La strana coppia delle SS:
Salvini-Sallusti sempre in tv

Caro Marco, avrai notato che dalla “clausura” il numero di copie vendute a San Nicola Arcella (Cs) è aumentato del 50 per cento (una su due inviate): merito mio che, non avendo il cane, compero il giornale nell’ora d’aria e da lettore affezionato, ma saltuario, sono diventato “fisso”. Ho sempre ammirato la tua capacità di documentarti e la tua ferrea logica, ma ora scopro anche che devi avere un bel po’ di pelo sullo stomaco.

Quando da Giletti è comparsa la “lecchista” pugliese, ho dovuto istantaneamente balzare su altri canali. Tu, invece, sei riuscito a seguire tutto il “salumificio” e quindi grazie. Vorrei chiederti: come fa la coppia delle SS (Salvini/Sallusti) a essere presente tutti i giorni, in tutte le trasmissioni, su tutti i canali e a tutte le ore? O sono ologrammi che ripetono ossessivamente le stesse cavolate?

Caro amico, in tv c’è spazio per tutti e mai mi sognerei di chiedere la cacciata di qualcuno. Ma un minimo controllo sulle falsità che dicono certi ospiti, quello sì, sarebbe doveroso.

M. Trav.

I vostri “Eroi” a fumetti:
utili per raccontare il Paese

L’altro giorno, con il Fatto, ho acquistato anche il primo numero di Chiedi chi erano gli eroi: bella iniziativa; sarà molto utile alle nuove generazioni e faciliterà il compito di noi “vecchi” nello spiegare gli “eroi” di questi decenni, il tutto nella forma gradevole del fumetto. La cosa mi ricorda, fra l’altro, l’indimenticabile iniziativa degli anni 70 di Enzo Biagi con la sua Storia d’Italia a fumetti. Grazie. Prenoterò tutte le dieci uscite previste… Ho notato che nella copertina del libro Falcone poggia il mento sulla mano sinistra, mentre nella pubblicità lo poggia sulla mano destra. Che sia un indice di rottura fra Marco Travaglio e Antonio Padellaro?

Franco

Caro Franco, felice che abbia gradito la nostra iniziativa. Ma non capisco: che c’entriamo Padellaro e io con la mano di Giovanni Falcone?

M. Trav.

Il vaccino potrebbe avere
qualche effetto collaterale?

Buongiorno, vorrei che la dottoressa Gismondo mi spiegasse cortesemente gli effetti collaterali del vaccino per il Covid-19 su un organismo sano. Inoltre, col vaccino, non c’è il rischio di favorire di nuovo la diffusione del virus, che si eviterebbe invece con un medicinale? Grazie.

Alessandra Scarcelli

Il vaccino per Covid-19 non esiste ancora, pertanto è impossibile ipotizzare se e quali effetti collaterali ci possano essere. Ovviamente, l’immissione in commercio sarà disposta quando questi rischi saranno al minimo. Mi chiede se potrà esserci pericolo di diffondere il virus attraverso il vaccino. Le formule dei vaccini in sperimentazione non comprendono il virus intero vitale, pertanto il rischio non sussiste.

MRG

L’economia privata
spesso è anti-umanista

Oggi si critica la gestione della sanità lombarda, caratterizzata negli ultimi decenni da una progressiva contrazione della sanità pubblica a vantaggio di quella privata. Quali sono i fattori strutturali dell’attività economica privata? Tale attività privilegia l’interesse a realizzare il profitto più alto possibile… I lavoratori dipendenti fanno parte dei costi come le materie prime, con la conseguenza della scarsa tutela di diritti della persona. Si tende a non tenere conto dell’impatto ambientale della produzione, a far privatizzare l’attività riguardante beni e servizi di rilevanza pubblica, a creare denaro dal denaro… Un simile sistema economico tende a ridurre sempre più la sfera di azione dei sistemi pubblici e cerca di dominarli. Questa forte tendenza all’autonomia assoluta dell’economico privato è antiumanista perché concentra la ricchezza del mondo nella sfera proprietaria di pochi, così accrescendo le diseguaglianze. Il principio fondamentale su cui radicare un sistema alternativo dovrebbe porre come paradigma di riferimento l’uomo, ai cui valori andrebbero subordinate le scelte economiche.

