fatto scattare la corsa all’acquisto delle mascherine che, tuttavia, si sta scontrando con il nodo delle disponibilità e con quello del budget familiare. Nonostante sia stato imposto il prezzo di 50 centesimi più Iva, sul mercato non si trovano ancora a questo importo calmierato anche se il commissario straordinario all’emergenza coronavirus Domenico Arcuri ha promesso che da oggi i cittadini le troveranno in 50mila punti vendita e dalla metà del mese di maggio i punti vendita diventeranno 100mila.

Intanto, il costo finale per i consumatori potrebbe essere non indifferente: fino a 252 euro al mese per una famiglia composta da 4 persone che hanno bisogno di 3 mascherine giornaliere a testa, sempre che si riesca ad acquistarle a un prezzo medio di 70 centesimi l’una, così come emerge dalla rilevazione effettuata da consumerismo.it su un campione di 10 farmacie tra Roma, Milano Napoli. Il prezzo indicato per il calcolo è quello medio che deriva dalla rilevazione e dalla comparazione dei prezzi che vengono applicati sia online (almeno 3 market place diversi) che offline (prevalentemente nelle farmacie). Un esborso non da poco che arriva a 756 euro in un trimestre e che nell’anno supera i 3 mila euro. Si parla addirittura di cifre da capogiri se si considerano le mascherine Ffp2 senza valvola: al mese si arriva a spendere 720 euro che in un anno diventano 8.500 euro. “Costano molto di più e poi – spiega Luigi Gabriele di consumerismo.it – non andrebbero comprate senza una reale esigenza sanitaria, perché si rischia di toglierle al personale sanitario che è quello che ne ha davvero bisogno”.

A ribadire la difficoltà delle famiglie a reperire le mascherine – di cui ne serveriranno almeno 40 milioni di pezzi al giorno con la ripresa della attività produttive e dei servizi, come prevede un recente studio del Politecnico di Torino – è un’altra indagine condotta nelle farmacie delle città capoluogo di Regione dal Centro studi nazionale Ircaf, l’Istituto ricerche sul consumo ambiente e formazione presieduto da Mauro Zanini.

Leggendo il rapporto emerge che solo il 67% delle farmacie hanno in vendita le mascherine chirurgiche monouso o usa e getta. Si registrano punte del 100% a Bolzano, dell’87% a Torino e Ancona, dell’85% a Potenza, del 79% a Milano, del 76% a Firenze e del 75% a Catanzaro. Mentre Bologna, Cagliari, Aosta, Napoli, Venezia e Roma sono in linea con il dato medio nazionale. Criticità vengono registrate a Bari (sono presenti solo in una farmacia su due) e a Palermo, dove sono presenti nel 42% delle realtà contattate. Sul fronte dei prezzi, Ircaf rileva che quello medio risulta di 1,59 euro con forti differenze tra le diverse città: si va dai 2,22 euro di Torino agli 0,59 centesimi di Trieste con una differenza di prezzo del 372%. In mezzo ci sono i prezzi registrati a Napoli (1,17 euro), Firenze (1,48 euro), Palermo (1,50 euro) o Perugia e Genova (1,51 euro). Altro dato importante è la presenza nel 68% delle farmacie di mascherine filtranti senza valvola Ffp2 con un “costo medio nazionale che si attesta a 7,58 euro cadauna”. Il prezzo più basso risulta a Napoli con 5,55 euro, quello più alto a Bari con 9,82 euro. Raramente vengono offerte le mascherine filtranti Ffp3, utilizzate prevalentemente dagli operatori sanitari: il loro costo si attesta mediamente su 10,56 euro cadauna. “Esiste il forte rischio del permanere di comportamenti speculativi che potranno pesare sui bilanci delle famiglie e dell’economia nazionale, pure riconoscendo la positività della scelta di distribuirne gratuitamente operata da alcuni Comuni e Regioni”, commenta Mauro Zonini.

Romania, mancano medici e gli ospedali sono i focolai

Oltre 12 mila contagi confermati, oltre 4mila guariti e quasi settecento morti: il virus ha varcato la liquida, scura linea del Danubio fino alla Romania. A combattere lungo la trincea epidemiologica che si estende veloce da un lato all’altro del Paese di quasi 20 milioni di abitanti le autorità di Bucarest hanno schierato soldati in mimetica e dottori in camice bianco, lo stesso colore dei loro capelli. Molti medici anziani in azione tra le corsie rimangono ad alto rischio contagio, molti dei giovani dottori sono invece da tempo oltre confine, abbandonata la patria per una vita migliore molto prima dell’emergenza. Adesso mancano mascherine, respiratori e cervelli, dicono gli esperti.

Vlad Mixich, dell’Agenzia Europea per la sicurezza e salute, ha riferito ai media nei giorni scorsi della penuria di specialisti nelle terapie intensive. “Stime affidabili dicono che almeno 40mila dottori hanno lasciato la Romania nell’ultima decade, mancano in particolare virologi ed infermiere”. Ma non è questo il numero più tremendo che fa aggrottare le ciglia a Marian Chiriac negli uffici di Birn, Balkan investigative reporting network: è spaventato “prima dalla mancanza di strumenti protettivi, finanziamenti al settore, medicine e manager, perché le strutture sono gestite da amici e compari di esponenti politici, per la cattiva organizzazione la maggior parte degli ospedali è diventata focolaio di infezione”. Una su cinque delle vittime rumene del Corona, secondo il Sistema sanitario pubblico nazionale, è un dottore o un infermiere perché i nidi di diffusione del Covid-19, con conseguenti picchi nel territorio circostante, sono state proprio le strutture mediche.

