Italia K2, il limite umano raggiunge vette magiche

I cavalieri che fecero l’impresa. Non Il Medioevo di Pupi Avati, ma la metà degli anni Cinquanta; non la sacra Sindone, ma il K2, “la montagna degli italiani”; non i cavalieri, ma gli alpinisti e i ricercatori italiani, gli hunza, i pachistani, i portatori baltì. Eppure, quando il 31 luglio 1954 la spedizione guidata da Ardito Desio conquistò per la prima volta la vetta del Karakorum 2 con Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, non si compì solo una mirabile impresa sportiva, bensì un’odissea umana, troppo umana, in cui epica ed etica si tennero nella stessa cordata.

Non serve l’immaginazione, esistono le immagini, complice il cineoperatore al seguito, il bolognese Mario Fantin, che restituì al mondo intero i fotogrammi di un traguardo inedito e una bellezza incontaminata, dell’uomo e della natura sospesi in una terra di mezzo a 8.608 metri sul livello del mare. Fu il CAI (Club Alpino Italiano) a patrocinare la spedizione, e già raggiungere il campo base situato a 4.970 metri – dopo una marcia di avvicinamento di 240 chilometri, che contemplò l’attraversamento di fiumi su zattere, ponti di vimini e due ghiacciai con 600 portatori – richiese uno sforzo titanico: Fantin scrupolosamente ed emotivamente impresse su pellicola il desiderio di un paese intero di lasciarsi alle spalle la Guerra e prenotarsi il futuro.

La regia del film fu firmata per conto del CAI dal documentarista trentino Marcello Baldi che al materiale di Fantin associò non proprio felicemente due voci over e un controcampo girato in patria: Italia K2 ebbe la prima il 25 marzo 1955, alla presenza del capo dello Stato Luigi Einaudi, e fu un successo al botteghino, incassando 360 milioni di lire, più del Delitto perfetto di Alfred Hitchcock.

Nel centenario della nascita di Fantin nel 2021, Italia K2 è tornato al grado zero, ovvero alle riprese dello stesso operatore, grazie all’iniziativa della Cineteca di Bologna, che ha restaurato in 4K: la selezione e il montaggio sono di Andrea Meneghelli, le musiche, orchestrate da Daniele Furlati a partire da quelle originali di Teo Usuelli, vengono dall’anteprima dello scorso luglio al festival Il Cinema Ritrovato (Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna diretti da Timothy Brock).

Il risultato è splendido: il ghiaccio del Karakorum ha temperatura corporea, lo spostamento del limite umano un senso filosofico, la tragedia di Mario Puchoz, la guida di Courmayeur colpita da edema polmonare, il memento mori, la messa in opera delle corde fisse da parte di Walter Bonatti il fascino del collettivo. Tra echi immaginifici di ĖEjzenštejn (Alexander Nevskij) e Flaherty (Nanuk l’esquimese), Fantin con le sue cineprese 16 mm filmò in prima persona fino a 6.560 metri, poi istruì gli alpinisti che fecero l’impresa: un passaggio di consegne che dà i brividi. E sigilla l’assoluto, gratuito splendore del Cinema. Dal 7 febbraio in sala, Italia K2 è da non perdere.

 

“Mamma a letto con Bowie. E i ‘calci’ a Michael Jackson”