Rocco Agnone

Ho lasciato “Repubblica”:
mi riconosco più in voi

Gentile Travaglio, sono in lutto! Ho disdetto il mio abbonamento a Repubblica, il mio giornale di riferimento dalla fine degli anni Settanta. Capisco che chi ci mette i danari sia legittimato a definire la linea editoriale, tuttavia reputo che il carattere liberal-socialista impresso al quotidiano dal suo Fondatore sia ormai del tutto evaporato, a favore di uno più marcatamente filo-atlantico e molto meno europeista. Il che, nell’immediato, si traduce esplicitamente nel tentativo di favorire la formazione, per me assurda, di un nuovo governo “ammucchiata” post Covid -19, prima delle elezioni. Da “orfano”, sarò un lettore nomade e mi darò alla lettura random di quotidiani anche di tendenze opposte, compresa Repubblica (a eccezione di Libero, Il Giornale, La Verità, Huffington Post…), a partire dal Fatto Quotidiano (al quale sono abbonato da un po’), sperando nella nascita di una voce giornalistica vicina alla mia sensibilità, che non trovo rappresentata compiutamente (se non, in parte, dal quotidiano da lei ben diretto). Le sarò grato per l’attenzione che vorrà riservare alla presente, ospitandomi cortesemente, affinché mi sia consentito di esternare pubblico tributo a Carlo Verdelli, esprimendogli solidarietà per le minacce subìte e per la brutalità, anche per tempistica, della sua destituzione dalla direzione di Repubblica.

Ettore Caruggi

I giovani. Non solo Sciascia: se ignorano la Costituzione è anche colpa nostra

 

Gentile redazione, sul Fatto di mercoledì scorso ho letto l’articolo di Roberto Faenza nel quale scrive che i ragazzi non conoscono Sciascia, Montale e tutti gli altri famosi citati, però conoscono una certa Ferragni, di professione influencer (che sarà mai?). Poi mi documenterò. Secondo me, ignorante con licenza media, c’è di peggio e vi dico il perché: parlando spesso con i giovani mi sono reso conto che la maggior parte non ha mai letto la Costituzione e altri non sanno nemmeno che esiste. Se partiamo dal principio che la Costituzione è alla base della democrazia, è una mancanza più grave del non conoscere Sciascia (con tutto il rispetto dovuto). Se non si conosce la Costituzione, come si fa a capire il sacrificio di tutte quelle persone che hanno sacrificato la loro vita per difenderla?

Pierluigi Paffetti

 

Gentilissimo Pierluigi, intanto è bello che ci siano lettori così appassionati. Commentando il mio articolo fa una affermazione su cui è giusto riflettere. Siamo noi adulti o i giovani a non conoscere la Costituzione? Aldo Moro già nel 1947 proponeva che “la Carta costituzionale trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado al fine di rendere consapevole la giovane generazione delle conquiste morali e sociali che costituiscono ormai sacro retaggio del popolo italiano”.

Da allora vari disegni di legge hanno proposto di rendere obbligatoria l’educazione civica. Il guaio è che, come spiega il mio ex compagno di scuola Gustavo Zagrebelsky, noto costituzionalista che si appresta a pubblicare un libro proprio su questo tema, spesso è così male insegnata e pedante da generare rigetto anziché interesse. Torno a quanto mi sono permesso di scrivere e cioè che la responsabilità non è dei giovani, ma nostra. Del sapere siamo soliti disinteressarci perché diffondere la conoscenza comporta una bella dose di fatica e gran parte del mondo adulto all’impegno preferisce il contrario.

Come può un ragazzo amare la Costituzione quando la vede calpestata in primo luogo da chi ha posizioni di potere?

La Carta che abbiamo ereditato dai Padri costituenti parla di lavoro, di eguaglianza, di moralità, di istruzione, di cultura, di piena libertà… Dovrebbero essere i nostri principi fondanti, ma quando ascolto certi nostri politici mi sembrano piuttosto parole al vento.

Roberto Faenza

Paura da Covid: morire senza dignità

“Muore mille volte chi ha paura della morte” (Epicuro). È quanto è successo a tutti noi, o quasi, da quando è iniziata questa epidemia che io chiamerei piuttosto ondata di panico. Tremiamo a ogni starnuto, a ogni colpo di tosse, insomma a tutti quelli che ci hanno segnalato essere i primi sintomi del Covid-19 e anche a quelli che sintomi di questo morbo non sono.

Mi ha telefonato un’amica spaventata perché aveva la nausea e mi ha chiesto se sapevo se era un sintomo del Covid. Le ho consigliato di leggere meno i giornali che con la loro ventina di pagine dedicate ogni giorno all’epidemia, come se nel mondo non ci fossero situazioni un tantino più gravi, dalla Siria alla Libia all’Afghanistan all’Egitto alla guerra in Sudan, a quella in Yemen, hanno ampiamente contribuito a diffondere il panico.

