“Sars-CoV2 è stabile” La via per il vaccino può essere più facile

Nella difficile caccia all’identità di SarsCov2, una notizia di grande rilievo arriva dai laboratori di microbiologia dell’ospedale Sacco di Milano. Qui l’équipe coordinata dalla professoressa Maria Rita Gismondo ha chiuso il cerchio attorno a un dato allo stato inedito: il virus che ha messo in ginocchio buona parte del mondo non mostra di essere mutevole, ma al contrario decisamente stabile. Un risultato in fondo inaspettato ma certamente di importanza fondamentale sulla strada del nuovo vaccino. “È un buon inizio – spiega la professoressa Gismondo –, ma la strada è ancora lunga”.

Per capire il senso di questa scoperta che a breve verrà pubblicata in un ampio studio, bisogna tornare alle origini del virus. La nuova Sars è un coronavirus e come tutti i patogeni di questo tipo (Sars e Mers) ha un profilo genomico composto da un unico filamento genetico, che abbiamo imparato essere l’Rna, differente dai batteri composti dalla classica doppia elica del Dna. Questa costituzione rende i virus a Rna molto mutevoli perché soggetti a errori durante la loro rapida fase di replicazione. Significa, in sintesi, che buona parte delle proteine mutano nel tempo. Il più instabile in questo senso è certamente il virus dell’Hiv che cambia in modo rapidissimo impedendo ai ricercatori di fissare obiettivi stabili sui quali costruire un vaccino valido.

Fatta questa premessa torniamo a SarsCov2 e allo studio del Sacco. Qui il laboratorio di microbiologia ha analizzato dodici sequenze genomiche complete di virus isolati in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. L’analisi è stata fatta nel tempo e cioè studiando sequenze distribuite durante un intero mese. Il primo dato che è saltato all’occhio dei ricercatori è proprio la relativa stabilità del virus il quale, durante la sua fase di replicazione, mantiene fisse alcune proteine. Questa certezza rappresenta il pertugio che può metterci sulla buona strada per costruire un vaccino in tempi relativamente brevi.

Il risultato inedito che tra pochi giorni sarà in pre-pubblicazione segue e completa un precedente studio, rivelato dal Fatto, coordinato dal professor Mario Clerici dell’università Statale di Milano. Il report in questione ha analizzato e messo a confronto i genomi completi di SarsCov2 e del virus BatCoVRaTg13 che infetta i pipistrelli della specie Rhinolophus affinis. Tra i due vi è una coincidenza del 96%. Non totale, dunque. La differenza è stata rilevata ad esempio sulle proteine S, ovvero i cosiddetti Spikes che stanno sulla superfice del virus e che fungono da chiave d’accesso per entrare nelle cellule umane. Lo stesso studio, analizzando la struttura del virus, ha rivelato come alcune proteine di SarsCov2 restano immutate. In sostanza, si legge nel report pubblicato il 3 aprile scorso, “i risultati ottenuti hanno evidenziato che regioni diverse del genoma virale evolvono con una diversa velocità, in altre parole ci sono regioni genomiche che non tollerano (o tollerano poco) l’inserimento di mutazioni che possano portare ad un cambiamento nella sequenza proteica. Queste regioni rappresentano un buon target per lo sviluppo di antivirali e vaccini, appunto perché meno propense ad essere soggette a cambiamenti”.

L’obiettivo del futuro vaccino sarà iniettare nel corpo umano parti di Dna che hanno dentro frazioni di Rna di SarsCov2 stimolando l’organismo a produrre anticorpi “neutralizzanti” in grado di bloccare le proteine S. Questi anticorpi sono stati individuati in laboratorio ma, ad esempio, non trovati in quelli prodotti dai pazienti Covid. Un recente studio cinese ha spiegato che su 285 pazienti analizzati il 100% ha prodotto anticorpi IgM o IgG. Una buona notizia ma non certo una scoperta rivoluzionaria. Anche in Italia e in particolare al Sacco a partire da quaranta tamponi positivi si sono individuati gli anticorpi per tutti i pazienti. Allo stato però questo non rappresenta una svolta, perché ancora non si conosce la durata di questi anticorpi e soprattutto non sappiamo se sono neutralizzanti.

L’individuazione di parti genomiche del virus che non cambiano sembra invece la strada maestra per la creazione di un vaccino. Strada sulla quale da oggi sarà al lavoro l’Unione europea attraverso il progetto World against Covid-19. Il progetto è stato dichiarato pubblicamente attraverso una lettera firmata dai maggiori leader europei, Italia compresa. Si legge: “Il 4 maggio, in occasione di una conferenza dei donatori online, puntiamo a raccogliere una somma iniziale di 7,5 miliardi di euro (8 miliardi di dollari) per sopperire alla carenza globale di finanziamenti che emerge dalle stime del Global preparedness monitoring board (Gpmb) e di altri”.

Oggi parte la Fase2. Conte: “Non vanificare gli sforzi”

Pur con cautela, oggi l’Italia riparte. Lo faranno 4 milioni e mezzo di lavoratori e tutti quelli che decideranno di uscire di casa per le attività consentite dall’ultimo Dpcm. In un messaggio pubblicato ieri su Facebook, Giuseppe Conte la definisce la fase “della convivenza col virus”, “una nuova pagina che dovremo scrivere insieme con fiducia e responsabilità”.

Le linee guida dello Stato, però, troveranno applicazioni diverse nelle Regioni: in Veneto già da una settimana è partita la ristorazione da asporto, in Piemonte almeno a Torino si va più lentamente, in Sicilia Nello Musumeci ha imposto la quarantena per chi rientra dal Nord e in altre Regioni, come Emilia-Romagna e lo stesso Piemonte, sarà obbligatoria la mascherina nei locali aperti al pubblico. In Calabria, Jole Santelli aveva aperto bar e ristoranti con tavoli all’aperto, ma ieri il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia ha annunciato che impugnerà l’ordinanza. “Dopo il 18 maggio – ha detto – ci saranno differenze territoriali, ogni regione potrà fare alcune cose in funzione della sicurezza che ha costruito”

Al di là delle norme, resta da capirne l’applicazione. Il Viminale ha inviato una circolare ai prefetti per interpretare le misure delDdpcm. Il nodo più controverso è quello dei “congiunti”. Per la circolare sono compresi “i coniugi, i rapporti di parentela, affinità e di unione civile, nonché le relazioni connotate da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”.Citando una sentenza che, specifica il Viminale, si riferiva i fidanzati, ma non gli amici. Chiesta ai prefetti un’applicazione “prudente ed equilibrata”.