A Suceava, primo epicentro del virus, sono stati i ricoverati dell’enorme complesso clinico – prima fiore all’occhiello del Paese – a diffondere la malattia fuori dalle mura dell’ospedale della città, luogo che hanno cominciato a chiamare “la Lombardia rumena”. Dopo che Suceava è entrata in lockdown e la regione Bucovina in quarantena, lo scandalo ha travolto l’ex ministro della Salute Victor Costache costretto alle dimissioni. È stato sostituito lo scorso aprile dal segretario di Stato del ministero Nelu Tataru, ora nella squadra del premier Ludovic Orban. Dopo le autopsie, le indagini: faldoni d’inchiesta sono stati aperti perché il “modello Suceava” si è ripetuto a Tandarei, Arad, Zarnesti.

Il Ziarul Financiar riporta le stime e l’allarme lanciato dalla federazione medica Solidaritatea Sanitara che lamenta una carenza di migliaia di unità tra i reparti d’emergenza. Ma si tratta di un’emergenza dentro l’altra: altre inchieste dei media nazionali già nel 2017 denunciavano la carenza cronica di personale. Due titoli di Romania Insider riferiscono che, dal 2009 al 2015, la metà dei professionisti della salute del Paese ha preferito emigrare e che le autorità, nonostante il deficit, hanno comunque inviato a fine aprile un team di 42 dottori verso la confinante Moldavia. Corruzione endogena e sistema clientelare affliggono Bucarest, che ha destinato allo sviluppo della sua Sanità i finanziamenti più bassi di tutta l’Unione Europea: circa il 5% del Pil, secondo l’Eurostat.

La prospettiva coraggiosa di Chiriac mira però a sbirciare già oltre l’orizzonte della crisi: la fuga di cervelli è dannosa, ma la migrazione è positiva, perché “persone che non potevano avere una vita decente qui se ne sono andate ad Ovest per migliori salari e bisogna pensare che i soldi guadagnati, rinviati in patria, erano gli unici ‘investimenti stranieri’ sul territorio”. Purtroppo “sono andati via gli istruiti: dottori, ingegneri digitali, ingegneri”. Dopo un incremento dei salari erogati ai sanitari nel 2018, il presidente Klaus Iohannis all’inizio della pandemia ha stanziato dei bonus per chi decideva di rientrare in patria “ma non ho sentito nessuno di nessuno che sia tornato indietro però”, chiosa il giornalista.

Nell’era Covid-19 il giornalista ha varcato più volte la prima linea per raccontare il Paese nel momento cruciale: “Gli stadi di reazione della popolazione sono stati quelli ripetuti in ogni Paese: crisi, paura, infine responsabilizzazione. Per fortuna misure restrittive sono state introdotte molto velocemente ad inizio marzo: chiusi luoghi pubblici, aumentata la distanza sociale, molte multe per chi non stava a casa, regole seguite dalla maggior parte dei cittadini e questo potrebbe essere una ragione per cui la Romania ha un numero basso di infetti o morti”. Ma ha anche un’altra, più triste tesi: “Potrebbe dipendere anche dal basso numero di test eseguiti”.

La crisi in arrivo e Le (timide) difese delle banche Ue

Ventisette miliardi di dollari! A metà aprile, il mondo finanziario ha scoperto i maxi accantonamenti che le sette principali banche americane (JPMorgan, Bank of America, Citi, Wells Fargo, Us Bancorp, Goldman Sachs, Pnb) hanno costituito per coprire i rischi di perdite sui crediti e le inadempienze legate all’epidemia di Covid-19 nel primo trimestre. Neanche durante la crisi del 2008 avevano accantonato tanto denaro. Una prudenza che implica ingenti cali dei loro profitti. Gli utili di JPMorgan sono stati divisi per tre (2,8 miliardi di dollari contro 9,1 nel primo trimestre del 2019). Quelli di Bank of America (3,5 miliardi contro 6,8) e di Goldman Sachs (1,2 miliardi contro 2,3) si sono dimezzati. Questi dati forniscono una misura dello shock economico a cui si sta preparando il sistema bancario e finanziario. Anche se la Federal Reserve è corsa in loro aiuto, accettando di acquistare debiti delle aziende, prestiti ipotecari e prestiti al consumo, le banche stanno anticipando un’ondata senza precedenti di inadempienze con montagne di prestiti non pagati, crediti inesigibili e perdite. I principali responsabili delle banche americane hanno già fatto sapere che saranno obbligati a costituire riserve ancora più importanti nei prossimi mesi.

Gli annunci delle banche americane imbarazzano le banche europee. Cosa dovrebbero fare? Annunciare a loro volta maxi accantonamenti in previsione di un eventuale, temuto, crollo economico o prendere tempo? In questi giorni, mentre le banche europee hanno cominciato a presentare i loro conti trimestrali, si sta disegnando una linea di demarcazione nel vecchio continente: da un lato, le banche della zona euro, dall’altro, tutte le altre banche. La britannica Hsbc ha deciso di allinearsi alla strategia delle banche americane. Nei suoi conti trimestrali ha costituito 3 miliardi di accantonamenti, il 420% in più rispetto allo scorso anno, per coprire i rischi futuri. Temendo tempi ancora più duri, la Hsbc ha inoltre sospeso i dividendi dei suoi dirigenti e previsto un accantonamento ulteriore tra 7 e 11 miliardi di dollari per il 2020. “Prevediamo una recessione profonda nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti nel secondo trimestre”, ha spiegato il direttore finanziario della banca, Ewen Stevenson. Le due mega-banche svizzere, Credit Suisse e Ubs, stanno seguendo la stessa politica precauzionale costituendo miliardi di riserve aggiuntive. In confronto, i 500 milioni di euro di accantonamenti per coprire i rischi di credito, annunciati il 27 aprile da Deutsche Bank, una delle banche più sistemiche al mondo e principale banca tedesca, sembrano irrisori. La principale banca italiana, Unicredit, particolarmente esposta alla crisi a causa del blocco dell’economia italiana, ha fatto la stessa scelta, mettendo da parte solo 900 milioni di accantonamenti, in attesa di vedere come va. Sandanter, il principale istituto bancario spagnolo, ha preso un po’ più di precauzioni, accantonando 1,6 miliardi di euro aggiuntivi. Tutte le banche hanno rinunciato per il momento a distribuire i dividendi, ma solo su richiesta della Bce, che ha chiesto una sospensione fino al primo ottobre.