Un panico del tutto irragionevole poiché al 28 aprile sono morte per Covid 27 mila persone, vale a dire lo 0,045 per cento della popolazione italiana, cioè ciascuno di noi ha 0,045 probabilità di morire per il Covid. Certo gli anziani hanno una più alta percentuale di rischio, se prendiamo le decadi 70-79 e 80-89 anni questi anziani hanno rispettivamente il 29,9 per cento e il 40,6 per cento di probabilità in più di essere compresi in quello 0,045 che rappresenta la media generale.

E in quasi tutti i casi è gente pregiudicata, come si dice, da “patologie pregresse”. Da 0 a 29 anni le probabilità di morte, cioè di essere ricompresi nella più generale media dello 0,045, è dello 0,01 per cento, da 30 a 39 anni dello 0,2 per cento, da 40 a 49 dello 0,9 per cento.

Eppure anche questi giovanissimi o giovani non sono meno timorosi degli altri, anzi se si guarda in giro, lo sono forse più dei vecchi. Solo alla fine e anche un po’ dopo della fine potremo fare i conti di quanto questo stress sia stato più letale del Covid: tre suicidi in Lomellina in poco più di due settimane, otto “femminicidi” da quando è iniziato il Covid, senza contare gli infarti e gli ictus che, oltre che in questi mesi, si conteranno soprattutto in quelli successivi alla fine dell’epidemia, quando ci sarà.

Per cui l’osservazione psicologica di Epicuro rischia di trasformarsi in un dato reale. Ma quello che qui ci preme sottolineare è che, in termini generali, abbiamo affrontato questo virus con un abbietto terrore della morte, senza alcuna dignità. È toccato al presidente del Bundestag, il Parlamento tedesco, Wolfgang Schäuble, ricordare che la dignità, intesa nel senso della dignitas latina, è più importante della vita: “È assolutamente sbagliato subordinare tutto alla salvaguardia della vita umana… se c’è un valore assoluto ancorato nella nostra Costituzione è la dignità delle persone, che è intoccabile e questo non esclude che dobbiamo morire”.

È toccato ancora a Schäuble ricordare che nessuno di noi è immortale: “Tutti lasciamo questo mondo, prima o poi” (“Chi ha troppa paura di morire crede di essere immortale”, Il Ribelle dalla A alla Z). Questo terrore della morte rientra nella concezione tutta moderna, come abbiamo più volte ricordato, per cui la morte biologica è inconcepibile pur essendo inevitabile.

Ciò che, nell’attuale situazione, dovrebbe far paura non è la morte in sé per Covid, ma il modo sordido di questo morire: intubati, monitorizzati, oggetti. Cioè un modo che lede proprio la nostra dignità di esseri umani, quella dignità cui faceva riferimento Wolfgang Schäuble.

Folli, un “dono” raccomandato da Pacciardi

Chi conosce la storia e i primi passi di Stefano Folli non riesce proprio a stupirsi delle sue ultime esternazioni politico-giornalistiche. È un ritorno alle origini. Su Repubblica, ormai agnellizzata da Maurizio Molinari, Folli abbandona i consueti bisbigli sempre in sintonia con il potente di turno per tornare ai toni forti, evocando uno scenario da Vogliamo i colonnelli. L’emergenza Covid-19 innescherà una “ancor più drammatica emergenza economica”, scrive Folli, che potrebbe trasformarsi in una inedita crisi politica. Con il governo che potrebbe trovarsi a essere “travolto da circostanze eccezionali”, con “qualcuno” che “già ora si prepara a gestire una stagione drammatica”, magari con un “piano B” da far scattare “nel caso in cui il bandolo della matassa fosse ancora nelle mani dei poteri riconosciuti”. Sono scenari che sembrano sconfinare dalla dialettica elettorale e parlamentare. Chi sono i “poteri non riconosciuti” che potrebbero scendere in campo?

Ma niente paura, Folli non è impazzito: è solo tornato alla sua gioventù, quando era il figlioccio di Randolfo Pacciardi, massone, esperto di “poteri non riconosciuti” e candidato (segreto), nel 1974, a diventare il primo ministro del governo di salute pubblica che avrebbe dovuto prendere la guida dell’Italia dopo il “golpe bianco” di Edgardo Sogno.

