Italia, hanno fatto a pezzi la patria

Alcuni delitti sono stati commessi in Italia e contro gli italiani (e alcuni vengono commessi mentre ne scriviamo) e poi vengono coperti con il tricolore, in una finzione di amor di patria che invece è il suo contrario: spezzare la patria per estrarne territori, corporazioni, interessi, tribù. Tutto ciò non era mai accaduto e sta avvenendo afferrando il pretesto del coronavirus.

Il caso coronavirus è arrivato non prevedibile, si è insediato con grande forza, richiede tuttora di contenerlo con una coesione fortissima. Nel destino italiano di questi mesi, c’è stato un soccorso importante: sono ammalati anche gli altri, ovvero praticamente il mondo, alcuni più di noi, alcuni come noi e tanti altri (milioni e milioni di persone) in misura comunque mai conosciuta prima. Questo fatto ci consente di avere esempi, di aver affaticato e spaventato i compagni di viaggio, ci consente di imitarci a vicenda quando si trovano idee per il soccorso, e per imparare a vicenda quando l’errore aggrava il male. L’Italia ha dato esempi straordinari ed eroici (medici e infermieri) e mostrato, in tutto ciò che è sanità pubblica del Paese, voragini tristi e allarmanti di inadeguatezza, di pezzi mancanti (dagli ospedali ai letti ai respiratori). Basta rivedere chi erano i presidenti di Regione per sapere chi ha commesso quegli errori e perchè nessuno di quegli errori (dai posti letto tagliati alla chiusura, improvvisamente annunciata e subito eseguita, di dotatissimi ospedali, vedi il San Giacomo e il Forlanini a Roma) forse commessi in buona fede, forse in cerca di spazi più grandi per gli inadeguati ma ricchi ospedali privati, è mai diventato dibattito o discussione. Eppure tutto questo giro di eventi, tragico come si è rivelato a mano a mano che il contagio si dilatava, molte più persone si ammalavano e molte più persone morivano, non è mai entrato in discussione. Qualcosa di molto più grave è accaduto e sta ancora accadendo, condotto da persone del tutto indifferenti a ciò che è successo negli ospedali, da persone invasate da patologica, incontenibile ansia di potere politico. All’improvviso si è scatenato nel Paese (più nel Paese che in Parlamento, che pure non è mai stato sospeso o chiuso) uno scontro a morte del tutto sconnesso dalla gravità e dai mezzi di contenimento della malattia. Lo scontro a morte (la parola è giusta e lo scontro continua anche adesso) non è una disputa sulla cura o su come salvare più persone dal come diventare pazienti di una trattamento di esito incerto, in condizioni da incubo. Lo scontro a morte sta avvenendo su una contrapposizione apparentemente ragionevole fra “tutto chiuso” e “tutto aperto”. Scordiamoci per un momento che mentre la discussione ferve c’è ancora gente che muore soffocata per mancanza di respiratore nei migliori ospedali e nelle migliori case per anziani. Prendiamo la questione in sé legittima: chiudere ogni attività e chiedere a tutti di restare a casa, di camminare a distanza e di non servirsi di mezzi pubblici, perché salva molte vite perché evita molti contagi. Allo stesso tempo costa molti soldi all’imprenditore (grande o piccolo che ha dovuto chiudere il suo luogo di lavoro, negozio o fabbrica) e costa molti soldi a chi non può lavorare, e a chi resta senza paga. Tutti i parlamenti ne hanno discusso e solo due leader hanno fatto notizia: Johnson, inglese, per avere detto che non c’è niente di male se una malattia infettiva circola in un gregge e colpisce qua e là secondo natura (per poi ammalarsi immediatamente e gravemente lui stesso) e il presidente americano Trump, festoso fan del “tutto aperto” per il bene dell’economia. Ma è stato smentito dai suoi medici (quasi tutti uniti, senza distinzione politica) e dal suo parlamento (pur avendo una forte maggioranza repubblicana al Senato), e ha dovuto cambiare idea. In Italia, solo in Italia è scoppiato un violento furore di rabbia incompetente ma rigorosamente organizzata. E mentre “i pazienti” morivano per mancanza di respiratori e gli anziani morivano perché venivano continuamente scaricati nel letto accanto malati gravissimi, portatori di sicuro contagio, fatti venire da altri ospedali, deputati e senatori di un certo tipo invocavano il “tutto aperto” per ripartire, costi quel che costi in vite umane. Intano magistrati e medici scoprivano che le “zone rosse” (massima infezione) si erano create dove tutte le fabbriche erano state tenute aperte e a piena produzione mentre gli operai venivano raccolti (non sempre in tempo) da carovane di ambulanze, mentre l’esercito provvedeva alla rimozione dei cadaveri, persone senza nome, morti da soli, senza funerali. Ho scritto “deputati e senatori di un certo tipo” perché, certo, un simile disastro umano non può che avere la guida a destra. Ma lo schieramento del “tutti fuori” non era (è) solo di destra, perché gli affari sono affari. Il potere è un grande affare che, a quanto pare, bisogna riconquistare cadavere per cadavere. Non puoi lasciarlo a un poveraccio senza partito che perde tempo a occuparsi di pandemia.

