Zagrebelsky: “Chi dice Costituzione violata non sa di cosa sta parlando”

In questi giorni alcuni leader politici stanno scoprendo la Costituzione (Salvini), mentre altri la riscoprono dopo tentativi di sfregio (Renzi). Gustavo Zagrebelsky ha scritto su Repubblica: “Mi chiedo quanto ci sia di esagerato e di strumentale in questi ‘al lupo, al lupo’ e quanta incomprensione della natura del problema che abbiamo di fronte”. Proviamo a rispondere.

Professore, volano parole grosse sia da parte di esponenti politici che di suoi colleghi: “Scandalo costituzionale”, “Costituzione violata”, “democrazia sospesa”, un premier “che scavalcando il Quirinale compie un mezzo golpe”.

Quando scendono in campo i giuristi, vuol dire che non siamo molto ben messi. Ci si rivolge ai giuristi per avere una parola chiara e normalmente se ne ottengono molte e oscure, spesso contraddittorie. Una delle più frequenti prestazioni dei giuristi, nel loro insieme, è di rendere meravigliosamente oscure (Rabelais) persino le questioni chiare.

Si mette in discussione la legittimità dei provvedimenti del governo. Lei che pensa?

Stiamo ai testi. Abbiamo due decreti-legge, il primo convertito in legge e il secondo, a quanto mi risulta, non ancora esaminato dal Parlamento, ma in vigore. E poi 11 decreti del presidente del Consiglio, gli ormai celeberrimi dpcm. I decreti legge sono equivalenti alle leggi, che servono, secondo Costituzione, a fronteggiare i “casi straordinari di necessità e urgenza”. Credo che nessuno dubiti che si sia in uno di questi casi. Il decreto legge numero 6 di febbraio stabilisce che le autorità competenti sono “tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”. Successivamente indica le materie in cui tali misure possono intervenire: circolazione, trasporti, scuola, manifestazioni pubbliche, ecc. In breve: le misure attuative (i dpcm) sono autorizzate dalla legge e il governo ha fatto uso dell’autorizzazione in quanto “autorità competente”. Il governo non ha usurpato poteri che non gli fossero stati concessi dal Parlamento. Undici decreti sono tanti, ma l’autorizzazione data al governo prevede precisamente che l’attuazione sia, per così dire, mobile, seguendo ragionevolmente l’andamento dell’epidemia.

Quindi tutto bene?

Sto parlando degli aspetti formali. Le restrizioni dei diritti costituzionali in situazioni come quella che stiamo vivendo e nei limiti ch’essa richiede devono avvenire in base alla legge, ed è ciò che è avvenuto. “In base alla legge” e non necessariamente dalla legge approvata dal Parlamento: ci immaginiamo che cosa sarebbe una discussione parlamentare articolo per articolo? Nella sostanza, le misure oggetto della decretazione possono essere valutate come si vuole, ma questa è un’altra questione. L’opinione di chi sostiene che i diritti costituzionali siano stati limitati per arroganza del governo è errata.

C’è chi dice che il governo e il suo capo si siano dati i famigerati pieni poteri.

Appunto: c’è chi lo dice, ma non è detto che sappia quel che dice. Questi cosiddetti pieni poteri in realtà sono stati attribuiti dal Parlamento e dunque non se li sono “presi”. In secondo luogo, si tratta di poteri tutt’altro che pieni, essendo limitati dallo scopo: il contenimento della diffusione del virus. Fuori da questa finalità sarebbero illegittimi.

Non le sembra che il Parlamento sia emarginato?

In un certo senso sì, perché una grande questione nazionale come è questa meriterebbe dibattiti e deliberazioni d’alto livello, appelli alla solidarietà nazionale, dimostrazioni di consapevolezza della gravità del momento, insomma ciò che ci si aspetterebbe dai nostri “eletti”. La sede naturale è il Parlamento. Se il Parlamento (o meglio alcune forze politiche) lamenta l’emarginazione, la imputi a se stesso che ha votato l’autorizzazione con una sua legge. In ogni caso, il Parlamento dispone in qualunque momento di strumenti per aprire dibattiti e confronti, per modificare ed, eventualmente, anche per togliere al governo ogni potere e riprenderselo. Se vuole e può, lo faccia. Ma mi pare piuttosto che si preferisca litigare per mostrare di esistere e fare propaganda.

C’è una forte tensione anche tra Stato e Regioni.

La tensione è politica. Giuridicamente, la questione è risolta dal principio costituzionale di sussidiarietà: la competenza segue la dimensione del problema. È come un cursore che si arresta e conferisce la competenza nel punto (alto o basso che sia) adeguato alle funzioni da gestire: funzioni piccole, in basso; funzioni grandi, in alto. Il cursore va dai Comuni fino allo Stato, passando per le dimensioni intermedie. Questa è una pandemia: il minimo è che se ne occupi lo Stato.

Se le responsabilità sono statali, si possono ammettere deroghe locali come in Calabria?

Date le dimensioni dell’emergenza, la responsabilità è del governo. Le Regioni possono essere autorizzate a prendere misure più o meno restrittive, a seconda delle condizioni in cui si trovano. Ma non possono agire di propria iniziativa. Ci possono essere trattative, però è il governo che apre o chiude i rubinetti perché del governo è la responsabilità generale.

Si è parlato di scaglionare la popolazione in base all’età: è costituzionalmente ammissibile?

