I Cavalieri di Malta senza Gran Maestro. Due fazioni in lotta, pro e contro il papa

In tempi normali, e non pandemici come questi, avrebbe avuto solenni funerali di Stato, degni di un sovrano che intrattiene rapporti con 110 Paesi e vanta il grado di osservatore permanente alle Nazioni Unite. Invece il rito funebre per Fra’ Giacomo Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto, Gran Maestro dell’Ordine di Malta, si svolgerà domattina secondo le prescrizioni del nuovo decreto di Palazzo Chigi, nella chiesa di Santa Maria in Aventino, a Roma. A officiare il cardinale Angelo Becciu, delegato speciale del Papa nominato durante la grave crisi dell’Ordine, nell’ultimo triennio. La morte del Gran Maestro può infatti far riprendere la lotta interna tra i Cavalieri, coincisa con uno dei primi attacchi clericali al pontificato riformista di Francesco. Tutto ebbe inizio nell’ultimo scorcio del 2016 quando l’allora Gran Maestro inglese Fra’ Matthew Festing sospese il Gran Cancelliere (il ministro degli Esteri e dell’Interno dell’Ordine) Albrecht Freiherr von Boeselager, figlio del barone Philipp, tra i militari che congiurarono contro Hitler nel 1944, con l’Operazione Valchiria.

Sostenuto dal cardinale patrono Burke – avversario numero uno del fronte di destra anti-Bergoglio – Fra’ Festing accusò von Boeselager di aver avallato la distribuzione di contraccettivi in Africa, contraria ai principi morali dell’Ordine.

Per tutta risposta il pontefice reintegrò il barone teutonico e rimosse il Gran Maestro. Una svolta sancita nell’aprile del 2017 con l’elezione a Luogotenente di Fra’ Giacomo Dalla Torre, indi Gran Maestro nel maggio del 2018. Ancora oggi però quella frattura non si è ricomposta e lo scontro si riproporrà per l’elezione del successore di Fra’ Giacomo Dalla Torre, ottantesimo Gran Maestro dell’Ordine fondato nel 1048 a Gerusalemme e che ha un patrimonio di 1,7 miliardi di euro. Da un lato i conservatori inglesi, dall’altra i liberal tedeschi.

Secondo la Carta costituzionale dell’Ordine, il Gran Maestro deve essere un Cavaliere professo: oltre alle origini nobiliari deve aver pronunciato i voti di povertà, castità e obbedienza. Un religioso a tutti gli effetti, senza l’obbligo della vita in comune.

Il look al naturale (peli e ricrescita) non fa più paura. E salva l’ambiente

Non solo fenicotteri in strada e lepri in città, non solo piante rigogliose sui terrazzi di città. Anche un’altra natura si è ripresa trionfalmente i suoi spazi durante il lockdown: quella sui nostri corpi, tra peli, barbe e capelli, ricresciuti arzillamente all’ombra di parrucchieri mestamente chiusi (almeno formalmente, visto che si narra di estetiste imbacuccate passate silenziosamente nelle case di poche clienti amiche per estirpare radici e potare le chiome). Dopo le prime settimane di sottile panico – l’essere a posto per le donne coincide col capello a posto – l’aspetto selvaggio ha cominciato a fare meno paura. Tinta fai da te no grazie, al massimo mi faccio la coda; peli sulle gambe? Abbiamo scoperto che a un certo punto smettono di crescere, inutile tagliarli di continuo. Per non parlare della liberazione della depilazione pubica, visto che molte donne, specie le più giovani, non hanno ancora chiaro se lo fanno per sé o contentare l’altro. E dunque, quale fase due immaginare per la nostra natura interna, che ha avuto pure il suo momento di gloria televisiva, tra dirette Facebook e televisive anche istituzionali (vedi Mattarella e il ciuffo ribelle)? Finalmente scarcerarla oppure riprendere a tagliare, radere, divellere, sradicare? Forse può essere d’aiuto avere un occhio ecologico: infatti, deforestazione selvaggia e distruzione degli ecosistemi sono stati messi in diretto collegamento con la pandemia. E dunque, mantenere le nostre zone boscose è certamente salutare, visto anche che il settore dei parrucchieri produce parecchia C02. Se dunque qualcuno obietta al proliferare pilifero anche post-covid si può rispondere dicendo che serve al pianeta. E a se stesse si può ricordare che, in fondo, è più facile essere selvatiche nelle emozioni se si lo si è anche nel corpo. Che tutta questa furia rasatrice di corpi e teste evoca immagini non proprio felici.