Le banche europee stanno peccando d’ottimismo? “La visibilità sulla crisi economica attesa nel 2020 è già tale che le banche possono (e devono) iniziare a costituire delle riserve aggiuntive sin dal primo trimestre”, ha sottolineato un analista di Keefe, Bruyette & Woods, dopo la pubblicazione dei primi risultati delle banche spagnole. A difesa delle banche europee, alcuni analisti sottolineano che queste non sono sottoposte alle stesse regole e vincoli delle banche americane. Per queste ultime, gli effetti del collasso economico provocato dal Covid-19 sono già visibili. Negli Stati Uniti, dove l’assicurazione contro la disoccupazione e la protezione sociale sono scarse o assenti, le famiglie vivono da decenni a credito per compensare i redditi bassi e la precarietà del lavoro. In questo contesto, il blocco dell’economia dovuto alla crisi sanitaria e i 22 milioni di disoccupati registrati nelle ultime tre settimane, hanno un effetto immediato. Da un mese all’altro, milioni di famiglie, quasi senza reddito, non sono più state in grado di rimborsare i crediti al consumo, i mutui per la casa e i prestiti per l’acquisto dell’auto. Nei miliardi di accantonamenti effettuati dalle banche americane, i rischi di mancato pagamento dei crediti al consumo e dei prestiti per l’acquisto dell’automobile rappresentano rispettivamente un terzo e la metà del totale. Nei paesi europei esistono invece ancora dispositivi di protezione sociale e dei lavoratori. Le banche sarebbero quindi meno esposte ad un calo improvviso del reddito delle famiglie. Non solo, i crediti al consumo sono molto più regolamentati nel vecchio continente rispetto agli Stati Uniti. Ciò spiegherebbe perché le banche europee si sentono meno obbligate a costituire subito dei maxi accantonamenti. Ma la chiusura dei negozi e di una parte delle aziende non permette al momento di prendere la giusta misura delle devastazioni causate dalla pandemia e dal blocco dell’economia. Nei primi 15 giorni di aprile, dopo la ripresa delle udienze nei tribunali, “649 procedure di liquidazione giudiziaria e 30 procedure di salvaguardia sono state registrate in Francia”, secondo l’istituto Altares, contro 2.738 nello stesso periodo dello scorso anno. I dati reali si conosceranno solo più tardi, alla fine del “confinamento”: nell’ambito del piano d’emergenza stabilito dal governo francese, le aziende in stato di insolvenza possono infatti rinviare fino al 24 giugno la richiesta di apertura della procedura in liquidazione. Malgrado gli aiuti statali, dei negozi non potranno riaprire e le piccole e medie imprese non riusciranno a costituire tesoreria sufficiente per ripartire. Migliaia di aziende rischiano la bancarotta.

Nei bilanci delle banche, questa situazione drammatica si tradurrà in prestiti non pagati, crediti inesigibili, fallimenti e pignoramenti. “Temiamo un’ondata di fallimenti. Data la probabilità di una recessione molto forte, era necessario costituire delle riserve di credito”, ha dichiarato Jamie Dimon, ceo di JPMorgan. Anche se in Europa i timori sono gli stessi che negli Usa, le banche europee avanzano numeri diversi. E, secondo l’agenzia Bloomberg, lo fanno con il beneplacito dei regolatori: “Le banche stanno negoziando per concordare delle previsioni economiche che giustifichino la decisione di non accantonare somme di denaro troppo importanti. Basarsi su delle previsioni economiche meno critiche permette di ridurre l’ammontare degli accantonamenti”, ha spiegato un regolatore anonimo. Di fatto, si sta facendo il necessario per semplificare la vita delle banche europee.

Il 27 aprile la Commissione europea ha presentato un piano in cui vengono illustrati i danni causati dalla pandemia. Esso propone di allentare la normativa introdotta durante la crisi del 2008, rinviando l’applicazione delle regole contabili previste per le banche e allentando quelle per i crediti garantiti dagli Stati. Secondo la Commissione Ue, sarà possibile in questo modo aumentare la capacità di prestito del sistema bancario europeo di 450 miliardi di euro. Tuttavia, questa mossa della Commissione europea, che agisce come sempre in nome del finanziamento dell’economia, appare marginale, dal momento che sono ormai diversi anni che la Bce garantisce il rifinanziamento delle banche e dell’economia, permettendo agli istituti bancari di ottenere denaro a tassi negativi. Quanto pesano questi 450 miliardi di euro rispetto alle migliaia di miliardi che la Bce è pronta a anticipare nell’ambito del dispositivo Ltro (Piano di rifinanziamento a lungo termine)? Il reale motivo di questo improvviso alleggerimento dei vincoli proposto dalla Commissione Ue va probabilmente cercato altrove, ovvero nelle scelte che le banche europee hanno fatto dopo la crisi del 2008 e che non intendono mettere in discussione. Invece di accettare di ricapitalizzare in modo importante come negli Stati Uniti – le banche americane vi sono state costrette dai regolatori -, le banche europee hanno spinto per un allentamento dei vincoli in modo da non deteriorare i loro profitti e poter continuare a distribuire dividendi elevati, nella convinzione che, in caso di crisi, gli azionisti riconoscenti non avrebbero esitato a correre in loro soccorso fornendo il capitale necessario.