La “questione anziani” è emersa nella prima fase dell’emergenza in maniera drammatica, quando le strutture sanitarie disponevano di poche risorse rispetto alle necessità. Si poneva un dilemma tremendo. Non potendo assistere tutti, a chi dare la precedenza? Oggi per fortuna non siamo più in queste condizioni, perché la pressione sulle strutture di terapia intensiva è diminuita. Tuttavia, è emerso allora un pensiero, un retropensiero che, come un virus, è, per ora silenziosamente, tra noi. I vecchi hanno già vissuto la loro vita, che cosa pretendono rispetto a chi la sua vita deve ancora viverla? Questione terribile, che dobbiamo essere preparati ad affrontare perché ritornerà, tanto più in quanto gli anziani saranno percepiti come soggetti improduttivi, pesi e costi per la società tutta intera che, in nome del proprio sviluppo, non può permettersi di sostenere. Il darwinismo sociale busserà alle nostre porte finché il valore essenziale proposto alle nostre vite sarà il successo. Ogni mattina, quando mi alzo dal letto, mi assale l’idea che la mia vita vale, agli occhi degli altri, un po’ meno del giorno prima, fino al momento in cui arriverà finalmente la rottamazione. Poi si è proposto di prolungare l’isolamento solo per gli anziani perché più vulnerabili. Le limitazioni dei diritti si possono mettere in atto solo se, come dice la Costituzione, si mettono in pericolo i diritti altrui, non i propri. Alla propria salute ognuno pensa per sé. L’essere anziano non è sinonimo di particolare pericolosità.

È arrivato il momento in cui la competenza mostra la sua importanza?

Ci sono questioni che non possono essere affrontate e risolte in base soltanto alle proprie preferenze, o ai propri capricci, come vorrebbero i bambini. Detto questo, l’appello che si fa alla comunità scientifica, non sempre, anzi quasi mai, è risolutivo. All’interno della comunità scientifica esistono divergenze di opinione. Aggiungo che, contro le apparenze, non è un male per la democrazia: se la scienza si pronunciasse all’unanimità in nome di una verità assoluta e indiscutibile, non ci sarebbe nulla da fare se non ubbidire. Buona cosa è che la scienza prospetti argomenti, ma poi la scelta è responsabilità della politica. In una situazione d’incertezza come è questa nostra, la politica gioca necessariamente d’azzardo. Le decisioni che le si richiedono, non possiamo dire con certezza quali effetti potranno avere. Gli uomini politici responsabili, che studiano e agiscono con prudenza ascoltando chi ne sa più di loro meritano comprensione e rispetto, pur nella totale libertà di tutti di manifestare il proprio dissenso. Ma, anch’esso è basato sull’azzardo senza, però, la corrispondente assunzione di responsabilità. Facile criticare, più difficile decidere.

A proposito: si parla di un governo tecnico per gestire la ripresa.

Il governo tecnico si dice tale perché composto da persone competenti che non debbono agire per ottenere un consenso elettorale. Ma la tecnica non è mai neutra. La versione più ovvia è quella conservatrice. Tra non molto ci troveremo davanti alla domanda della “ripartenza”: così “come eravamo”, o secondo visioni nuove della salute, dell’ambiente, del lavoro, dell’abitazione, della produzione e del consumo, eccetera? La risposta innovatrice non la darà la tecnica.

Dispetti, urla e spinte: le Camere come un asilo

Al presidente di Montecitorio, che pare un preside troppo buono, scappa un sospiro a microfono aperto: “Eh, vabbè”. Nell’Aula della Camera mutata dall’emergenza nel set di un film sugli alieni, Roberto Fico prova a convincere un leghista a rimettersi la mascherina, mentre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aspetta di parlare, senza mascherina.

Una scena che racconta molto del senso di un giovedì in Parlamento, quello dell’ennesima informativa di Conte, questa volta sulla fase 2. Perché il coronavirus per tanti politici è stato una livella, capace di frantumarne il peso (vero o presunto), figuriamoci la visibilità. Così in un giorno in cui c’è anche la diretta tv, vale tutto pur di farsi notare. Anche togliersi la mascherina come certi bimbi si toglievano il grembiule per fare dispetto alla maestra, come fa in apertura di seduta il leghista Paolo Paternoster. Già da alcuni minuti le opposizioni protestavano perché Conte, distanziato dai ministri, voleva parlare al microfono senza protezione. Così Fico deve ricordarlo: “Abbiamo stabilito in capigruppo che, come i deputati che parlano dal proprio posto devono mettere la mascherina perché non c’è la distanza sufficiente, quando si vuole parlare senza mascherina si va nell’emiciclo”.

Vorrebbe farlo anche il premier, ma Paternoster si toglie la protezione di stoffa. Fico prova ripetutamente a convincerlo a rimettersela, (“Non possiamo andare avanti così”), fino a sospendere la seduta per cinque minuti. Poi si riprende, con la Lega sempre nervosissima. Sarà la fatica per il presidio permanente in Aula deciso da Matteo Salvini: un modo per ricordare che il Carroccio c’è e il capo è ancora lui, ribaltoni interni permettendo. Ma i discoli senza mascherina abbondano e Fico si sgola pure con il renziano Luigi Marattin: “Se la metta e si segga per favore”. Intanto però grillini e leghisti si insultano a distanza. Rossano Sasso del Carroccio e il grillino Riccardo Ricciardi se ne dicono qualcuna di troppo, e il leghista invoca sanzioni: “Presidente, richiami Ricciardi”. Fico è zen: “Colleghi, tranquillità”. Come negli stadi, Sasso invoca l’intervento del Var per rivedere l’accaduto e il presidente annuisce: “Le rivedremo le immagini”. Ma il peggio non è finito.