Otto minuti nell’aldilà. 1992, San Francisco, quasi l’alba. Slash, il chitarrista dei Guns N’Roses, si accascia davanti all’ascensore dell’hotel. Overdose di speedball, il mix letale di cocaina ed eroina. Di quella notte, la rockstar ricorda tutto, prima e dopo. Era morto. Può descriverti i paramedici, i suoni “amplificati”, il ritorno dall’Oltretomba. L’aereo preso per continuare il tour, il giorno dopo. “Sono stato fortunato, fu come nella scena del malore di Sharon Stone in Casino”. Una vita al limite, gli è andata meglio di altri. Savannah, una delle ex fidanzate, era una pornostar. Una notte, drogata fino all’anima, ebbe un incidente. Tornò a casa e si sparò. Slash le dedicò una canzone. Lui si è salvato più volte: nel 2001 gli hanno impiantato un defibrillatore nel cuore. Cinque anni dopo ha smesso anche di bere. Oggi, cinquantaseienne, diresti abbia fatto un patto col diavolo. Il nuovo album solista 4 (uscirà l’11 febbraio) inciso come al solito con Myles Kennedy (frontman degli Alter Bridge) e i Conspirators è un potente ordigno rock. Ultimarlo (per la neonata etichetta Gibson, quella delle chitarre) è stata un’avventura. “Partimmo per Nashville diretti allo studio RCA, dove alle pareti trovi i ritratti dei tipi tosti del country. Johnny Cash, Waylon Jennings, Charley Pride. Le leggende ti dicono: che cazzo ci fai qui?”.

Una sfida. “Il rivale era il covid. Io e la band ce lo siamo presi, tutti. Dovevamo lavorare separati e in tempi diversi, ognuno alle prese con la quarantena. Tornati negativi, via con i pezzi nella stessa sala, live, buona la prima!”. Sperando di portare il fuoco sacro del rock in tour già a breve, con i Conspirators, perché in estate l’agenda di Slash segna gli stadi d’Europa con i Guns N’Roses, insieme a quell’altro stuntman dell’esistenza che è Axl Rose. “Se c’è il via libera saremo a Milano, San Siro, 10 luglio. Abbiamo già avuto mille limitazioni per la tournée negli Usa, un casino. È pur vero che poche band internazionali affrontano l’estero, il pubblico ha fame. Il mondo ci manca!”. Come fai a tenere ai box un resuscitato? Uno che ne ha viste di ogni sorta? Come quando fu ospite di Bob Dylan, 1991. “Produzione di Don Was, l’album Under the red sky. Imparai una grande lezione”. Perché? “Mi chiesero un assolo su un boogie blues, Wiggle wiggle. Io eseguii, Bob mi disse: ‘Bello! Parevi Django Reinhardt’. Potevo credergli? Due giorni dopo, Was mi spedì il missaggio grezzo: mi si sentiva solo strimpellare la ritmica acustica, il tappeto per la mia parte elettrica. Ok, Don, dov’è il resto? Lui: sai, Dylan ha deciso che suonava troppo Guns N’Roses, lo ha tagliato!”. Brutto colpo. “Però da Bob incontrai George Harrison e pure quella gnocca di Kim Basinger. Chissà cosa ci faceva lì”. Collaborazioni solo con grandi firme, per Slash. “Il mio manager mi informa che Michael Jackson mi vuole nel nuovo disco. Riappendo e mi chiama Jacko, è la sua inconfondibile voce. Volo in studio per lavorare su Give in to me, trovo soltanto il produttore. Michael finalmente fa capolino: è con Brooke Shields. Dopo due minuti se ne vanno a cena. Morale: fai quel che devi, Slash. Più in là partecipai al video di Black or white diretto da John Landis, con Macaulay Caulkin. A lungo è girata la voce che il riff in Black or white fosse mio, ma quella chitarra è di Mike Bottrell”. Slash fu coinvolto nel tour di Dangerous: in scena prendeva a calci (per finta) Michael. “Mi avevano detto: qualunque cosa accada tu continua a suonare. Jacko si avvicinava per farmi smettere. Ballando. Emanava luce propria. Nelle coreografie tutti facevano gli stessi passi, Michael ci metteva una magia segreta in più”.

Vasco Rossi giura che nel 2007 vi siete incontrati nello studio di Los Angeles dove l’italiano era alle prese con Il mondo che vorrei. “Naah. Il giorno in cui suonai la mia parte su Gioca con me Vasco non era lì. Ci sentimmo al telefono”. Nel nuovo album 4 la chitarra di Slash emula, in certi punti, Eric Clapton. “Sono un fan. Suonai con Eric a una jam session con Ron Wood degli Stones. Clapton mi dette una pacca sulla spalla. Il maestro promuove l’allievo”.