Senza estetista, la lontananza più triste è quella dallo specchio

“Ne usciremo migliori”, dicevamo all’inizio del lockdown, e un po’ ci credevamo pure. Forse anche per consolarci della certezza che da settimane di clausura, a base di tute e pantofole, emotional eating, cicchetti fuori ordinanza e capelli trascurati non ne saremo uscite più belle. E così, all’alba della fase 2, mentre la ripartenza è ancora un miraggio, dobbiamo fare i conti con una ben visibile ricrescita e con pelurie che non vedevamo dalla quinta elementare, propiziate dal risveglio primaverile che fa germogliare tutti i bulbi, compresi quelli piliferi. Quando manca ancora un lunghissimo mese all’agognata “radanèda” professionale, sempreché il 3 giugno ci ritroviamo in tasca di che pagare un parrucchiere impoverito quanto noi. La tentazione è di accettare il rinselvatichimento e abbracciare il ritorno alla natura che ci ha fatte irsute e castane – tanto più che durante la quarantena ci siamo lette Sapiens di Noah Harari, con la storia della “trappola del lusso” che inevitabilmente diventa necessità e finisce per renderci infelici e scontente. Ma è davvero un lusso il trucco-e-parrucco? Se i capelli in disordine e la gamba pelosa durante la quarantena erano la prova tangibile della nostra forza d’animo (quello stato implicava asocialità e rinuncia a spese frivole) ora rischiano di appesantire vieppiù il nostro e altrui sconforto – dove per altrui non si intende l’“affetto stabile” con cui possiamo scambiarci visite, ma anche quello di una vasta platea di lavoratrici e lavoratori nei “servizi alla persona”, che campano con le nostre ricrescite, baffetti e unghie scheggiate. Che poi, guarda guarda, in latino “persona” vuol dire “maschera”, accezione quanto mai attuale. Il pezzo di stoffa che, proteggendo noi e gli altri, ci spersonalizza, rende ancora più necessarie le cure e le attenzioni che ci fanno sentire persone. E scoraggiano il più triste dei distanziamenti sociali, quello dallo specchio.

Signora mia, a quante libertà si è rinunciato…

Signora mia, a quante libertà rinunciamo! Quasi 30mila morti e manco possiamo andare in enoteca per un’apericena. Nemmeno un parrucchiere per ritoccare la ricrescita, tutte costrette ai cartocci di stagnola per lo smalto semipermanente… E il fitness per prepararci alla prova costume? Non abbiamo mai avuto voglia di farlo – e infatti non l’abbiamo mai fatto – ma, santocielo, adesso ce lo proibiscono per decreto. Colpi di decreto invece di colpi di sole: una dittatura!

Signora mia, a quante libertà rinunciamo! E la libertà d’impresa? “Milano non si ferma”, “Bergamo is running”… verso il baratro. Abbiamo chiuso l’Italia per i focolai del Nord produttivo, perché i distretti industriali più ricchi del Paese non volevano sentir parlare di “zone rosse”, tanto gli infetti potevano essere “nascosti” dentro i centri anziani, ma adesso vogliono ripartire alla grande. Mica possono fermare più di tanto la locomotiva d’Italia, anche se rischia di correre su un binario morto.

Signora mia, a quante libertà rinunciamo! Certo, la gente ha fatto sacrifici e adesso non ce la fa più: le ferie obbligate sono agli sgoccioli, la cassa integrazione non arriva, l’indennità è poca e in ritardo, chi ha un’attività non vuole indebitarsi, anche perché come potrà guadagnare e restituire i prestiti se i clienti sono falcidiati dalle disposizioni di sicurezza? Eterno dilemma: salute o lavoro? Morire prima o dopo? Fallire subito o strozzati dalle banche? Soprattutto: che ce ne facciamo dei soldi se non ci siamo più?

Signora mia, a quante libertà rinunciamo! Manco a messa possiamo andare. Pregare in casa? Ascoltare il Papa che invita alla prudenza? Macché, è una questione di principio: difendere la libertà di culto. Anche se significa celebrare funerali. Che poi basterebbe fare il numero chiuso in chiesa, con turnazione dei fedeli e magari la disponibilità del Vaticano di tutte le terapie intensive degli ospedali religiosi, per pagare i costi sanitari di un’eventuale nuova ondata di contagi. Cardinal Bertone che dice?

Signora mia, a quante libertà rinunciamo! Ci vogliono pure monitorare con una app. I nostri dati sensibili sono già in pasto alla rete, alle aziende che ci molestano – o truffano – quotidianamente, e poi telefonini, telecamere che ci pedinano ovunque, assicurazioni, datori di lavoro che dispongono delle nostre mail e dei nostri calendari di ovulazione, ma guai a mapparci per proteggere la nostra salute! A tutto c’è un limite: chi non scarica “Immuni” sarà un novello Gandhi, fiero paladino dei diritti civili, al pari di chi dice no al medico che lo invita a spogliarsi.

Signora mia, a quante libertà rinunciamo! Lo dice pure l’OMS: “La Svezia è il modello da seguire per la nuova normalità”. Quella che, prima, era “irresponsabile” perché non chiudeva, “troppi paesi non prendono il Coronavirus sul serio”, oggi è un modello. E lo ripetono anche i fautori nostrani del #TorniamoLiberi: il Matteo (Salvini) del “chiudi-apri-chiudi-apri basta che la colpa sia di Conte” e il Matteo (Renzi) ora medium (fa parlare i morti di Bergamo), virologo (per trovare gli elettori di Italia Viva ci vuole il microscopio?) e pure – udite udite – costituzionalista: “Il governo con i DPCM calpesta la Costituzione”. Da che pulpito… Più che #TorniamoLiberi, perché non #TorniamoSeri?

Signora mia, certo, rinunciamo a molte libertà, come rinunciamo alla libertà di movimento per indossare la cintura di sicurezza che ci salva la vita. E a sentire quello che si dice e a rivedere la propaganda sulla pelle degli italiani, nella Fase2 già ci siamo: le gabbie di sicuro l’hanno riaperte. O non sono state mai chiuse?