La Fase 2 dovrà però confrontarsi con i dati, lo scrive anche Conte: “Più saremo scrupolosi nell’osservare le indicazioni di sicurezza e prima potremo riconquistare altri spazi di libertà. Non sperperiamo quello che abbiamo faticosamente guadagnato in 50 giorni”. Al momento, il trend è positivo: ieri 174 morti (sabato 192, totale 28.884), con 1.740 guariti (erano 1.665, il totale è 81.654), un calo degli attualmente positivi di 525 (sabato 239) e 1.389 nuovi positivi (erano 1.900 ma con più tamponi). Le terapie intensive calano ancora di 38 unità e sono 1.501, i ricoverati sono 17.242, 115 meno di sabato.

Ma mi faccia il piacere

Autocomplotto. “Fermiamo tutto per i giorni necessari. Mettiamo in sicurezza la salute di tutta Italia. Chiudere prima che sia tardi” (Matteo Salvini, segretario Lega, 10.3). “Chiudere tutta l’Europa. Tutto il continente deve diventare zona rossa” (Salvini, 11.3). “Secondo me qualcuno fa apposta a tenere gli italiani chiusi in casa, lontani dalle piazze: controllarci così è più facile” (Salvini, Instagram, 23.4). E il bello è che gliel’ha chiesto lui.

Cose impensabili. “Come si può pensare che Feltri non ami il Sud?” (Nicola Apollonio, Libero, 30.4). Guarda che poi Feltri ti querela.

Idee originali. “Sarà un reddito che ci salverà. Uno zoccolo minimo di cash. Da distribuire a tutti., Senza condizioni. Per uscirne oggi. Ed essere più forti alla prossima crisi. L’idea eretica di un economista filosofo” (colloquio con Pihilippe Van Parijs, l’Espresso, 3.5). Oddìo, questa dov’è che l’abbiamo già sentita? Ah, sì, da quel comico genovese fuori di testa.

Rosa Luxemburg. “Perchè questo governo non è molto di sinistra” (Sofia Ventura, l’Espresso, 3.5). Ha parlato l’ex ideologa di Fini.

Questo ancora parla/1. “Computer gratis e un assegno per aiutare le famiglie” (Roberto Formigoni, rubrica “La frustata”, Libero, 3.5). I soldi ce li mette lui con le rimanenze delle mazzette.

Questo ancora parla/2. “Non tutti potranno andare in vacanza!” (Formigoni, ibidem). Non tutti hanno un Daccò che gliele paga.

Seduta spiritica. “Oggi Pannella sarebbe insorto per le carenze del governo e i diritti personali calpestati” (Paolo Guzzanti, il Giornale, 3.5). Gliel’ha detto Mario Scaramella, famoso superconsulente della commissione Mitrokhin, che è pure medium.

Che fai, copi? “La Fase 1 1/2” (il Fatto quotidiano, 23.4). “Fase 1 e mezzo” (il Giornale, 27.4). Sallusti, serve un titolista?

Talis pater. “Avrei fatto le stesse cose di Fontana” (Roberto Maroni, Lega, ex presidente Lombardia, Libero, 27.4). E se ne vanta pure.

Slurp! “Briatore rilascia interviste con la capacità d’analisi d’uno statista conservatore” (Alessandro Giuli, Libero, 27.4). Praticamente il nuovo Churchill

30mila morti son pochi/1. “Comparando bene i numeri la mortalità non è così tragica” (Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, Libero, 28.4). Ne mancano almeno due.

Cavalli di razza. “La Cei scopre che Conte è il cavallo sbagliato” (La Verità, 28.4). “Non si cambia cavallo in mezzo al fiume” (Papa Francesco, 3.5). Vuoi federe che Francesco legge La Verità?

Lo Stretto di Messina. “Il nostro Giuseppe Conte ci ricorda Cavour e Garibaldi? … Conte l’ho trovato conforme alla mia visione: un socialista liberale… In certe manifestazioni di pensiero e di azione politica mi ha ricordato papa Francesco” (Eugenio Scalfari, la Repubblica, 3.5). “Marco Travaglio, il cerberino susloviano che oggi monta di guardia davanti alla porta di Conte sparando con la mira di un cecchino contro chiunque osi alzare un sopracciglio” (Sebastiano Messina, Repubblica, 30.4). Ehi, genio, ma lo leggi Eugenio? No, non scrive sul Fatto: scrive sul tuo giornale (o forse viceversa).

I governi della settimana. “Gianni Letta lavora a un nuovo governo post-Conte” (Il Foglio, 28.4). “15 uomini stan sulla bara del premier” (Renato Farina, Libero, 28.4). “Per Conte il cammino si complica” (Marcello Sorgi, La Stampa, 29.4). “Conte col timer: a giugno il Pd vuole cacciarlo” (Libero, 30.4). “’Non ora, ma dovrà lasciare’. Il premier verso il capolinea. Da Renzi ai dem tutti ammettono di guardare già a un nuovo esecutivo di unità nazionale” (Claudia Fusani, il Riformista, 30.4). “Le mosse del capo di Iv e dentro il Pd per un nuovo governo con FI (e senza il premier)” (Maria Teresa Meli, Corriere, 1.5). “L’assetto su cui si regge l’avvocato del popolo non è solido. Si avvertono scricchiolii di ogni genere… Nel Pd è quasi analoga l’insofferenza verso Conte, il suo protagonismo, la ricerca costante di popolarità da usare poi al tavolo della politica… si è molto dubbiosi sul punto che sia questo governo e l’attuale presidente del Consiglio a gestire la fase complessa e rischiosa della ripresa” (Stefano Folli, Repubblica, 1.5). “Renzi e Salvini possono far cadere Giuseppe” (Farina, Libero, 1.5). ”Incubo Giuseppi capro espiatorio”, “Giuseppi e Casalino nervosi: ora temono la rivolta sociale. Fiano azzarda: ‘Niente urne, e se toccasse a Franceschini?’” (Augusto Minzolini, il Giornale, 30.4). “Anche Mattarella stufo dell’avvocato. Ormai è una causa persa”, “Il premier scopre che tira aria di benservito” (la Verità, 1.5). “Renzi, avviso di sfratto a Conte” (Fusani, il Riformista, 1.5). “La mano di poker di Matteo: liquidare Giuseppi e puntare tutto su Dario” (Il Dubbio, 1.5). Quindi è fatta.

