Polito e Carrón ci indicano la via

Sembra ormai opinione diffusa che il virus abbia fatto anche cose buone. Ieri, sul Corriere della Sera, Antonio Polito ci ha svelato nientepopodimenoché la grande lezione di queste settimane d’emergenza, quello di cui tutti dovremmo far tesoro. L’occasione arriva dalla recensione del libro Il risveglio dell’umano di Julián Carrón, il presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, un “agile ebook” – citiamo Polito – che “ci introduce a un tema troppo trascurato: la rilevanza pubblica della fede in momenti come questo”. E poco importa se tutto c’era sembrato meno che non si fosse parlato di fede, anche nel dibattito politico. Ma pazienza. Come si diceva, Polito e Carrón hanno capito “esattamente la lezione di quest’epidemia”: “Per dirla con Shakespeare, ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la sua filosofia”. Tutto perché Carrón si richiama “a quell’esigenza di capire che chiamiamo ragione”. Come superare, allora, le paure di queste settimane e tendere a quella ragione salvifica? “Carrón usa un’immagine molto tenera e molto vera”. Ovvero? “Che cosa vince la paura del bambino? La presenza della mamma. È una presenza, non le nostre strategie. Una presenza storica, carnale, come quella di Dio che si è fatto uomo”. Alla fine è sempre questione di congiunti.

In ricordo di Bravo, allievo di Bobbio

Se ne è andato anche lui per il Covid-19, ma sui mass media, a parte qualche necrologio, la sua scomparsa è stata pressoché ignorata e non ha lasciato evidentemente “tracce”, almeno come recita la rubrica dei morti da virus di Repubblica. Forse perché questo nostro tempo non è tempo né di storia né tantomeno di storici, soprattutto se marxisti.

E il professor Gian Mario Bravo, nato a Torino nell’agosto del 1934, docente di Storia delle dottrine politiche e preside per quasi vent’anni, dal 1978 al 1998, della facoltà torinese di Scienze Politiche, marxista lo era, non soltanto per i suoi saggi autorevoli su Marx e su Engels, su Arturo Labriola, sul socialismo delle origini, sulla Prima Internazionale, sull’anarchismo di Bakunin, su Wilhelm Weitling. Allievo di maestri quali Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Alessandro Passerin d’Entrèves, ne raccolse l’eredità, scegliendo, in quella tradizione prestigiosa, una direzione decisamente di sinistra negli studi.

Ha ricordato lo storico Angelo d’Orsi, su il manifesto, che “in una recente recensione (forse l’ultimo suo scritto) a una pessima biografia di Marx”, presentato come “insignificante” e dove si scrive come “alla vigilia della morte, Marx si fosse fatto tagliare la barba”, Bravo commentava: “Meglio le forbici del barbiere che la penna di sedicenti storici”. Era un intellettuale raffinato e rigoroso, un uomo gentile, un docente capace di mantenere sempre il giusto distacco tra le sue idee politiche e il suo ruolo nel mondo accademico. Quella di Bravo, ha detto ancora D’Orsi, è stata la “vita degli studi”, quella “a cui Gioele Solari (nell’accademia torinese, “il maestro dei maestri”), incitando il suo allievo Norberto Bobbio, proponeva come insegna di chi compiva la scelta quasi monastica dell’insegnamento universitario.

Avviso ai navigati: Sergio dice “calma”