Si passa in Senato, dove un eletto del Pd finisce in terra davanti alla buvette. Trattasi del vicecapogruppo del Pd, Cesare Mirabelli, che racconta: “Stavo parlando con il leghista Centinaio, con cui siamo amici, quando è arrivato un figuro che gli ha detto di non perdere tempo con gli asini e senza una parola sono stato buttato a terra”. Il “figuro” sarebbe un altro leghista, William De Vecchis, che all’Adnkronos assicura: “Non ho spinto nessuno, con Mirabelli solo un equivoco poi chiarito”. Testimoni sostengono che equivoco non pareva, e che la dem Valeria Fedeli abbia urlato a De Vecchis: “Ti denuncio”. Ma ci sarebbe anche il dibattito in Aula. Quindi Salvini, che davanti al microfono si tiene gli occhiali ma si toglie la mascherina, colore nero littorio. E subito ne dice una non male: “Il governo è ostaggio della Cgil”. E sembra il Berlusconi degli anni d’oro. Altri tempi, chissà quanto rimasti nel cuore di Matteo Renzi, ufficialmente in maggioranza.

Pugnace, il capo di Iv, ma di memoria corta. “Nessuno le ha mai detto di riaprire tutto”, scandisce di fronte al premier, anche se ad Avvenire il 28 marzo aveva detto che le fabbriche andavano riaperte prima di Pasqua e le scuole il 4 maggio. Poi, tra una frecciata ai grillini e una citazione di Seneca, scomoda Mino Martinazzoli: “La politica è altrove, noi vi aspetteremo là”. Citazione però già adoperata quand’era premier il 19 aprile 2016, contro le opposizioni che volevano sfiduciare il suo governo: cioè all’inverso.

Ma soprattutto c’è quella frase: “Quella gente di Bergamo e di Brescia che non c’è più, se avesse potuto parlare ci avrebbe detto: ‘Ripartite anche per noi’”. E i suoi senatori battono le mani: all’abisso.

Il Pd adesso va all’attacco con l’ex renziano Stefàno

“Non c’è maggiore imprudenza di una prudenza distruttrice e per questa ragione questa fase 2 monocorde rischia di non essere adeguata rispetto a una situazione che presenta delle peculiarità che andrebbero invece cavalcate per agganciare l’unico vantaggio che non dobbiamo rischiare di perdere: il tempo”. A fare l’intervento per il Pd in Senato è il vicepresidente del gruppo Dario Stefàno. Molto critico nei confronti del premier Conte. Pur se non va all’attacco frontale (“Ritengo doveroso evitare di cadere nella trappola delle frazioni irriducibili, che vede gli uni contro gli altri armati gli aperturisti tout court contro i loro opposti”), di fatto dice che quel che è mancata la politica: “La vera sfida è recepire doverosamente le raccomandazioni elaborate dal comitato scientifico, ma anche conferire a esse da ora in avanti una necessaria ratio politica”.

Parole che pesano, visto che arrivano da un esponente di un partito di maggioranza. Nel Pd nessuno si scompone, nessuno si dissocia. Si adduce anche il fatto che Stefàno non è proprio uno inquadrato. Esatto, chi è Stefano? Pugliese, inizia la sua carriera politica nella Margherita (con lei diventa Assessore regionale nel 2005). Poi, resta folgorato sulla strada di Nichi Vendola. E grazie a lui viene eletto in Senato per la prima volta nel 2013. Dopodiché, negli anni del renzismo, passa al Pd. Dove tuttora milita. Negli ultimi anni è entrato a far parte del gruppo dei renziani più stretti. Quando Matteo ha lasciato i Dem per fondare Italia viva, fino all’ultimo minuto era uno dei primi candidati a passare con lui. Non l’ha fatto, ma per molti resta un cavallo di Troia tra gli amici/nemici del Pd. Non c’è stata apparizione del senatore di Scandicci a Palazzo Madama che non abbia visto affettuosi saluti tra i due. Non solo: Stefàno è uno degli ufficiali di collegamento tra Pier Ferdinando Casini e Renzi, uno di quelli incaricati di sondare posizionamenti, malumori, spostamenti. Peraltro, è anche vice presidente della Commissione Bilancio. Non una posizione secondaria. Insomma, per curriculum è l’uomo adatto a costruire ribaltoni. E chi lo sa, potrebbe aderire alla causa, il capogruppo, Andrea Marcucci: al Nazareno appare troppo appiattito su Iv nell’ultimo periodo. Non a caso ieri a criticare l’ex premier è stato non lui, ma il coordinatore di Base riformista, Alfieri.

Renzi ieri in Senato ha dato un penultimatum a Conte. Una sorta di déjà vu: pareva febbraio, prima del Covid, quando il problema italico sembrava la disfida tra Matteo e Giuseppe. Due mesi e mezzo dopo, l’idea di un governo alternativo, aleggia anche nel Pd. “Il governo ha la maggioranza, serve concordia”, ha detto ieri il segretario, Nicola Zingaretti. Ma a nessuno dei big del partito è piaciuto il modo di procedere del premier degli ultimi giorni. Zingaretti non era d’accordo con l’ultimo Dpcm.