Il comico incarna il caos, perciò ci piace “punirlo”

Quella stronza era così incantevole che avrei succhiato il cazzo di suo padre. – Richard Pryor

Nella puntata precedente, abbiamo visto come violenza, sacro e comico si intreccino nella vicenda del capro espiatorio. Lo schema narrativo del capro espiatorio è ubiquitario, ed è un’analogia dell’organizzazione funzionale del sistema nervoso preposta alla sopravvivenza istintiva. Come spiega Laborit (1976), il linguaggio è l’espressione del nostro inconscio, mascherato da discorso logico. Il sistema nervoso serve ad agire, affinché l’organismo mantenga la sua struttura. In presenza di un pericolo (per esempio, una calamità naturale; una situazione angosciosa; la competizione con i desideri altrui; il conflitto con la sociocultura), il sistema nervoso ci comanda di fuggire, per evitare il pericolo. Se, invece, fuggire è impossibile, provoca in noi l’aggressività difensiva, la lotta. Quando l’azione ci salva, ridandoci il benessere, il sistema nervoso ci premia con neuromodulatori gratificanti, che facilitano la memorizzazione della strategia fortunata (apprendimento). Se invece l’azione è inefficace, il sistema nervoso ci comanda l’inibizione motoria. Questa impossibilità di agire, qualora protratta nel tempo, fa aumentare nell’organismo i livelli di adrenalina e cortisolo (stress) al punto da causare disturbi psicosomatici (Laborit, 1976). L’uccisione del capro espiatorio è l’azione collettiva che annulla lo stress sociale, quando la comunità è incapace di fronteggiare il pericolo altrimenti.

Due interpretazioni possibili. Nel mito del capro espiatorio ritroviamo i tre momenti strutturali di ogni schema narrativo, sintetizzati da Greimas (1979): contratto, azione, sanzione. Perché lo schema narrativo è ubiquitario? Secondo l’interpretazione di Girard, perché il pensiero simbolico nasce dal sacrificio primordiale. L’altra possibilità è che gli ominidi siano dotati di una struttura simbolica innata (corrispondente alla sua fisiologia di sopravvivenza) che li porta a trovare gratificanti le storie strutturate in un certo modo.

Il modo comico (l’offrirsi come vittima di derisione) trova il suo complemento nella psicologia del buffone. Ogni comico, in segreto, è un misantropo che non sopporta l’umanità, e vorrebbe eliminarne buona parte, se non tutta. Questo impulso omicida viene sublimato nell’atto di rendere inerme il pubblico facendolo ridere; ed è tradito dal gergo dei comici di tutto il mondo, che dicono “Li ho uccisi” per indicare una serata baciata dal successo.

Il clown sacro e il teatro. Nei riti di molte religioni, il clown sacro è un personaggio cardine. Impiega scatologia e oscenità sessuali, il cui significato è simbolico: evocano il disordine sociale. Comicità e satira originano, nella Grecia antica, dalla clownerie rituale, dalle falloforie e dal linguaggio turpe usato durante le feste in onore di Demetra e Dioniso, nella stagione fra inverno e primavera. A questa tradizione, il commediografo Aristofane diede forma letteraria. Il filosofo Aristotele spiega che il teatro, come il rito, ha la funzione di purificare la comunità dalle passioni. Il riso è la versione civilizzata della violenza sacrificale: ridendo di un comico capro espiatorio, la comunità si difende dalle conseguenze nefaste di quei desideri emulativi, minacciosi per l’omeostasi del gruppo, che un tempo erano proibiti da tabù, puniti con il sangue, e controllati con rituali sacrificali.

Il caos e il comico. Nella coppia comica, il ruolo della società ordinata è interpretato dalla spalla (il clown bianco), che il comico (l’Augusto) tormenta fino all’esasperazione (Rizzi, 1986). Allo stesso tempo, l’Augusto è vittima delle leggi naturali, degli elementi, della propria goffaggine: è caotico come un bambino. Ed è un reietto sociale: lo dimostra il suo vestito sformato, fatto di pezze. Il modo comico, infatti, è quello dell’escluso dalla società, la figura perfetta per diventare capro espiatorio, come la storia insegna. Questo spiega perché un comico, quando è popolare, basta che entri in scena e già ridiamo: ogni suo minimo atto è carico della potenza comica della vittima, che scatena nel pubblico l’appetito per la violenza metaforica della risata, e la gratificazione emotiva conseguente. Senza modo comico, è inutile sforzarsi di far ridere: non ci si riuscirà. Il modo comico è come il sex appeal: o ce l’hai, o non ce l’hai. Non si può insegnare, né apprendere. In questo senso, la comicità non è una carriera, è un destino; il suo è un percorso iniziatico. Esistono due leggi naturali per tutti gli iniziati: la prima li spinge a non negare a nessun vero aspirante la conoscenza che gli è dovuta; la seconda inibisce che venga comunicato alcunché della conoscenza occulta a chi non ne sia degno. Non solo per un motivo commerciale, dunque, accadeva che “gli estensori dei canovacci, dallo Scala al Biancolelli, e i comici e capocomici del XVI e XVII secolo, usassero una sintesi abbastanza mascherata, in certi casi addirittura segreta, quasi ad impedire che estranei alla famiglia o alla compagnia fossero in grado di capire il significato di quelle annotazioni” (Fo, 1987). Allo stesso modo, in Giappone, i trattati sul teatro No furono scritti da Zeami Motokiyo (1363-1445) a uso esclusivo dei suoi discendenti, che obbligò al segreto sui precetti. Questa gnoseologia è aristocratica, ma si fonda sulla prassi artistica, uno dei modi più sicuri di temperare la deriva irrazionalistica, propria di ogni culto misterico.

Nei riti sacrificali, nel linciaggio, nelle persecuzioni, la vittima è il miserabile, lo straniero, l’ebreo, il negro, la strega, il lebbroso, il mostro, la bestia. Le maschere e i costumi del giullare, dei comici dell’arte, dei clown e dei comici del muto sono retaggio di quella tradizione: servono a caratterizzare il personaggio come reietto. Un comico, più è difforme, più funziona, perché è più facile ucciderlo con le risate. “Fa bene al comico avere qualcosa di sbagliato” (Phyllis Diller). Il fool, babbeo o imbroglione, oppure stolto-saggio, è deforme, e denuncia la sua estraneità sociale a partire dal copricapo, che ha orecchie d’asino ed è sormontato da una testa di gallo, a evocare l’animalità.