Il quirinalista, si sa, è quel giornalista che vive nascosto dietro le tende o sotto le scrivanie del Quirinale per riportare eventuali pensieri dell’inquilino pro tempore e del suo numeroso staff: tra i più autorevoli c’è di sicuro Marzio Breda del Corriere della Sera, che ieri ci ha spiegato i molti timori del Colle finendo per vergare una sorta di “avviso ai congiurati” che ci permettiamo di tradurre per chi non sia aduso al felpato lessico quirinalizio. Primo: Renzi è inutile che insisti, nonostante Conte e i grillini lo abbiano fatto incazzare, Mattarella non è Napolitano e non si mette a gestire complottini di palazzo per sostituire il premier, specie per uno che ha più ambizioni che voti e senza la sponda di Salvini e Meloni (“per Mattarella, chiunque aprisse oggi una crisi senza la prospettiva di formare una nuova compagine, e dunque al buio, si assumerebbe una responsabilità enorme”). E allora che si fa? Se volete buttare giù Conte dovete stare calmi ancora un po’ e tempo “due o tre mesi” verrà giù da solo: “Escluso il voto in autunno (…) tra chi scommette sulla caduta del premier, qualcuno sostiene che sarà ‘la forza delle cose’ a determinare la sorte di Conte. Cioè la forza di un malcontento che Conte finora non avrebbe dimostrato di saper arginare. Indipendentemente dal Quirinale, com’è ovvio”. Che poi tra guanti e mascherine non restano nemmeno le impronte.

L’ultimatum del cinico Nando Orfei da 2 per cento

Ormai è un filone, un genere, una tipicità: come il sonetto toscano, i violini di Cremona, le ceramiche di Vietri. È l’ultimatum di Renzi. Il 20 agosto 2019 è iniziata la fase di convivenza degli italiani con questo morbo. È una scheggia impazzita, una spada che pende. Oddio, che farà? Farà cadere il governo? Si alleerà con Salvini? Entrerà in Forza Italia? Giacché di tutto lo si ritiene capace. Era il nostro sadomasochistico sollazzo fino al 27 febbraio. Poi è arrivato il Coronavirus, e con esso i lutti, la paura, la responsabilità, la solidarietà; si sono chiusi i teatri, i cinema, i circhi; sono usciti i pagliacci. L’ultimatum di Renzi, invece, non ha chiuso mai.

Ieri in Senato il Nando Orfei del 2%, opportunamente anticipato da agenzie che lo davano in assetto da ultimatum, ha denunciato il “regime degli arresti domiciliari”, lo “Stato etico”, il “paternalismo populista” di Conte, tutte violazioni della Costituzione (quella del ’48, s’immagina, rimasta illesa dopo il tentato scasso del suddetto). L’abbiamo sentito dire: “Chi dicesse di riaprire tutto andrebbe ricoverato”, magari nella stessa stanza con quello che il 28 marzo ha detto: “Le fabbriche devono riaprire prima di Pasqua. Poi i negozi, le scuole, le librerie, le messe. Si torni a scuola il 4 maggio”; citare Seneca (poveraccio, dopo l’agonia per dissanguamento nella vasca gli mancava solo questa); poi minacciare di togliere il tappo, cioè sé stesso, a una maggioranza stremata dalla durezza del momento.

Volevamo commentare lo strano caso di un componente del governo che ne è simultaneamente il principale oppositore; poi lo abbiamo sentito dire che “se la gente di Bergamo e Brescia che non c’è più potesse parlare direbbe ‘ripartite anche per noi’”, e abbiamo capito una volta per tutte che il merito per costui è irrilevante. È tutto cinismo d’accatto, giocoleria della tensione, esibizionismo da torero. Ormai è un caratterista di Fellini. Ci vergogniamo per lui.

Pm di nuovo al Pirellone: arrivano da Bergamo

Dai corridoi dell’ospedale di Alzano Lombardo ai piani alti della Regione Lombardia. L’inchiesta della procura di Bergamo spariglia le carte e accelera decisamente. Nel mirino dei magistrati e dei Nas di Brescia c’è la chiusura e la riapertura del pronto soccorso di Alzano avvenuta in poche ore tra il pomeriggio e la sera del 23 febbraio, dopo la certezza che per giorni in quella struttura erano stati ricoverati almeno due pazienti risultati positivi al Covid. Il tutto senza che venisse eseguita un’adeguata sanificazione degli ambienti e disposti triage per i pazienti infetti. L’obiettivo è individuare la catena delle responsabilità che hanno trasformato quell’ospedale in un perfetto volano di diffusione del virus. Ecco allora che due giorni fa la procura di Bergamo ha messo in mano ai carabinieri un decreto di acquisizione di documenti negli uffici della Regione.