In Aula alla Camera, il vicesegretario, Andrea Orlando, ha definito questo tipo di provvedimenti “un male” da usare il meno possibile. E in generale il Pd ha avuto da ridire sulla gestione del permesso (prima negato e poi accordato) alle messe, sulla scivolosità del concetto di “congiunti”, sulla mancata regionalizzazione delle riaperture. I ministri continuano a litigare per accaparrarsi i soldi del decreto in arrivo. Nel frattempo, Dario Franceschini pare pronto a qualche scalata personale (verso il Quirinale? Verso Palazzo Chigi?) e i gruppi parlamentari mal sopportano la centralizzazione messa in atto dall’esecutivo. La data cerchiata per un eventuale governo alternativo è luglio: in due mesi, la rabbia sociale potrebbe esplodere e il consenso di Conte crollare. A quel punto, Renzi torna utile: in fondo, è stato lui a sdoganare il governo giallorosso. Potrebbe essere lui a decretarne la fine.

“Un’uscita infelice”, “incommentabile”

Sono le province che, da sole, hanno avuto un terzo dei contagi della Lombardia: 25 mila dei 75 mila Covid positivi della regione, vivono tra Bergamo e Brescia. E in 70 giorni hanno dovuto piangere più di 5 mila morti. Eppure, ieri al Senato, Matteo Renzi si è permesso di dire che “se potessero parlare” direbbero “ripartite per noi”. Un’uscita che ha lasciato quasi senza parole i sindaci delle due città, entrambi esponenti della maggioranza di cui il leader di Italia Viva fa parte. “Una dichiarazione gravissima e incommentabile”, secondo il sindaco di Brescia Emilio Del Bono, che sul territorio della provincia ha visto morire in due mesi più persone di quelle che morirono sullo stesso territorio in tutta la seconda guerra mondiale.

Altrettanto indignato il primo cittadino di Bergamo, Giorgio Gori, che pure di Matteo Renzi ha condiviso gomito a gomito buona parte del suo esordio nella politica nazionale: “Mi pare un’uscita a dir poco infelice. Se Renzi voleva rendere omaggio ai nostri morti, il modo – coinvolgerli a sostegno della sua proposta di riapertura delle attività – è decisamente quello sbagliato”. Ragiona ancora Gori: “Immagino che il leader di Italia Viva volesse sottolineare l’attaccamento al lavoro della gente di Bergamo e di Brescia: ma sostenere che le vittime del virus, se potessero parlare, ‘vorrebbero’ oggi la riapertura appare purtroppo stonato e strumentale. Sono certo che Renzi ha pieno rispetto del dolore di queste province: quella pronunciata al Senato – conclude – è però una frase decisamente fuori luogo.”

È proprio quell’attaccamento al lavoro, per usare le parole di Gori, tra le altre cose, quello che ha fatto sì che in queste settimane di lockdown le province di Bergamo e Brescia fossero quelle in cui la chiusura ha funzionato meno: decine di migliaia di aziende aperte, molte grazie al sistema delle autocertificazioni in prefettura, che hanno continuato a produrre in nome delle attività essenziali e che hanno indubbiamente contribuito alla circolazione delle persone, e con loro del virus.

“Ora i nostri defunti vorrebbero fermare il virus, non riaprire”

“Renzi dice che i morti, se potessero, direbbero di riaprire?”, si chiede un trentenne in fila al supermercato, a Nembro. “Testa di cazzo”, dice. Il ragazzo ha perso il padre, come ogni famiglia qui: non c’è persona che non conti un lutto tra i propri cari. “Renzi andasse a farsi l’aperitivo con Zingaretti…”. Prendere come punto di osservazione l’Esselunga di Nembro, per commentare l’ennesima strumentalizzazione politica sui morti di queste terre, può sembrare straniante. Tutti qui parlano di “quelli che non hanno capito niente”, di quelli che “se avessero loro i morti che hanno pianto qui, non si azzarderebbero proprio a parlare”. Oggi tocca a Renzi, ieri alla governatrice della Calabria Iole Santelli, il giorno prima, a Conte. A marzo, qui a Nembro, hanno avuto 154 morti in più: e sono 11mila abitanti. Tanti hanno ancora febbre, tosse, paura. Ma soprattutto rabbia. “Onoriamo i morti di Bergamo e Brescia, dice Renzi. Ma onorare i morti significa intanto fermare il virus. E quindi: non riaprire”, dice il signore poco dietro al 30enne, anche lui in fila alla cassa. “Io ho perso mia madre. Molti dei nostri morti, in realtà, da vivi volevano chiudere, volevamo la zona rossa. Altro che riaprire…”.

Consuelo Locati ha 49 anni. Una sorella, e “una mamma sopravvissuta al mio papà”. Avvocato, è stata una delle animatrici del gruppo Facebook “Noi denunceremo”: 50mila iscritti, in maggioranza del Nord Italia, che – in una sorta di spoon river – giorno dopo giorno hanno qui scritto le loro storie, le loro denunce. E proprio mentre a Roma c’era chi parlava dei loro morti, loro, i vivi, davanti a un notaio, hanno costituito il comitato “Noi denunceremo. Verità e giustizia per le vittime Covid-19”. “Lo abbiamo fatto – spiega Consuelo – per agire giudizialmente, chiedere e sostenere le autorità giudiziarie nella ricerca della verità e delle responsabilità di pubblica amministrazione, enti, persone pubbliche che abbiano concorso a cagionare una strage di questo tipo. Mentre non agiremo mai nei confronti degli operatori sanitari e dei medici: le prime vittime sono state loro”. Pensano a una class action. “Abbiamo costituito un pool di avvocati, alcuni interni e altri esterni, che depositeranno le nostre denunce nelle varie procure territorialmente competenti”.

Quando Consuelo accetta di parlarci è sera tardi, “ma tanto non dormo più da tempo”. Ha rabbia, la voce che si rompe a tratti. “La storia di mio papà è come quella di tante altre. Una storia di abbandono”.

Cosa è successo a suo padre?