Un comico affascina e allo stesso tempo mette paura, perché sta minacciando l’ordine della realtà, cioè il suo senso (Berger, 1997): anche per questo, l’eccesso e l’horror favoriscono l’effetto comico. La forma più dissacrante di comicità è la satira, poiché ogni società confonde le convenzioni con la moralità.

(2. Continua)

“Nella mia testa esiste giusto Mick Jagger e poco sotto io”

I parametri sono importanti, e Francesco Facchinetti ne ha uno totemico: “Nella mia testa esiste Mick Jagger e poco sotto io”. Il tono con il quale lo spiega, quasi leggero, potrebbe risultare fuorviante, anzi è appositamente fuorviante, serve a spiazzare l’interlocutore, fargli abbassare le armi, portare la discussione sul suo terreno congeniale, in apparenza colloquiale. E vincere. Perché lui non partecipa: quando parla, spiega e gioca con i ricordi, non perde mai di vista la sfida. Tutto è sfida. E così la sua narrazione è come un Risiko, dove utilizza le armi a disposizione, quello che ha imparato e visto già da piccolissimo (“e seguivo mio padre nei concerti”); le fughe e i ritorni, gli incontri con i big, i lori vizi, i vezzi e le follie; ha assorbito e sintetizzato senza filtri, e filtri non ne vuole, tanto da portare la domenica su Dplay Plus, la piattaforma streaming pay di Discovery, The Facchinettis: dieci puntate (per ora cinque, le altre devono essere girate) dove c’è esattamente lui, la sua famiglia e la sua agenzia di management (una delle più forti nel settore spettacolo). A nudo.

Ieri ha compiuto 40 anni.

Ho sempre vissuto una vita particolare e festeggiare i quaranta chiuso in casa è in qualche modo la nemesi.

Quando ha percepito la particolarità della sua vita?

C’è un ricordo nitido: tour dei Pooh del 1983, il pomeriggio mi addormento nel letto dei miei; a un certo punto mi svegliano “andiamo al concerto”: insonnolito li seguo, ma ancora non avevo ben compreso il tipo di lavoro di papà. Arrivo al palazzetto e un giornalista mi inizia a intervistare.

Con quale domanda?

La classica per un bambino: “Che vuoi fare da grande?”. E io: “O il contadino o il Papa”; questa risposta l’ho analizzata per anni: il contadino perché provengo da una famiglia che da generazioni lavora la terra, e dalla terra nasce tutto, quindi per me il contadino deteneva il potere importante.

Il Papa…

Per me una rockstar, era la persona che rendeva tutti felici, e volevo essere così; comunque da quell’intervista qualcosa è cambiato, è uno di quegli scalini che ognuno di noi affronta sulla rampa della consapevolezza, e ho iniziato a pensare alla mia esistenza come ricca di energia, di poesia, di favole.

A tre anni non la impressionava la massa di persone davanti a suo padre?

Uno si abitua al mondo in cui cresce: a una settimana dalla nascita, ho iniziato a viaggiare in tour. Per me il pubblico, le prove sul palco, la musica alta, la condivisione tra i vari Pooh, l’energia umana generata dai live erano la normalità.

Sua moglie spiega: “Non riesce a stare mai fermo”.

Sono iperattivo.

Lei in classe?

Mi hanno espulso dalla Montessori, non ne potevano più, e la goccia finale è stata una fuga da scuola, me disperso per quattro ore e recuperato in un negozio di giocattoli a due chilometri di distanza; (ride) anche mia figlia è fuggita dalla materna; (pausa) prima della Montessori mi avevano buttato fuori da altri asili, con mio padre costretto a un concerto riparatore.

Addirittura.

Un’esibizione per le Suore Sacramentine: con loro sono stato appena due mesi e mi chiamavano “Attila”.

Si è dichiarato dislessico.

E pure disgrafico e qualcosa l’avevano capita già ai tempi dell’asilo, ma non totalmente, parliamo sempre dei primi anni Ottanta; (cambia tono) tutto ciò, associato all’iperattivismo, mi portava a ragionare più veloce dei vocaboli che avevo a disposizione o che potevo pronunciare in maniera comprensibile…

Quindi?

La bocca non stava dietro alla testa e arrivare a un 6 in pagella equivaleva a un 10 di chiunque altro, così ero incattivito con il mondo, mi sentivo incompreso e menavo.

Ora, in casa?

Ho la fortuna di vivere dentro un bosco, e i miei figli sono dei Mowgli: quando li porto a Milano quasi si spaventano per il caos e il numero di auto; se passa un tir si fermano stupiti; (adotta un tono serio) e poi lavoro: è dal 1994 che vivo l’era digitale, e questa fase l’ho utilizzata per mettere a punto alcune strategie,

Quanti dipendenti ha?

Parecchi: nell’azienda principale una quindicina a tempo indeterminato, più una sessantina di freelance, e ognuno dei talenti che seguiamo si porta dietro una decina di persone.

Tra un artista talentuoso e uno affidabile, chi sceglie?

L’artista non è affidabile, ma se per affidabile intendiamo “professionale” allora oggi è fondamentale, perché tutto è più articolato di un tempo.

Quali consigli dà ai suoi talenti?

Ho tre linee fondamentali: motivazione, regola d’ingaggio e storytelling; quindi: perché lo fai?; come instaurare un rapporto empatico con il mondo e qual è la storia che ti precede e quella che ti crei.

Queste tre regole le aveva chiare quando è diventato Dj Francesco?

All’epoca no, ma non sono mai stato un artista, piuttosto un uomo che ama comunicare; chi aveva in testa il percorso giusto era Claudio (Cecchetto): lui mi ha folgorato con delle scelte che io catalogavo come folli, ed erano giuste.

Tipo?

È stato lui nel 2003 a dirmi: “Devi chiamarti dj Francesco perché sarà l’epoca dei ‘dj’ e se sarai bravo, ogni volta che pronunceranno il termine ‘dj’ tutti lo assoceranno a te”.

Perfetto.

La canzone del capitano è uscita a febbraio e lui già l’aveva incasellata come il successo dell’estate.

Lei ci credeva?

Solo con il delirio di onnipotenza di un ragazzo di vent’anni, ma non credevo diventasse il brano più venduto del ventunesimo secolo.