I Dpcm e la farsa del Parlamento “consigliere”

La proposta del professor Ceccanti di sottoporre i decreti del Presidente del Consiglio a una preventiva valutazione parlamentare che sfocia in un parere non vincolante è una delle tante assurdità dell’attuale periodo di confusione. Si consideri, innanzi tutto, che una metodica del genere non modifica la natura di atto amministrativo del decreto, ma ne articola il procedimento corresponsabilizzando, seppure nella veste di consulente, il Parlamento italiano. È quest’ultimo a divenire organo amministrativo, con ciò modificando, non si comprende bene per quale ragione, l’essenza della sua natura come presidiata dalla Costituzione: da legislatore a consigliere del governo con una dequotazione paurosa delle prerogative proprie della funzione legislativa. Il governo ha già i suoi organi di consulenza di rilievo costituzionale (Consiglio di Stato, Corte dei conti e Cnel) sicché introdurne un altro, peraltro organo costituzionale tout court, sarebbe una vera bizzarria, a esser magnanimi nel giudizio. Esplicita alla proposta è, cioè, l’umiliazione del Parlamento, prodromica forse a nuovi equilibri istituzionali. In questo senso alla bizzarria va unita la pericolosità.

Due sono le origini dell’infelice iniziativa. Una va individuata nel relativismo al quale si è consegnato il diritto pubblico italiano. La gradazione dei valori e la loro operatività nell’ordinamento sono state spesso confuse e utilizzate, in taluni approcci dottrinali e purtroppo anche giurisprudenziali, per legittimare in qualche modo le attività del potente di turno. L’importante è giustificare e rendere possibile ciò che il sistema, con i suoi anticorpi (parametri costituzionali e talora semplice buon senso), rifiuterebbe. La seconda ragione è di mera attualità: la legittimità del Dpcm della Fase2, contestata sia da parlamentari della maggioranza, sia in forma più soft da eminenti giudici delle leggi. Il presupposto di contestazione è che, nel nostro sistema non sarebbe prevista la clausola dell’emergenza che legittima il potere d’ordinanza governativo, peraltro esplicita in altre Costituzioni. Non è proprio così. Una clausola sullo stato di necessità è intrinseca a ogni ordinamento e riposa sul principio di effettività dello stesso. Nella Costituzione italiana questa clausola è coperta, quasi integralmente, dal c. 2 dell’art. 77 cost.: cioè dai decreti legge. Ciò non esclude che, per il solo fatto di porsi come pericolo da contrastare, possa insorgere una situazione sulla quale l’intervento legislativo può essere utilizzato nel momento successivo a una qualche forma di stabilizzazione del frangente stesso. A meno elevati livelli di cura della cosa pubblica il fenomeno è descritto come quello del funzionario di fatto, cioè di un soggetto che si arroga funzioni amministrative che non gli competono per porre rimedio a una contingenza emergenziale. Analogamente, il Dpcm si inserisce nel peculiare momento della pura esigenza operativa e funge più o meno da valvola di sfogo che consente di predeterminare un contesto attuativo (alla maniera di una direttiva) che sarà poi nelle sue linee fondamentali trasformato in decreto legge. In altre parole: il Dpcm è un’anticipazione temporanea in forma di direttiva di una serie di precetti la cui piena operatività nell’ordinamento sarà assicurata con la procedura del decreto legge. Questi concetti, tuttavia, non sono molto chiari né al professor Ceccanti che si immagina una valutazione preventiva su ciò che, invece, è il solo presupposto del futuro decreto legge né, occorre ammettere, all’Ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio, che non ha articolato subito dopo il decreto legge. Un’ulteriore prova, purtroppo, dell’imbarazzante modestia di quell’Ufficio.

Macché “Bonaparte”: troppi profittatori

Io sto con Conte. Sia perché penso che, nella sostanza, egli abbia operato scelte giuste e spesso obbligate per fronteggiare la pandemia; sia perché le aspre critiche di cui è fatto oggetto da tanti, troppi, disparati e opposti fronti mi sembrano deboli o strumentali. Un assedio più che sospetto. Sto con Conte per il merito delle decisioni assunte da lui e dal governo, ma anche perché, dentro una sfida epocale e senza precedenti, è buona norma nutrire fiducia verso le istituzioni e chi, pro tempore, le rappresenta, al netto del colore politico. Si può discutere il loro operato, ma con senso della misura, senza indulgere a intenti disgregativi, non applicandosi a delegittimarle. È lo spirito d’una ben intesa unità nazionale invocato da Mattarella (e purtroppo poco raccolto da chi di dovere).

Che cosa si rimprovera a Conte? Confesso che non l’ho capito. Spesso dal medesimo versante politico o istituzionale un giorno gli si contesta una cosa, l’altro esattamente il suo contrario. Ma facciamo finta che, tra i critici, sia riscontrabile una qualche linea di coerenza decifrabile. Tre, mi pare, i rilievi: un deficit di coraggio nelle aperture della Fase2; una centralizzazione che mortificherebbe le autonomie territoriali; un accentramento delle decisioni al limite della lesione della Costituzione.