Mio papà a ottobre era stato ricoverato a Seriate per problemi ai reni e alla prostata. Aveva programmato un intervento alla prostata, nell’ospedale di Lovere, Bergamo, per il 24 febbraio. Viene ricoverato per qualche giorno, per accertamenti. A fine febbraio scopriamo che il medico che avrebbe dovuto operarlo era risultato positivo al Covid. Ma il problema non è stato questo… Mio padre probabilmente aveva già contratto il Covid. Aveva quelle eruzioni cutanee che oggi sappiamo essere legate al virus. Ma il medico di base ci diceva solo: ‘Vai con le pomate, state tranquilli…’. Mio padre, una volta uscito dall’ospedale, aveva iniziato ad accusare febbre, tosse… Per dieci giorni resta a casa con l’ossigeno. Gli ospedali erano saturi. Poi finalmente lo ricoverano, a Bergamo. Noi non l’abbiamo più visto.

Suo padre è morto…

Non sono solo indignata. Sono offesa. Sono molto offesa. Non c’è rispetto per il dolore. Per la morte, per il senso dell’abbandono nella perdita dei nostri cari, e per come siamo stati e ci hanno abbandonato. Non c’è empatia: non c’è la capacità, ma forse anche la volontà, di mettersi nei nostri panni. Dicono che è come la guerra, ma qui è peggio della guerra, perché quando parti per il fronte lo sai che puoi non tornare. Contro questo virus nessuno era consapevole… potenzialmente chiunque potrebbe essere colpito, chiunque potrebbe morire.

C’è qualcosa che vorrebbe dire a Matteo Renzi?

Le parole di questo signore – ci tengo a definirlo così – sono offensive e scandalose. Vorrei ricordargli che l’articolo 32 della Costituzione obbliga i nostri rappresentanti a tutelare noi cittadini, a fare qualsiasi cosa pur di metterci al riparo. Dovrebbe vergognarsi. La mia parola è solo una: vergogna.

Renzi getta addosso a Conte i morti di Bergamo e Brescia

Come al solito – o meglio, come fa da quando è iniziata l’esperienza del governo giallorosa – lancia il sasso e nasconde la mano: “Quale ultimatum?”, domanda Matteo Renzi uscendo dal Senato con aria sorniona. Solo qualche mezz’ora prima l’aveva buttata là, di nuovo: “Se lei ci vorrà al suo fianco, noi ci saremo. Se invece dobbiamo essere su un crinale populista, che dice alla gente quello che alla gente piace sentire, noi non saremo al suo fianco”.

Un “ultimo appello” al presidente del Consiglio, quel Giuseppe Conte che sta illustrando in Parlamento i punti cardine della fase 2. Solo che una volta era il tempo dei “responsabili”, del lavorìo, nemmeno troppo sotto traccia, per trovare una scialuppa di voti che consentisse a Pd e Cinque Stelle di fare a meno una volta per tutte dei ricatti dell’ex premier che si è fatto il partitino. E adesso invece è il tempo del coronavirus, del Paese con l’economia a pezzi e delle manovre di palazzo secondo cui – per ripartire – più che di una nuova maggioranza ci sarà bisogno di cambiare condottiero.

Giuseppe Conte lo sa ed è anche per questo che, rientrando in Parlamento, nota che “solo nove giorni sono trascorsi dalla mia ultima informativa alle Camere”. Vuole scacciare “l’accusa di avere irragionevolmente e arbitrariamente compresso le libertà fondamentali” e spiega che i decreti che ha firmato in queste settimane erano l’unico strumento che potesse garantire interventi “elastici” e “rapidi” ad una situazione “in continua evoluzione”. Ma Renzi è lì a contargli le “undici volte” in cui, nella sua ultima conferenza stampa, ha usato l’espressione “noi consentiamo”, come se le libertà individuali fossero ridotte a concessioni per “60 milioni di italiani agli arresti domiciliari”. E pure a ricordargli che la nascita del secondo governo Conte non è stata fatta per “negare i pieni poteri a Salvini e darli a lei”. È lo stesso Renzi che, nel suo accorato ultimatum, si permette addirittura di parlare a nome dei morti: “Pensiamo di onorare quella gente di Bergamo e di Brescia che non c’è più e che, se avesse potuto parlare, ci avrebbe detto: ‘Ripartite anche per noi’, avendo fatto della vita, in tutti i momenti, un’occasione di sacrificio e di fatica”. Ecco, la campagna per le riaperture – quella che in ogni riunione la renziana Teresa Bellanova conduce per conto dell’ex premier – stavolta si è spinta fin lì. Ed è difficile, va detto, che si possa andare oltre.