A scartabellare negli archivi, si trova una lettera (inedita) di raccomandazione che Pacciardi scrive per far assumere Folli al Giornale. Datata 26 febbraio 1989 e indirizzata al direttore, Indro Montanelli. “Se avesse bisogno, come ho sentito dire, di un redattore di politica estera che sappia seguire gli avvenimenti quotidiani con finezza, competenza e aderenza alla linea del giornale – scrive Pacciardi – le segnalerei un giovane giornalista che oggi è il direttore responsabile della Voce repubblicana e direttore dell’interessante rivista di politica internazionale Nuovo Occidente. Il suo nome è Stefano Folli. Non è disoccupato, ma mi sembra sprecato per un giornale di partito, forzatamente a tiratura settoriale e limitata, pur avendo ali per volare più in alto”.

Pacciardi era alla guida dell’ala destra del Partito repubblicano italiano. Primo sostenitore della Repubblica presidenziale in Italia, era così ferocemente anticomunista da mettere in conto anche un colpo di Stato, purché “liberale”. Ispirato, Pacciardi continua: “Cangini dovrebbe conoscerlo bene. Se realmente ne avesse bisogno, sono certo che sarei io a farle un regalo. Se invece non ne avesse bisogno, l’amicizia e la simpatia resterebbe intatta con tante scuse che le reco di leggere questa lettera. Penserei poi io a convincere La Malfa di privarsi di Folli che è certamente necessario alla Voce repubblicana e a noi tutti, ma che non è giusto sacrificare. Però la pregherei”, conclude Pacciardi, “di tenere riservata, per il momento, questa richiesta o questo… dono”.

Montanelli il “dono” non lo volle ricevere, ma Folli non fu comunque “sacrificato”, lasciato a un giornale di partito: fu assunto al Tempo di Roma. Con le sue “ali” è volato alto fino a noi. È passato al Corriere della Sera, di cui è diventato, inopinatamente, perfino direttore-meteora. Poi al Sole 24 Ore, infine a Repubblica, un tempo quotidiano della sinistra, su cui oggi paragona arditamente l’emergenza virus alla guerra d’Algeria che innescò una rottura costituzionale in Francia riportando al comando il generale De Gaulle. Qui da noi, Folli si limita a evocare, senza fare nomi, un “uomo forte”. Oggi, il suo maestro e mentore Randolfo Pacciardi sarebbe fiero di lui.

Limitare i diritti: la carta lo prevede

Il nuovo Dpcm n° 19 del 26 aprile 2020 emanato dal governo e che ha riaperto parzialmente il lockdown ha scatenato le opposizioni (e i giornali a esse vicine) che, dopo aver definito Giuseppe Conte “dittatore” o “ducetto”, hanno denunziato “la violazione delle regole democratiche”, “l’esondazione di un potere dello Stato, quello esecutivo, sull’altro, ossia il potere legislativo”, “la prevaricazione del Governo sul Parlamento”.

In questa orgia di accuse non poteva non mancare il “finto rottamatore” Renzi il quale – pur essendo leader di un partito che fa parte della maggioranza governativa – ha definito il Dpcm “uno scandalo costituzionale” e che “un presidente del Consiglio non può con proprio decreto cambiare la Costituzione” e che “continuare a intervenire così sulle libertà costituzionali è sbagliato ed è un pericoloso precedente”.

Si tratta di affermazioni destituite del sia pur minimo fondamento giuridico.

Innanzitutto, il Dpcm n° 19/2020 detta “ulteriori disposizioni attuative del decreto legge 23/2/2020 n° 6 recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da covid-19, applicabili sull’intero territorio nazionale”. Il decreto in questione trova, quindi, il suo fondamento in un d.l. convertito dal Parlamento nella legge n° 13/2020 e in un successivo d.l. (n° 19/2020) in corso di approvazione nel quale, peraltro, viene espressamente richiamato l’art. 16 Cost., in virtù del quale il legislatore può “limitare il diritto di circolazione dei cittadini per motivi di sanità”. Ma il decreto in questione è legittimo anche sotto altro profilo. Come è noto, il potere esecutivo, sia esso il governo o il Prefetto, può adottare temporaneamente provvedimenti straordinari in deroga al diritto vigente per fronteggiare una situazione emergenziale (che può essere sanitaria, ambientale, economica, criminale). Nello specifico soccorre, altresì, l’art. 32 della legge n° 833/978 che attribuisce al “Ministro della sanità il potere di emettere, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale, ordinanze contingibili e urgenti in materia di sanità pubblica”; norma che è diretta applicazione dell’art. 32 Cost. secondo cui “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.

