Lo slow tourism e il futuro dei musei

Immaginate di ammirare la “Venere” di Botticelli da soli all’ora del crepuscolo, avere una Domus di Pompei tutta per voi o visitare la Cappella Sistina e il Cenacolo vinciano senza turisti impenitenti che schiamazzano e pensano solo a come posizionare il selfie stick. Fino a qualche tempo fa, sembrava un sogno. Oggi è una scelta obbligata. Quello dei musei e del turismo culturale è stato il primo settore a chiudere per l’emergenza covid-19 e sarà uno degli ultimi a riaprire. Dopo, solo i ristoranti e i parrucchieri. Il perché è facile capirlo: assembramenti, gruppi di turisti o scolaresche e lunghe code in attesa di entrare. Per almeno un anno, e forse di più, sarà tutto un lontano ricordo.

Dopo due mesi di lockdown obbligato, il settore del turismo è stato “il più colpito” come ha ammesso il premier Giuseppe Conte: secondo l’ultimo bollettino dell’Enit (Agenzia Nazionale Turismo), nel 2020 la spesa turistica in Italia vedrà un crollo di 66 miliardi di euro, di cui 46 dovuti al calo dei viaggiatori italiani e 20 di quelli stranieri. Poi ovviamente c’è tutto l’indotto – alberghi, ristoranti, consumi – che potrebbe far raddoppiare fino a 120 miliardi le perdite. A risentirne di più saranno le città che dipendono maggiormente dal turismo internazionale: rispetto al 2019 Venezia farà registrare un calo del 43,4%, Firenze del 36% e Milano del 25,8%. Secondo l’ente del turismo, per tornare alla normalità dovremo aspettare addirittura il 2023.

Nel frattempo se i musei non si sono mai fermati con iniziative social (gli Uffizi sono sbarcati addirittura su Tik Tok), guide virtuali e piattaforme dove portare il museo “a casa tua” (Pinacoteca di Brera, Museo Egizio di Torino e le Gallerie Estensi di Modena), entro maggio dovranno riaprire i battenti adeguandosi alle misure di sicurezza. La data cerchiata in rosso sul calendario è il 18 maggio ma in realtà è piuttosto indicativa: l’impressione è che musei e monumenti andranno in ordine sparso. “Noi siamo pronti a riaprire subito dal 18 – dice al Fatto Quotidiano il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt – abbiamo già tre mostre in allestimento”. Lo stesso potrebbero fare anche la Pinacoteca di Brera, i Musei Vaticani, Pompei e il Colosseo mentre altri, come il Museo Egizio di Torino, apriranno a inizio giugno. Ma come? Il primo accorgimento è quello di contingentare le entrate: meno ingressi, più spazi interni. L’idea è anche quella di eliminare completamente le code all’entrata: “Dovremo solo potenziare l’algoritmo che stiamo utilizzando da mesi in collaborazione con l’Università dell’Aquila – continua Schmidt – ogni turista che prenota la visita agli Uffizi riceve un codice, una data e un orario e basterà presentarsi a quell’ora evitando la coda. Questo ci permette di controllare gli ingressi e spalmarli durante tutta la giornata evitando assembramenti sia fuori che dentro il museo”. Ogni struttura e parco museale dovrà studiare una strategia calcolando una media di visitatori per sala o per area così da far rispettare la distanza di sicurezza di un metro e ottanta. Ovviamente il tutto regolato da una rete di videosorveglianza già esistente in grado di “scaglionare” le entrate.

Secondo le prime stime, per i musei più grandi (Vaticani e Uffizi) non entreranno più di 30/40 persone alla volta: “Grazie al nostro software, ogni visitatore ha 44 metri quadri a disposizione dentro il museo” spiega Schmidt. Al Cenacolo di Leonardo da Vinci non potranno entrare più di dieci persone e anche la Pinacoteca di Brera sta studiando come contingentare gli ingressi: “Dobbiamo pensare che il pubblico andrà rassicurato comunicando che a Brera si è più sicuri e lontani dal rischio di infezione – assicura il direttore James Bradburne – Brera dovrebbe essere un’isola di tranquillità”. Anche per il Museo Egizio di Torino si potrà solo prenotare online e gli ingressi saranno scanditi a intervalli temporali (ogni 7 minuti circa), mentre a Pompei alcune Domus che non permetteranno di rispettare le distanze saranno chiuse al pubblico.

A cambiare poi saranno soprattutto le modalità di fruizione. Se tutto dovrebbe rimanere uguale per i grandi monumenti all’aperto come il Colosseo o Pompei, quelli al chiuso stanno programmando nuovi percorsi per evitare assembramenti. I Musei Vaticani resteranno chiusi la mattina e apriranno il pomeriggio e la sera, mentre se le audioguide al momento non saranno utilizzabili, l’idea è quella di cambiare i percorsi interni delle mostre: “La disposizione delle sale sarà diversa – annuncia il direttore degli Uffizi – ci sarà una ‘social distancing’ anche tra le opere più famose dove spesso si accalcano più persone”.

Poi c’è la questione delle norme di sicurezza. Confcultura nei giorni scorsi ha stilato un vademecum di regole da rispettare: tra queste il distanziamento sociale, il lavaggio frequente delle mani, l’utilizzo di gel disinfettanti e delle mascherine. In ogni sala ci dovranno essere erogatori di gel disinfettante e l’areazione interna dovrà avvenire di frequente. Tutto questo senza mettere in pericolo le opere all’interno delle sale. Al Cenacolo di Santa Maria delle Grazie a Milano, per esempio, è obbligatoria la sanificazione da polveri e impurità e per questo gli ingressi potrebbero essere dimezzati. Anche se non sarà obbligatorio, alcuni musei – Vaticani e Uffizi – stanno già installando dei termoscanner all’ingresso per misurare la temperatura corporea dei visitatori.