Non è esattamente la “concordia” che Nicola Zingaretti, segretario del Pd, chiede alla maggioranza. Anche perché nel suo stesso partito si alzano voci e distinguo sull’operato di palazzo Chigi, in particolare sulla necessità di procedere a una differenziazione su base regionale della fase 2. Una modalità di lavoro che, peraltro, proprio ieri il premier ha ricordato essere già scritta nel decreto, per “riaperture delle attività basate su un piano caratterizzato da precisi presupposti scientifici” e non affidato alle iniziative “improvvide” dei singoli governatori. Perché il discorso di Conte parla chiaro sui rischi che ancora corriamo. E rivendica di aver aderito alle indicazioni del Comitato tecnico scientifico (“un imperativo categorico per un governo”). Però è ancora il Pd, ieri in aula con il vicecapogruppo Dario Stefano, a chiedergli di andare oltre “la linea di galleggiamento della raccomandazione tecnica”. Conte si difende spiegando che mobilitare 4 milioni e mezzo di lavoratori – quelli che da lunedì saranno nelle fabbriche e nei cantieri – è stata “tutt’altro che una scelta timida” e che è suo dovere difendere “l’interesse generale” anche “con misure impopolari”. Ma al di là delle proteste dell’opposizione, è di nuovo un esponente Pd, Stefano Collina, a dirgli che se queste misure passano “attraverso la scelta di bilanciare la ripresa delle attività con il mantenimento del distanziamento sociale” allora il Parlamento deve essere coinvolto. Un malessere, quello tra i dem, che si fatica a dissimulare. E che ogni giorno instilla una goccia di incertezza in più dentro la maggioranza. Per dirla con Andrea Orlando, l’ex ministro Pd che ieri ha parlato alla Camera, “guai se ci autocensuriamo quando pensiamo qualcosa di fondamentale da dire, ma guai se non sappiamo misurare le parole in un momento come questo”. Matteo Renzi non deve averlo sentito.

I Bolsonari de noantri

Da due mesi e mezzo vediamo cose che noi umani… eccetera. Ma qui si esagera. Ieri, durante l’ennesima puntata della serie tv Funeral Parliament, mi è accaduto qualcosa di impensabile: davo ragione Ignazio La Russa. Mi sono subito misurato la febbre, ma era nella norma. Essendo astemio e allergico alle droghe, ho escluso pure lo stato di ebbrezza e quello allucinogeno. Allora ho riascoltato l’intervento del camerata siculo-milanese per sincerarmi di aver capito bene e ho dovuto concluderne, con mio sommo sgomento, che aveva proprio ragione: a prendere sul serio il discorso (si fa per dire) dell’Innominabile, il governo Conte non ha più la maggioranza. Dunque, in un Paese serio, il premier avrebbe due sole strade: chiedere alle Camere un voto di fiducia per verificare l’esistenza della sua maggioranza, o salire al Quirinale per comunicare l’inesistenza della medesima. Ma siamo in Italia, e soprattutto parliamo dello Statista di Rignano, il più monumentale bugiardo della storia, al cui confronto Pinocchio, Wanna Marchi e B. sono gente sincera e il pagliaccio Bagonghi era una persona seria. Uno che, da quando lo si conosce, non fa che minacciare di lasciare qualcuno o di andarsene da qualcosa, purtroppo senza mai farlo. Uno che, non avendo mai combinato nulla di buono nella vita, si diverte a sfasciare quello che di buono fanno gli altri.

Infatti nessuno, a parte La Russa, se l’è filato di pezza, perché tutti sanno che anche questo ultimatum a Conte non produrrà effetto alcuno, come tutte le precedenti promesse, minacce e annunci (tipo abbandonare la politica in caso di sconfitta al referendum). Per almeno due motivi. Primo: l’intrinseca ridicolaggine delle sue parole. Il gaglioffo ha difeso la Costituzione dalle “violenze” contiane, con grande allarme della Costituzione medesima che si è sentita come Asia Argento se Weinstein le si offrisse come bodyguard. Poi ha accusato il premier di “populismo” perché non dice che va tutto bene e si riapre tutto subito, cioè perché – diversamente da lui – non è populista. Mancava soltanto che saltasse su Gasparri ad accusare Conte di strabismo, o la Bellanova di pinguedine, o Fassino di magrezza. Poi ha ricordato gl’italiani “agli arresti domiciliari” (un pensiero commosso ai suoi genitori), con l’aria di chi pensa che il virus l’abbia importato il premier. Infine ha detto che “non possiamo delegare tutto alla comunità scientifica”, perché già “troppe volte la politica ha abdicato in passato: nel 1992-93 abdicò alla magistratura” (anziché impedirle di processare ladri e mafiosi).

E poi “ai tecnici” (il governo Monti che lui applaudiva inneggiando da Palazzo Vecchio alle letterine della Bce e al massacro sociale conseguente). Ergo ora “non possiamo abdicare ai virologi”, tipo il compare Burioni che ai tempi del suo governo voleva vaccinarci pure contro i brufoli e le ragadi. Del resto, assicura, “la gente di Bergamo e Brescia che non c’è più, se potesse parlare, ci direbbe di riaprire”: deve averlo saputo in una seduta spiritica della fondazione Open alla Leopolda, o forse sente direttamente le voci come Giovanna d’Arco. Ora si attende una class action dei parenti delle vittime per vilipendio di cadaveri. Il secondo motivo del flop dell’ennesimo penultimatum è lo stato larvale in cui versa la nanoparticella denominata umoristicamente Italia Viva, che doveva “svuotare il Pd” e invece ha riempito tutti gli altri partiti della maggioranza e precipita nei sondaggi a rotta di collo verso lo zero assoluto, mentre Pd, 5Stelle e Sinistra crescono. L’insuccesso, si sa, dà alla testa. Ma a lui dà alla pancia: più voti perde, più chili guadagna; più cala nei sondaggi, più sale sulla bilancia; più l’elettorato si restringe, più il girovita si dilata; ogni mezzo punto in meno, un doppio mento in più. E il colesterolo acceca più dell’onanismo. Ma gli altri parlamentari italovivi, famigli a parte, ci vedono benissimo. Sanno che questo è l’ultimo giro di giostra ed è bene tenersi stretto il governo, cioè il cadreghino. Ove mai l’Innominabile se ne andasse, non dietro agli elettori che non ha, ma alle lobby che ha, molti resterebbero dove sono, lasciandolo solo. Anche perché, se del governo Conte sono la ruota di scorta, di un’ammucchiata Draghi (o chi per lui) sarebbero il pelo superfluo.