Il lavoro dei militari è andato avanti per tutta la giornata. Sono stati così raccolti decine di documenti salvati sui vari pc dei funzionari regionali. Sono state copiate tutte le corrispondenze, a partire da quelle inviate alla direzione generale alla Asst di Bergamo est. L’attività dei Nas ha coinvolto diversi uffici del comparto sanitario regionale. Si tratta di acquisizioni, il che suggerisce come il fascicolo sia ancora a modello 44 (contro ignoti e senza indagati) con l’accusa di epidemia colposa. Tra i vari file acquisiti anche la documentazione con cui la Regione indicava al direttore generale dell’Asst Bergamo est di non chiudere il pronto soccorso a fronte di due pazienti positivi. Particolare che allo stato non ha alcuna rilevanza penale. Di certo quello che è accaduto il pomeriggio del 23 febbraio allo stato non è chiaro.

All’ospedale di Alzano il Nas ci è andato i primi giorni di aprile. Qui sono stati acquisiti, oltre alle cartelle cliniche anche i protocolli e le direttive per individuare le presunte responsabilità penali dei vari dirigenti. Nei giorni scorsi, la Procura ha sentito infermieri e dirigenti. E’ stata ascoltata anche la versione di alcuni operatori per i quali la dirigenza dell’ospedale aveva chiesto alla direzione della Asst di chiudere, e che tale richiesta sarebbe rimasta inascoltata per via dell’ordine “arrivato dall’alto” di “rimanere” aperti.

Il salto di qualità dell’indagine non esclude poi che la Procura voglia chiarire le responsabilità della mancata zona rossa attorno a Nembro e Alzano, preparata con i posti di blocco e poi superata dal decreto governativo che a quella data ha trasformato la Lombardia in zona rossa. Il fascicolo bergamasco coinvolge anche diverse Residenza sanitarie per anziani. Su 65 Rsa, 13 sono finite nel mirino della Procura. In mano ai magistrati c’è un dato sorprendente: il tasso di mortalità negli istituti supera il 32%, percentuale quasi doppia rispetto al 18% di media indicato in un recente studio dell’Iss. Stando ai dati del fascicolo, da gennaio i morti nelle Rsa sono stati 1998, vale a dire 1322 in più rispetto al 2019. Sul tavolo del procuratore facente funzione Maria Rita Rota sono 13 gli esposti che riguardano altrettante strutture, anche se solo 8 risultano aver accolto pazienti Covid.

Tamponi nelle Rsa fatti solo a un paziente su tre

In Lombardia, dopo la strage dei nonni – 1.625 morti secondo i dati (parziali) dell’Istituto superiore di sanità, 5mila secondo le stime della Cgil –, dopo le inchieste aperte dalla magistratura, e dopo le richieste, fino a ora inascoltate, per la costituzione di un tavolo di confronto sulle Rsa, l’assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera, ieri mattina, ha convocato le cinque associazioni lombarde delle case di riposo. Sul tavolo, si è trovato la questione di come, da parte di queste strutture, poter affrontare un’ipotetica “Fase 2”, considerato il dramma e l’emergenza da cui ancora molte realtà non sono uscite. C’è il tema della ripresa sanitaria (la riapertura dei servizi), di quella organizzativa, di quella economica (le perdite finanziarie, per la liberazione di molti posti letto a causa dei decessi). Ma soprattutto c’è la questione dei tamponi: “Perché sino a quando non si farà uno screening a tappeto che coinvolga tutta la popolazione anziana ospite delle nostre Rsa, non potremo decidere quali politiche adottare per riorganizzare il servizio, anche in funzione dei tanti in lista d’attesa”, dice Luca Degani, presidente dell’associazione Uneba. “Verificare chi è positivo al Covid 19 è fondamentale per isolarlo, per creare nuovi spazi”, spiega Degani.

