Io sto con Conte. Sia perché penso che, nella sostanza, egli abbia operato scelte giuste e spesso obbligate per fronteggiare la pandemia; sia perché le aspre critiche di cui è fatto oggetto da tanti, troppi, disparati e opposti fronti mi sembrano deboli o strumentali. Un assedio più che sospetto. Sto con Conte per il merito delle decisioni assunte da lui e dal governo, ma anche perché, dentro una sfida epocale e senza precedenti, è buona norma nutrire fiducia verso le istituzioni e chi, pro tempore, le rappresenta, al netto del colore politico. Si può discutere il loro operato, ma con senso della misura, senza indulgere a intenti disgregativi, non applicandosi a delegittimarle. È lo spirito d’una ben intesa unità nazionale invocato da Mattarella (e purtroppo poco raccolto da chi di dovere).
Che cosa si rimprovera a Conte? Confesso che non l’ho capito. Spesso dal medesimo versante politico o istituzionale un giorno gli si contesta una cosa, l’altro esattamente il suo contrario. Ma facciamo finta che, tra i critici, sia riscontrabile una qualche linea di coerenza decifrabile. Tre, mi pare, i rilievi: un deficit di coraggio nelle aperture della Fase2; una centralizzazione che mortificherebbe le autonomie territoriali; un accentramento delle decisioni al limite della lesione della Costituzione.
La cautela è un corollario del “principio di precauzione” abbondantemente prescritto dalla durezza oggettiva dei dati che descrivono la diffusione del virus e autorevolmente interpretati dal comitato tecnico-scientifico. Il quale, questa volta unanimemente, ha suggerito appunto prudenza e gradualità. Spiegando persuasivamente che siamo ancora dentro la pandemia. I critici, nel mentre invocano ulteriori aperture, furbescamente, si premurano di aggiungere il mantra “nel rispetto dei dispositivi di sicurezza”. Come se non vi fosse un oggettivo trade-off, un indice di rischio immanente a ogni allargamento, che dunque va ponderato seriamente.
La centralizzazione è misura obbligata per una emergenza di tale portata, contro la fiera dei particolarismi territoriali e settoriali. Un osservatore onesto dovrebbe semmai riconoscere i limiti del nostro regionalismo in materia sanitaria cui a tempo debito si dovrà rimettere mano. Lombardia docet. Altra e giusta cosa è – come si sta facendo – metter in conto un monitoraggio e un’articolazione territoriale concordata, connessa a oggettivi parametri circa la mappa della diffusione epidemica, di un indirizzo unitario che non può che esser assunto in sede nazionale.
Infine, l’accusa di bonapartismo. Francamente ridicola la rappresentazione del Conte dittatore. È evidente che, nello sviluppo imprevisto e accelerato della pandemia e del lockdown cui si è stati costretti (seguiti a ruota da tutti i paesi del mondo), si sia dovuto fare ricorso a strumenti normativi inusuali. Ma si è poi provveduto alla loro copertura legale con decreti legge vagliati dal parlamento e firmati dal Quirinale. La presidente della Consulta Cartabia, tirata in ballo, ha seccamente smentito una sua asserita censura al governo.
La cruda verità è che ci si vuole sbarazzare di Conte da parte di soggetti diversi e per ragioni diverse ma convergenti sul medesimo bersaglio. Attori economici che mal sopportano il primato della politica, deputata alla cura degli interessi generali, cui compete gerarchizzare quelli di parte. Gruppi editoriali vecchi e nuovi. E attori politici. Tra loro, oltre alle opposizioni, altri che semplicemente mirano a far fuori di Conte, vissuto come competitor su un’area politica che vorrebbero occupare. Renzi in primis, con il suo spregiudicato attivismo politico, che fa leva irresponsabilmente su un disagio reale del mondo produttivo. È riprovevole il cinismo di chi non si fa scrupolo di profittare del coronavirus per calcoli di bottega politica. Tanto più da posizioni di formale maggioranza, agendo sistematicamente da guastatore. Ormai la divisa di Italia viva, la sua natura, la sua sola missione. Si pensi alle giravolte di Renzi, che si improvvisa censore del leaderismo, arcigno custode degli equilibri della “vecchia” Costituzione, nemico del presunto populismo imputato a chi semmai sfida l’impopolarità, polemico verso la politica che dà ascolto alla scienza (quando lo vedremo passare ai no-vax?), sino al cattivo gusto di intestarsi il sostegno delle vittime del coronavirus. Ma sono insopportabili anche quei ciarlieri opinionisti che la buttano sul vero o presunto deficit di attitudine comunicativa di Conte, semplicemente perché non hanno il coraggio, oltre che gli argomenti, per confutare la sostanza delle scelte del governo. Su materia tanto grave, chi se ne frega della comunicazione. Conta cento volte di più il merito di decisioni tanto impegnative, sulle quali i corsivisti sapientoni brillano per ignavia e superficialità. Fanno gli spiritosi, cazzeggiano sulla difficoltà oggettiva di disegnare formule normative e linguistiche (tipo i “congiunti”) che sottendono dilemmi reali. Che poi il problema di Conte sia la comunicazione è circostanza smentita dai sondaggi che, a dispetto di scelte tanto dure, gli attribuiscono un alto indice di consenso. Anzi, l’impressione è che proprio tale consenso gli attiri l’ostilità degli attori politici che a esso affannosamente e vanamente mirano, rifuggendo con viltà quelle scomode responsabilità che lui si è assunto.
È nell’interesse del paese, in questo passaggio drammatico, aprire una crisi di governo al buio, essendo precluse nuove elezioni e problematico reperire in Parlamento altre maggioranze? Maggioranze verticalmente divise sul rapporto con la Ue, cruciale come non mai per fronteggiare la crisi e porre le basi per una ricostruzione d’immane portata.