Quindi, almeno per ora, nulla cambia. A meno che l’intervento del senatore Pd Dario Stefàno non rifletta la posizione del Pd, che a sentire Orlando alla Camera pareva opposta. Noto voltagabbana salentino, passato da Confindustria alla Margherita a Sel, con fuitina presso l’Udc prima di planare nel Pd, lo Stefàno ha chiesto a Conte di “abbandonare la prudenza” per riaprire tutto subito, associandosi agli altri Bolsonaro de noantri che ciarlavano come se il virus fosse scomparso dal suolo patrio e i 205.463 contagiati e i 27.967 morti non fossero mai esistiti (l’unica a ricordarli è stata la M5S Maiorino). E autorizzavano il sospetto di essere tutti pagati da Conte per esaltarne il solitario buonsenso. Geniale anche l’idea di Stefàno di riaprire subito per battere sul tempo le “fughe in avanti di alcune regioni”. Cioè: visto che la Santelli fa cazzate in Calabria, facciamole prima noi in tutta Italia, così la freghiamo. Furbo, lui.

totopremier da ridere: dopo draghi, Franceschini

Funziona così. Giuseppi va spedito fuori dalle scatole, ma siccome con il virus incombente non si può andare a elezioni, con la scusa del governissimo che fa benissimo alé con il totopremier. Subito nella giostra dei retroscena (intrattenimento fantasy

) Mario Draghi è superstar (Draghi! Draghi!), però passano i giorni e non arrivano riscontri, neppure una cartolina. Altro giro, altra corsa, e i nostri ripiegano su Vittorio Colao (Colao! Colao!): finalmente un “tecnocrate”, qualunque cosa significhi, che vive a Londra e non so se mi spiego (vuoi mettere con Volturara Appula). Scelto da Conte come capo della “task force Fase 2”, è d’uopo che gli faccia le scarpe. Niente. Facciamolo ministro. Neppure. Poi qualcosa va sorto e nelle interviste ai divani vuoti di Montecitorio, Colao retrocede a “troppo appiattito sul premier”, che vorrebbe dire persona leale.

Si vola alto con Fabio Panetta, comitato esecutivo Bce, persona seria e infatti non se ne fa niente. Infine, si retrocede sul “Re Travicello che farebbe comodo a Berlusconi” (La Verità

), e subito dal Giornale

risponde lo squillo: “Perché no Franceschini?”, osserva “il pragmatico Fiano”. Si esulta nelle rassegne stampa in attesa dei liberatori, dove l’annuncio provoca lo stesso orgasmo dei messaggi cifrati ai tempi di Radio Londra: “La gallina ha fatto l’uovo”, “la mucca non dà latte”, e oggi: “Franceschini perché no?”. Chi scrive giudica una cattiveria aver messo in mezzo un rispettabile signore sol perché da giovanotto transumava da una corrente all’altra del Pd. Dalle malelingue considerato l’erede di quel Vincenzo Scotti, che nella vecchia Dc era plasticamente chiamato “Tarzan”. Un ministro della Cultura, siamo convinti, interessato alla riapertura di musei e drive-in

, e non del parco giochi di Montecitorio. Mentre come “Re Travicello”, vedremmo benissimo (senza offesa) il “pragmatico Fiano”.

La guerra fredda tra Bce e Berlino sul Mes

La guerra fredda tra Francoforte e Berlino, cioè tra la Bce e il cuore ideologico-politico delle istituzioni Ue, va avanti da anni, ma adesso è arrivata al suo apice, forse al suo appuntamento decisivo. Fin dai tempi di Mario Draghi, la Banca centrale cerca di fare il suo (quasi impossibile) lavoro di tenere assieme una baracca sempre sul punto di esplodere via allentamento monetario; la posizione del blocco del Nord è invece che, se ci sono problemi, l’unica via è il consolidamento fiscale (austerità), anche modello Grecia (con parziale default) se necessario.

In sostanza, la Bce è oggi il principale ostacolo al Mes, l’ex fondo salva-Stati con Troika annessa sponsorizzato dalla Germania e dai Paesi che fanno il lavoro sporco per lei. Ieri questo conflitto è apparso chiaro – anche all’interno della stessa Bce – a chi volesse vederlo avendo davanti il campo da gioco vero: l’assicurazione Sure e i prestiti della Bei sono poca cosa, lo scontro vero è tra i prestiti “con condizioni” e “sorveglianza rafforzata” (come da Trattati e Regolamenti vigenti) del Mes e l’intervento della Bce. In questo contesto, Christine Lagarde si è presentata in conferenza stampa dopo la riunione del board della Bce, molto tesa a giudicare dal viso, per dire poche cose mirate: la Bce “si impegna a fare tutto quel che è necessario” per aiutare i cittadini ed è “più determinata che mai” a sostenere le economie dell’Eurozona che dovrebbero perdere quest’anno tra il 5 e il 12%; la banca centrale, poi, “non tollererà il rischio di una frammentazione dell’euro” (risposta a una domanda sullo spread dell’Italia) e a questo fine usa “la flessibilità necessaria e continuerà a farlo, credetemi”.

Fin qui siamo all’abc del banchiere centrale, ma in un paio di passaggi Lagarde ha reso esplicito il conflitto con Berlino e soci: “Le Outright Monetary Transactions (Omt) sono uno strumento pensato anni fa per intervenire su un singolo paese che avesse messo a rischio l’Eurozona. Ma oggi non è questo lo scenario e lo strumento adatto è il Qantitative easing pandemico detto Peep” da 750 miliardi, che (insieme al Qe-2 da 120 miliardi) continuerà “della grandezza e per il tempo che saranno necessari”. Nota bene: le Omt sono interventi a favore di un singolo Paese – mai usati finora – che possono essere innescate proprio dal ricorso al Mes con le relative condizioni.