Per ora una cosa è certa. Dopo gli strappi delle scorse settimane, dopo la lunga attesa, per le associazioni – oltre a Uneba, Agespi, Anaste, Aris, Arlea, Anfas e Aci Welfare – il clima, in Regione, è un po’ cambiato, racconta chi c’era alla riunione. Da Gallera è arrivato il via libera ad attivare le reti ospedaliere per assicurare presidi sanitari agli anziani degenti. Così come un “via libera” ai tamponi per tutti. Anzi: sul 40% degli ospiti – ha riferito l’assessore – sarebbero già stati eseguiti. La Regione sarebbe pronta a fare tamponi anche agli anziani ospitati nelle case di riposo non convenzionate. Ma di quel 40% annunciato da Gallera ai gestori delle Rsa non ci sarà traccia nel comunicato sull’incontro diramato nel pomeriggio dall’ufficio stampa della Regione. “Abbiamo attivato un percorso di coinvolgimento dei gestori delle strutture residenziali e semiresidenziali della Lombardia per definire le regole per garantire la tutela sanitaria degli ospiti e degli operatori in vista della riapertura degli accessi e delle attività”, si limiterà a dire l’assessore Gallera. Spiegando, che sulle Rsa, “il piano regionale attuerà le disposizioni nazionali e le linee guida elaborate dall’Iss”; che ben presto le case di riposo riapriranno; e che, nel frattempo, le Ats procederanno con l’esecuzione dei tamponi “alle strutture residenziali che ne fanno richiesta”.

Per capire come stanno effettivamente le cose abbiamo chiamato tutte le aziende sanitarie della regione. Scontrandoci quasi sempre contro il silenzio, perché in molti casi la riposta ufficiale è stata: “Per questi dati, dovete chiedere alla Regione”. Per chi ci ha risposto, qualche dato siamo riusciti ad averlo. L’Ats di Bergamo – una delle provincie più colpite dai contagi – conta 65 case di riposo per un totale di 6016 posti letto. Finora i tamponi eseguiti sono oltre 4mila, ma è un numero che comprende sia i degenti che gli operatori sanitari.

C’è poi l’Ats Montagna, che conta 38 Rsa. In questo caso il dato riguarda il numero dei tamponi effettuati sui pazienti delle case di riposo ma che hanno avuto esito positivo: fino a ieri erano 635. L’Ats Brescia, invece, comprende 84 case di riposo. Anche in questo caso l’unico dato è quello su tamponi “positivi”: dal 16 al 29 aprile sono stati 535 sui pazienti, 186 sugli operatori.

Sappiamo che il sistema delle Rsa della Lombardia si compone di 70mila posti letto, dei quali 60mila offerti dalle 708 strutture accreditate. Ma bisogna tenere conto del fatto che molti posti letto, con le migliaia di decessi avvenuti, adesso risultano vacanti: “Parliamo almeno del 10% del totale”, spiega Degani. Il che significa che i tamponi eseguiti finora sui degenti sarebbero, all’incirca, ancora solo 25mila.

“Blindo i nostri confini e voglio i tavolini dei bar”

E io chiudo.

Ma se ha appena riaperto!

Parla dei bar? Dei ristoranti?

Lei di cosa parla?

Dell’esodo dal Nord. Non possono farci questo proprio ora.

Ma siamo alla fase 2. Bisogna ripartire, muoversi. Il centrodestra chiede un po’ di coraggio. Che fa, diserta proprio lei? E proprio il giorno dopo la prova di forza che ha ingaggiato con Roma?

Se lunedì lei immagina di venire in Calabria, deve sapere che dovrà scrivermi, dirmi dove dormirà, e accettare la quarantena.

Jole Santelli, presidente della Calabria, era parsa la più ottimista quando ha vergato l’ordinanza che permette di sostare al bar, seppure all’aperto.

Chi governa immagazzina anche tecniche di psicologia sociale. I calabresi avevano bisogno di un riconoscimento, di un atto di fiducia. Allora mi son detta: se il governo autorizza l’asporto dalla pizzeria, io allento un altro po’, li faccio anche sedere.