E Johnny Depp, arruolato nel supergruppo Hollywood Vampires con Alice Cooper e Joe Perry degli Aerosmith? È scarso? “Salii sul palco con Joe e i Vampires al Roxy di L.A. Dai, Johnny se la cava, con la chitarra. Ci crede, almeno. Sui dischi non si capisce quale sia lui, è un punto a favore”. C’è poi la storia del piccolo Slash e di sua madre Ola Hudson che faceva la costumista per David Bowie e ci finì a letto. “Era dopo Ziggy Stardust, mamma studiava look sensazionali per lui. Io avevo dieci anni, David era carismatico, intelligentissimo, cool. Siamo rimasti amici, venne a sostenere noi Guns N’ Roses alle prime armi. Sì, vidi nudi Bowie e mia madre. All’epoca era sposato con Angela. Che gli era sempre intorno. Quel giorno no”.

Pittsburgh, arriva Biden a parlare di infrastrutture e crolla il ponte

In Pennsylvania, poco prima che arrivasse il presidente Joe Biden a Pittsburgh, è crollato un ponte a due corsie. La tragedia del Fern Hollow Bridge è avvenuta solo poche ore prima dell’arrivo del leader, in visita a Pittsburgh per parlare proprio di infrastrutture, manutenzione e investimenti da 1 trilione di dollari. Non si conoscono ancora i motivi del crollo, ma si sospetta che la struttura abbia ceduto per il peso della neve. Il presidente, fa sapere con un comunicato la Casa Bianca, “è grato ai primi soccorritori che sono corsi sul posto per assistere gli automobilisti che si trovavano sul ponte al momento del crollo”. Per provare a mettere in salvo le vittime sono state usate funi da 46 metri. Una catena umana è stata formata per salvare diversi viaggiatori di un autobus che si trovava in bilico. Solo dieci persone sarebbero rimaste ferite.

Biden a Zelensky: l’attacco russo forse a febbraio

L’invasione di Mosca è rimandata. Però “esiste la possibilità concreta che i russi invadano l’Ucraina a febbraio” ha detto ieri il presidente Joe Biden all’omologo ucraino Volodymyr Zelensky. Lo ha riferito, dopo la telefonata intercorsa ieri tra i due leader, la portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa, Emily Horne. Secondo una fonte al governo di Kiev però la telefonata “non è andata bene” perché i due leader dissentono sul “livello di rischio” dell’attacco. Un altro colloquio telefonico, durato oltre un’ora, c’è stato ieri tra il presidente francese e quello russo. Macron e Putin hanno concordato che bisogna dare “inizio al dialogo” per favorire la de-escalation verbale e militare. Il leader di Parigi ha reso noto che il capo della Federazione russa “non ha espresso alcuna intenzione di offensiva” e “non cerca lo scontro”.

Mentre la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha detto ieri di star intensificando la cooperazione con gli Usa per evitare le forniture di gas russo in caso di invasione contro Kiev, il premier ungherese, Viktor Orbán, ha reso noto che martedì prossimo incontrerà il presidente Putin a Mosca per aumentare la quantità di gas prevista dall’attuale accordo russo-ungherese.

A Berlino il governo tedesco ha espulso un diplomatico russo, dipendente del consolato di Monaco, classificandolo come “persona non grata”. Il cittadino di Mosca è sospettato di essere un agente operativo dei servizi segreti di Putin.