La cautela è un corollario del “principio di precauzione” abbondantemente prescritto dalla durezza oggettiva dei dati che descrivono la diffusione del virus e autorevolmente interpretati dal comitato tecnico-scientifico. Il quale, questa volta unanimemente, ha suggerito appunto prudenza e gradualità. Spiegando persuasivamente che siamo ancora dentro la pandemia. I critici, nel mentre invocano ulteriori aperture, furbescamente, si premurano di aggiungere il mantra “nel rispetto dei dispositivi di sicurezza”. Come se non vi fosse un oggettivo trade-off, un indice di rischio immanente a ogni allargamento, che dunque va ponderato seriamente.

La centralizzazione è misura obbligata per una emergenza di tale portata, contro la fiera dei particolarismi territoriali e settoriali. Un osservatore onesto dovrebbe semmai riconoscere i limiti del nostro regionalismo in materia sanitaria cui a tempo debito si dovrà rimettere mano. Lombardia docet. Altra e giusta cosa è – come si sta facendo – metter in conto un monitoraggio e un’articolazione territoriale concordata, connessa a oggettivi parametri circa la mappa della diffusione epidemica, di un indirizzo unitario che non può che esser assunto in sede nazionale.

Infine, l’accusa di bonapartismo. Francamente ridicola la rappresentazione del Conte dittatore. È evidente che, nello sviluppo imprevisto e accelerato della pandemia e del lockdown cui si è stati costretti (seguiti a ruota da tutti i paesi del mondo), si sia dovuto fare ricorso a strumenti normativi inusuali. Ma si è poi provveduto alla loro copertura legale con decreti legge vagliati dal parlamento e firmati dal Quirinale. La presidente della Consulta Cartabia, tirata in ballo, ha seccamente smentito una sua asserita censura al governo.

La cruda verità è che ci si vuole sbarazzare di Conte da parte di soggetti diversi e per ragioni diverse ma convergenti sul medesimo bersaglio. Attori economici che mal sopportano il primato della politica, deputata alla cura degli interessi generali, cui compete gerarchizzare quelli di parte. Gruppi editoriali vecchi e nuovi. E attori politici. Tra loro, oltre alle opposizioni, altri che semplicemente mirano a far fuori di Conte, vissuto come competitor su un’area politica che vorrebbero occupare. Renzi in primis, con il suo spregiudicato attivismo politico, che fa leva irresponsabilmente su un disagio reale del mondo produttivo. È riprovevole il cinismo di chi non si fa scrupolo di profittare del coronavirus per calcoli di bottega politica. Tanto più da posizioni di formale maggioranza, agendo sistematicamente da guastatore. Ormai la divisa di Italia viva, la sua natura, la sua sola missione. Si pensi alle giravolte di Renzi, che si improvvisa censore del leaderismo, arcigno custode degli equilibri della “vecchia” Costituzione, nemico del presunto populismo imputato a chi semmai sfida l’impopolarità, polemico verso la politica che dà ascolto alla scienza (quando lo vedremo passare ai no-vax?), sino al cattivo gusto di intestarsi il sostegno delle vittime del coronavirus. Ma sono insopportabili anche quei ciarlieri opinionisti che la buttano sul vero o presunto deficit di attitudine comunicativa di Conte, semplicemente perché non hanno il coraggio, oltre che gli argomenti, per confutare la sostanza delle scelte del governo. Su materia tanto grave, chi se ne frega della comunicazione. Conta cento volte di più il merito di decisioni tanto impegnative, sulle quali i corsivisti sapientoni brillano per ignavia e superficialità. Fanno gli spiritosi, cazzeggiano sulla difficoltà oggettiva di disegnare formule normative e linguistiche (tipo i “congiunti”) che sottendono dilemmi reali. Che poi il problema di Conte sia la comunicazione è circostanza smentita dai sondaggi che, a dispetto di scelte tanto dure, gli attribuiscono un alto indice di consenso. Anzi, l’impressione è che proprio tale consenso gli attiri l’ostilità degli attori politici che a esso affannosamente e vanamente mirano, rifuggendo con viltà quelle scomode responsabilità che lui si è assunto.

È nell’interesse del paese, in questo passaggio drammatico, aprire una crisi di governo al buio, essendo precluse nuove elezioni e problematico reperire in Parlamento altre maggioranze? Maggioranze verticalmente divise sul rapporto con la Ue, cruciale come non mai per fronteggiare la crisi e porre le basi per una ricostruzione d’immane portata.

L’eredità (si spera) del virus: stop al dominio del mercato

“Come dopo la Peste nera venne il Rinascimento, così un nuovo Rinascimento ci aspetta dopo il coronavirus”: complice una disperata fame di futuro, questo spericolato sillogismo viaggia da settimane sulla rete. Esaminarlo con un po’ di calma serve a prendere le distanze dalla fallace formuletta storica: ma anche a provare a mettere a frutto le innegabili suggestioni che scatena. Ebbene, se per Rinascimento intendiamo la rivoluzione artistica innescatasi a Firenze nel secondo decennio del Quattrocento, è davvero arduo stabilire un rapporto di causa-effetto con la devastante epidemia che fece probabilmente 20 milioni di morti in Europa quasi settant’anni prima, tra il 1347 e il 1353. Il dominio dello spazio e della sua rappresentazione conquistato da Filippo Brunelleschi, le figure vive ed emotivamente coinvolgenti di Donatello, i corpi tangibili e lo stile puro e senza ornato di Masaccio affondano le radici in fatti figurativi che precedono la grande epidemia: nella scultura di Nicola Pisano, nella pittura del padre Giotto – e cioè nell’ultimo quarto del Duecento e nella prima metà del Trecento. Un celebre saggio dello storico dell’arte americano Millard Meiss (Pittura a Firenze e Siena dopo la Morte Nera, 1951) suggeriva addirittura di leggerla al contrario: e cioè di legare all’esperienza terribile della Peste quella sorta di rifiuto della realtà che raggela i seguaci di Giotto nel secondo Trecento.