Qui entra in gioco la psicologa Santelli.

Devi capire l’io collettivo, il serbatoio di perplessità e di angustia che la pandemia conduce nelle menti e attivare la scintilla della palingenesi. C’è il sole all’orizzonte.

È una mole ragguardevole di introspezione.

Non possiamo più abbracciarci, baciarci, toccarci.

Almeno il tavolino al bar…

Ecco, bravo. La luce, anche se fioca, della ripartenza. Il ritorno a una abitudine, l’avvio di un percorso di ricostruzione della socialità.

Purtroppo i baristi non l’hanno ascoltata. Pochi tavolini, nessun avventore. I comuni hanno protestato.

È una libertà che ho concesso. Mica sono obbligati.

E se avesse solo confuso, fatto ammuina e basta?

Guardi: chi meglio di me conosce i calabresi? L’ordinanza concede una libertà a chi risiede qui.

La Calabria resta chiusa agli italiani, ma quasi aperta per i calabresi.

Però da lunedì non so cosa accade, quanta gente arriverà.

Lei chiude i “confini”.

Blindo, mi tutelo. Non possiamo permetterci una seconda ondata.

Conte la ascolta?

Ho un buon rapporto con Speranza, è più ragionevole.

Lei è donna di Forza Italia.

Partito con l’Italia nel cuore.

Salvini pensa che debba cadere il governo. Renzi sarebbe dello stesso avviso.

Vede possibile una crisi adesso? Dobbiamo pensare al Paese, a ricostruire, a ripartire.

Infatti Berlusconi sta guadagnando punti, Salvini li sta perdendo…

Forse il primo è molto più esperto, e l’età gli permette di mettere a frutto l’esperienza, un bene ora prezioso.

Il premier Conte può dormire sonni tranquilli?

A me non piace, alcuni suoi ministri però sì.

Poi il premier si è messo a scrivere nel dettaglio ogni cosa che si può fare…

E basta con questa mania di dirci anche le virgole! Fai una legge cornice, dai le direttive generali e lascia fare a noi. In Calabria viviamo di turismo.

Se blinda i confini è difficile che i turisti possano raggiungervi.

Ora blindo: c’è paura.

E qui fa capolino la psicologa più che la politica.

Dobbiamo gestire il contenimento del contagio, essere sicuri che non vada oltre una certa soglia.

Però gli alberghi si riempiono con i turisti. Se in Calabria circoleranno solo calabresi la vedo dura.

Ho un altro problema con Conte: mi ha mandato cinquanta immigrati Covid.

Immigrati con il coronavirus? Così tanti e solo a lei?

Non si sa se ce l’hanno, dobbiamo verificarlo.

Quindi immigrati e basta.

La pandemia è esplosa anche in Africa. E noi siamo il primo bastione. Ho paura che in autunno subiremo l’effetto di ciò che accadrà in estate. Nessuno più si cura dell’Africa.

Quanti posti in terapia intensiva?

Siamo partiti che erano 106, ora siamo a 200.

La sanità calabrese non ha grandissima reputazione.

Siamo fragili, perciò più spaventati.

È per questo che siamo rimasti colpiti tutti dalla sua politica aperturista. È sembrata più un’ordinanza in favore del centrodestra che dei calabresi…

Proprio no. Lontanissima da ogni contrapposizione, mica pensa che mi metta a decidere in ragione della polemica politica?

È che ha firmato di notte la riapertura per il mattino seguente. Precipitosa, no?

Firmi quando hai tempo.

Jole con la J o con la I?

Con la J grazie. Non capisco mai perché tutti la scrivano con la I.

Comprendo il disagio.

Spero che il premier non mi faccia qualche brutto scherzetto.

Teme che le mandi italiani del nord, ex calabresi e anche apolidi.

Non è ancora tempo.

Ma siamo alla fase 2!

Ma ci vuole prudenza, proporzionalità, adeguatezza, controllo.