La morte a Teheran e la principessa che faceva “muuu”

Dall’Upanishad del sultano Bayezid II. Si racconta – e perché non dovrebbe essere vero? – che un giovinetto persiano stava annaffiando le rose nel giardino del suo padrone, quando improvvisamente gli apparve la morte. “Padrone! Padrone!” urlò il giovinetto, cercandolo in tutte le stanze. “Ho visto la morte, e mi ha fatto paura! Non voglio morire!”. Il padrone lo abbracciò e gli disse: “Non temere. Ti salverò. Prendi il più veloce dei miei cavalli e vai verso quella direzione. Domani sarai a Teheran”. Il ragazzo lo ringraziò e partì. Il padrone scese in giardino, incontrò la morte e le disse: “Il mio giovane giardiniere è un bravo ragazzo, mi è così devoto, e coltiva le rose con così tanto amore. Perché gli hai fatto paura?”. E la morte: “Non volevo fargli paura. L’ho visto e mi sono stupita di vederlo qui, dato che so che domani dovrò incontrarlo a Teheran”.

Dalle fiabe apocrife di Cao Xueqin. C’era una volta un imperatore cinese che aveva una figlia, Nebbia sul Ciliegio, dalla bellezza così sconvolgente che, spesso, chi la vedeva perdeva di colpo la ragione. Quando i cervelli sbullonati esaurirono le camicie di forza e le celle imbottite del manicomio imperiale, gli alienisti suggerirono all’imperatore di isolare quella creatura calamitosa, e di farla circolare per le strade della città, se proprio necessario, in una lettiga chiusa da pesanti cortine di velluto, preceduta da messaggeri con sonagli, che intimassero agli abitanti di nascondersi, come al passaggio dei lebbrosi. Ma un giorno un giovane bellissimo, mosso da curiosità, invece di precipitarsi altrove sollevò con due dita un angolo della cortina, e mise dentro la faccia per guardare. Nebbia sul Ciliegio, vedendo i suoi occhi ineffabili, restò scombussolata, la sua mente come un baule che, pieno di oggetti disparati, rotoli per un pendio e, dopo mille sobbalzi, si arresti: aperto, mostrerebbe al suo interno lo stesso disordine aggrovigliato; e si convinse di essere una mucca. “Uccidetemi,” diceva. “Voglio diventare una braciola. Con contorno di patate”. Il medico di corte, informato della cosa, si presentò al capezzale della ragazza con un lungo coltello. “Dov’è la mucca?”. La ragazza si mise a muggire, per indicare la sua presenza. “Stendetevi sul pavimento”, disse il medico, con la disinvoltura del macellaio consumato; e, dopo averla palpata sapientemente, sentenziò: “Questa mucca è troppo magra. Prima di ucciderla, bisogna farla ingrassare”. Da quel momento, la malata cominciò a sovralimentarsi, e in un mese le tornarono le energie in modo così trionfale che superò la crisi di demenza, guarì, e fece impiccare un servo che, non essendo aggiornato sui suoi progressi clinici, incrociandola in un corridoio del palazzo le aveva fatto “Muuu!”.

Dal Galateo apocrifo di Monsignor Della Casa. L’uomo che esce di casa di buon umore irradia benessere, vede ottimisticamente la vita: sarà più incline a fare una scoperta se è uno scienziato, a concludere un buon affare se è un commerciante, a ricevere una gratificazione se è un impiegato, a evitare una contravvenzione se guida un calesse. Ecco perché una buona consorte deve impratichirsi non solo nel pilotaggio gastronomico, ma anche nell’arte del pompino.

Mail Box

 

I Dpcm sono necessari: unica alternativa, più decreti legge

Riflettevo sul fatto che l’anomalia di questa situazione completamente nuova si ripercuota anche nell’attività legislativa, nel senso più pratico del termine, perché presuppone – da sempre – l’incontro di persone. E oggi, tutti sappiamo, che proprio l’incontro di più persone è la causa del problema.