“Se la Ue farà entrare Kiev Putin sarà meno potente”

“Gli Stati Uniti non avrebbero potuto rispondere in altro modo alle richieste scritte del Cremlino. Non si può far rientrare il dentifricio nel tubetto dopo che è uscito”. L’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, ex vicesegretario della Nato, usa questa metafora per spiegare perché Washington, come nazione guida dell’Alleanza Atlantica, non può concedere il potere di veto alla Russia per quanto riguarda l’ingresso di nuovi paesi, ma anche per ricordare che non è colpa dell’Alleanza Atlantica se l’Ucraina è diventata una nazione indipendente in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e alla fine della guerra fredda. “Detto ciò, ritengo che nessun Paese membro della Nato, neanche gli Stati Uniti, vogliano che l’Ucraina entri a farne parte. È una nazione troppo sensibile e problematica per le sue caratteristiche geopolitiche e non solo. Ma, ovviamente, non lo si può affermare in modo ufficiale perché la Nato è aperta in teoria a tutte le richieste di adesione. Che però Kiev non ha mai avanzato”.

Allora perché la Russia teme che ciò avvenga al punto di accerchiare militarmente l’Ucraina e far dire al presidente Joe Biden che Kiev potrebbe essere saccheggiata ?

Per alzare la posta. Il presidente russo Vladimir Putin vorrebbe ricostruire il puzzle di nazioni satellite che facevano parte del blocco sovietico. Se non gli riuscirà, vuole che l’Ucraina rimanga perlomeno uno Stato cuscinetto dove non potranno entrare missili americani. Ma, a mio avviso, non ha davvero intenzione di invadere e scatenare una guerra.

Per quale ragione ?

Non gli gioverebbe, perché è un’operazione molto costosa in termini militari e sociali. Anche se non si può paragonare la capacità militare russa a quella ucraina, le famiglie russe dovrebbero ancora una volta accettare la morte di figli e nipoti per combattere contro un popolo fratello. Inoltre l’isolamento economico a cui Mosca verrebbe sottoposta attraverso le sanzioni economiche americane ed europee aggraverebbe l’economia russa.

Ma i presidenti Putin e Xi sembrano ormai orientati a fare blocco. Del resto Mosca ha un grande mercato in Cina, oltre al fatto che Pechino avrà ancora per anni sete di gas e petrolio di cui la Russia ha enormi riserve. Ciò che Putin perderebbe in Occidente lo riguadagnerebbe a Oriente. Non crede?

Che queste due potenze si siano alleate è un dato di fatto ormai, ma se il Cremlino decidesse di non vendere più gli idrocarburi all’Europa a favore del Dragone, sancirebbe una rottura totale con l’Occidente consegnandosi mani e piedi a Pechino, molto più forte anche per quanto riguarda il cosiddetto soft power. Putin sa che a quel punto non potrebbe più condurre una politica multi vettoriale.

Perché allora il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha chiesto a Pechino di usare la propria influenza sul Cremlino ottenendo come risposta il suggerimento di ascoltare le preoccupazioni russe ?

Perché, ribadisco, nessuno vuole una guerra. Né Washington, né Mosca, né Kiev, né Bruxelles. E la Cina, vedendosi interpellata di fatto come mediatrice in quanto super potenza, dietro le quinte potrebbe fare pressioni su Mosca per dimostrare di essere ormai dirimente sullo scacchiere internazionale.

E l’Europa intanto ?

La mancanza di unità di vedute e intenti tra i Paesi membri dell’Unione europea e la mancanza di un esercito comune la rende di fatto irrilevante agli occhi di Putin. Se tuttavia gli Stati Uniti, in caso di guerra, imponessero sanzioni molto pesanti, la Ue non potrà fare altro che aderire, pur con tutte le conseguenze economiche, non solo in quanto alleata ma perché avere la Russia alle porte è comunque una minaccia. A proposito del ruolo che l’ Europa gioca, vorrei sottolineare che Putin teme l’adesione degli ucraini ai suoi valori democratici e ai suoi principi basati sulla libertà di espressione. Se Kiev entrasse nell’Unione Europea, sarebbe uno smacco e un problema per la tenuta della leadership di Putin anche in ambito domestico.