Così parla anche Conte!

Ma che significa? Forse che le parole hanno il copyright?

Speranza: si apre e si chiude in base ai dati sui contagi

Nessuno pensi a un “liberi tutti”, dovrà essere una “transizione”. L’avvio della Fase 2 che inizia il 4 maggio con la riapertura di alcune attività – edilizia, manifattura e commercio all’ingrosso – e l’allentamento dell’isolamento sociale dovrà avvenire all’insegna della massima cautela. Per questo ieri Roberto Speranza ha firmato un decreto che definisce le modalità con cui il ministero della Salute, Regioni e servizio sanitario dovranno tenere sotto controllo l’epidemia. La parola d’ordine è “monitoraggio”: quello del numero dei casi registrati sul territorio nazionale, della capacità di diagnosi tramite “tempestiva esecuzione dei tamponi” e della tenuta dei servizi sanitari, con la stretta osservazione del numero delle rianimazioni negli ospedali. Per classificare tempestivamente il livello di rischio, poi, “sono stati disegnati alcuni indicatori con valori di soglia e di allerta” che “devono portare a una valutazione” per “decidere se le condizioni siano tali da richiedere una revisione delle misure adottate/da adottare ed eventualmente anche della fase di gestione dell’epidemia”. Tradotto: se in un territorio il numero dei contagi supererà la soglia limite potranno scattare nuovi lockdown. Di contro, se i dati – analizzati da ministero, Regioni e Iss – daranno disco verde in alcune aree negozi, ristoranti, parrucchieri potrebbero riaprire il 18 maggio.

L’incubo che la curva torni salire non cessa di incombere, anche se i dati lasciano ben sperare. Ieri la Protezione civile ha comunicato che in 24 ore sono stati 1.872 i nuovi contagi in Italia: un incremento dello 0,92%, il più basso dall’inizio dell’epidemia, per un totale di 205.463 casi. Il numero comprende i positivi (101.551, con un calo record di 3.106 unità), le persone dimesse o guarite – che salgono a 75.945, con un incremento di 4.693 unità in 24 ore – e i morti: altri 285. Dei 1.872 nuovi positivi, la maggior parte sono stati comunicati dalla Lombardia, che pure migliora: i nuovi casi sono 598 (il 31,9%) con 11.048 tamponi, quando martedì erano stati 786 con 14.472 test. Poi vengono il Piemonte (428), l’Emilia (259), il Veneto (135) e la Liguria (104). Lontane le Regioni del centro, con i 60 registrati in Toscana e i 71 del Lazio. Ed è questa distanza tra Nord e Sud il leit motiv con cui l’Italia si appresta a riaprire.

La Fondazione Gimbe ha messo in relazione l’aumento dei casi registrato tra il 22 e il 29 aprile con la prevalenza, ovvero il numero dei contagi per 100mila abitanti. Ne viene fuori che in Lombardia, Piemonte, Liguria e Provincia di Trento è ancora in corso la Fase 1. “La riapertura avverrà sul filo del rasoio – spiega Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione – perché dei 4,5 milioni di persone che torneranno al lavoro la maggior parte si concentra proprio in queste Regioni, senza dimenticare che l’eventuale risalita dei contagi non sarà visibile prima di 2 settimane”. Ancora: l’80% dei nuovi casi e dei nuovi decessi si concentra ancora in Lombardia, Veneto, Emilia, Piemonte e Liguria. Nelle prime tre ha sede il 55% delle 192.443 aziende che al 24 aprile avevano presentato la comunicazione alle prefetture per continuare a lavorare: il 23% nella Regione martire e il 16,4% sia in Veneto che in Emilia. “Osservare due fenomeni non implica necessariamente un rapporto causa-effetto tra loro – prosegue il professore – Ovviamente se aumenta la frequenza dei contatti sociali cresce il rischio di contagio. Quindi è ragionevole affermare che le deroghe concesse dalle prefetture hanno rappresentato un fattore di rischio per l’aumento dei casi, seppur non quantificabile”.