Lagarde, non fosse stata chiara, l’ha messa anche così: bene le intese raggiunte finora, ma serve un più “forte e tempestivo sforzo per sostenere la ripresa” e la Bce “guarda positivamente all’accordo per creare un Recovery fund”. È il piano di rilancio proposto dalla Francia (e appoggiato da Italia e Spagna) che si basa sull’idea che nuovi fondi Ue, almeno 1.000 miliardi, vadano distribuiti ai Paesi che più hanno subito l’impatto del Covid-19 come sussidi e non prestiti (ma Berlino ha detto nein).

Nel suo board, però, la governatrice non è riuscita a imporre che la Bce annunciasse in modo esplicito che il programma Peep sarà rafforzato (con altri 500 o 750 miliardi): le resistenze dei Paesi del Nord e lo spauracchio della sentenza della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio sul Quantitative easing del 2015-2018 (che potrebbe smontare anche gli interventi in corso) hanno consigliato cautela. Una guerra, ancorché fredda, è pur sempre una guerra: i mercati, comunque, per ora non hanno gradito.

I prestiti solo a mille Pmi: banche col freno a mano

In questi tempi calamitosi, in cui i sussidi e i prestiti promessi a fine marzo a professionisti e imprese non arrivano, il rumore di un albero che cade riuscirà a sovrastare quello di una foresta che sta crescendo? La metafora è del dg del Sistema bancario e finanziario del ministero dell’Economia, Stefano Cappiello, ed è stata usata per spiegare che a dieci giorni dall’avvio della macchina organizzativa, che deve far affluire parte della “potenza di fuoco” da 400 miliardi alle aziende con prestiti garantiti dallo Stato, il sistema sta iniziando a funzionare più speditamente dopo la prima fase di rodaggio.

Sono le banche che continuano a fare da collo di bottiglia, con paletti o controlli aggiuntivi imposti a un meccanismo già farraginoso di suo, che ha finito per incepparsi nel collo di bottiglia della burocrazia. Che, tradotto, fa più o meno così: serve ancora del tempo per far arrivare i soldi agli imprenditori ormai insofferenti e disperati, ma non si sa quanti siano i prestiti concessi, forse un migliaio. Scomparse dai radar le banche più piccole e quelle di credito cooperativo. È solo noto che dal 17 al 29 marzo, al Fondo garanzia per le Pmi sono arrivate 37.463 domande su una platea potenziale stimata dall’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) di 4,4 milioni di beneficiari che “sono a rischio di un peso del debito insostenibile nel medio termine”. Difficile chiedere a chi non fattura da due mesi o a chi dovrà aspettare altri 30 giorni per ripartire di accontentarsi del suono della foresta che cresce. Eppure lo scorso 21 aprile, quando è partita l’operazione dei prestiti garantiti da 25 mila euro (il via libera al decreto è arrivato il 6 aprile; il 14 l’ok di Bruxelles), nella gara della comunicazione dei più importanti gruppi bancari è stato annunciato che i soldi sarebbero stati accreditati entro il 24 aprile. “Le misure non stanno arrivando alla meta perché le banche non stanno facendo il loro lavoro. Il premier Conte chiede un atto di amore, io un atto di responsabilità” ha detto il vicesegretario del Pd, Andrea Orlando.

Così chi entra in filiale per richiedere i 25mila euro, deve presentare una mole inaudita di documenti, mentre i due più importanti gruppi bancari, come ha rivelato il Fatto, consigliano pure di usarli per chiudere i fidi già aperti per mettersi al riparo da possibili insolvenze. Richiesta censurata da Abi, Bankitalia e Upb. Sicuro anche il rifiuto del prestito a chi non è già correntista. E ancora. “Alcuni istituti – spiega il sindacato Fabi – non hanno rispettato le procedure semplificate, richieste da tutte le istituzioni – chiedendo la dichiarazione dei redditi invece dell’autocertificazione”. Stesso intoppo per la sospensione del mutuo: anche se il 50% della quota interessi non andrebbe pagata (all’altro 50% ci pensa la garanzia statale), sono ancora troppe le filiali che lo esigono. Le banche fanno le banche: prestano soldi a chi gli dà la garanzia di ridarglieli. Così, con un tasso di insolvenza che Bankitalia stima (con un certo ottimismo) al 10%, i gruppi bancari stanno spingendo le filiali verso il contenimento dell’esposizione finanziaria.

“Perché il governo non ha chiesto a Poste di trasformarsi nella tesoreria dello Stato come ha fatto con noi?”, chiede un alto dirigente bancario. Cdp deve già fornire le garanzie a sostegno delle imprese di dimensioni medie o grandi tramite la controllata Sace. Ma per i disperati che hanno necessità di ottenere queste cifre più alte, le cose si fanno addirittura più complicate: il meccanismo contorto della procedura prevede una serie di documenti e una serie di verifiche che rendono tutto infernale. E le banche stanno anche chiedendo la sottoscrizione di polizze accessorie per coprire la parte di prestito non coperta da garanzia. Per ora si tratta di pre-finanziamenti – è stata chiusa una sola operazione – che si trasformeranno in soldi, se tutto va bene, non prima di giugno. Quando riapriranno le ultime attività commerciali e, forse, arriveranno i prestiti a fondo perduto annunciati dal governo.