Ebbene, se questo può risultare superabile in molte situazioni, non risulta esserlo in ambito legislativo, posto che la Costituzione non ha mai previsto un’eventualità differente per legiferare. A meno che non si cambi la Costituzione o la modalità di voto, atti sempre però che comportano l’incontro di più persone. Solo lo stato di guerra consente alle Camere di cedere un potere straordinario al governo, ma questa una guerra non è, e allora mi domando: se non ci fosse stato lo strumento del Dpcm, come avremmo fatto a emanare una norma che entrasse in vigore dall’oggi al domani, senza che fosse necessario l’incontro di più persone nello stesso luogo?

Infatti la cosa che finora non è stata forse detta è che l’alternativa al Dpcm sarebbe il decreto legge, il quale prevede una forma di approvazione rapida, ma non consente di garantire il rispetto delle norme di distanza.

Il dl infatti prevede una delibera del Cdm, e l’immediata convocazione delle Camere per la sua presentazione. Poi entro 60 giorni deve essere convertito con conseguente nuova riunione delle Camere. In quella sede poi, è possibile proporre modifiche e emendamenti, che allungherebbero di molto la procedura, che costituirebbero poi motivo di altri incontri. Oltre al fatto che, in queste circostanze, il termine di 60 giorni è per certi versi troppo lungo, e per altri troppo corto a seconda delle esigenze del momento. Dunque credo che l’attività parlamentare sia stata di fatto limitata, anche a causa dell’esigenza reale di vietare assembramenti. E questo dovrebbe farci riflettere un domani, circa una situazione nuova e inaspettata come questa. E magari riconsideriamo che l’idea di una piattaforma come Rousseau non era del tutto sbagliata.

Valentina Felici

 

Renzi dimentica la storia: affermazioni senza senso

Il senatore Renzi, intervenendo il 30 aprile in Senato sulle comunicazioni del presidente del Consiglio Conte, ha dichiarato: “Io rivendico di avere contribuito a creare un altro governo quando un senatore, il senatore Salvini, ha chiesto i pieni poteri. Non li abbiamo negati a lui per darli ad altri”. Purtroppo per Renzi i tempi non coincidono. Infatti: 1) durante il suo governo (22/2/2014-12/12/2016) Salvini stava all’opposizione e quindi non poteva rivendicare alcunché; 2) la rivendicazione dei pieni poteri è stata fatta l’8 agosto 2019 da Salvini ministro dell’Interno del governo Conte uno quando Renzi stava all’opposizione; 3) Renzi quindi non può dire di avere in passato negato i pieni poteri a Salvini, né può vantarsi di non volerli dare a nessun altro adesso semplicemente perché la nostra Costituzione non li prevede.

Nicola Ferri

 

Il premier difende la vita, gli altri pensano ai guadagni

Nei giornali e per tv, ormai non si sente altro che una indecente gazzarra di cani abbaiare contro il premier Conte. “Can che abbia non morde”, dice il proverbio; ma questi cani impazziti (servi e padroni) mordono eccome. Hanno sbranato il nostro Paese, riducendolo all’osso, e si mangerebbero anche quello, se solo potessero. Vorrei quindi, se me lo permettete, venire in difesa di Conte, come quando ci si fa intorno a qualcuno per proteggerlo, temendolo in pericolo. In che modo? Ricordando agli italiani che il suo indiscutibile merito politico è stato quello di salvaguardare il diritto alla vita dall’interesse rapace dell’homo oeconumicus. Non importa che per molti di noi il coronavirus sarebbe stato, o magari sarà, poco più di una banale influenza. Non importa nemmeno che l’economia del nostro paese vada a rotoli e che finiremo tutti a mangiare patate. Per una questione di principio. Infatti, ciò che davvero conta, è che con le vigenti misure restrittive molte vite umane sono state e saranno salvate. Perché alla fine, nel quadro dell’attuale decadenza istituzionale, non sono i colori politici a fare la differenza, ma questo soltanto: avere dei principii o non averli. Essere dei Conti o dei cani.

Alex Viscito

 

Proposta: un mutuo soccorso per gli esercenti

Vorrei proporre una cosa che non ho mai sentito dire da nessuno: ma perché i vari esercenti, tramite le associazioni di categoria, non istituiscono una sorta di “mutuo soccorso”? Nel senso, alcune attività stanno lavorando e qualcuna anche più di prima, altre invece come ben sappiamo sono al tracollo. Perchè non devolvere una percentuale X da quelle che stanno lavorando per aiutare quelle che sono in crisi? Il mutuo soccorso, l’Inail, la cassa integrazione nacquero proprio con questo scopo: per chi si ammalava, subiva un infortunio o se l’azienda andava in crisi. Queste tre modalità, sovvenzionate dalle tasse dei dipendenti e dei datori di lavoro, servivano a far ricevere comunque una fonte di sostentamento a chi in quel momento non riusciva a produrla. Si invoca tanto la solidarietà ma a questo non pensa nessuno? Sarò forse troppo comunista?