Calabria diffidata e divisa. I sindaci: “Non apriamo”

Il ministro Francesco Boccia aveva avvisato: per i governatori autori di ordinanze che allentano le restrizioni del decreto sulla Fase 2 arriverà la diffida. E la prima è destinata alla Calabria, dove la governatrice Jole Santelli, in barba alle norme nazionali, ha autorizzato da ieri la riapertura dei locali con tavoli esterni e dei mercati. Una decisione che ha irritato parecchio non solo il governo (“se non verrà ritirata, l’ordinanza sarà impugnata”, ha detto ieri il ministro Boccia), ma anche parecchi sindaci calabresi. Alcuni hanno già emanato proprie ordinanze per chiarire che nei rispettivi comuni resta in vigore il decreto del presidente del consiglio. Tra questi il primo cittadino di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà (Pd): “Tutti vogliamo che la Calabria riparta – ha detto –, ma nel rispetto della legge e della salute dei cittadini. È un’ordinanza illegittima e un avvocato (come lo è la Santelli, ndr) dovrebbe saperlo”. Dello stesso avviso è il sindaco di Lamezia Terme, Paolo Mascaro (ex Forza Italia): “Non si può rischiare di vanificare i sacrifici immensi di due mesi”.

Il timore di un esodo.Intanto in Calabria, come in altre regioni meridionali, è partito l’allarme: si teme un esodo a partire dal 4 maggio. Sempre la Santelli, con un’altra ordinanza, ha concesso ai soli calabresi di far rientro nelle proprie residenze. Anche in questo caso, quindi, disattendendo l’ultimo decreto. Con il Dpcm del 24 aprile si è stabilito infatti che da lunedì resteranno vietati gli spostamenti tra Regioni, “salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute”. Tuttavia, “è in ogni caso consentito il rientro presso il proprio domicilio abitazione o residenza”.

Campania. La paura dell’esodo dal Nord sta impensierendo anche Vincenzo De Luca. “Da parte delle Ferrovie dello Stato – ha detto il governatore della Campania – ci arriva la notizia che sono tutti occupati i treni ad alta percorrenza che arrivano dal Nord al Sud”. I treni saranno anche pieni, ma in verità si tratta di numeri che gli addetti ai lavori definiscono “esigui”. Le corse dell’Alta velocità infatti sono state ridotte del 90 per cento, inoltre i biglietti sono stati venduti a “scacchiera” per rispettare il distanziamento. Insomma la metà dei posti resterà vuota. Ci sono poi i controlli delle forze dell’ordine nelle stazioni, proprio per evitare che si ripetano le scene degli assalti ai treni di inizio marzo scorso.

Ancora nell’incertezza. Insomma a quattro giorni dall’inizio della Fase 2 è il caos: le Regioni contro il governo, i Comuni contro i governatori. A ciò si aggiunge l’incertezza dei cittadini su quelli che saranno gli spostamenti consentiti da lunedì. La domanda è sempre la stessa: dal 4 maggio chi sarà possibile incontrare all’interno della stessa Regione? Genitori, zii, cugini e nipoti, mogli, mariti (coppie di fatto comprese) e figli di sicuro sì. I fidanzati pure. Non sono stati ancora pubblicati chiarimenti nella sezione “domande frequenti” sul sito del governo. E il premier Giuseppe Conte ieri non ha fornito delucidazioni su questo tema durante l’informativa alla Camera. Anzi, ai “congiunti” e agli “affetti stabili” di cui si è parlato finora, ha aggiunto un altro elemento: è consentito, ha detto, “andare a trovare i propri cari”. E quindi di nuovo: anche gli amici?