Nonostante la crisi economica e l’incertezza sul futuro, secondo i direttori dei musei più importanti d’Italia l’emergenza potrebbe trasformarsi in una grande opportunità per il turismo italiano: “È vero, non avremo più un milione di visitatori quest’anno e abbiamo già perso 10 milioni di euro – spiega Schmidt – ma questi mesi saranno come quelli del post-alluvione di Firenze del 1966 e della bomba di via dei Georgofili del 1993: quando ci sarà il vaccino, tornerà a esplodere il turismo di massa e dovremo farci trovare pronti. Dobbiamo ripensare a un modello nuovo: quello che io chiamo lo slow tourism”. Insomma, tra la Firenze che muore di troppi turisti e quella che muore perché non ce ne sono più, andrà trovata una via di mezzo. Una posizione condivisa dal direttore di Brera, Bradburne: “La crisi è anche un’opportunità per riflettere e ripensare cosa è un museo e cosa è una biblioteca, ma sempre tenendo fermi i nostri valori” dice. E come? “In questi mesi avremo solo visitatori italiani ma quando torneranno i flussi esteri dobbiamo cercare di ridurre il turismo ‘mangia e fuggi’ incentivando la fruizione del museo in più giorni, le visite legate ad altri luoghi della città e la valorizzazione della cultura locale”. L’esempio è piuttosto emblematico: “Secondo i nostri dati solo il 5% di chi viene a vedere il Rinascimento degli Uffizi va a visitare anche il Museo di San Marco – conclude Schmidt – e poi il turista di Monaco che arriva a Firenze e va a mangiarsi la pizza e a bersi una birra, invece di gustarsi una bistecca con un bicchiere di rosso, ha già sbagliato tutto. Se riusciremo a vincere questa sfida potremo uscire più forti da questa crisi”.

“Chi può essere così stupido da fare una crisi di governo?”

“Non andrà tutto bene e non torneremo come prima”. Gianfranco Pasquino si muove tra un ragionamento e l’altro con ampio ricorso all’ironia. Non è appassionato della retorica anti-virus, sorride degli slogan di questi giorni. “Primo: non è andato tutto bene, non va tutto bene, è difficile che andrà bene in futuro. Secondo: non torneremo come prima. Abbiamo perso denaro, speranze, opportunità. E non deve tornare come prima: non voglio tornare all’Italia dei processi per corruzione, del dominio della criminalità organizzata, dell’evasione fiscale di massa. Non tornerà tutto come prima: spero proprio di no. Spero che si faccia tutto meglio”.

C’è chi accusa il governo di calpestare le garanzie costituzionali. Cito Matteo Renzi: “Nemmeno durante il terrorismo abbiamo derogato così tanto alla Costituzione”. Concorda?

Scriva che la risposta inizia così: Pasquino sospira profondamente… No, non concordo. Sono esagerazioni, errori, provocazioni che possono provenire solo dall’ex segretario del Pd. Ha il dente avvelenato ed è in costante ricerca di pubblicità.

Secondo lei Conte non ha commesso nemmeno una forzatura?

Chi sa interpretare la Costituzione spiega questo: ci sono delle azioni che stanno dentro la Carta, altre che sono fuori dalla Carta (ma senza arrecarle danno) e altre ancora che invece le vanno contro. Nel peggiore dei casi – e io non concordo con questa tesi – i decreti del presidente del Consiglio possono essere considerati extra-costituzionali. Peraltro i dpcm sono stati raccolti in un testo che sarà sottoposto al voto del Parlamento. Siamo seri: è incredibile pensare davvero che Conte stia scivolando verso una deriva autoritaria.

Riconoscerà che c’è un aumento del controllo e della pressione dello Stato sulle libertà individuali. Non la preoccupa?

Penso che sia sempre legittimo preoccuparsi delle proprie libertà, ma credo pure che si debbano considerare le libertà degli altri. Il limite è sempre quello: posso rivendicare il mio diritto a circolare liberamente se mette in pericolo il diritto alla salute di chi mi sta vicino? Le scelte del governo mi paiono giustificate e giustificabili.

Sono anche giuste, oltre che giustificabili?

Alcune cose si potevano fare meglio. Alcune decisioni potevano essere modulate in modo diverso. Ma sarebbe servita una grandissima capacità, che temo la burocrazia italiana non abbia. Vista la gravità della situazione, meglio essere più rigidi piuttosto che più flessibili.

Almeno sulla comunicazione il governo poteva lavorare meglio, non crede?

Avrei preferito che il presidente del Consiglio comunicasse meno, e magari in orari più consoni. Nel complesso però il tono di Conte mi è parso buono: è sfuggito sia alla retorica dell’esagerazione sia al vittimismo di spostare la responsabilità su altri. E poi mi chiedo: qualcun altro ha comunicato meglio di Conte? O avrebbe potuto comunicare meglio?

Salvini ha “occupato” il Parlamento.

Segno di un nervosismo clamoroso. Era stato beffato dal flash mob della Meloni, ha dovuto alzare l’asticella, ma non mi pare un gran gesto. La sua macchina della comunicazione ha perso originalità, è capace solo di una propaganda aggressiva. In questa situazione invece servono empatia e condivisione del dolore. Non si guadagna consenso attaccando il governo.

Ne è così sicuro? Nei retroscena dei quotidiani è un gran scrivere di “unità nazionale”, un governo nuovo per sostituire Conte. Non ci crede?

Io non metto in dubbio che ci sia qualcuno che ritenga necessario sostituire Conte. Però penso che sbagli. Il premier ha un indice di gradimento molto alto, non è facile nemmeno immaginare una figura di quel genere, ha dimostrato capacità notevoli in questa fase. E poi attenzione: sostituire Conte significa aprire una crisi di governo. Chi può essere così stupido da provocare una crisi di governo nel pieno di un’emergenza tremenda?