Enrico Zanfini

Il consenso di Conte fa paura agli azionisti

 

“Renzi detesta Conte per il suo alto gradimento popolare. È frustrato ma non così stupido da far cadere il governo che prova a ricattare per ottenere nomine e prime pagine sui giornali”.

Alessandro Di Battista

 

Immaginiamo il consenso elettorale come il capitale di una società che ha come azionisti i partiti presenti in Parlamento, ciascuno con la sua quota. Accade improvvisamente che per ragioni del tutto indipendenti dalla politica, e dagli assetti consolidati di potere – una devastante pandemia – gli equilibri precedenti siano minacciati dall’irrompere sulla scena di un presidente del Consiglio che nell’emergenza ottiene sondaggi sempre più favorevoli, con picchi di popolarità mai raggiunti dai suoi predecessori. Un fenomeno non previsto che allarma gli azionisti preoccupati dalla perdita di valore della loro frazione di capitale elettorale, nell’eventualità che l’intruso decida di convertire il largo consenso acquisito in voti sonanti. Come? Creando un partito. In questo caso, il partito di Giuseppe Conte. Come fecero i “tecnici” Lamberto Dini e Mario Monti, con esiti per la verità non memorabili. Non importa se si tratta di un’ipotesi irrealistica, infondata, alla quale il premier non ha mai pensato. Perché, come dice Di Battista, la popolarità di Conte crea “frustrazione” soprattutto negli azionisti di maggioranza più a rischio, come certi settori del Pd e, soprattutto il partitino virtuale di Italia Viva. Anche gli azionisti di opposizione, Lega e FdI, pur giocando una loro partita, tesa a contendersi le quote della destra, temono che pezzi della popolarità di Conte possano tracimare nel loro campo. Frustrati anch’essi, vedono allontanarsi la prospettiva di quel governo sovranista che sembrava a portata di mano. Sembrano discorsi lunari e nello stesso meschini dinanzi alla sventura che vive il Paese, e lo sono. Per questo, le critiche sulla comunicazione “troppo personalistica” del premier, accusato di “populismo” per il suo rivolgersi direttamente ai cittadini e rassicurarli davanti alla calamità, reo di “aver calpestato La Costituzione”, in una sindrome da “pieni poteri”, nascondono la paura di contare sempre di meno al tavolo delle decisioni future. Pure qui Di Battista ci sembra non lontano dalla verità quando parla dei governissimi invocati “per salvare l’Italia”: in realtà, “nei prossimi mesi ci saranno da spendere decine di miliardi di euro nella ricostruzione”. Si annunciano dunque nuovi Mose e Ponti sullo Stretto. E con tanti appetiti e tante ganasce pronte ad attivarsi molto meglio che tutto torni come prima. Che gli azionisti della politica restino al loro posto. Che si trovi un Re Travicello, docile e disponibile. Che Conte ritorni a fare l’avvocato.

Antonio Padellaro

Sar-Cov2 colpisce i vasi

 

Questo virus non finisce di stupirci. Per due mesi abbiamo rincorso i posti letto in rianimazione, abbiamo parlato
di polmonite interstiziale: oggi le autopsie ci fanno scoprire ben altro.
Al Sacco di Milano
e al Papa Giovanni XXIII di Bergamo ne sono state eseguite 70. È venuto fuori che la polmonite
è un sintomo successivo,
e forse anche meno grave, di quello che il virus provoca nel nostro organismo. Questa ipotesi era già stata avanzata dal dottor Palma, cardiologo di Salerno, tra le critiche dei soliti soloni mediatici: Sars coV2 colpisce soprattutto i vasi sanguigni, impedendo
il regolare afflusso del sangue, con formazione di trombi. La polmonite ne
è una delle conseguenze. Nella terapia di questi pazienti, ci siamo quindi focalizzati su uno e forse non il principale meccanismo patogeno del virus. I pazienti deceduti, al netto già di altre patologie pregresse, avrebbero sofferto
le conseguenze delle prime diagnosi sbagliate. Covid19 è una malattia infiammatoria vascolare sistemica. I polmoni non possono ventilare, malgrado l’insufflazione forzata di ossigeno, perché non vi arriva sangue. Addirittura
i respiratori avrebbero peggiorato l’esito della malattia. L’ipotesi italiana è oggi confermata anche dagli Usa. Questa nuova conoscenza porta
a una vera rivoluzione. La prima osservazione per fare diagnosi è quindi il livello di infiammazione. E i farmaci con cui intervenire immediatamente sono quelli che possono prevenire o curare infiammazione e formazione di trombi. Tutti farmaci già in uso
e a basso costo. Chiuderemo definitivamente le terapie intensive Covid 19?