Ora si attengono allo stesso principio: in primo luogo bisogna rassicurare gli azionisti. In questo contesto, costituire accantonamenti importanti per far fronte a rischi futuri metterebbe a repentaglio i loro profitti e la loro redditività. Rinunciare a versare dividendi potrebbe far raffreddare gli azionisti. Oggi le banche europee stanno affrontando il sisma che si prepara in situazione di fragilità. In Grecia, Italia e Spagna, gli istituti bancari, affossati dalla crisi dell’euro e da anni di recessione o stagnazione economica, hanno ancora miliardi di debiti non pagati o inesigibili. Secondo la Bce, questi crediti inesigibili nei bilanci di 121 banche della zona euro, sebbene si siano dimezzati in quattro anni, rappresentavano ancora 500 miliardi di euro alla fine del 2019. Preoccupata per le conseguenze catastrofiche della pandemia, la Bce ha proposto a inizio aprile di costituire una bad bank a livello europeo o nazionale, in cui confluirebbero tutti gli asset “tossici” o deteriorati delle banche.

I paesi dell’Europa meridionale, a cominciare dalla Grecia, il cui sistema bancario è vacillante, con più del 30% di crediti inesigibili e che rischia di essere duramente colpito dal crollo del turismo, motore principale della sua economia, hanno appoggiato la proposta. Ma la Germania l’ha respinta, ricordando la promessa fatta, cioè che le famiglie non sarebbero più state implicate nel salvataggio delle banche. Non è detto che questa promessa potrà essere mantenuta. È probabile che la pandemia metterà a dura prova il sistema bancario europeo, tanto più che quest’ultimo esita a costituire le riserve necessarie. In caso di crisi, è possibile che, a dispetto di quanto affermano i banchieri, saranno ancora una volta gli Stati, e non gli azionisti, a dover intervenire.

(traduzione Luana De Micco)

Cosa, coso cosetta… Io per i nomi…

Il mondo si divide in due categorie: quelli che si ricordano i nomi e quelli che se li scordano. Categorie seguite da altre sotto categorie, quelli che si ricordano i nomi delle cose e non delle persone, e viceversa. E allora è tutto un fiorire di cose e cosi, “… passami il coso… lì… ma quale coso? Il coso per scolare la pasta… ah lo scolapasta, perché non lo chiami col suo nome?”. Oppure, “dammi il coso che fuori piove… vuoi dire l’ombrello? E allora dì om-bre-llo. È facile no?”, e altre mille e mille cosi e cose per mille usi diversi. Certo scordarsi i nomi delle persone è più grave, la mia amica Manolita in questo è una campionessa, io so il suo nome, ma lei pur conoscendoci da sempre dimentica il mio. Mi chiama tesoro, cara, ciccia, ci fosse una volta che usi il mio nome di battesimo. Mai. Ma allora che me lo hanno messo a fare? Mi chiamo Benny, hai capito? Benny. Fai uno sforzo, dammi la gioia di chiamarmi una volta con il mio nome! Ci sono poi quelli che i nomi delle persone li sanno benissimo, ma fingono di non ricordarsi. Per quale motivo? Cattiveria? Distrazione? Non si sa. In questo erano maestri i vecchi primi attori teatrali di una volta, sapevano benissimo i nomi dei giovani colleghi, ma non li usavano mai: “Ciao caro… Buongiorno giovanotto… Salve Pino… veramente io sono Pasquale!”. Altra abitudine diffusa, li chiamavano con un nome sbagliato, probabilmente per non dare troppa confidenza e mantenere le distanze. Il massimo comunque è stato giorni fa, quando la mia amica scordarella ha incontrato al supermercato sua madre, non un’amica o una cugina lontana. No, sua madre! Quella che l’ha partorita, che l’ha messa al mondo e Manolita senza il minimo dubbio l’ha chiamata: zia! La mamma sè allontanata senza neanche voltarsi. L’ho vista piangere in silenzio.

 

Leonardo, genio imperfetto e il filo che sfiora Duchamp

Un pregiato orinatoio, infinitamente riprodotto, infinitamente replicato, per mancanza (distruzione) del reperto ordinale, ci porta in poche pagine (sfogliandole, sentite il respiro un po’ affannato, un po’ spintonato dall’entusiasmo dell’autore) alla Madonna delle Rocce, una delle donne più raffinate e belle a cui Leonardo da Vinci abbia mai affidato il compito di rappresentare la Madre di Dio. Siamo all’inizio di uno dei più bei libri di Vittorio Sgarbi (Leonardo, il genio dell’imperfezione) almeno in questo ciclo di opere critiche mature che sta pubblicando con “La Nave di Teseo”.

Il testo di Sgarbi (oltre alla splendida sequenza di illustrazioni, delicatissimo compito anche quando si tratta di Leonardo, e alla accuratissima qualità delle riproduzioni) porta il lettore a compiere diversi viaggi intorno al genio di Leonardo; che si legano, si intersecano, si dividono in racconti e si compattano in un “romanzo di Leonardo”. È un testo diverso nella immensa letteratura leonardesca. La prima rivelazione è nel rapporto, che Sgarbi ti costringe a notare all’improvviso, tra l’audace reperto che Duchamp porta nel mondo dell’arte, e la bellezza preziosa e unica al mondo delle giovani e giovanissime donne a cui Leonardo affida il compito di essere Maria.