Quante copie?

Quasi due milioni.

Come ha impiegato i primi soldi guadagnati?

Ho costruito una comune alle porte di Bologna; (pausa) da ragazzo mia madre mi ha cresciuto proprio a Bologna e in un contesto hippie, dove non c’era energia né acqua calda, però mi divertiva lo scambio culturale con persone diametralmente opposte e provenienti da ogni dove.

Alla fine?

Ho provato a restituire quello che avevo ottenuto, ma a un certo punto l’ho chiusa perché eravamo troppi; tanti membri della comune sono diventati dei big in ambienti professionali diversi: il mondo digitale italiano è gestito dalle cinque persone che vivevano con noi.

Da lì si è emancipato dal ruolo di “figlio di Roby Facchinetti”?

Ho sempre desiderato essere suo figlio, per me è una figata; oggi, nonostante l’azienda di management più forte d’Italia e la conquista di 77 dischi di platino, ciò che amo di più è tenere l’acqua sotto il palco di chi canta.

Traduciamo.

Grazie a mio padre e, ora, insieme ai talenti che seguo, posso andare in posti fantastici; (cambia marcia alle parole) per essere chiari: quando ero piccolo e papà cantava a San Siro, ero orgoglioso di chiamarmi Facchinetti.

Sempre?

L’unica volta in cui ho celato il cognome è quando ero un quindicenne punk e andavo al laboratorio anarchico per distribuire i dischi: non avrebbero apprezzato; e poi la mia croce e la mia salvezza è essere nato con un egocentrismo infinito, talmente infinito da non reputare una diminutio presentarmi come figlio di Facchinetti.

Perfetto.

Nella mia testa esiste Mick Jagger e poco sotto io; però questa impostazione mi ha consentito di infilarmi in situazioni folli, insieme a gente straordinaria.

Un esempio.

Una serata a Los Angeles a casa di Quincy Jones, invitato per il suo compleanno: mi presento con il mio fare cazzone e inizio a tempestarlo con le domande più cretine, tipo “raccontami di Frank Sinatra”; poi inizia a raccontare, e all’improvviso ci spiega: “Sì, ho scritto tante canzoni di successo, ma la mia preferita è Man in the mirror”, cantata da Michael Jackson.

E…

In quel momento ho toccato con mano cosa vuol dire creare un qualcosa con la consapevolezza di poter rivoluzionare il proprio ambiente e non solo; gli artisti statunitensi hanno una libertà mentale che li porta a ribaltare ogni percezione precedente.

Il suo quotidiano prima di diventare dj Francesco.

Ero un bravissimo “pr” della notte milanese: parlavo molto, ero accogliente e soprattutto servizievole, e all’epoca lavoravo per l’Hollywood; prendevo le modelle e le portavo in discoteca.

Ci provava?

Dovevo mantenere l’equa distanza, altrimenti sarebbe stata la fine; all’epoca a Milano arrivavano tutte le star del mondo, ho visto e conosciuto chiunque, compresi dei miei miti come Billy Corgan (leader degli Smashing Pumpkins).

Cosa intende per “servizievole”?

Ero il loro schiavo, pronto a soddisfare ogni capriccio.

Anche qui: esempio.

Una volta seguivo uno sportivo celebre a livello mondiale: un giorno, a mezzogiorno e mezzo, scende dall’auto a piazzale Loreto, tira fuori il pisello e si mette a pisciare, con la gente che si avvicinava per un autografo, poi capiva e scappava.

Era drogato?

Diciamo in un altro mondo.

Oltre all’incontinente?

A fine Novanta incontro a Milano Jim Carrey, si trova bene con me e mi invita a seguirlo in giro per l’Europa per la promozione di un film; e allora mi ritrovo dentro il suo mondo folle e ho capito un punto: quando pensi così tanto a te stesso, alla fine ti estranei dalla società e regredisci come persona.

Nello specifico.

Personaggi di quel livello hanno un team pronto a sopperire a tutto, a togliere ogni piccola o grande incombenza, dal pagare la benzina allo scegliere le scarpe da indossare: è lì che si regredisce; (sorride) se un personaggio vuole andare al negozio di Prada, e alle quattro del mattino, è inutile rispondergli che è chiuso.

Sempre e solo “sì”.

Jim Carrey aveva le sue fisime legate al cibo prima di un’intervista: pretendeva frutta selezionata a seconda dei colori, e se mancava qualche cromia era un disastro. Io lo spiegavo ai suoi, anche perché certi atteggiamenti già li conoscevo.

Dall’Hollywood?

No, da mio padre: prima dello show vuole due biscotti, due fette di bresaola, un pezzo di ananas e la mela tagliata a tre quarti.

Qual è la sua regola d’ingaggio?

È raccontare una storia che ho vissuto e non letto, e per questo studio sempre.

Legge romanzi?

Saranno due o tre anni che non mi capita, preferisco libri folli come La società a costo marginale zero di Jeremy Rifkin (e inizia a spiegarlo, analizzarlo, commentarlo e alla fine a porre domande trappola quasi da professore sadico, dove la risposta è quasi sempre sbagliata).

Lei a 10 anni.

Espulso dagli esami di quinta elementare.

Pure a 10 anni?

Il tema era: “Qual è la cosa più bella del mondo?”. Per me era Karl-Heinz Rummenigge, e dopo venti minuti avevo finito e dopo poco ho cominciato a rompere le palle a chiunque. Cacciato..

Vent’anni.

Tre giorni di festival punk in Germania insieme al mio migliore amico, Daniele Battaglia (figlio di Dodi). Qualcosa di mistico.

Trent’anni.

Mi sono sempre sentito il signore della festa, e allora ne ho organizzata una clamorosa, tamarra, e l’ho imballata di tutti personaggi più o meno famosi; poi in realtà nella testa già desideravo diventare padre.

Il gossip lo ha più subìto o gestito?

Mi è sempre piaciuto, mai sofferto, e poi ci sono nato.

Un vizio.

Sono molto, molto, molto metodico. Voglio mangiare sempre nello stesso ristorante, percorrere sempre la stessa strada, desidero avere sempre gli stessi vestiti; ma niente fumo né l’alcol.

Scaramanzia.

Non ai livelli di mio padre che se vede il color verde o viola impazzisce, ma ci metto il mio.

Lei per lavoro ha visto Berlusconi.