Addio Raffaele, morto sul campo

L’altra notte se n’è andato all’improvviso, sempre per (o “per”) la piaga che ci affligge in questo maledetto 2020, un amico del cuore. Le circostanze della sua fine hanno un carattere di orrore insieme e di sublimità. Raffaele Pempinello era stato per anni primario al “Cotugno”, un ospedale per malattie infettive intitolato all’insigne clinico napoletano Domenico. Morto nel 1826, la sua attività scientifica, tutta pubblicata in latino, le rese popolare presso le più alte autorità civili ed ecclesiastiche a onta del carattere ateista. Le difese naturali del Pempinello s’erano assai affievolite a causa di pregresse malattie, ma egli non esitò un istante a visitare due amici che desideravano un medico “sicuro”. La sua fine fu così rapida che le cose andarono così. “Debbo uscire”, disse alla moglie, “ci vediamo per cena”. Non si ritirava; non si ritirò. La signora Immacolata ne vide ex abrupto

al telegiornale regionale il corpo composto su di un letto del “Cotugno”.

“Lello” era uomo simpaticissimo, gli occhi percorsi da luci maliziose e da quella che pareva una sfiducia nell’arte da lui praticata. “Pè mò, vedimmo…. Po’, se la vis risanatrix naturae

non ha abbandonato questo corpo, è capace pure ca nce n’ascimmo…”.

Il suo occhio clinico, la sua intelligenza, erano formidabili; ma lo scetticismo napoletano, in braccio al quale nelle ultime ore doveva essersi posto e che rappresentava uno degli elementi fondamentali della sua scienza, non lo abbandonò.

Faccio un esempio che spiega tutt’e due. Tra la fine del settembre 1983 e l’ottobre 1984 contrassi una violenta epatite virale: ed era il mio secondo caso. Pregai lui di visitarmi da solo. Or il caso vuole che io abiti appoggiato alle basse propaggini della collina del Vomero. Per entrarvi occorre percorrere una lunga galleria sotterranea e salire in ascensore per decine di metri. Il portiere ha l’ordine di non consentire l’ingresso a nessuno se costui non si sia qualificato e non sia da casa disposto l’ingrediatur

. C’era allora un calabrese sporco, maligno e spione per conto di certi condomini che “lo” regalavano. Costui, per dispetto a me, faceva “salire” spesso i summenzionati direttamente a casa mia. Verso le 11 del mattino, la cameriera mi annuncia “il professore Pempinello”, L’unica visita attesa era “salita” senza ordine. Avevo l’aspetto di un morto. Esplosi in una crisi d’ira: bestemmiando e usando quel che si chiamava “un linguaggio da facchini”. Intanto la faccia di Lello si distendeva in un bel sorriso.

Rivolto alla cameriera, disse: “Chist’ nun v’o luvate ‘a tuorn’, chist’ nun more!

”. L’esplosione di una violenta ira gli aveva fatto ippocritamente diagnosticare che non abbastanza vis risanatrix naturae s’era ritirata da me. “Il tuo aspetto contraddice alle severe analisi…”. E lì, una bella risata.

Una delle sue espressioni predilette alla sua squisita tavola era “mantenimmo ‘o carro p’ ‘a scesa”: metafora antichissima, indicante che nulla ci è dato, al medico e al cittadino, se non impedire a un carretto posteggiato su di una discesa, e al quale sono saltati i “fermi”, di precipitare. Lello continuerà a “mantenere ‘o carr’ p’ ‘a scesa

”; a me toccherà qualche altro supplizio di Tantalo. Il più brutto è che non potremo nemmeno, ogni tanti milioni di anni, salutarci da lontano. Dice Eraclito, uno dei filosofi che avevano formato Cotugno: “non ci si bagna due volte nella stessa acqua”. Meglio la morte assoluta, Rafè, io pe’ mmò te saluto ccà. Vivrai nel mio ricordo e in quello dei tanti che ti hanno voluto bene; poi, speriamo, basta.