L’intuizione di Sgarbi (una sorta di specialista nel vedere ogni fenomeno d’arte come chiave per capire ciò che sta accadendo) è che l’interpretazione non riguarda una singola opera o reperto, ma è il senso o il frammento di una visione del mondo e dell’arte, che sta guidando e motivando l’artista in discussione. E così accade che l’orinatoio di Duchamp resti opera d’arte anche dopo essere stato distrutto alla chiusura della mostra, in quanto oggetto trovato, e l’arte di Leonardo si muova molto al di sopra della grazia e bellezza che, in modi diversi, a ciascuna opera viene riconosciuta. Il concetto qui professato è che la pittura è opera mentale. Ed è con l’opera mentale che critico e utenti, esperti e pubblico, devono confrontarsi. Fra le splendide illustrazioni di questo libro (che ne fanno una preziosa riserva di bello eccessivo per momenti eccessivamente sgradevoli) Sgarbi non evita il confronto con il diverso, il comico, il grottesco e i dislivelli di civiltà che abbiamo attraversato e siamo destinati a traversare.

Ma il suo punto-guida, in questa pagine, non è che il bello è perfetto ma, al contrario che, come nella vita e nel corpo umano, l’imperfezione possa essere parte indispensabile della bellezza ed essenziale materiale da costruzione per l’opera d’arte. La sequenza dedicata all’Ultima Cena (gli “stacchi” su singole scene) è il film che Sgarbi non ha ancora fatto, ma che questo montaggio di immagini rivela. In biblioteca, intanto, questo suo Leonardo, il genio della imperfezione, segna un prima e un dopo nel modo di confrontarsi con l’arte.

I sussulti delle carne in quarantena. Su internet è tutto uno “sfantasiare”

Impeccabile e sorprendente è la museruola di cuoio in luogo della mascherina Covid-19. Questa immagine è venuta fuori da qualche parte nel web e siccome l’eros non ti regala mai nulla – si prende tutto, anche il caffè – si capisce come il mondo, tenuto fermo, non abbia potuto nulla con l’irrefrenabile sfantasiare della carnalità. Gocciano i singulti del ventre – il pomo d’Adamo si affaccia dal gargarozzo – e il desiderio avvolge ogni trama della nostra biologia mentale. Tutto è un mettere mano. Un tenere in mano per dirla con Checco Zalone che nella sua fulminea clip con Virginia Raffaele canta l’immunità di gregge: “La pecora più bella sarai tu”. Qualsiasi cosa sia il climax, quello delle mani è il susseguirsi affilato e tagliente del fremito in crescendo: il punto di rottura della caccia giunta a buon fine. Un battito di ciglia e poi l’odorino di cui si nutre il sogno, l’acquolina che impregna le fauci, la fantasia che sfantasia – infine – in flemma, mollezza e il languore di metamorfosi obbligate di animaletti, predatori e fauna varia. Quello delle mani è lo sguardo verticale, sono l’istante – le mani – attraverso cui la percezione è plastilina. Con le mani si modella l’istantaneità del profondo. Come le mani tra i capelli. Mano nella mano, infatti, è il cuore a cuore, tutto di gnam e baci perché il sì è sempre muto.

La mano artiglia la tigre, cavalcandola. E la stretta di mano, oggi abolita per legge – il gesto dell’amicizia in tutto il mondo – è pur sempre il segno che i soldati romani restituirono all’universalità incontrando in Asia i misteri del dio Mitra. Ci siamo dati la mano dal I secolo fino a febbraio scorso perché le legioni l’hanno visto fare ai seguaci di Mitra – “quelli uniti dalla stretta di mano” – e da lì, tornando a casa, ne hanno divulgato il gesto. Il mitraismo è la religio più coerente allo sfantasiare del sangue. Risuona nello strazio del toro: pugnalato dal Dio, morso dal serpente, azzannato dal cane, alla fine agganciato da uno scorpione che ne lacera lo scroto. Ogni torso di soda carne, ogni polso, ogni calcagno – alto e snello – è un composto ad aspro voltaggio: dimora nello sfantasiare di ciascuno e non certo nell’inconscio che, va da sé, è solo una superstizione hollywoodiana.

Lo sfantasiare, infatti, è il fantasticare del corpo. Accade quando i sentimenti diventano sensazioni. La dolcezza effonde di rosa tenue l’incavo del collo, la meta cui si destinano le mani, il luogo da dove la performance – ancor più che fare i baffi alla Gioconda – reclama guinzagli e borchie. Al collo della Dama con Ermellino. Mirabile la messa in opera del pop sul quadro di Leonardo. Checco Zalone sì che saprebbe cosa dire: “La pecora più bella sei tu.”

Lo sfantasiare è la dinamo del corpo, ha urgenza di moto ed è – appunto – l’ennesima potenza per il cervello. Forse è il restare intorno al vago, certamente è tutto ciò che affiora nella perdita di senso. “Me ne vado a sfantasiare” è l’imperativo di quando la testa ci fa dire cose che non hanno parole. Francesco Pontorno – manager di Tree – che l’ha detto ultimamente ha inteso rinnovare il patto ruspante di terra e passo perché si cammina quando si sfantasia. “Sotto il suo passo nascono i fiori” ha cantato Goethe. Si cammina e si mette mano al sì sempre muto. Nell’irrefrenabile sfantasiare della carnalità. Con le mani a ravvivare di gnam e baci i capelli.

Felicità, c’è la ricerca più lunga di sempre: la chiave è la famiglia

Contrordine. Siamo cresciuti pensando che per essere felici ci servissero soldi, successo, una carriera e, poi, una famiglia. Invece, sempre più studi dimostrano come la felicità derivi dalle relazioni affettive. Ma andiamo con ordine. Per decenni abbiamo letto libri su come diventare ricchi e seguito il modello business, ispirati a personaggi come Gordon Gekko. Il risultato? Tre milioni di persone, in Italia, soffrono di depressione (dato emerso nella Giornata Mondiale della Salute Mentale 2019); spendiamo 350 milioni di euro all’anno in ansiolitici. Dove abbiamo sbagliato? La risposta arriva dalla Harvard University che ha realizzato il più lungo studio sulla felicità.