La guerra potrebbe scoppiare anche per un errore, un incidente insomma?

Questo purtroppo potrebbe accadere.

Scotland Yard: report su party di BoJo va censurato

Le ricadute del partygate stanno travolgendo la credibilità non solo di Downing Street, ma anche del Met, il corpo di polizia di Londra che, sotto la guida di Cressida Dick, è già al centro di altre controversie. Per settimane Scotland Yard ha evitato di indagare sui festini di Downing Street, perché si tratta di “violazioni Covid avvenute nel passato”.

Martedì scorso, in contemporanea con la rivelazione di due ricevimenti separati per il compleanno del premier Boris Johnson, il 19 giugno 2020, uno in ufficio e l’altro nel suo appartamento a Downing Street, ha infine annunciato l’apertura di una inchiesta formale. Da affiancare a quella, ormai conclusa ma comunque limitata alla ricostruzione dei fatti e senza alcun potere sanzionatorio, della civil servant Sue Gray. Di ieri la notizia che i vertici della polizia avrebbero chiesto alla Gray di limitare al minimo i riferimenti alle feste su cui indaga anche il Met, vanificando quindi l’impatto del suo lavoro. Nel documento verrebbero omessi, forse pesantemente, nomi e dettagli rilevanti. La Gray si è opposta ed è iniziato un rimpallo che, mentre scriviamo, è ancora senza soluzione. Scotland Yard giustifica la sua richiesta con il rischio che rivelare particolari possa compromettere il lavoro dei suoi investigatori. Gli esperti sono divisi, ma per alcuni è un rischio concreto. Solo che, per buona parte dell’opinione pubblica, il tempismo del Met appare sospetto: commentatori anche autorevoli lo denunciano apertamente come tentativo di insabbiamento per salvare Boris Johnson. Il rapporto Gray rischia infatti di essere la pietra tombale per la carriera politica del primo ministro, visto che molti dei suoi detrattori nel partito conservatore ne aspettano gli esiti per far scattare la procedura di sfiducia e la ricerca di un nuovo leader.

Gray è ora di fronte a un bivio molto arduo per una funzionaria nota per la sua lealtà al servizio pubblico: recepire la richiesta di Scotland Yard e pubblicare uno scheletro di rapporto o rimandarne la pubblicazione in attesa dell’esito dell’indagine della polizia. Che però può richiedere settimane, se non mesi: tempo prezioso per Johnson, che ha già avviato una campagna di persuasione e riconquista dei ribelli. E non è chiaro con quali danni collaterali si possa uscire da un braccio di ferro che contrappone di fatto il potere del governo, in questo caso l’ufficio del primo ministro, e quello dello stato, incarnato da una altissima rappresentante del civil service come la Gray, e che coinvolge direttamente anche i vertici della polizia.

Una Le Pen contro l’altra: Francia, operazione urne

Marion Maréchal ha voglia di tornare in politica, ma una cosa è certa: non sarà al fianco della zia Marine Le Pen. La 32nne rampolla di casa Le Pen, la preferita di nonno Jean-Marie, l’anziano patriarca del Front National (Fn), oggi Rassemblement national (Rn), potrebbe anzi raggiungere la campagna di Éric Zemmour.