Scusate il ritardo non basterà…

Il 1° maggioGiuseppe Conte ha chiesto “scusa a nome del governo” – su Facebook (sic) – per i “ritardi” con cui (non) vengono erogati gli aiuti dello Stato a famiglie e imprese in difficoltà: “Pure complicata – ha aggiunto – si sta rivelando la partita dei finanziamenti”. Ammettere un fallimento e scusarsi è sempre una buona cosa, l’accenno alle difficoltà sui finanziamenti è invece terrificante (tanto più che mancano le relative teste che rotolano al Tesoro). Riassumendo: in milioni non hanno ancora visto un euro su norme approvate anche un mese e mezzo fa, oltre 6 milioni sono comunque esclusi da quegli “aiuti” e più della metà di questi lo resteranno anche col prossimo decreto. Nel frattempo – mentre il welfare per l’emergenza e “l’atto d’amore” bancario latitano – chi li ha, sta erodendo i risparmi per sopravvivere, realizzando di fatto quella patrimoniale di massa invocata da alcuni. Forse non è chiaro cosa sta per succedere. Lo facciamo dire a un tipo moderato come Fabrizio Barca, già ministro con Monti: “Il giudizio del Forum disuguaglianze su di voi, che in queste ore state decidendo se dare o non dare tutela sociale a chi ancora non la ha, è irrilevante. Il giudizio di milioni di italiani su di voi non lo è. Si chiama democrazia”. Scuse o non scuse, tra qualche settimana il teatrino delle crudeltà di Renzi sarà l’ultimo dei vostri problemi.

Dal premier nessuno sfregio alla carta

Come in ogni vicenda umana, anche in quelle che riguardano la politica del premier Conte e del Governo ci sono luci e ombre. Da un lato apprezzamento per come si è fatto fronte alla caterva di guai di questi tempi eccezionalmente disgustosi; ma pure scivolate – i congiunti… – oltre a errori di comunicazione e non solo (ad es. qualche disinvoltura di troppo nei rapporti col Parlamento). In sostanza, chi voglia criticare Conte, di materia ne trova.

Ma altra cosa sono le invettive acrimoniose o gli attacchi inconsistenti al limite del buon senso. Come l’accusa di attentare alla Costituzione violandone gli articoli che presidiano la libertà personale, di circolazione e di culto. Qui siamo alla peggior propaganda, chiusa nel chiostro del proprio cervello. Tipo sostenere che neanche ai tempi del terrorismo la Costituzione era stata così “violentata”.

Lucciole per lanterne, anche se allora come ora si era in guerra. Ma con differenze abissali. Il terrorismo era una guerra dichiarata unilateralmente dal cupo mondo della clandestinità, da qualcuno che stabiliva quali nemici meritassero di essere ammazzati o gambizzati. Il Covid 19 è una guerra pandemica senza ideologia né strategia, che nessuno ha voluto e non seleziona gli obiettivi.

Un punto di contatto però sta proprio nella Costituzione. La ferocia sanguinaria dei terroristi voleva disvelare che la Costituzione era una finzione: colpo dopo colpo, alla fine lo Stato avrebbe gettato la maschera falsamente democratica e mostrato il suo vero volto reazionario. Nella sconfitta del terrorismo decisiva è stata la dimostrazione dell’inconsistenza di tale assunto, respingendo ogni tentazione autoritaria e restando nel perimetro delle regole democratiche e quindi della Costituzione. Che è lo stesso quadro di Conte.

La Costituzione è un patto sociale fra uomini diversi ma egualmente liberi, basato sul principio di legalità, cioè sul rispetto di regole uguali per tutti necessarie per stare insieme con reciproco rispetto. Esattamente quel che accade oggi con le regole – pesanti ma necessarie – dirette a debellare il Coronavirus.

Pretendendone l’osservanza Conte non ha certamente violato la Costituzione, come invece sostengono alcuni cavalieri lanciati alla carica in un campo libero, senza preoccuparsi di essere coerenti con la logica che sottende ogni osservanza delle norme, evidenziabile con un banalissimo esempio: il semaforo. Perché rispettiamo la regola di passare solo col verde? Perché c’è l’obbligo e temiamo la sanzione, ok. Ma soprattutto perché sappiamo che altrimenti si va a sbattere causando un male a sé e agli altri. Ma anche perché ( il supporto etico della legalità) l’osservanza delle regole è precondizione per una convivenza civile degna di questo nome.

Ora, nella lotta al coronavirus, Conte è mosso proprio dall’obiettivo squisitamente costituzionale di limitare i mali della pandemia e di garantire non solo la convivenza ma addirittura la sopravvivenza della comunità.