Sono sicuro che qualcuno le viene in mente.

Ma ci sono delle difficoltà che è impossibile ignorare. Una nuova maggioranza deve passare attraverso il Movimento Cinque Stelle. E i grillini non sono disponibili a sostituire Conte. In questa fase evocare la crisi è un discorso pazzesco, che possono permettersi solo alcuni editorialisti e commentatori che non sanno scrivere di altro.

Sta di fatto che si parla e si scrive tanto di Mario Draghi.

La figura di Draghi pesa: ha statura, visibilità, competenza. Io lo conosco personalmente, almeno un po’, e non mi pare proprio che abbia l’ambizione di essere preso da qualcuno e piazzato a Palazzo Chigi.

Però il suo intervento nel dibattito sulla crisi è stato significativo. E non ha mai smentito queste voci.

Il suo articolo sul Financial Times serviva – e in parte c’è riuscito – a orientare la politica della Commissione europea. Poi sono convinto che non smentisca le voci su di lui perché non vuole alimentare con il chiacchiericcio politico: sta zitto perché non vuole essere coinvolto. E credo sappia benissimo che guidare un paese è molto diverso da amministrare una banca centrale. Non lo vedo premier ora, ma potrebbe essere un eccellente candidato alla presidenza della Repubblica nel 2022. La sua figura avrebbe un peso nel quadro europeo.

La politica è diventata subalterna di tecnici e scienziati?

No. È diventata consapevole di una verità importante: le competenze scientifiche sono irrinunciabili perché i politici facciano scelte corrette. Se i tecnici e gli scienziati sono bravi, il loro lavoro è fondamentale per indicare il costo di una scelta pubblica. È un passo avanti, non una rinuncia all’autonomia.

App: i precedenti (brutti) di Colao, Mister Task Force

La task force nazionale per la ripartenza nella fase 2 della pandemia di coronavirus ha scelto. L’app di contact tracing che gli italiani potranno scaricare volontariamente per mappare i possibili infetti e i loro contatti non sarà basata sul sistema centralizzato europeo del Consorzio Pepp-Pt, come sinora pareva certo, ma verrà gestita dal protocollo decentralizzato europeo Dp-3t. Così i dati di identità, invece che raccolti sempre su server centrali, saranno archiviati localmente sugli smartphone e inoltrati ai server solo se l’utente confermerà di essere positivo al Covid-19. Il ribaltamento di approccio, che ha convinto anche la Germania, è stato fortemente voluto da Apple e Google ma viene salutato con favore anche dalle associazioni per la privacy e le libertà fondamentali.

Dietro questa svolta però c’è un problema ben noto a Vittorio Colao, l’ex amministratore delegato del gigante mondiale delle telecomunicazioni Vodafone che oggi è a capo della task force che finisce il suo lavoro oggi. È il fenomeno dei data breach, le violazioni dei dati digitali di clienti o utenti che colpiscono i sistemi informatici di aziende, istituzioni, Governi. I data breach sono violazioni di sicurezza che causano – per caso o in modo illecito – la distruzione, perdita, modifica, divulgazione non autorizzata o l’accesso a dati personali e ne compromettono la riservatezza, integrità o disponibilità. Tra le tipologie più comuni ci sono quelle dovute a negligenza o errori dei dipendenti, attacchi o furti da parte del personale interno o di hacker esterni, smarrimento di apparecchiature, accessi non autorizzati, esposizione casuale dei dati, ransomware (ricatto informatico) o phishing, raccolta truffaldina di informazioni.

La violazione dei dati, come il coronavirus, è un’epidemia in crescita che ha costi stellari. Si prevede che quest’anno nel mondo i data breach costeranno oltre 1.900 miliardi a società e istituzioni colpite. Ogni caso d’altronde causa in media danni per 140 milioni a società colpita, tra spese informatiche, perdita di clienti e impatto reputazionale. Se si violano le regole europee, poi, i data breach possono causare multe enormi. Nel 2019 Google ne ha subita una da 50 milioni di dollari dalla Ue. Ma le sanzioni possono salire fino al 4% del fatturato annuo di un’azienda. Alphabet, la holding che controlla Google, nel 2019 ha fatturato 147,3 miliardi: dunque in teoria un data breach potrebbe costarle sino a 5,9 miliardi.

D’altronde il fenomeno è esplosivo. Secondo un database che raggruppa le violazioni di dati che hanno colpito almeno 30mila utenti, dal 2004 a oggi si sono verificati almeno 313 episodi, due terzi dei quali negli Usa, con la perdita di informazioni di almeno 15,6 miliardi di clienti. Ma la cifra è enormemente sottostimata perché mancano tutti i casi che non sono stati resi noti o non sono stati censiti. Le cinque maggiori violazioni della storia, secondo Cnbc, sono state quella di Yahoo che tra il 2013 e il 2014 ha visto alcuni hacker impossessarsi dei dati di 3 miliardi e mezzo di utenti, dell’assicurazione americana First American Financial nel 2019 (885 milioni di file), di Facebook sempre l’anno scorso quando per una falla di sicurezza furono svelati 540 milioni di dati, degli alberghi Marriott, 500 milioni di informazioni colpite nel 2018 per hacking, e di Friend Finder, società di dating online, che nel 2016 perse 412,2 milioni di dati. A luglio scorso, il data breach che ha colpito 100 milioni di americani e 6 milioni di canadesi titolari di carte di credito Capital One non è nemmeno entrato nella top ten dei casi maggiori. I data breach per il 56% sono dovuti ad attacchi di hacker, per il 15,7% a smarrimento o furto di supporti informatici e solo per il 12,8% a falle nella sicurezza informatica interna di aziende e istituzioni.