In un’intervista al conservatore Le Figaro, la giovane ex deputata del Vaucluse (un dipartimento del Sud), confida che in quanto a “coerenza, visione e strategia” si sente più vicina a Zemmour, con il quale condivide tra l’altro l’idea che la minaccia migratoria in Francia mina l’identità nazionale. Né ha mai nascosto di non approvare la “normalizzazione” del partito del nonno voluta dalla zia per darsi più opportunità di accedere all’Eliseo. Marion è figlia di Yann Le Pen, sorella di Marine. Nel 2007, quando si faceva ancora chiamare Marion Maréchal-Le Pen, si è iscritta al Fn e nel 2012 è diventata, a 22 anni, la più giovane deputata dell’Assemblée. Nel 2017, ha deciso di mettere tra parentesi la carriera politica, soppresso Le Pen dal suo cognome e creato a Lione l’Issep, l’Istituto di scienze sociali, economiche e politiche. Malgrado i tre anni di assenza, è sempre molto popolare nell’ultradestra. Secondo Le Figaro starebbe pensando alle Legislative del 2022. Al giornale, che le fa notare che è incinta di tre mesi, lei ricorda che Giorgia Meloni aveva fatto campagna per le Municipali col pancione. Anche se Marion Maréchal si mostra cauta, per Zemmour il sostegno della giovane è acquisito: “È una bella settimana”, ha detto. Nel giro di pochi giorni, Reconquête ha strappato al Rn altre due figure di peso, Gilbert Collard, che militava al fianco di Marine Le Pen dal 2011, e Jérome Rivière, presidente del gruppo Rn al Parlamento Ue, ora portavoce di Zemmour. Per Marine Le Pen il colpo è duro: “Se vi dicessi che la cosa non mi ferisce, nessuno ci crederebbe, ha detto a Cnews: “È brutale, violento, difficile”. Anche perché Marion aveva fatto sapere che, tra la zia e Zemmour, avrebbe sostenuto il “meglio piazzato” nella corsa all’Eliseo. E finora la candidata Rn ha sondaggi migliori, raccogliendo il 17-18% delle intenzioni di voto al primo turno di aprile, mentre Zemmour non più del 12%. A fare concorrenza ai due è Valérie Pécresse, la candidata dei Républicains che ha scalato i sondaggi e ora contende con Le Pen il ballottaggio contro Macron (in testa col 23-25%). Per ora il duello per l’Eliseo si gioca tutto al centro-destra.

La sinistra arriva frammentata in campagna, con un ingorgo di candidati, cinque i maggiori, più due secondari, di cui nessuno supera il 10% nei sondaggi. Al 10% arriva solo Jean-Luc Mélenchon della France Insoumise, sinistra radicale. Il Verde Yannick Jadot fa il 5-6%, Christiane Taubira, l’ex ministra della Giustizia di François Hollande, l’ultima ad aver ufficializzato la sua candidata, ottiene il 5%, mentre la socialista Anne Hidalgo e il comunista Fabien Roussel si fermano al 3%. E non è neanche detto che la lista sia al completo: proprio alcuni giorni, l’ex presidente Hollande ha fatto planare il dubbio di una sua possibile candidatura. Gli appelli all’unità sono tanti. Da giovedì, e fino a domani, oltre 400 mila iscritti alla “primaria popolare”, un’iniziativa sostenuta anche da molte figure del mondo della cultura, sono chiamati a scegliere tra sette candidati, quattro volti noti e tre semi sconosciuti, per far emergere una candidatura unica, in vista di un’alleanza della sinistra e degli ecologisti. Il problema è che solo Taubira ha accettato di parteciparvi e riconoscerà il voto. Gli altri tre, Hidalgo, Mélenchon e Jadot, presenti in lista loro malgrado, non intendono tenere conto del risultato e accusano anzi gli organizzatori di favorire la candidatura di Taubira, magari spingendo Hidalgo a ritirare la sua candidatura. Mélenchon pensa che sia solo una mossa dei socialisti per coprire la crisi del partito.

Mattarella, il fumo nero

Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana, politico democristiano di specchiata onestà, impegnato in un’opera di moralizzazione diretta a stroncare i traffici illeciti legati al perverso circuito fra mafia e Pubblica amministrazione, venne ucciso a Palermo il 6 gennaio 1980.

Come mandanti sono stati condannati all’ergastolo (sentenza definitiva) i boss della “cupola” di Cosa Nostra (Riina, Provenzano e soci). Quanto agli esecutori materiali, vi sono state dichiarazioni provenienti dalla destra eversiva che hanno indicato in Valerio (Giusva) Fioravanti e Gilberto Cavallini – militanti dei NAR – gli autori dell’omicidio.