Dal 1938, un gruppo di ricercatori ha studiato le vite di 724 giovani americani. Ogni due anni, gli scienziati li incontravano per sottoporli a questionari di valutazione ed esami medici coinvolgendo anche le mogli e i figli. Lo scopo era quello di capire quali sono i fattori che garantiscono una vita felice e, allo stesso tempo, comprendere cosa volesse dire per le persone vivere e invecchiare felicemente. Nel 2015 sono stati pubblicati i primi risultati: a renderci più sani e felici, creando quel benessere psico-fisico che nel tempo allunga l’aspettativa e le condizioni di vita, sono le buone relazioni, cioè quelle durature. Come a dire che conta di più la qualità della relazione che la quantità, esattamente l’opposto di quello che sta succedendo: “Questo è il grande tema del millennio – dice la psicologa Maria Beatrice Toro – abbiamo aumentato la quantità delle relazioni, grazie soprattutto alla nuova componente virtuale, a discapito della qualità. Ci incontriamo agli aperitivi o agli eventi ma sono venute meno quelle caratteristiche tipiche delle relazioni intime come la sincerità, la reciprocità, la confidenza e la possibilità di chiedere aiuto senza vergognarsi”.

Andando in questa direzione rischiamo di rimanere incastrati nella happycracy, la dittatura della felicità, il dover necessariamente dimostrare agli altri di essere sempre contenti e soddisfatti della nostra vita. È la teoria dello psicologo Edgar Cabanas e della sociologa Eva Illouz esposta nel libro Happycracy. Come la scienza della felicità controlla le nostre vite (Codice editore, 2019).

Forse dovremo rispolverare il vecchio concetto di altruismo, “la chiave per stare bene”: lo dice uno studio dell’Università di Zurigo (2017) che collega la generosità alla felicità. “Noi reagiamo agli stati d’animo degli altri, quando siamo circondati da persone tristi, siamo tristi anche noi. Se facciamo un’azione gentile per qualcuno, la gioia di questa persona ci contagerà. È il potere della condivisione” dice la Toro.

Ci aveva visto bene Mario Monicelli nel film Speriamo che sia femmina (1986): nella scena finale, sono tutte a tavola e, nonostante i problemi di soldi legati alla casa, si respira serenità e gioia. Perché, in fondo, la felicità è questione di famiglia.

La gran “cavolata” del sindaco: tutti a casa, ma lui va alla festa

Il primo ballerino. Eccolo che ancheggia, batte le mani, si lancia in balli sfrenati. Peccato che siamo in piena quarantena. E lui sia Gaetano Scullino che al di fuori delle piste da ballo è anche primo cittadino di Ventimiglia. “Ho fatto una cavolata”. Alla fine l’ha ammesso anche lui. Poi ha aperto il portafogli e ha pagato la multa da 280 euro che i carabinieri gli avevano rifilato. La colpa: aveva trasgredito le ordinanze per uscire su un terrazzo dove andava in scena una festa con balli e karaoke. Del resto sarebbe stato difficile al sindaco negare: eccolo su Facebook che balla, salta, cantando “Mamma Maria” dei Ricchi e Poveri. Poi batte le mani rivolto alla sua Ventimiglia di notte buia per la quarantena. Scullino indossa mascherina, guanti e un doppiopetto grigio che ricorda vagamente il Silvio Berlusconi dei tempi di gloria. Lo stile del primo ballerino, a dire il vero, non è proprio degno di Tony Manero, ma si fa quel che si può. Però, dai, ce la mette tutta, agita le mani al cielo, sorride alla telecamera. Ma, sceso dalla terrazza, si è accorto di averla fatta grossa. I carabinieri gli hanno appioppato una contravvenzione.

Chissà adesso cosa dirà la gente di Ventimiglia quando le autorità fermeranno qualcuno che elude i divieti di circolazione: “Bè, l’ha fatto anche il sindaco!”. In effetti è così. Proprio Scullino che, insieme con il suo dominus politico Claudio Scajola (l’ex ministro oggi sindaco di Imperia), ha respinto gli strappi alla quarantena della Regione Liguria: troppo permissivi. Meglio restare in casa. E lui si è fatto pizzicare mentre ancheggiava con una signora senza mascherina.

Ma raccontiamola per bene. Siamo a Ventimiglia alta, un gioiello quasi sconosciuto. Un labirinto di vicoli, archi, improvvise piazzette, panni appesi da un lato all’altro della strada e il cielo che è una fessura tra i tetti. Da settimane Franca Buonadonna, una commerciante, mandava in diretta Facebook le sue serate sul terrazzo. Ai tempi di quarantena niente X-Factor e Festival di Sanremo, ci si arrangia come si può: quattro o cinque persone, un po’ di musica. Ma qualche giorno fa, proprio come a Sanremo, viene annunciato il super-ospite: Scullino. Possibile? Ai tempi della quarantena sarebbe vietato. E invece al calare delle luci eccolo comparire: indossa mascherina e guanti, ma la signora Franca è priva di ogni dispositivo di protezione. Ancheggiano presi dalla febbre del ballo, si sfiorano. Altro che distanze di sicurezza.

La frittata è fatta. Il sindaco il giorno dopo si ritrova sui social e sui siti locali: “Inqualificabile”, attacca Enrico Ioculano, l’ex sindaco Pd del comune di confine. Impossibile negare. Scatta anche la multa: 400 euro che scendono a 280 perché il sindaco paga subito. La scatenata compagna di balli invece annuncia ricorsi.