È la persona con la mente più veloce mai incontrata: mi ha ricevuto, fatto accomodare a un tavolo, e accanto a me ha piazzato due persone, due competitor, anche loro convinti di essere al centro della riunione; quando i due hanno capito che in realtà il protagonista ero io, hanno giocato a denigrarmi. Era un test di Berlusconi.

Diletta Leotta più bella o più brava?

Tutte e due, e può diventare una top player, ma deve capire un dato: essere meno brava di quello che lei cerca di risultare.

Invecchiando si assomiglia ai genitori. Lei?

Sono sempre più nel mio viaggio come papà è da sempre nel suo.

(E come canta dj Francesco: Porta in alto la mano, segui il tuo capitano; muovi a tempo il bacino, sono il Capitano Uncino).

 

Parigi, stato d’emergenza fino a luglio

Il governo francese ieri ha deciso di prorogare lo stato d’emergenza fino al 23 luglio, per “evidenti rischi di una ripresa dell’epidemia in caso di improvvisa interruzione del lockdown”, come ha spiegato l’esecutivo nel progetto di legge che lunedì verrà presentato in Parlamento. E “non ci sarà alcuna app ‘StopCovid’ disponibile l’11 maggio”, ha fatto sapere il ministro della Salute, Olivier Véran.

L’attesa applicazione per mappare i contagi non sarà operativa per il giorno della fine del lockdown. “Avevamo detto noi stessi che sarebbe stata una sfida tecnologica”, ha specificato il ministro, “una sfida scientifica, una sfida pratica. E avviare la riflessione non ci avrebbe impegnato a realizzare questo dispositivo. Per l’11 maggio non sarà disponibile nel nostro Paese. Il primo ministro è stato molto chiaro, se questo tipo di applicazione deve esistere dovrà essere operativa e mostrare efficacia. E ci sarà un dibattito sul tema in Parlamento”.

In compenso l’11 maggio secondo il decreto presentato ieri al Consiglio dei ministri, entrerà in vigore il “contact tracing”. Si tratta di un sistema di informazione che ha come obiettivo quello di individuare le catene di contagio e “identificare tutte le persone potenzialmente a rischio di trasmetterlo”, aggiornando una “lista dei malati e dei loro contatti”, ha spiegato il ministro. Il contact tracing sarà creato attorno alle persone contagiate e delle loro frequentazioni per una durata massima di un anno e sarà organizzato in 5 gradi diversi: dagli ospedali alle Agenzie regionali che dovranno “identificare le catene di contaminazione, quelli che inizialmente si chiamavano cluster”.

“Innanzitutto – ha spiegato Véran – ci sarà la raccolta dei risultati dei test, quando sono positivi, da parte dei laboratori. Poi, il tracing livello 1, praticato dai medici e dal mondo della sanità per definire la prima cerchia dei casi di potenziali contatti. Poi il tracing di livello 2, organizzato dalla previdenza sociale e che mira ad aggiungere contatti a quelli della prima cerchia verificando che nessuno potenzialmente malato sia sfuggito al primo tracing. Il livello 3 è operato dalle Agenzie regionali della Sanità” che dovranno “identificare le catene di contaminazione, di trasmissione, quelli che inizialmente si chiamavano cluster”. appunto.

I dati raccolti dal sistema di saranno il materiale su cui lavoreranno le “brigate” di cui ha parlato il primo ministro Edouard Philippe e che il ministro Véran ha ribattezzato “brigate di angeli custodi”: cioè coloro che entreranno in contatto con i malti e i potenziali malati per poi curarli. Secondo l’organizzazione del Ministero, delle “brigate” faranno parte “fra i 3.000 e i 4.000” dipendenti della Previdenza sanitaria pubblica ma se mancherà personale il governo potrà far ricorso anche alla Croce rossa o ai centri comunali di assistenti sociali.

Ma non è finita qui: i dati raccolti saranno inseriti in un dossier medico condiviso che darà la possibilità alle autorità sanitarie di rintracciare i pazienti attraverso il dispositivo “Contact Covid”.

Il progetto di legge sarà discusso in Senato da lunedì, per poi passare all’Assemblea nazionale. Intanto ieri la Francia ha registrato 166 decessi per Coronavirus nelle precedenti 24 ore: un numero che è ai minimi nelle ultime settimane, mentre il totale dei morti è ormai di 24.760, secondo i dati della Direzione generale della Sanità. Prosegue anche l’ormai costante calo dei ricoveri, sono 25.827, meno 60 rispetto al giorno prima e dei pazienti in rianimazione, calati a 51.

“La lezione del virus: le bugie sono letali quanto la malattia”

“Se aspettiamo che arrivi una pandemia sarà troppo tardi: molte vite potrebbero essere inutilmente perdute perché non siamo riusciti ad agire oggi”. Questa frase la pronunciò George W. Bush nel 2005 alla fine della lettura di The Great Influenza: the story of the deadliest pandemic in History, (La Grande Influenza: storia della pandemia più mortale della storia). Se chiedi all’autore del best-seller, John M. Barry, perché ha deciso di scrivere proprio dell’influenza spagnola, risponde: “Things happen, le cose accadono”. Nell’era del Covid-19 l’ex presidente repubblicano ha rifiutato di commentare la dichiarazione pronunciata 15 anni fa, invece Barry lo ha fatto: secondo lui, senza riuscirci, “Bush voleva dimostrare che Hegel aveva torto”. perché c’è una frase del filosofo tedesco che lo storico americano cita spesso: “Ciò che impariamo dalla storia è che non impariamo nulla dalla storia”, frase ripetuta in un suo editoriale di qualche giorno fa sul New York Times. Titolo: “La lezione più importante dell’influenza del 1918” ovvero “dite la verità”.

Signor Barry, lei ha scritto che nel tentativo di limitare la diffusione del virus oggi abbiamo fallito.

Oggi vale la stessa lezione del 1918. Le bugie uccidono.

Possiamo tracciare parallelismi e confrontare le due pandemie?

Esistono molti parallelismi, la principale differenza è che il Covid-19 è molto meno letale ma più contagioso: periodo di incubazione e trasmissione asintomatica, in media, durano il triplo rispetto alla spagnola.

Nelle ultime settimane abbiamo ascoltato molti capi di Stato dire: “È tutto sotto controllo”. Ma non lo era. Lei ha ripetuto molte volte: “Le persone affrontano meglio la realtà che l’incertezza”. Ci racconta perché ricorre spesso nel suo libro all’esempio di Philadelphia e San Francisco?