Al riguardo, rileva l’interrogatorio reso a Falcone il 22 marzo 1985 dal fratello di Valerio Fioravanti, Cristiano, che parla anche di una riunione svoltasi a Palermo in casa del capo riconosciuto di terza posizione, Francesco Mangiameli, finalizzata a programmare l’omicidio Mattarella. (G. Fioravanti temeva che Mangiameli potesse rivelare quel che sapeva; perciò lo uccise con l’aiuto del fratello Cristiano).

Nel 1989 Falcone interrogò un insegnante palermitano vicino a Terza posizione, Alberto Volo. Pure costui, indicando come sua fonte Mangiameli, accusò dell’omicidio (voluto dalla massoneria) G. Fioravanti e Cavallini.

Anche Loris D’Ambrosio (all’interno dell’Alto Commissariato Antimafia) si occupò del caso Mattarella. In una relazione finale sostenne che l’esecuzione del delitto non fu affidata a killer mafiosi perché la riferibilità a Cosa Nostra doveva stemperarsi in una serie di passaggi mediati, per dare il senso dell’antistato. In sostanza sarebbe stato un omicidio di “politica mafiosa” più che di mafia.

Peraltro, in mancanza di prove sufficienti, alla fine G. Fioravanti e Cavallini sono stati assolti con sentenza definitiva: e per il principio del ne bis in idem non sono riprocessabii per l’omicidio Mattarella.

Marco Lillo sul Fatto del 25 gennaio, ricollegandosi a un servizio di Report, ha esaminato un interrogatorio del 2019 reso ai Pm di Palermo da Volo. Qui Volo dichiara di aver riferito a Falcone le confidenze di Mangiameli su V. Fioravanti e Cavallini come autori dell’omicidio; le conferma e aggiunge che l’attentato fu deciso a casa di Licio Gelli a causa delle aperture di Mattarella al Partito comunista.

Volo ha poi riferito di aver indagato personalmente sulla strage di Capaci e di aver constatato, in un incontro con Borsellino, di essere sulla sua stessa linea di pensiero, e cioè che la strage era stata ordinata da Roma e che non era assolutamente credibile la teoria del “bottoncino” schiacciato da Brusca, cioè la “sciocchezza” della matrice solo mafiosa dell’attentato del 23 maggio ’92. Salta agli occhi che l’uso del diminutivo “bottoncino” per indicare l’innesco di un ordigno esplosivo di inaudita potenza è assolutamente sproporzionato rispetto alla “magnitudo” della strage. Improbabile che Borsellino (se un incontro con lui davvero vi fu) potesse essere sulla stessa linea di Volo anche nel lessico. E giustamente Lillo chiosa che “non v’è riscontro” su quanto sostenuto dal Volo.

Merita ancora segnalare che nel processo in corso a Bologna ai mandanti della strage del 2 agosto, nell’udienza del 26 gennaio il Pm – mentre un teste stava accennando all’omicidio Mattarella – ha detto di essere in difficoltà perché sul tema c’è un’indagine aperta. Il procuratore generale di Bologna, peraltro, ha smentito che nel suo ufficio vi sia un fascicolo d’indagine relativo all’omicidio Mattarella

Quale che sia la verità storica di tale delitto, in ogni caso è assolutamente certo l’imprinting di Cosa Nostra. Vi è infatti la prova di due incontri di Stefano Bontate e altri mafiosi di rango, come Salvatore (Totuccio) Inzerillo, con Giulio Andreotti, accompagnato da Salvo Lima e dai cugini Salvo. Gli incontri si svolsero in una villetta di Palermo e in una tenuta di caccia dalle parti di Catania. Il primo per cercare di risolvere il caso Mattarella “amichevolmente”; il secondo perché Andreotti voleva chiedere conto dell’omicidio, ma ricevette da Bontate una risposta sprezzante.