Sebbene le società di tlc siano colpite sono dal 4,5% di tutte le violazioni di dati note, vista la mole dei loro clienti i numeri sono impressionanti. A novembre 2016 la Tre nel Regno Unito vide diffusi i dati di 133mila clienti. A ottobre 2017 un data breach in Malesia colpì 46 milioni di utenti. Ad agosto 2018 T-Mobile, controllata di Deutsche Telekom, subì il furto delle informazioni di 2 milioni di clienti. L’anno scorso a maggio Freedom Mobile, in Canada, perse i dati di 5 milioni di clienti; a luglio fu la volta della società Usa Sprint; a novembre tornò nel mirino T-Mobile (oltre 1 milione di clienti colpiti) insieme all’indiana OnePlus. Quest’anno a marzo è toccato alla britannica Virgin Media (900mila clienti) ma il caso limite, ad aprile, è stato il gigantesco data breach che in Pakistan ha visto mettere in vendita sul dark web i dati di 115 milioni di utenti delle tlc.

Nemmeno Vodafone, negli anni in cui Colao ne era amministratore delegato, è riuscita a restare immune alle violazioni. Nel 2011 in Australia un database dei suoi clienti rimase accessibile a terzi e a settembre 2015 alcuni giornalisti australiani svelarono che sin da gennaio 2011 i loro dati in mano a Vodafone erano stati diffusi, tanto che se ne parlò persino all’Onu. A settembre 2013 in Germania un data breach colpì 2 milioni di clienti dell’azienda. Nel 2014 in Nuova Zelanda password e credit card dei clienti della società di tlc finirono visibili a terzi. Altri casi si verificarono a novembre 2015 nel Regno Unito e a settembre 2017 ancora in Nuova Zelanda per una vulnerabilità nella app della società.

Eppure, dopo i data breach delle società web (16,9% di tutte le violazioni), sono proprio i Governi (13,7%) e le aziende sanitarie (13,4%) le istituzioni più colpite dalle violazioni. Di certo è anche per questi motivi che la task force pubblica ha pensato bene di realizzare un’app italiana di tracciamento anti-Covid-19 basata su sistemi decentralizzati.

Export bloccato, ma Arcuri salva la ditta Usa

Durante l’emergenza Covid, il governo ha stabilito che le aziende produttrici di apparecchi sanitari necessari alle terapie intensive dovessero vendere solo in Italia, bloccando così le esportazioni all’estero a meno di particolari autorizzazioni. L’obiettivo era di non disperdere preziosi macchinari mentre i reparti erano in crisi. Eppure il 30 marzo scorso, ancor prima che si invertisse il trend di crescita delle terapie intensive, il commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri intervenne per sbloccare i sequestri a danno della Medtronic, multinazionale americana della tecnologia medica con uno stabilimento a Mirandola, in Emilia.

Lo racconta Report nella puntata che andrà in onda questa sera su Rai Tre, in cui si spiega come Arcuri abbia scritto una lettera rivolta alle Dogane, al segretario generale di Palazzo Chigi Roberto Chieppa, al capo di Gabinetto della Farnesina Ettore Francesco Sequi e al capo di Gabinetto del ministero dei Trasporti Alberto Stancanelli, con la richiesta di “non procedere ad alcuna requisizione pro futuro” della merce di Medtronic per “indifferibili e superiori interessi nazionali”.

Eppure l’azienda era già stata coinvolta in alcuni incidenti. Il 17 marzo, a Bologna, la Procura apre un’inchiesta a carico di Philip John Albert, il legale rappresentante di Medtronic, in occasione del sequestro di una partita di attrezzatura medica che la società voleva esportare in Sudafrica. Il 27 marzo c’è un’altra requisizione, questa volta a Genova. E qui interviene Arcuri.

Il 30 marzo il commissario straordinario chiede di revocare la requisizione e consegnare la merce all’esportatore. Ma è troppo tardi, perché i macchinari sono stati già distribuiti, come da prassi, agli ospedali più in difficoltà. A quel punto Arcuri scrive la lettera già citata, chiedendo di non intervenire più nei confronti dell’azienda. E in effetti una decina di giorni più tardi da Genova parte un carico di tubi per respiratori prodotti da Medtronic con destinazione Brasile, senza che nessuno intervenga per bloccare l’esportazione.

L’azienda, interpellata da Report, si difende dicendo che i precedenti sequestri erano stati frutto di un errore, perché quella merce non era sottoposta a restrizioni.

Resta però il dubbio sulla lettera di Arcuri: quali interessi nazionali “indifferibili e superiori” esistono per consentire a un’azienda americana di esportare, proprio mentre le terapie intensive italiane sono in emergenza? Alla domanda su una eventuale “pressione diplomatica” Medtronic non risponde. Arcuri, invece, abbozza una difesa: “Io ho il dovere prima di verificare che questi pezzi sul nostro territorio esistano in una quantità sufficiente per far funzionare i ventilatori. Vorrà dire che mi sarò sincerato che dal 1 aprile queste quantità siano sufficienti. Forse avevamo pezzi di ricambio sufficienti per non bloccare le produzioni verso l’estero”.

Un azzardo, però, autorizzare “pro futuro”? Arcuri non vede il problema: “Se io mi dovessi accorgere che questo materiale è scarso, domani faccio un’ordinanza e sequestro di nuovo i beni”.