Amici compresi? Di certo di congiunti si parla nel Dpcm del 24 aprile. Qui si stabilisce che dal 4 maggio saranno consentiti “gli spostamenti per incontrare congiunti” all’interno della stessa Regione, “purché venga rispettato il divieto di assembramento e il distanziamento interpersonale” e vengano utilizzate le protezioni. In un lancio di agenzia, non smentito, citando fonti di Palazzo Chigi, poi si spiegava che in questa categoria rientrano parenti, affini, coniugi, conviventi, fidanzati e affetti stabili. Di amici ha parlato invece Pierpaolo Sileri, vice ministro della Salute e senatore M5S. “Anche un’amicizia è un affetto stabile”, ha detto due giorni fa. Infine ieri il premier Conte ha appunto parlato di “propri cari”.

I casi analizzati. Nelle prossime ore, il Viminale invierà una circolare ai prefetti per fornire indicazioni precise alle forze dell’ordine impegnate nei controlli. Intanto si stanno analizzando diversi casi. Come quelli degli studenti “fuori sede”, che vogliono tornare nelle case “condivise” con altri ragazzi, o di coloro che magari, rimasti soli, hanno un unico amico e che di certo è “un affetto stabile”.

Salvini ha scoperto il Senato: di notte

Chissà come ha fatto a tenersi su Matteo Salvini, chissà quanti caffè. Tutta la notte sul suo seggio al Senato a far nulla. Qualche diretta Facebook, una manciata di foto da pubblicare e poi il grande vuoto: è la manifestazione più noiosa di tutti i tempi.

Una tortura autoinflitta: ore e ore vicino a Bagnai e Centinaio in un’aula deserta, senza poter chiudere occhio o lasciare la postazione. La Lega fa opposizione così: 72 onorevoli e senatori a darsi la staffetta per tenere aperte le Camere, per la gioia di chi paga le bollette della luce e gli straordinari dei commessi, costretti a fare da baby sitter di questo pigiama party parlamentare.

Una notte bianca in mascherina nera: quella di Salvini ha un taglio modernista e una fascia tricolore su un lato. Un Aventino al contrario: mentre tutti sono fuori dal Parlamento, loro si barricano dentro. Un controsenso: Salvini ha saltato l’89,98% delle sedute da senatore, ma difende la centralità del Parlamento.

La cronaca della maratona è deludente. Alle 22 c’è il primo selfie da Palazzo Madama: il nuovo occhialone in montatura marrone è un po’ appannato per la condensa da mascherina, la guaina nera che gli copre le guance lo fa sembrare una strana creatura, a metà tra Diabolik e Cattivik.

A mezzanotte ecco le foto di gruppo da Camera e Senato: balzano agli occhi la precaria distanza di sicurezza negli assembramenti leghisti e le lenti di Bagnai, ancora più appannate di quelle di Salvini.

Verso l’una c’è la diretta Facebook: il live per sonnambuli è il format della pandemia salviniana. In genere si esibisce in cucina, di fronte alla lavastoviglie. Stavolta il contesto è più solenne, l’eloquio uguale: “Invece di andare a nanna come tutti gli altri, abbiamo iniziato a stare nel nostro luogo di lavoro” (e questa è una notizia). Ci rimarranno, dice Salvini, “per tutto il tempo necessario”. Terrore tra i parlamentari leghisti, bloccati nelle Camere come Tom Hanks in aeroporto (l’occupazione non è finita: mentre il giornale va in stampa sono ancora lì).

Il momento clou è dopo le 4: altra foto di gruppo dei senatori leghisti in piedi dietro al loro scranno; sembrano quasi alzarsi sui banchi come nell’ultima scena de L’attimo fuggente (“Capitano mio capitano”). Salvini scrive: “Qui Senato, 4.15, in collegamento notturno con Sindaci, imprenditori, Forze dell’Ordine, studenti, medici e tanti Italiani che pensano al futuro”. Tutti collegati per parlare con lui a quell’ora? Non era meglio sentirsi la mattina dopo?

Qui il racconto in presa diretta si interrompe. Salvini torna a casa per una doccia e un cambio d’abito. Magari un pisolino. Alle 9 pubblica un selfie dalla macchinetta del caffè di Palazzo Madama: “Qui Senato. Non si molla”. Sull’originalità non garantiamo: è vestito ancora come la notte prima.