Durante la pandemia spagnola entrambe le città sono state le più colpite in termini di mortalità, ma la reazione è stata opposta. A Philadelphia le autorità hanno mentito, ripetevano che era “un’influenza ordinaria” e la società crollò. San Francisco è stata una delle pochissime metropoli in cui politici, dirigenti, sindacalisti e medici hanno firmato una dichiarazione congiunta: “Indossate una maschera e salvatevi la vita”. Le maschere non evitavano il contagio, ma San Francisco funzionava perché le istituzioni non avevano detto bugie. Quando le scuole chiusero, gli insegnanti si offrirono volontari come conducenti di ambulanze. Li ha salvati la fiducia, il senso della comunità.

Avrebbe mai pensato di assistere ad un’epidemia nella sua vita?

Ritenevo inevitabile che potesse succedere, non sono rimasto esattamente sorpreso.

Non solo il Covid-19: anche le fake news sono virali in questi giorni.

Sfortunatamente i social media le diffondono in modo molto efficiente. Ma è accaduto anche nel 1918: alcuni credevano che la spagnola fosse un virus creato dai tedeschi, che un’aspirina prodotta dalla Bayer la causasse, o che fosse il ritorno della peste medievale.

Il corso della storia è stato spesso cambiato da una delle più potenti emozioni umane: la paura, di cui lei ha spesso scritto.

C’era molta più paura nel 1918, il virus era più letale, nessuno sapeva quando e se si sarebbe fermato. Oggi abbiamo una comunità scientifica che fornisce informazioni oneste a quelli che vogliono ascoltarle.

Ha scritto anche: “Nel 1918 molti pensavano di assistere alla fine della civiltà. La gente aveva paura di baciarsi e mangiare insieme. Alcune persone morivano di fame perché nessuno consegnava loro cibo”. Il distanziamento sociale che stiamo vivendo oggi comprometterà il nostro comportamento in futuro?

C’è paura, ma c’è anche un senso di comunità. Mia moglie ed io abbiamo più di 70 anni e amici più giovani si sono offerti volontari per fare la spesa. Sono piccole cose che fanno la differenza. E poi ci sono le grandi cose: medici ed infermieri che si stanno comportando con eroismo incredibile.

Obitori pieni, paura, crisi economica. Anche se i due virus sono diversi, le conseguenze sembrano essere simili.

Questo virus è una nuova malattia umana, rimarrà in circolo e svilupperemo l’immunità di gregge solo nel tempo. Si tornerà a vivere come prima? Credo che non vedremo un ritorno alla vita come la conoscevamo per molto tempo, a meno di non trovare un vaccino efficace. Gli scienziati sono piuttosto ottimisti. C’è un cosa che possiamo fare: sperare che l’ottimismo sia giustificato.

Trump annuncia la cura, il gradimento sale

Dopo incoraggianti test in un ospedale di Chicago su 125 pazienti, solo due dei quali sono deceduti, la Federal and Drug Administration, l’Agenzia del Farmaco Usa, autorizza l’uso del Remdesivir contro il coronavirus: è un antivirale inizialmente studiato contro i coronavirus e poi modificato contro l’Ebola. A dare l’annuncio, è stato il presidente Donald Trump in persona: l’ennesima prova della sua fretta di dare buone notizie ai cittadini statunitensi e di riaprire l’America “for business”. La notizia ha fatto schizzare in alto le quotazioni della Gilead Sciences, azienda farmaceutica basata in California che produce il Remdesivir, più nota per i suoi prodotti contro Aids ed epatite B. Ma una delle responsabili dell’azienda in Gran Bretagna, Hilary Hutton-Squire, suggerisce prudenza: a Sky, spiega che i test clinici sono in fase avanzata, ma non ancora conclusiva. Il Remdesivir deve ancora mostrarsi efficace nei casi più gravi, quando i pazienti già respirano con l’ausilio dei ventilatori. Ma pure l’Ue pensa a stringere i tempi per l’adozione. Preoccupato per l’ondata di disoccupazione che può minare le speranze di rielezione, il presidente spinge i governatori ad allentare i lockdown e non rinnova le linee guida sul distanziamento sociale, in vigore da 45 giorni e che scadevano a fine aprile. Il primo maggio in una cinquantina di città ci sono state manifestazioni organizzate dalle donne “trumpiane” di Women for America First: proteste contro gli ordini di “stay-at-home” e per la riapertura dell’America, i “Maga May Day Rallies”.

Venerdì, il coronavirus ha fatto 1.833 vittime secondo i dati della Johns Hopkins University. Il totale dei decessi va oltre i 65 mila, il totale dei contagi supera un milione 106 mila casi. Nelle ultime 48 ore, Trump è stato galvanizzato, oltre che dalla notizia del Remdesivir, anche da un sondaggio Gallup, secondo cui il 96% degli elettori repubblicani lo sostengono: “Grazie! Il nuovo sondaggio mostra che Trump sta battendo Sleepy Joe Biden”, ha twittato. Nelle ultime due settimane, il suo apprezzamento sarebbe risalito di sei punti, al 49%, il suo livello record, a fronte di un 47% che lo boccia. Due giorni fa ha esordito alla Casa Bianca la nuova portavoce dell’era Trump, la quarta in 40 mesi. Kayleigh McEnany, 31 anni, ha fatto ai giornalisti una promessa impegnativa: “Non vi mentirò mai”; dopo di che, ha inanellato tre frottole, che i media Usa le hanno puntualmente contestato. Una riguardava le accuse di molestie sessuali mosse in passato al presidente Trump, tornate attuali dopo che Joe Biden ha smentito quelle fattegli da Tara Reade, sua collaboratrice negli Anni Novanta. Il candidato democratico alla Casa Bianca si difende ma il New York Times invita i dem ad avviare un’indagine come aveva fatto con esponenti repubblicani.