D’altra parte,bisogna sempre stare molto attenti a non cedere alla tentazione di “spiegare l’arte con la società”: perché quasi mai è possibile dimostrare una derivazione meccanica. Un esempio clamoroso riguarda il più importante ciclo pittorico italiano che rappresenta il Trionfo della morte: quello del Camposanto di Pisa. Per molto tempo lo si è letto come il più impressionante e diretto riflesso figurativo della terribile esperienza della grande Peste, collegandolo strettamente al Decamerone di Boccaccio: ma nel 1974 Luciano Bellosi dimostrò che si trattava di un’opera del pittore Buffalmacco da datare sicuramente al 1340, cioè quasi dieci anni prima che infuriasse la Peste. Dunque, nessun nesso tra peste e Rinascimento? Se passiamo la domanda al setaccio, a maglie più larghe, della storia delle idee, le risposte possibili si fanno interessanti. Perché gli uomini di metà Trecento, “attraverso il doloroso confronto con l’immagine e il sentimento della loro sorte organica, giunsero ad affermare irrevocabilmente proprio l’amore della vita ed il valore essenziale dell’esistenza terrena”. Sono parole di un bellissimo libro di Alberto Tenenti, assai eloquente fin dal titolo: Il senso della morte e l’amore per la vita nel Rinascimento (1957). Non sfuggirà che sia questo libro che quello di Meiss siano stati pensati e scritti nel secondo dopoguerra: mentre si galoppava per lasciarsi alla spalle il disastro, e costruire un mondo nuovo.

L’insistenza di Tenenti sulla “contemplazione della putredine e dell’annichilamento fisico” (sono ancora parole sue) rifletteva l’esperienza diretta del massacro della Seconda guerra mondiale, e teneva conto dell’ossessiva rappresentazione del corpo malato, piagato, morto, decomposto nell’arte che segue la Grande Peste. Un’opera simbolo del Rinascimento come la Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze ruota tutta intorno al corpo: quello dei due donatori, vivi e riconoscibili in ritratti già parlanti, quello addirittura del Padreterno che deve reggersi su un mensolone brunelleschiano pur essendo purissimo spirito, quello ridotto a scheletro sotto l’altare, che rende chiara la presenza dei sottostanti sepolcri ammonendo noi vivi con un agghiacciante ritornello: “Io fu’ già quel che voi sete, e quel ch’io son voi anco sarete”. Un affresco (1427) che cade a mezza strada tra la Peste di metà Trecento (quando le morti erano così numerose, rapide, incalzanti “che non altrimenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre”, come scrive Boccaccio) e la celebre Canzona di Bacco (1490) in cui Lorenzo il Magnifico, constatato che “di doman non c’è certezza”, esorta a cogliere ogni piacere: “Ogni tristo pensier caschi / facciam festa tuttavia / Chi vuol esser lieto, sia”.

Facciamo nostro l’anelito del Magnifico: quando finalmente potremo uscire di casa liberi e senza mascherina, tuffarci in mare, affollarci a un concerto, il sapore della vita sarà più intenso. Ma forse il messaggio più profondo è quello che coglieva Tenenti: la contemplazione della morte può – deve – aumentare il nostro amore per la vita.

Ad essere andata in crisi, col Covid, è quella rimozione della morte che costringe il nostro tempo ad un eterno presente, ad una perpetua irresponsabilità. Ora che non possiamo distogliere lo sguardo dalla nostra possibile fine collettiva, dobbiamo amarla davvero la vita: amare la continuazione della vita umana su questa terra.

Per questo, se davvero un Rinascimento può scaturire da questa orrenda epidemia, non potrà che essere un rinascimento fatto di amore per il pianeta, di sostenibilità, di ricerca, di lavoro non precario e sicuro, di cura per i più vecchi, fragili, poveri. Insomma: tutto il contrario di quella lunga peste che da tanto tempo ci opprime, e che non dipende dalla natura, ma dal nostro poco amore per la vita. Quella peste che si chiama tirannia del profitto, competizione, diseguaglianza, interesse privato. Per decenni non abbiamo visto la morte dei diversi (dei 24.000 al giorno che muoiono di fame, per dire): ora che moriamo noi, forse avremo il coraggio di dire basta. E di rinascere.

“Noi, soldati malati di Covid e minacciati dai superiori”

“Ci hanno detto che se non avessimo cambiato la nostra deposizione, avremmo passato dei guai. Pressioni e minacce mirate a insabbiare la verità dei fatti: cioè che siamo stati mandati negli ospedali colmi di pazienti Covid sprovvisti di protezioni e nozioni basilari”. La denuncia arriva dal reparto di medicina del comando dell’Aeronautica Militare di Linate, nella zona sud-est di Milano. Chi parla sono alcuni giovani medici militari, risultati positivi al tampone, forse proprio a causa delle precarie condizioni lavorative con cui l’Aeronautica a inizio emergenza sanitaria li ha piazzati nelle corsie degli ospedali di Alzano Lombardo, Lodi e Milano.