Konrad, elemosiniere del Papa: “Aiuto tutti, non giudico nessuno”

Il primo maggio il cardinale Konrad Krajewski è andato a Ostia Lido. Al posto di blocco l’hanno trattenuto quasi per un’ora. Era un giorno di festa, il mare era già vicino. Don Corrado, così si fa chiamare, non indossava la porpora né lo zucchetto, guidava un furgoncino con un carico di alimenti. Agli agenti ha mostrato la targa vaticana, il passaporto diplomatico, un foglio ormai stropicciato con l’autocertificazione: aiuto ai poveri.

Elemosiniere apostolico è il mestiere di don Corrado. Secondo l’ultima riforma costituzionale, la “Pastor Bonus” promulgata trent’anni fa da Giovanni Paolo II, l’elemosiniere fa carità nel nome del Santo Padre.

Il 3 agosto 2013, alle fondamenta del pontificato, Francesco assegnò il compito al polacco Konrad, classe ’63, un sacerdote che prestava servizio all’ufficio per le celebrazioni liturgiche, poi in settembre fu consacrato arcivescovo e, due anni fa, elevato a cardinale. Rango mai raggiunto da un elemosiniere in oltre otto secoli di storia: “Il Papa mi ha affidato una missione precisa: dare conforto ai più deboli. E la mia missione è assolta quando il conto in banca e la riserva in magazzino sono vuoti. Il Vangelo mi porta da chiunque chiami senza giudicare nessuno”, dice di sé don Corrado, che esercita l’incarico con spontanea veemenza.

Ciò lo porta a suscitare sentimenti opposti, fra chi lo venera come intrepido salvatore degli ultimi e chi lo biasima per i comportamenti eccentrici. Fino alla settimana scorsa era il cardinale che si calò in un pozzetto di un palazzo occupato per riallacciare l’energia elettrica e divenne gustosa preda mediatica dell’allora ministro Matteo Salvini, adesso è il pupillo di Jorge Mario Bergoglio che “finanzia” le prostitute transessuali del litorale laziale in disgrazia perché a secco di clienti con la pandemia.

Il cardinale Krajeswski, però, non è un personaggio letterario che a volte compie azioni spettacolari per sfidare la legge. È il capo – il più visibile, certo – di una struttura legata al pontefice, estranea al governo curiale, una sorta di pronto soccorso per chi ha bisogno: fornisce pasti, docce, vestiti ai senzatetto, denaro per affitti alle famiglie, paga gli studi ai ragazzi, accoglie chi ha freddo.

L’Elemosineria gestisce un flusso di segnalazioni che dai sacerdoti passa ai vescovi e dai vescovi arriva ai collaboratori di Krajeswski. Per il tramite di don Corrado, invece, Francesco ha inviato respiratori ospedalieri in Romania, a Napoli, a Padova, a Lecce, a Locri. Per il cardinale – e il concetto vale anche per Francesco – la carità non sussiste con i limiti. Va concessa a tutti: “Il Vangelo non fa distinzioni. Io rispondo sempre, non misuro la fede, non punisco i peccatori, non premio i veri cattolici”.

La pandemia ha allargato la voragine dei poveri, chi era ai bordi ci è caduto dentro: lavori precari, lavori in nero. Ogni sera don Corrado consegna trecento pacchi di viveri alla comunità di Sant’Egidio per chi si rivolge alla parrocchia romana di Santa Maria in Trastevere: “È gente che ha una casa, ma niente in frigo. Non sappiamo chi sono, soltanto che hanno lo stomaco da riempire”. L’Elemosineria ha donato più di 4 milioni di euro l’anno scorso. In gran parte i soldi sono ricavati dalla vendita nel mondo delle pergamene con la benedizione apostolica.

Francesco intende ampliare l’attività dell’Elemosineria. La riforma del “Pastor Bonus”, che sarà il lascito alla Curia di Bergoglio, prevede la nascita di un dicastero per la povertà e, di conseguenza, maggiori risorse. Più capitali da spendere, sottratti ad altri e ricollocati su indicazione del sommo pontefice. Il ministro, è scontato, sarà don Corrado.

Questo scenario in Vaticano sollecita le consuete guerriglie per il potere. Non stupisce che il cardinale polacco sia inviso agli oppositori di Francesco. E lui, don Corrado, se ne infischia. Si ritiene dalla parte giusta della Chiesa. “Il tempo dell’oro appeso agli abiti talari è finito”, pare che ripeta spesso, però sottovoce.

Calenda sorpassa Renzi (in retromarcia)

I sondaggi non sono sempre la verità ma aiutano a orientarsi, a interpretare i movimenti sotterranei che scuotono il grande ventre dell’opinione pubblica. Non bisogna prenderli troppo sul serio però sono utili a farsi un’idea. Tra i numeri diffusi in queste settimane di quarantena ci sono alcune tendenze nitide: il consenso personale alto di Giuseppe Conte, il balzetto in avanti dei 5Stelle, il buon momento del Partito democratico, il calo evidente della Lega e di Salvini, le percentuali lusinghiere di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia.

Tra i fenomeni rilevanti c’è l’ascesa di Luca Zaia, governatore leghista del Veneto: mentre il capo del suo partito si diletta tra occupazioni estemporanee del Senato e dirette Facebook dalla cucina di casa in cui canta gli 883, Zaia sta governando uno degli epicentri del Coronavirus con pragmatismo e risultati tangibili.

Poi c’è il fondo della classifica, con numeri drammatici. I sondaggi potranno pure sbagliare, ma concordano tutti sullo stesso fatto: il gradimento di Renzi è per distacco il più basso di tutto l’arco costituzionale.

L’impopolarità dell’ex premier ha assunto proporzioni bibliche. Da qualunque sondaggio lo si osservi, Renzi è sempre ultimo: arriva dopo Mattarella, Conte, Salvini, Meloni, Zingaretti. Ma pure dopo Berlusconi, Franceschini, Speranza, Bellanova (sua compagna di partito), Bonafede, Fontana.