La ricostruzione della vicenda, fondata sull’ineccepibile testimonianza (in uno dei due incontri addirittura oculare) di Francesco Marino Mannoia nel processo Andreotti, ha portato la Corte d’appello di Palermo, confermata in Cassazione, a sentenziare la responsabilità del senatore fino al 1980 per aver commesso – così testualmente nel dispositivo – il delitto di associazione a delinquere con Cosa Nostra.

Mannoia ha poi trovato un’eccezionale conferma nell’operazione del luglio 2019 della Polizia di Palermo e dell’Fbi che ha smantellato una cosca ricostruita dagli “scappati” della famiglia Inzerillo, rientrati a Palermo. In una intercettazione ambientale del 17 gennaio 2019 uno degli arrestati, Tommaso Inzerillo, racconta quel che aveva appreso dal cugino Salvatore (Totuccio) Inzerillo a proposito delle gesta di Stefano Bontate. In particolare ricorda la tumpulata (ceffone) di Bontate a un politico (“a Roma comandi tu, qua a Palermo comandiamo noialtri”), che coincide con quanto Mannoia ha testimoniato parlando dell’incontro nel quale Andreotti volle chiedere conto dell’omicidio. (L’intercettazione è riportata da S. Palazzolo nell’articolo “Bontate disse al politico: non comandi”, pubblicato su Repubblica di Palermo il 21.7.2019).

A Mannoia e alla registrazione ambientale di Inzerillo si potrebbe aggiungere quel che Angelo Siino racconta nel libro scritto col suo difensore Alfredo Galasso (Vita di un uomo di mondo – Ponte alle Grazie), ricordando di essersi recato con Bontate in una tenuta di caccia dalle parti di Catania. In quell’occasione gli fu detto che era arrivato anche il presidente Andreotti. Fatto che, più avanti negli anni, Siino mise in relazione con le dichiarazioni di Mannoia.

Dunque, Volo o non Volo, fascisti o non fascisti, impregiudicati allo stato degli atti eventuali sviluppi al riguardo, risulta da prove sicure e convergenti (oltre la condanna della “Cupola”) che nell’omicidio Mattarella la mafia ebbe un ruolo decisionale ben preciso; e che Andreotti ebbe modo di interloquire senza mai denunziare “gli elementi utili a far luce sui fatti di particolarissima gravità” di cui era a conoscenza. Dimenticandolo si rischia di scivolare in una sorta di pericoloso negazionismo dei rapporti fra mafia e politica.

 

Morto l’ex Br Alunni. Evase da San Vittore con Vallanzasca

Aveva 75 anni Corrado Alunni, componente delle Brigate Rosse della prima ora, morto ieri a Varese. Alunni si distaccò quasi subito dalle Br per dare vita alle Rosso Brigate comuniste e poi alle Formazioni comuniste combattenti. Fu protagonista con Renato Vallanzasca della maxi-evasione nel 1980 dal carcere di San Vittore durante la quale rimase ferito. “Vorrei che non lo si ricordasse solo per aver aderito alle Br – ha detto Davide Steccanella, avvocato e conoscitore degli Anni di piombo – Era un operaio, come molti fece la scelta che pagò con anni di carcere”.

‘Rubò 1 mln a un morto’. Indagato legale dei vip

Un avvocato con studio in via Montenapoleone a Milano, Michele Morenghi, sarebbe riuscito a trasferire la “titolarità integrale delle quote” di una immobiliare, il cui proprietario, cliente del legale, nel frattempo era morto, “ad una società ungherese”, “reintestandola” anche a un prestanome indagato con Morenghi a vario titolo per reati fiscali e autoriciclaggio. Un milione sequestrato dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Milano. Morenghi è stato legale di Alba Parietti e Lory Del Santo (estranee) e rettore di un ateneo a Budapest. Nel 2014 entrò come denunciante nell’indagine che portò alla condanna di un ex pm figlio di un ex giudice della Cassazione.