Una mancanza di protezioni e formazione tecnica che due di questi medici, entrambi specializzandi in medicina, hanno tentato di far emergere, scontrandosi però con le intimidazioni dei vertici dell’Istituto di Medicina Aerospaziale dell’Aeronautica Militare. Precisamente con il colonnello Emanuele Garzia e il generale Giuseppe Ciniglio Appiani, che in più fasi – secondo la versione dei soldati – e con modi discutibili avrebbero tentato di far cambiare idea ai due medici sulle dichiarazioni da fare e sulle responsabilità da attribuire.

Dopo aver prestato servizio negli ospedali lombardi, infatti, i due medici militari, ai primi sintomi riconducibili al coronavirus sono dovuti rientrare al campo base di Milano. Seguendo la prassi per i casi di contagio, ai due è stato fatto il tampone – risultato poi positivo – e successivamente sono stati messi in quarantena, prima presso l’Ospedale di Baggio a Milano e poi nelle loro abitazioni, per più di due settimane. Al termine delle quali sono stati visitati per costatarne la guarigione o meno.

E proprio nell’infermeria del campo militare, durante la visita medica post quarantena, che i due operatori sanitari, in presenza del capo infermeria e di altri operatori dell’Aeronautica, prendono coraggio e denunciano le condizioni di lavoro negli ospedali lombardi. “L’Aeronautica Militare non aveva fornito i dispositivi di protezione individuale, né tantomeno informazioni riguardo i comportamenti da tenere per evitare l’infezione. I nostri nostri alloggi consistevano in camere da 3-4 persone, con bagni in comune e ambienti molto ristretti. Non tutti i colleghi usavano le mascherine, anzi ci era stata fornita una sola mascherina chirurgica per tutta la giornata, e nessuno indossava guanti” si legge nella dichiarazione di uno dei medici.

Il rapporto medico stilato dal Capo infermiere nel quale i due medici si espongono, e dove si chiede di prolungarne la convalescenza perché visibilmente dimagriti e debilitati dall’attacco del Covid-19, passa come di norma ai vertici dell’Istituto di Medicina Aerospaziale, cui fanno capo gli stessi medici.

La risposta dell’Istituto, però, non è quella che i medici si aspettavano. Vista la responsabilità diretta che il comando ha quando manda un suo medico militare al centro di un’emergenza sanitaria, le dichiarazioni dei due medici sono un’accusa troppo evidente per il colonnello Garzia e il generale Ciniglio. E così i due superiori decidono di intervenire, con le buone o con le cattive. In un colloquio diretto con i due medici – di cui il Fatto ha ascoltato le registrazioni -, quelli che inizialmente sembrano consigli paterni, diventano minacce. L’obiettivo è far togliere dai due referti medici la parte dove si indica l’Aeronautica Militare come responsabile per non aver fornito dispositivi di protezione e formazione tecnica ai due operatori sanitari. “Tu hai dichiarato questa cosa, e adesso chiamo il tuo professore di specializzazione e gli dico questo e questo, magari denunciandolo visto che anche lui ha delle responsabilità nei tuoi confronti” dice il generale Ciniglio quando uno dei due medici gli presenta il referto medico.

Garzia decide di adottare un metodo più fisico: il colonnello chiude uno dei medici in una stanza isolata, ordinandogli di cambiare quanto scritto nel referto direttamente in sua presenza. I due medici però tengono duro e si rifiutano di modificare le proprie dichiarazioni, o quantomeno di farlo seduta stante. Colonnello e generale decidono quindi di mostrarsi ‘caritatevoli’, dandogli altro tempo per ripensare a quanto scrivere e facendo finta di “non aver mai visto i due referti originali”. Il primo rifiuto però non basta a frenare il colonnello Garzia, che non demorde e da subito comincia a chiamare al cellulare uno dei due medici. A ogni ora del giorno, qualsiasi giorno della settimana, festivi e mattina di Pasqua inclusi, raccontano i soldati. La richiesta è una sola: vuole la nuova deposizione rivista, pulita e priva delle parti sconvenienti per il comando. Così da archiviare il fascicolo e poter tornare tutti al più presto nei reparti, i due medici compresi. Oltre allo scarico di responsabilità, di fatto, l’obiettivo del colonnello e del generale è anche quello di recuperare i due medici per poi rimandarli in corsia. Nonostante le condizioni fisiche precarie, la febbre molto alta registrata durante la quarantena e il referto dell’infermeria nel quale si diagnostica un ulteriore “periodo di convalescenza”, per i due ufficiali oggi i medici sono idonei per tornare in servizio. E per confutarlo applicano anche qui un modo sbrigativo: senza la visita medica prevista per legge ma soltanto con un secco “sei guarito, puoi tornare operativo”.