Gli ultimi numeri hanno sancito lo smacco finale: Renzi è più impopolare di Calenda. In fondo a destra, nel derby tra i moderati dall’ego pronunciato, è avvenuto il sorpasso. Ad attestarlo – come nei peggiori contrappassi – è il sondaggione domenicale di Ilvo Diamanti su Repubblica, il giornale che per lungo tempo è stato il carburante cartaceo del renzismo. Italia Viva è sempre più irrilevante, si muove attorno alla soglia del 2%, saldamente al di sotto di qualsiasi soglia di sbarramento di ogni possibile sistema elettorale.

I numeri dicono questo: più Renzi polemizza, più cerca visibilità, più si arrampica su formule imbarazzanti come nell’ultimo intervento al Senato – “Se i morti di Bergamo e Brescia potessero parlare, ci direbbero di ripartire” – più i suoi sondaggi si avvitano in un declino interminabile.

Scrive Diamanti, inclemente: “Il partito di Renzi, poco sopra il 2%, più che un ‘partito personale’ appare un partito – e un leader – senza persone. Senza elettori”. Un epitaffio, una sentenza definitiva. Che non è basata sulle sensazioni, sul pregiudizio politico, ma sulle cifre dei sondaggi. Qui citiamo quello di Demos, commentato da Diamanti: il gradimento di Calenda è al 32 per cento, quello di Renzi al 20 (a marzo era al 25). Nel sondaggio Italia Viva è al 2,2% (un mese fa era al 3,3), mentre Azione, il partito di Calenda guadagna mezzo punto e sale al 2,5.

“Non sai chi sono io”: multa con lite all’uomo di Zinga&C.

“Le normative le scrivo io… tu non sai chi sono io”. Così Albino Ruberti, capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla Regione Lazio, avrebbe pronunciato il 1° maggio all’indirizzo di alcuni poliziotti del commissariato Porta Maggiore, che avevano contestato a lui e alla consigliera regionale del Pd, Sara Battisti, il mancato rispetto dei decreti sul distanziamento sociale. Ruberti e Battisti erano a pranzo a casa di Andrea Pacella – consigliere politico della ministra dei Trasporti, Paola De Michelis – e del suo compagno, nel quartiere Pigneto di Roma. Per loro è scattata la sanzione amministrativa di 400 euro a testa. “Era un incontro di lavoro”, assicura Ruberti, interpellato dal Fatto Quotidiano, dovuto al fatto che “la mattina il ministero aveva richiesto il supporto della Protezione civile regionale sul fronte dei trasporti” e dunque “avevamo necessità di scambiarci valutazioni”. Nel verbale di consegnato a Ruberti, gli agenti affermavano che “si trovava in un’abitazione di un amico a consumare il pranzo”.

In effetti il pranzo c’è stato. A latere delle questioni lavorative, infatti, i quattro si sono concessi cinque menù di pesce da 40 euro l’uno, consegnato in delivery, a base di ostriche David Hervé, crudité, frittura di calamari e porchetta di tonno. Una “piccola concessione” dopo “60 giorni di lavoro duro in Regione”. A pranzo, sul terrazzo di via Macerata, “è scattata anche una chiacchiera… ci può essere la battuta, la risata, un po’ di musica”, conferma Ruberti. Situazione che ha indispettito i vicini, i quali non riconoscendo i commensali ospiti hanno chiamato la polizia. Gli agenti del commissariato Porta Maggiore sono accorsi. A questo punto, il braccio destro di Zingaretti sarebbe sceso dall’abitazione avvicinandosi ai poliziotti – secondo questi ultimi “con atteggiamenti irrispettosi” e “senza mascherina e senza rispettare la distanza di sicurezza” – e avrebbe pronunciato la frase “tu non sai chi sono io”. “Non sono parole che mi appartengono – replica Ruberti – volevo solo spiegare che era un incontro di lavoro e qual era il mio ruolo”. E aggiunge: “Gli ho dato del tu perché li ho visti giovani, poi mi sono subito corretto”. La cosa ha però indispettito gli agenti, che hanno contattato la sala operativa chiedendo l’intervento di un ufficiale di polizia giudiziaria, un commissario.

Qui è entrata in gioco anche Sara Battisti, residente a Fiuggi (Frosinone) ma domiciliata a Roma dall’inizio della pandemia. Secondo il racconto degli agenti ai propri superiori, la 39enne consigliera regionale, vicepresidente della commissione Affari costituzionali, avrebbe affermato: “Sono un consigliere regionale, fatemi il verbale”, mentre “con forza sbatteva il documento sulla macchina della polizia”. Battisti non ha risposto alle nostre telefonate. Abbiamo chiesto una versione dell’accaduto a Ruberti. “C’è stato un atteggiamento un po’ aggressivo anche da parte degli agenti – afferma – che volevano contestarle la presenza in un altro Comune”. Un alterco, stando al racconto del capo di gabinetto, “che però si è tenuto con toni civili, nonostante il nervosismo”. E dice: “Credevo di essere stato rispettoso, non credo di aver offeso gli agenti”.

Secondo Fonti di polizia “per adesso” a Ruberti è stata comminata soltanto la sanzione amministrativa, la Questura valuterà le relazioni degli agenti. “Sono molto tranquillo, c’erano numerosi testimoni”, dice il dirigente. La Regione Lazio chiarisce che “non è previsto alcun rimborso per il pranzo”, mentre il capo di gabinetto dice: “Mi scuso per la leggerezza”.