“La Russia annaspa e nasconde le vere cifre dei suoi infetti”

Silenziosa e deserta. L’irriconoscibile Mosca di questi giorni è quella funestata dal Covid-19, una città dove “il 2% della popolazione ha contratto il virus” è stato costretto ad ammettere ieri il sindaco Sergey Sobyanin. Si contano oltre mille morti nella Federazione, diecimila nuovi casi di contagio al giorno, 250 mila nella Capitale. Chi, già da diverse settimane, aveva diffuso cifre preoccupanti a dispetto dei toni tranquillizzanti del governo è la dottoressa russa Anastasia Vasilevna. Ora, è difficile stabilire quanto Anastasia sia diventata la nuova icona riluttante dell’opposizione russa. La Vasilevna aveva cominciato a diffondere notizie sulla pericolosità del coronavirus mesi fa, mentre le autorità continuavano a ribadire che “tutto era sotto controllo”. Oggi la dottoressa Vasilevna ribadisce: “Gli esponenti delle istituzioni non dicono la verità. Anche ora nessuno conosce la cifra reale dei contagi: le stime attuali partono da numeri poco credibili in base ai test effettuati, che sono di bassa qualità e poco affidabili, i numeri che leggete sono lontani dalla situazione reale. Forse non è chiaro a voi in Europa, ma a noi si: siamo sull’orlo della tragedia”.

In che condizioni versa la trincea sanitaria della Federazione?

La situazione peggiore si registra nelle grandi città: Mosca e San Pietroburgo. C’è carenza di posti letto, personale e medicine, il problema più grosso è che mancano strumenti protettivi, scafandri e mascherine. I pazienti rimangono in corridoio nelle corsie e semplicemente muoiono. A maggio raggiungeremo il picco dei contagi a Mosca, ma nelle altre regioni del Paese l’infezione è solo all’inizio e il picco ci sarà ad agosto. Molte persone moriranno, è una questione d’emergenza, io amo il mio Paese e non voglio che accada. Altri enormi problemi arriveranno a settembre, a fine epidemia, quando le persone andranno in giro a cercare lavoro e non lo troveranno.

Dopo aver criticato il presidente Putin per aver spedito aiuti all’estero e non alle regioni più colpite in patria, lei è stata arrestata a inizio aprile nel villaggio Okulovka mentre era in viaggio con altri medici per consegnare mascherine a un ospedale locale, protezioni acquistate grazie ai fondi che ha raccolto con donazioni volontarie.

Il Cremlino invia materiali e personale in Italia e America, ma i medici russi, trattati come carne da macello, combattono contro il fuoco a mani nude, senza protezione. I miei colleghi stanno morendo, non me ne starò zitta a guardare.

Lei è la fondatrice del sindacato Aljanz Vracej, Alleanza dei medici russi, sventola una bandiera bianca come il suo camice mentre coopera con tutte le organizzazioni russe che in queste settimane richiedono aiuto.

Nell’articolo 41 della nostra Costituzione c’è scritto che tutti hanno diritto alla salute e a essere curati. Io non vedrò i miei colleghi morire senza fare niente. A me la bocca non la chiuderanno, bisogna difendere il popolo, quello che sta accadendo è un crimine contro la gente inerme.

Lei ha due figli piccoli, 36 anni, una madre oftalmologa di formazione sovietica. I giornali si sono accorti di lei nel 2019, quando curò l’oppositore più celebre del Cremlino, il blogger Aleksej Naval’nyj, attaccato da ignoti con la vernice verde tradizionalmente usata contro i dissidenti. Poi si era inabissata, allontanandosi dai riflettori. Ora con l’emergenza Covid-19 è tornata. Non teme nuove ripercussioni dalle autorità?

Di cosa dovrei avere paura? Racconto quello che sta accadendo e se ad alcuni non piace, possono anche ammazzarmi: altri prenderanno il mio posto, ma la verità non la nascondi.

Turismo ko, Zaia adesso sogna Oprah

Una volta ci si votava alla Madonna, oggi agli influencer. Oprah Winfrey in soccorso di Luca Zaia. L’estate è alle porte, il virus semina ancora terrore e gli operatori turistici rischiano il tracollo. E in Veneto, come nel resto d’Italia, tutti si chiedono come riempire chilometri di spiagge. Splendide città d’arte. Per non parlare delle Dolomiti. È una questione drammatica, in una regione dove ogni anno arrivano quasi 20 milioni di turisti e ci sono 25 mila occupati nel settore alberghiero.

La soluzione ha provato a buttarla lì il governatore Zaia, uno dei pochi che finora non è uscito con le ossa rotte dalla gestione dell’emergenza. Ma adesso la crisi morde ai polpacci della gente. Così ecco la proposta: “Servono gli influencer

, gli opinion leader”. Qualcuno ha subito pensato all’immancabile coppia Fedez-Chiara Ferragni. Ma Zaia ha voluto spazzare il campo: “Non faccio nomi italiani, l’altra volta mi hanno preso in giro e qualcuno si è indignato”. Già, era l’inizio di marzo, la pandemia era agli albori, ma già allora il Governatore leghista aveva pronunciato la parola magica: influencer

. La proposta non aveva ricevuto grandi consensi.

Ma Zaia ci riprova e vola alto, punta all’estero: “Se Oprah Winfrey ti dice di fare le vacanze in un posto è chiaro che ha una grande visibilità. A noi serve questo. Un esempio su tutti di località turistica ‘pompata’ dagli opinion leader è Formentera”.

Oprah, quindi. Ancora una volta il leghista moderato mostra il suo volto ecumenico: Winfrey infatti non è certo un volto vicino al partito Repubblicano americano e a Donald Trump, che invece raccoglie tanti consensi nella Lega di Matteo Salvini.

Le cronache ricordano il curriculum della giornalista di colore regina mondiale dei talk show: Forbes l’aveva indicata come seconda donna più influente del mondo, dopo Michelle Obama, ma addirittura prima di Angela Merkel e Hillary Clinton. Insomma, perfetta per orientare l’opinione pubblica planetaria anche quando si tratta di decidere dove provare a piantare l’ombrellone questa estate. Ma chissà cosa pensa Salvini del pedigree politico di Oprah. Winfrey infatti è da sempre vicina ai democratici a stelle e strisce. Non solo ha appoggiato i candidati del partito dell’asinello, ma addirittura in molti avevano ipotizzato una sua discesa in campo in prima persona. Contro Trump. Non è stato così. Zaia, però, forse spera che possa schierarsi a favore del Veneto.

Certo l’estate si annuncia drammatica. Il virus non ha stimolato la collaborazione, ma la concorrenza. In Europa si fa a gara tra ‘alleati’ per vedere chi aprirà prima le industrie. Vale anche per il turismo, dove va in scena un tutti contro tutti: stato contro stato, in Italia regione contro regione. Poi la montagna contro il mare. Una volta in Veneto per avere la grazia si andava nei santuari, magari a Sant’Antonio da Padova. Oggi si punta di più sugli influencer.