Sollecitato dal Fatto, lo Stato Maggiore della Difesa fa sapere che la responsabilità delle condizioni di lavoro dei suoi medici era degli ospedali, mentre stenta a credere alle pressioni fatte dagli ufficiali. I due operatori sanitari, nel frattempo, tramite mail perchè preoccupati dal dover ripresentarsi davanti ai superiori, hanno nuovamente recapitato le proprie versioni, immutate.

Lo scontro Nord-Sud: ecco chi sta spaccando il Paese

Il dopo Covid è già iniziato. La fuoriuscita dall’epidemia è lenta, ancora troppo alto il numero dei morti e degli infettati, eppure lo scontro politico è feroce. Si occupa la Camera, le regioni a guida centrodestra e Lega contestano le decisioni del governo con pericolose iniziative fai da te sulle aperture. Schiere di commentatori e intellettuali da show televisivo invocano libertà e rispetto della Costituzione come se al governo del Paese ci fosse un temibile caudillo. Si fanno i conti sulle risorse necessarie per la ripresa e ci si accorge che sono scarse, il tema è a chi andranno i (pochi) soldi, a quali territori. La confusione sotto il cielo è ancora tanta, ma un dato è chiaro: la crisi ha già scatenato due fenomeni pericolosissimi per la tenuta del Paese. Un doppio darwinismo. Sociale e territoriale. In nessun altro periodo della storia italiana un giornalista avrebbe potuto parlare della inferiorità dei meridionali, spalleggiato da tv e giornali suscitando addirittura un dibattito che è durato giorni. Ma questo è solo il segno più evidente e vomitevole di una malattia che ha sintomi ben più allarmanti. Ci sono interi settori (economici, politici e anche culturali) che stanno scommettendo sulla spaccatura del Paese. Sulla definitiva marginalizzazione del Sud. Un dato che virus e pandemia stanno drammaticamente accelerando.

Lo Svimez ha recentemente pubblicato uno studio che avrebbe dovuto allarmare le forze politiche, ma che è affondato nell’indifferenza generale. La chiusura totale per pandemia costa 47 miliardi di euro all’intero Paese, il Sud ne perde 10 rischiando il collasso definitivo. 10 miliardi, una ferita su un corpo già morente, che a mala pena stava recuperando i tassi di crescita e di “sviluppo” precedenti la crisi del 2008-2009. La povertà è crescente, la crisi del fragile sistema industriale ha fatto lievitare il tasso di emigrazione giovanile e non. Insieme ai cervelli partono anche tantissime braccia. Il reddito di cittadinanza (attaccato a reti e giornali unificati) ha solo parzialmente lenito gli effetti del disastro sociale in una realtà dove si concentrano (dati prima del Covid) 900mila disoccupati, il 20% del valore aggiunto prodotto da quella che gli statistici chiamano l’economia non osservata, e un milione e mezzo di lavoratori completamente in nero. Questa è la vera “inferiorità” del Sud.

Ma i numeri, implacabili, ci raccontano anche di un Paese spaccato ben prima della pandemia. Prendiamo la sanità. Chi parla di salute diseguale in Italia non sbaglia. Dei 37 miliardi tagliati alla sanità italiana nell’ultimo decennio (dati Fondazione Gimbe), buona parte sono concentrati al Sud. Qui la spesa sanitaria pro capite è di 1.600 euro, al Nord siamo a 1.800, in Europa a 2.800. La conseguenza è netta, con il Nord che ha 791 posti letto ogni 100mila abitanti, mentre il Sud si ferma a 363. Si potrebbe continuare con cifre e statistiche, ma basta un dato per dimostrare che la salute diseguale ha i suoi effetti sulla vita concreta degli esseri umani: la prospettiva di vita in Calabria è più vicina a quella di paesi come la Romania o la Bulgaria, che a quella di regioni sviluppate dell’Europa e della stessa Italia. Sud “inferiore” anche dal punto di vista del diritto alla vita. Meglio tutelato al Nord, in Lombardia, soprattutto. Questo si credeva anche nelle regioni meridionali, le più attive nel cosiddetto “turismo sanitario”, voce importante di bilanci sanitari delle Regioni del Nord (da sola la Calabria genera l’8% dei viaggi sanitari verso altre regioni). Si emigrava per curarsi in Lombardia perché quello era il “modello” sanitario (almeno così lo aveva presentato la propaganda degli efficientisti). Oggi, dopo il disastro del Covid, dal Sud si assiste con stupore alla crisi di quel sistema, si guarda con preoccupazione, scrive lo studioso Isaia Sales, alla “fragilità dei forti”. Paese già spaccato in due dal federalismo fiscale, attuato, scrive Marco Esposito (Zero al Sud, Rubbettino editore) con un “meccanismo diabolico”. Efficacemente riassunto dall’autore: “Chi ha avuto poco è giusto che continui ad avere poco”. Un esempio: a Reggio Calabria il “fabbisogno riconosciuto” qualche anno fa per gli asili nido ammontava a 90mila euro, quello riconosciuto a Reggio Emilia a 9 milioni di euro. Altamura, comune pugliese di 70mila abitanti, si vede assegnare 34 milioni l’anno per il “giusto fabbisogno” (scuole, asili, trasporti, etc), Imola, stesso numero di abitanti, 48 milioni. Basterebbero questi dati per far tacere i moderni allievi di Lombroso. Ma a contribuire alla ferocia dello scontro sul Sud e sull’Italia del “dopo”, contribuisce non poco la classe politica meridionale. Le estemporanee iniziative dei cosiddetti governatori. Ultima, in ordine di arrivo, Jole Santelli, presidente della Regione Calabria, con le sue irresponsabili e pericolose decisioni su aperture indiscriminate. Ha ragione il meridionalista Gianfranco Viesti, queste figure sono il simbolo più evidente di un “sovranismo regionale” dannoso. Sono moderni “shogun” che “giocano sempre più in proprio”. Complici dei teorici dell’”inferiorità” meridionale, contro il Sud. Contro il Paese.