Ruberti, 52 anni, figlio dell’ex ministro ed ex rettore della Sapienza Antonio noto per la riforma universitaria contestata dal movimento della Pantera nel 1990, è al fianco di Zingaretti dal 2018. È stato per oltre 10 anni presidente di Zetema, società del Comune di Roma che organizza eventi culturali. È stato in Campidoglio dai tempi di Rutelli ad Alemanno, passando per Veltroni. Due anni fa era stato preso di mira dagli animalisti per aver “difeso” con “qualche colpo proibito” il palco di Zingaretti.

“Classi alterne solo per i grandi. Chi critica fece tagli alla scuola”

La scuola chiusa, i genitori che dovranno riprendere a lavorare e l’incertezza sulla durata di questa situazione: almeno un italiano su due, da oggi, avrà bisogno di risposte e di un quadro ben delineato.

Ministra Azzolina, che scuola devono aspettarsi i ragazzi a settembre?

Intanto è necessario capire la gravità della situazione: un’emergenza senza precedenti ha investito un settore per molti versi scoperto, per anni abbandonato. Tanti tra chi oggi fa polemica sulla scuola, fino a poco tempo fa se ne disinteressavano. Altri sono autori materiali dei tagli lineari che hanno squassato il sistema. Ora servono onestà e collaborazione: cavalcare il malcontento è facile, meno mettere insieme il puzzle di decisioni che porterà a settembre.

L’idea è alternare la presenza a scuola degli alunni: di cosa ci sarà bisogno?

Questa ipotesi riguarda i ragazzi più grandi, una fascia di età che non metterebbe in difficoltà le famiglie. Sulle tecnologie, abbiamo già investito 165 milioni di euro per la didattica a distanza, ora stiamo facendo una ricognizione per capire dove intervenire ancora. In 2 mesi abbiamo accelerato su digitale ed edilizia. Chiederemo altre risorse.

E i più piccoli?

Dovremo immaginare altri spazi oltre quelli tradizionali: la scuola potrà aprirsi al territorio. Sfruttare parchi, ville, teatri, spazi di associazioni e realtà che collaborano già con le scuole. Non significherà perdere di vista gli obiettivi educativi, ma andare oltre il perimetro degli edifici e immaginare una scuola nuova. Al Miur, un gruppo di altissimo livello guidato dal professor Patrizio Bianchi si sta riunendo notte e giorno e avremo a breve le prime proposte, modulate sulle diverse fasce di età e sulle specificità dei territori. Stiamo immaginando non solo come uscire dalla crisi ma anche come costruire una scuola migliore.

Edilizia scolastica: è il primo ostacolo al distanziamento sociale. Qual è il problema?

Aver tagliato i fondi per anni. Fra chi oggi critica c’è anche chi non ha fatto abbastanza quando poteva. Stiamo accelerando, comunque, guardando a settembre e alla scuola dei prossimi anni. Molti cantieri partiranno a breve.

Lei ha sempre lottato contro le classi pollaio: porterà avanti questa sua battaglia ora che diventa, oltretutto, fondamentale?

Chi due anni fa derideva la mia proposta di legge sulle classi pollaio oggi urla contro le classi pollaio. Aver mantenuto l’organico dei docenti invariato ci permetterà di avere meno alunni per classe, ma certamente non basta. La proposta di legge è in Parlamento e può essere portata avanti.

Docenti e genitori: sono fondamentali parti in causa.

Sento di dover ringraziare i docenti e tutti gli assistenti tecnici che si sono spesi per la didattica a distanza. E di rassicurarli: nessuno chiederà loro un aumento delle ore frontali. I genitori…beh, sono stati protagonisti di queste settimane. Hanno supportato la didattica a distanza e fatto sacrifici. Dobbiamo accompagnarli nella fase 2. Soprattutto le donne, non devono pagare il prezzo di quest’emergenza. Ci stiamo lavorando con la ministra Bonetti.

Siete pronti anche a nuovi picchi di contagio?

Sarebbe irresponsabile non prevedere tutti gli scenari.

Vi preoccupa la possibilità che l’anno, come lo scorso, inizi senza abbastanza professori e con i supplenti?

Stiamo lavorando proprio per assumere i precari, già da settembre, con il concorso straordinario per la scuola secondaria. Il quadro che avremo a settembre non dipende dal ministro che oggi siede a Viale Trastevere, è frutto di anni di mancate scelte. Se le supplenze sono esplose è perché non si sono più fatti i concorsi e non si è mai fatta programmazione.

Serviranno concorsi rapidi, dunque…

Certo non posso risolvere in pochi mesi problemi di anni, ma rivendico la volontà di fare i concorsi e occupare le cattedre vuote e di continuare a specializzare docenti sul sostegno. Uscendo dall’emergenza, poi, va pensato, insieme alle forze che compongono la maggioranza e alle parti sociali, un piano per i prossimi anni su reclutamento e formazione dei docenti”.


La Francia ha prima annunciato la riapertura poi fatto in parte retromarcia, sui licei ad esempio. Che differenze con la nostra situazione?

Sono paragoni sempre complicati da fare. Quell’annuncio in Italia è stato sventolato per giorni come prova della nostra inefficienza. Poi quando il governo francese ha cambiato idea, nessun commento. Poco male, fa parte di un dibattito non sempre serio a cui siamo abituati. Conosco il ministro Blanquer e so che sta facendo un gran lavoro. Tra l’altro ha proposto per settembre misure simili alla didattica mista di cui ho parlato io in questi giorni. Eppure, stavolta non ho letto alcun paragone con la Francia.

Ultima domanda, maturità: quando gli ultimi dettagli?

In settimana sarà pronta l’ordinanza con tutte le misure.