Dunque, nessuno sfregio alla Costituzione, anzi! Non capirlo significa confessare che nel nostro Paese la legalità è ancora un concetto per marziani. E dimenticare quel che Marta Cartabia, presidente della Consulta, ha spiegato di recente: la Costituzione è la bussola per navigare nell’alto mare aperto della crisi, a partire dalla leale collaborazione fra le istituzioni che è la proiezione della solidarietà fra i cittadini. Appunto.

Perché gli attacchi politici alla scienza fanno male a tutti

Nella maggior parte dei paesi europei i governi hanno deciso un’uscita minimalista dal lockdown. La cautela è stata consigliata loro da esperti scientifici (virologi, epidemiologi, ecc.) e da importanti istituti di ricerca. Quando sono seri, e non si contraddicono con eccessiva frequenza, gli esperti hanno una sapienza specifica e uno sguardo lungo che i politici in genere non possiedono (tra gli esperti più prestigiosi internazionalmente: in Italia Massimo Galli; in Germania Christian Drosten, direttore dell’Istituto virologico nell’ospedale Charité a Berlino).

Non bisogna però credere che i politici ingoino facilmente l’amaro calice che in qualche modo li declassa. Molti puntano i piedi, si attribuiscono improbabili sapienze in più, giudicano esorbitante il peso degli esperti. L’uscita dal lockdown – lasciano capire – deve restituire loro l’autonomia (meglio: i poteri) che improvvidamente avrebbero delegato.

Di qui gli attacchi a Giuseppe Conte sferrati non solo dall’opposizione ma anche da Italia Viva e parte del Pd. Di qui il conflitto politica-scienza innescato da chi sembra non aver capito la catastrofica singolarità rappresentata dal Covid. Renzi non sa quello che dice, quando denuncia l’abdicazione della politica e paragona il peso esercitato dai virologi a quello dei magistrati nel ’92-’93 o dei “tecnici” economici nel primo decennio del 2000. O quando ha la spudoratezza di dire che “nemmeno ai tempi del terrorismo” le libertà furono a tal punto ristrette. Apparentare la calamità Covid al terrorismo, o a Mani Pulite, o alla crisi del 2008, denota un’ignoranza militante massimamente nociva perché impermeabile alla conoscenza e al distinguo.

Per meglio capire la natura di questo conflitto scienza-politica, vediamo dunque in che consiste il contributo di esperti e comitati tecnico-scientifici. In primo luogo essi sanno leggere le cifre, stabilendo quelle determinanti. In Germania a esempio sono due i dati ritenuti cruciali: l’indice di contagiosità (il cosiddetto Ro – quante persone sono contagiate da un singolo positivo) e il numero giornaliero dei contagiati (N). Se Ro scende sotto l’1 il contenimento funziona. Ma bisogna che scenda parecchio, perché se l’indice è 0,9 basta una scintilla e il Covid risale esponenzialmente. Secondo: gli scienziati hanno memoria delle epidemie da Coronavirus (Sars 2003, Mers 2012, Covid-19): non dimenticano che la Sars fu dichiarata sconfitta quando non lo era. Terzo: sono abituati a cooperare con scienziati di tutto il mondo, molto più dei politici. Quarto vantaggio, essenziale: gran parte degli esperti sono indipendenti, anche quando consigliano i governi. Come vediamo in questi giorni non esitano a contraddire i politici che promettono uscite avventate dal lockdown. È accaduto nel caso di Macron, che aveva annunciato la riapertura imminente delle scuole contro il parere dei tecnici: ha dovuto fare marcia indietro.

In vari paesi gli istituti scientifici mettono in guardia contro uscite non oculate dal lockdown, in assenza di vaccini e medicine risolutive. In un rapporto del 28 aprile, i quattro più celebri istituti tedeschi di ricerca escludono sia il definitivo sradicamento del virus (assenza del vaccino, cooperazione internazionale insufficiente) sia la “diffusione controllata del virus”, resa possibile dalla nuova disponibilità di posti letto per terapie intensive. In altre parole: è inammissibile dire che se i letti passano da 10 a 100 possiamo permetterci 90 intubati in più, chiamando tale scelta “convivenza col virus”.

L’offensiva contro gli esperti vede schierati gli imprenditori, più che giustamente allarmati dal tracollo economico che si annuncia. I politici che li assecondano ne profittano per prendersi una sorta di rivincita e riaffermare il primato che pretendono d’aver perduto (l’avevano già perso da decenni), e questo spiega la scomposta, dilettantesca equiparazione fra Covid e terrorismo, o fra epidemiologi, magistrati e “tecnici” dell’economia. Spiega le scelte e retromarce di Macron. Spiega infine quello che Drosten chiama il paradosso della prevenzione: il lockdown è d’un tratto visto come “reazione sproporzionata” proprio a causa dei successi che ha ottenuto (ospedali sgravati), “alimentando un autocompiacimento che potrebbe generare la seconda ondata di infezione”.