“La smania di riaprire per il ticket ai privati”

Nella “grande smania” turistico-culturale di riaprire, di riavere pubblico, utenti, consumatori, rientra pure la smania per i Musei, al momento chiusi presso che in tutto il mondo per i contagi provocati dalla pandemia. Ha dovuto chiudere i battenti (“per la prima volta in 200 anni”, fanno notare con tristezza) anche la National Gallery di Londra peraltro gratuita da sempre come il British Museum. Ma in fatto di politica di “chiusure” ai contagi Boris Johnson non ha certo brillato per cui il Regno Unito è davvero nei guai.

A Parigi le Grand Louvre ha dovuto sbarrare gli accessi alla Piramide (la Francia ha deciso di prolungare lo stato d’emergenza fino al 24 luglio, per i grandi musei si deciderà a fine mese). Intanto è tutto chiuso, dall’Orangerie al Centre Pompidou. Ma in Francia nessuno si scandalizza se anche le Grand Louvre, pur col suo colossale bilancio ancora impinguato dal marchio Abu Dabi e pur col suo mega-apparato di servizi a pagamento, anche nel 2017 sia risultato passivo ed abbia avuto bisogno di 101 milioni di sovvenzione statale. Poco meno della metà di tutti gli incassi dei musei italiani… Lo sottolineo perché in Italia questa smania per la riapertura non sembra mossa tanto dalla volontà di “fare cultura” quanto dalla speranza di tornare ad incassare un po’ di soldi. Nel 2018 l’aumento dei visitatori ha portato gli incassi lordi da 193.915.765 euro (2017) a 229.360.234 (+35.444.469). Grandi cifre? No, rappresentano il 7 % circa del bilancio (magro) di cui dispone il MiBACT e quindi gli addolciscono di poco la vita. Si parla di “incassi lordi” sui quali pesca molto bene l’oligopolio delle società private concessionarie di servizi museali. Fino alla fine del ‘900 non esistevano. Tutto era gestito direttamente dallo Stato e anche oggi non si capisce perché almeno il servizio di biglietteria non possa esserlo tuttora, ma ci debba essere un (grasso) profitto per i privati appaltatori. Da decenni si parla di “riforma” che non arriva mai. Nonostante i soliti severi moniti annuali della Corte dei conti.

Ma veniamo all’oggi. A parte situazioni molto speciali quali il Colosseo e Pompei, tutti i nostri Musei e le aree archeologiche sono passive. E tanto più lo saranno con queste parziali riaperture. Allora perché non far entrare gratis i visitatori? Per gli Uffizi il direttore Eike Schmidt annuncia il 18 maggio. I suoi connazionali tedeschi sono più disinvolti: l’isola dei Musei di Monaco riapre – l’ha deciso il Senato di quel Land – il 4 maggio, pure alle funzioni religiose purché con non più di 50 persone. Riprenderà anche il prestito nelle biblioteche pubbliche. Ma la Germania non sembra un buon esempio.

Per gli Uffizi si pagherà il biglietto che non era dei più economici: 20 euro a prezzo pieno e 10 quello ridotto da marzo a ottobre, 12 euro e 6 da novembre a febbraio. Più 4 euro per “saltare la fila”. Più altri euro per il Giardino di Boboli. Come altri ce ne vogliono per visitare a gruppi il Corridoio Vasariano dei ritratti. Ma Schmidt è ottimista. Gli spazi del museo garantirebbero la compresenza di 900 persone con 22 mq a testa. “Ma dovremo dimezzare il numero massimo dei visitatori. Per il taglio ci aiuterà l’algoritmo, lo stesso usato per abbattere le code e gli assembramenti fuori e dentro il museo”. I capolavori sono stati divisi per evitare la calca davanti a loro. Certo le visite guidate non potranno essere quelle di prima, gli utenti dovranno scaglionarsi. Operazione che costringerà le guide ad alzare la voce? Non è proprio lo Slow Museum di cui parla il solerte direttore il quale poi annuncia mostre su mostre. Per chi?

Questa è la domanda generale in realtà. Del turismo e di quello culturale. Il pubblico normale degli Uffizi è per metà straniero. Quello del Colosseo o dei grandi Musei romani anche di più. Chi e come arriverà dall’estero nei prossimi mesi? Chi e come dalle stesse regioni italiane essendo alcune delle più “ricche” (vedi Lombardia e Piemonte) le più colpite dal virus? Discorso che si ripropone in modo anche più drammatico per Roma e per il suo turismo low-cost. Nel quale i Cinesi formavano una componente tanto consistente quanto “veloce”, 1 giorno e mezzo. In tutta Italia poi, 3 milioni di arrivi ormai e 5 milioni di presenze.