Lui, il primo cittadino, cerca di metterci una pezza: “Ho fatto una cavolata. Mi sono trovato nel centro storico per un sopralluogo su una fognatura che dava dei problemi, mi hanno invitato a prendere il caffè e poi mi sono lasciato trascinare. Avrei potuto e dovuto evitare”. Non resta che cantare: “Ha una ricetta per l’allegria, ma ma ma… mamma Maria”.

Gli arresti domiciliari spiegati ai bambini: un clic e sei ovunque

La clausura come scuola di vita. Sissignori. Imparo l’economia domestica, l’innaffiatura e potatura dei fiori, la cucina oltre il riso in bianco e l’uovo sodo, lo scambio di saluti con il cane della casa di fronte, gli orari per rinfrescare le stanze seguendo il giro del sole. Soprattutto sto imparando che cosa si può fare durante i famosi arresti domiciliari. Pensate che avevo appena fatto una lezione (a distanza) intitolata “Cutolo come metafora”, ambientata tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta del secolo scorso, e mi sono ritrovato, quarant’anni dopo, a rivedere le stesse cose e a doverle spiegare. Circondato da una folla di giuristi insigni che ripetono “i diritti umani, i diritti umani”. Allora lo dicevano solo gli avvocati dei boss.

Eccovi dunque un piccolo elenco delle cose che faccio. Tengo due corsi universitari nei quali ogni studente può prendere la parola. In un caso sono più di ottanta studenti ai quali passo slides, foto, informazioni, valutazioni. Ognuno può accendere il microfono e chiedere chiarimenti. In uno dei due corsi, che ha un carattere molto particolare, discutiamo a fondo di idee e di principi, con abbondante scambio di opinioni. Poi c’è il consiglio di dipartimento. Abbiamo fatto sedute di laurea, esami di quattro materie, e ricevimento studenti. Ho fatto lezioni di dottorato, lezione anche per l’università di Bologna. Incontri e colloqui internazionali: da Londra a Copenhagen a Città del Messico. Ho partecipato a due maratone-manifestazioni per il 25 aprile, con tanto di video personale. Ho sentito politici e giornalisti. Coordino il comitato tecnico-scientifico antimafia della Regione Lombardia. Ho promosso con altri una petizione della scuola di formazione “A. Caponnetto” contro le scarcerazioni di massa. Con l’aiuto di una collaboratrice esterna ho fatto un video sullo stesso tema, che trovate su Fb. E tante altre cose.

Giusto per dirvi che cosa si può fare dagli arresti domiciliari: praticamente tutto, con 3 clic raggiungete ogni parte del mondo. E impartite disposizioni, comunicate, informate, mobilitate, raccogliete pareri e ne dispensate, fate sottoscrizioni, raccogliete fondi. Oltre naturalmente a leggere, sentir musica e farvi un caffè. Ora voi dovete immaginare che questa condizione è stata regalata simultaneamente a decine di boss di mafia e di camorra, per i quali stare sul territorio è la cosa più importante, perché da New York non si comanda ma da una casa scavata sotto terra nel proprio paese sì. E che essa è stata presentata come una detenzione alternativa al carcere, certo un pochino più morbida. Ma per carità, sotto “stretta sorveglianza”.

Domanda, con la preghiera di non offendersi: ma è mai possibile che nessuno dei magistrati che hanno prescritto e firmato “arresti domiciliari” abbia pensato che questa era una misura di costrizione 40 anni fa e che ora è l’offerta di una quartier generale per dirigere a pieno ritmo affari e delitti? Possibile che nessuno di questi sensibilissimi (e talora un po’ permalosi) magistrati non capisca i rapporti tra pene, tecnologie e culture criminali? Davvero a tanta astrattezza può portare il culto formale dei codicilli? Durante la lezione in cui ho dovuto riprendere il tema di “Cutolo come metafora” ho chiesto agli studenti, sparsi in 80 (ottanta…) case diverse e sconosciute, se pensavano che ciò che faccio ogni giorno potesse subire qualche interferenza negativa per via della presenza di un plotoncino di poliziotti sotto casa, non parliamo della classica vigilanza “mobile”, l’auto che passa ogni ora davanti al portone.

E il braccialetto, dite, secondo voi il braccialetto mi impedirebbe di fare queste cose, alle quali attendo con un computer e un normale cellulare soltanto, anziché, come fanno spesso i boss, con sei o sette cellulari acquistati all’estero e non intercettabili? Ne avevano anche in carcere. E ora, ditemi ancora, chi di voi sosterrebbe che tutto questo c’entra qualcosa con il rispetto dei diritti umani o con la “funzione rieducativa della pena”? E quanto c’entra invece con la difesa dei diritti della collettività o delle persone innocenti? Il guaio è che non solo gli interessati non saprebbero rispondere a queste domande, ma neanche se le fanno. Come quando li mandavano al soggiorno obbligato, per farli firmare ogni due giorni nella stazione dei carabinieri. Nel frattempo quelli prendevano l’aereo, andavano e tornavano da casa… Storie italiane davvero, sempre quelle. Con tanto sangue di mezzo, però.

Ritorno in Lombardia “Dopo l’odissea dal Brasile aspetto ancora il tampone”

Cara Selvaggia, ecco la mia odissea:

– 21/02/2020: partenza per un viaggio in Brasile. È stato il giorno in cui hanno individuato il paziente 1, italiano, affetto da Covid. Noi, ignari di tutto, ci stavamo imbarcando.

– Nei giorni successivi la pandemia è esplosa in Italia. Oggi ormai sappiamo tutto del Coronavirus, ma in quel momento non sapevamo niente.