Nasce da questo compiacimento l’illusione – denunciata dagli istituti di ricerca tedeschi– che il virus possa essere combattuto attraverso una sua “diffusione controllata”, grazie ai restaurati posti letto: un calcolo miope oltre che cinico. I quattro istituti propongono al suo posto una “strategia adattativa” che si prepari a superare man mano il lockdown – come legittimamente chiesto dall’economia – ma a precise condizioni: quando i test e le tecniche di tracciamento dei contagi saranno sviluppati al massimo, e quando il numero dei contagiati e l’indice di contagiosità (fattori N e Ro) scenderanno significativamente.

Stesso malumore verso la scienza si registra in Germania. Drosten ha ricevuto minacce di morte quando ha criticato uscite intempestive dal lockdown: “Per molti tedeschi sono l’uomo nero che paralizza l’economia”, ha confidato al Guardian. Ha detto che i letti liberatisi nelle terapie intensive non basteranno neanche nel suo paese, se partirà una seconda ondata Covid. Ha ricordato che basta poco perché l’indice di contagiosità ridiventi devastatore (è accaduto in Germania dopo le vacanze di Pasqua, prima della “riapertura”).

Di questi tempi gli scienziati forniscono brutte notizie, e quando ne forniscono di buone (ad esempio sull’immunità data per certa) sparlano. Dice Jeremy Farrar, infettivologo: “La verità è che non abbiamo buoni test, non abbiamo farmaci di cui si sappia la reale efficacia, e non abbiamo il vaccino”. Liquida così l’immunità di gregge: “Per conseguirla deve essere immune il 60-70 per cento della popolazione. Siamo ben lontani da tali cifre” (secondo uno studio americano non si oltrepassa il 2-3 per cento). Sostiene che non basta scendere di qualche decimale sotto l’1, nell’indice di contagiosità: “Basta una scintilla o una disfunzione dei test e risaliamo a 1,3-1,5: il che vuol dire nuova ondata Covid e nuovo lockdown. Un andirivieni insopportabile per le società”. Quel che occorre è moltiplicare e sviluppare i test e i tracciamenti di contagi, “come fanno i paesi che hanno meglio combattuto la pandemia: Corea del Sud, Singapore, Nuova Zelanda, Germania”. Farrar dice che “ci aspettano giorni neri. Il vero exit è il vaccino”.

Gli esperti cancellati: niente Colao Dal 4 maggio

Com’è noto, sono i particolari a fare la delizia dell’intenditore. Ci si riferisce qui all’unico articolo di 4 righe del decreto ministeriale con cui Roberto Speranza, titolare della Salute, ha cancellato la task force

di esperti guidata dal manager Vittorio Colao dalla mappa della “fase 2”. Si tratta del testo che spiega cosa dovranno fare le Regioni per tenere d’occhio il rischio coronavirus. Questo: “Col presente decreto sono adottati i criteri relativi alle attività di monitoraggio del rischio sanitario di cui all’allegato 10 del Dpcm del 26 aprile 2020, così come individuati nel documento allegato che costituisce parte integrante del presente decreto”.

E qui bisogna spiegare. Per gestire il probabile aumento dei casi dopo la riapertura sono state emanate linee guida che permetteranno, se rispettate e se del caso, di agire sulle singole aree a rischio senza rimettere in lockdown

tutto il Paese (ve ne parliamo qui accanto). È appunto il “monitoraggio del rischio sanitario di cui all’allegato 10”. E cos’è questo Allegato 10? Sono le due paginette costruite con frecce e disegnini – una sorta di gioco dell’oca – che erano finora l’unico contributo autonomo di Colao e soci all’attività di governo.

Quel contributo però, pieno di buone intenzioni e difetti formali, aveva messo in allarme le Regioni e il ministero: estraneo com’era al diritto amministrativo, rischiava di creare caos o, nel peggiore dei casi, di bloccare tutto. L’allegato 10 era, però, citato nel Dpcm insieme a “criteri” ancora da emanare dal ministero della Salute: in genere basta una circolare, ma stavolta per togliere di mezzo il papocchio degli esperti si è scelta la tutela rafforzata del decreto ministeriale, per di più “incorporato” nella norma originale (il Dpcm). Insomma, di fatto l’allegato 10 è stato cancellato e con esso la partecipazione della task force

di Colao al disegno della “fase 2”. Come sostiene Romano Prodi, d’altronde, “tanti anni di governo mi hanno insegnato che un cammello è un cavallo disegnato da una commissione”.