Mike Pompeo: “Il virus è partito da Wuhan, ci sono le prove”

Il coronavirus arriva dal laboratorio di Wuhan”. Dopo l’ipotesi rilanciata qualche giorno fa da Donald Trump – e seccamente smentita dall’Oms oltre che da Pechino – oggi è stato il ministro degli Esteri americano Mike Pompeo ad indicare nell’istituto di virologia della città cinese epicentro della pandemia mondiale l’origine di tutto. In un’intervista alla Abc, il segretario di Stato Usa ha parlato di “enormi prove” a disposizione: “Noi sosteniamo dall’inizio che il virus è originato lì. Ora l’intero mondo può vederlo”.

Le accuse di Pompeo piovono mentre sui media internazionali filtra un rapporto degli 007 della Five Eyes nel quale si punta il dito contro Pechino per aver mentito sull’origine del Covid-19. Nel documento di 15 pagine, la coalizione delle intelligence americana, inglese, canadese, neozelandese e australiana descrive i tentativi iniziali del regime di minimizzare il virus, cercando di insabbiare le tracce tramite la censura. Già agli inizi di dicembre, sostiene il rapporto degli 007, la Cina sapeva che il virus poteva essere trasmesso da uomo a uomo e aveva iniziato a limitare le ricerche online sulla nuova misteriosa polmonite. E mentre diceva al mondo che le restrizioni ai viaggi non erano necessarie, Pechino aveva bloccato gli spostamenti al suo interno.

La Cina “ha fatto di tutto per assicurarsi che il mondo non sapesse del virus in modo tempestivo. Questo è un classico tentativo di disinformazione comunista”. Pechino, ha incalzato ancora, “ha agito come fanno i regimi autoritari”, scatenando così “una crisi enorme”.

All’interno dell’amministrazione Usa si fa dunque sempre più largo la convinzione che la Cina, con il suo atteggiamento, sia direttamente responsabile della pandemia che ha fermato il mondo intero. E proprio per questo il presidente americano non ha escluso nei giorni scorsi la possibilità di nuovi dazi contro il Made in China per farla pagare a Pechino.

L’allarme in Calabria: 6.500 decisi a tornare e Jole non ha tamponi

Più di 6.500 richieste, di queste oltre 3.500 pratiche già completate, con l’emissione del documento da esibire insieme all’autocertificazione in caso di controlli. E i numeri sono destinati a crescere, dato che le domande censite si riferiscono solo a quelle presentate fino alla mezzanotte del 2 maggio.

La Calabria si prepara a una nuova ondata di arrivi dal Nord. Da oggi e nei prossimi giorni, grazie al via libera agli spostamenti per raggiungere la propria città o paese di residenza arrivato con il decreto del premier Giuseppe Conte sulla fase 2. Qui i dati sui rientri previsti vengono monitorati da quando è scattata l’operatività della piattaforma digitale installata sul portale della Regione dove i calabresi che vogliono tornare a casa devono registrarsi almeno 48 ore prima, come stabilito dall’ordinanza 38 del 30 aprile della presidente Jole Santelli. Questo a differenza delle altre regioni del Sud, dalla Sicilia alla Puglia, che hanno optato per la registrazione, all’arrivo, sul portale regionale o per la comunicazione alle aziende sanitarie. Esodi che in tutti i casi dovranno essere seguiti dall’isolamento domiciliare per quattordici giorni. Ma in Calabria non basta affatto la quarantena, che è comunque prevista su base volontaria, a placare la paura di una impennata dei contagi.

Medici e sindaci, in prima linea, sono allarmati. “Siamo di fronte a una nuova, vera, emergenza”, dice Filippo Larussa, medico, segretario regionale del sindacato dei camici bianchi Anaao. Un gruppo di 75 primi cittadini della provincia di Cosenza ha già chiesto tamponi a tappeto per tutti coloro che stanno rientrando. Il sindaco di Lamezia Terme, Paolo Mascaro, non esclude nemmeno l’ipotesi di collocarli in alberghi, per isolarli anche dai loro famigliari. “Decideremo oggi – dice Mascaro –. Abbiamo già gestito gli altri esodi: quelli avvenuti a partire dall’8 marzo. Ma siamo preoccupati. Certamente ci sarà un rigore assoluto nei controlli affinché l’isolamento venga rispettato”. Quanto alla Regione è toccato all’assessore al Welfare Gianluca Gallo, ieri, cercare di rassicurare senza risparmiare sferzanti critiche al premier Giuseppe Conte: “La giunta regionale, pur nella colpevole indifferenza del governo, ha già provveduto ad organizzare la rete degli interventi”. Significa che Santelli “ha incaricato il dipartimento Salute di predisporre ogni accorgimento opportuno a prevenire, contenere e possibilmente azzerare ogni rischio di contagio. Il dipartimento, a sua volta, ha fornito tempestivo indirizzo alle Asl di attivarsi, per adottare le misure necessarie”. Tutti i sindaci, ha promesso Gallo, saranno costantemente aggiornati della situazione dei rientri, per poter assumere provvedimenti; gli operatori dell’Asl provvederanno, nei tempi tecnici strettamente necessari, all’effettuazione dei tamponi. Eppure sono proprio questi ultimi a impensierire di più. Anche perché l’ordinanza della Santelli non dà linee guida ai dipartimenti di prevenzione delle aziende sanitarie, alle quali è demandato il compito di valutare la necessità (o opportunità) di eseguire il test.

Fino al 2 maggio i tamponi effettuati in Calabria sono stati quasi 36 mila, uno ogni 55 abitanti (ma va considerato che il test deve essere eseguito due volte). I laboratori autorizzati sono sei in tutta la regione – ma quelli effettivamente in funzione sono cinque – e in media, quotidianamente, riescono a processarne un numero che oscilla tra i 900 e i 1.100. Non tutti hanno personale operativo a rotazione 24 ore su 24. E il laboratorio meglio attrezzato – quello dell’azienda ospedaliera “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro – riesce a processarne al massimo 300 al giorno.