– 15/03/2020: il volo di rientro programmato in Italia viene annullato per emergenza Covid-19. Il ritorno in aereo è spostato al 28/03/2020: ho contattato la mia azienda per prolungare le ferie.

– 22/03/2020: ci comunicano che anche quel volo di rientro viene annullato, riusciamo per i capelli a prendere un aereo il giorno 24 marzo, con un’altra compagnia. Farnesina e ambasciata italiana a San Paolo del tutto assenti o con consigli inutili. “È emergenza”, dicono, “siate pazienti”.

– Arrivati in Italia, dobbiamo stare (giustamente) 14 giorni in isolamento fiduciario come tutti gli italiani arrivati dall’estero.

– Visto che la sfiga ci vede benissimo, durante i primi giorni di questa quarantena accusiamo tutti i sintomi tipici del Coronavirus: febbre, tosse, dolore al petto e, soprattutto, totale assenza di sapori e odori che ha un nome strano, ma l’ho rimosso. Quindi inizia il periodo di malattia per sospetto Covid-19, ma mai accertato perché i tamponi vengono fatti solo ai ricoverati.

– Per fortuna la forma era piuttosto lieve e nel giro di un paio di settimane i sintomi del Covid-19 sono scomparsi.

– 12/04/2020: inizia la quarantena in seguito all’assenza di sintomi (14, 21 o 28 giorni?). A me sono toccati i 14 giorni. Prolungo la malattia.

– Nel frattempo la regione Lombardia rende obbligatorio il tampone per i lavoratori in isolamento fiduciario per sospetto Coronavirus. Parte la richiesta da parte del medico di base all’Ats di Milano, ma solo al termine della quarantena, così passano più giorni.

– Non mi viene dato nessun numero, nessun contatto, nessuna info, ma soltanto: la chiameranno quelli dell’Ats per fissarle l’appuntamento per il tampone. L’assenza dal lavoro, per malattia, proseguirà finché non arriverà il risultato del tampone, in carta scritta, al medico, ovviamente solo se negativo. La malattia prosegue.

– Ad ora non ho ricevuto nessuna chiamata da Ats, dopo mille chiamate tra centralini, ambulatori, gente che ne sapeva meno di me, mi ha detto che l’obbligo di tamponi introdotto dalla regione Lombardia ha congestionato il sistema e di fatto non sanno dirmi quando verrò chiamato a farlo. L’unica risposta: “Stia tranquillo che la chiameranno”. Incredibile come si renda un tampone obbligatorio, ma non si rendano disponibili le giuste tempistiche e i mezzi per poterlo fare.

E intanto i giorni di malattia proseguono, con l’angoscia anzi no, credo si chiami incazzatura, sì con l’incazzatura per una chiamata che non arriva e per uno stipendio che, a fine mese, sarà più ristretto ed infeltrito di una coperta di lana dopo un lavaggio “programma sintetico a 1200 giri di centrifuga”.

Fabio

 

Caro Fabio, è rassicurante sapere che la Lombardia sta ripartendo con le idee così chiare in fatto di tamponi, mappature, quarantene e gestione dei lavoratori ammalati. Le avevano azzeccate tutte, del resto, perché cambiare strategia?

 

A Napoli si trasloca il 4 maggio: sì, ma con “sceriffo” De Luca…

Cara Selvaggia, il 4 maggio 2020 sarà l’inizio della fase 2, con le regole decretate dal Governo Conte. Per noi napoletani degli anni ’30-’40, il 4 maggio ha un significato molto particolare: è il giorno del trasloco. La tradizione viene da prima della nascita di Cristo, agli inizi dell’Impero Romano. Per motivi di ordine pubblico e per evitare la confusione di carretti in qualsiasi giorno dell’anno, Roma aveva stabilito il 10 di agosto come data dei traslochi. Caduto l’Impero, l’usanza si perse. Nel 1587 il viceré spagnolo Juan de Zuniga reintrodusse la giornata per i traslochi indicando il 4 maggio (per evitare il caldo d’agosto). Per noi napoletani anziani è naturale dire aggia fa’ ’o quatto ’e maggio, piuttosto che parlare di trasloco. Come usiamo dire ’o quatto ’e maggio per suggerire un cambiamento importante o un evento rumoroso e confusionario. Ma ecco, a questo punto, la ciliegina sulla torta! Nel 1918 ’o quatto ’e maggio, per merito del poeta e compositore Armando Gill (all’anagrafe Michele Testa – Napoli, 1877/1944) entra di diritto nel glorioso Tempio della nostra melodia. I versi descrivono un uomo buono che perde la bottega, la casa e la fidanzata (ma non l’innata filosofia) concludendo rassegnato: “Core, fatte curaggio, ’sta vita è nu passaggio, facimmancillo chistu quatto ’e maggio. Che ce penzammo a ffa’, si ’o munno accussì va?”

Raffaele Pisani

 

Caro Raffaele, non sapevo che il 4 maggio per i napoletani fosse una data legata al trasloco. Direi che nel giorno in cui il Paese muove i primi passi per riacquistare un po’ di libertà di movimento, è una bella coincidenza. Certo, lì a Napoli non vi azzardate a fare traslochi ma limitatevi ai giretti al parco con la mascherina, a una visita fugace alla zia, a una passeggiata sotto casa a un metro l’uno dall’altro perché se solo vi azzardate a caricare un comodino in macchina, non serve che vi spieghi cosa succede: De Luca, come minimo, vi manda tutto il corpo di polizia col lanciafiamme e incenerisce voi, il comodino, il camioncino del trasloco e l’albero genealogico dei congiunti fino alla nona generazione.

 

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