E allora, per la legittimità del decreto è necessario: a) che l’emanazione di esso sia prevista da una legge dello Stato; b) che si versi in una situazione straordinaria, cioè in presenza di un fatto imprevedibile, naturale o sociale, che metta in pericolo la vita, l’incolumità o i beni della persona, e che, in quanto tale, imponga l’improcrastinabile adozione di provvedimenti “extra ordine” che non possono essere ritardati e che impongono obblighi di condotta positivi o negativi la cui inosservanza comporta l’irrogazione di sanzioni; c) che le deroghe all’ordinamento giuridico vigente abbiano imprescindibilmente carattere temporaneo.

Sussistendo tali condizioni, ben possono essere eccezionalmente disposte, in via temporanea, limitazioni o compressioni di qualsiasi diritto dei cittadini ivi compresi diritti costituzionali quali la libertà di locomozione, di riunione, di associazione, di iniziativa economica.

E allora, non è esatto affermare che il Dpcm “ha stropicciato la Costituzione” (il “tuttologo” Sabino Cassese), e che “limitare le libertà con un Dpcm è un atto, in tutto, incostituzionale perché non ha base in un atto legislativo” (il “redivivo” Antonio Baldassarre); così come sono parole inutili quelle della quinta carica dello Stato (Marta Cartabia, presidente della Consulta) che indica nella Costituzione “la bussola necessaria per navigare nell’alto mare aperto della emergenza”; e quelle della seconda carica dello Stato (Elisabetta Casellati, presidente del Senato) secondo cui “è in Parlamento che si realizza l’unità nazionale”, laddove in Parlamento si realizza il gioco democratico della maggioranza (che governa) e della minoranza (che si oppone e controlla).

Guai se non fosse così!

L’errore di Lenin: i Soviet al posto dei Meet up grillini

Il successo della docuserie “Lenin Exotic”, con cui il gruppo Bilderberg sostituirà il comunismo sovietico al neoliberismo, le cui ricette hanno aggravato la pandemia di coronavirus e non piacciono più a nessuno, neppure ai boccaloni che fino a ieri ci avevano creduto, guadagnandoci (Tony Blair), è legato alle vite incredibili vissute dai protagonisti: gli episodi non solo raccontano di ex-criminali, poligamia, omicidi su commissione, droga, utilizzo di armi, rivoluzioni proletarie e arti amputati, ma, come se non bastasse, sprigionano sullo schermo un subisso di grandi felini, alcuni dei quali ignoti al grosso pubblico, come gli ibridi generati dall’accoppiamento di coppie appartenenti a specie diverse. Uno di questi è il grande felino più inutile del mondo: il Coligre, un incrocio fra Vittorio Colao, il capo della task force per la ripartenza, e una tigre. Il bestione non è presente in natura perché impossibile che manager e tigri possano accoppiarsi fra loro allo stato brado, dato che vivono in differenti aree del mondo (per quanto un governo possa essere una giungla), però è possibile accoppiarli perché entrambi predatori alfa. Di questo incrocio bizzarro gli scienziati non conoscono le abitudini, tranne che il loro stile di vita mischia quello dei genitori. Il Coligre, infatti, è una specie che ama le app telefoniche (come Colao), e al tempo stesso adora masturbarsi (piacere che condivide con le tigri) (e con Colao).

In primo piano, comunque, le influenze politiche cruciali per la formazione di Lenin Exotic. “Conosciamo il suo debito nei confronti di Marx ed Engels, ma che dire della tradizione western? Il Far West colpì profondamente Lenin: non scordiamoci che a John Wayne fu tributato un funerale di Stato nell’Urss. Quanto all’aspetto sentimentale, i quattro giovani amanti, con i quali conviveva in una sorta di poligamia non legalizzata, non erano un segreto, nei circoli bolscevichi. E Nadia Krupskaya, la moglie, ne era a conoscenza? Sì, e se ne sbatteva. Femminista impegnata, considerava le faccende domestiche una forma di servitù, e quindi le bastava che Lenin le pagasse la colf. La parte più intrigante della serie, prodotta da Lucio Presta, diretta da Sorrentino, e narrata da Matteo Renzi, riguarderà l’errore fondamentale di Lenin: accelerò la rivoluzione creando i Soviet (operai, contadini e soldati, eletti dal basso come i Meet up grillini, che aprirono la Duma come una scatoletta di tonno), e questo spaventò i capitalisti e le classi agrarie italiane, al punto che optarono per Mussolini, il quale a sua volta influenzò Hitler e Franco. Senza Lenin, oggi in Russia ci sarebbe una monarchia parlamentare di tipo inglese, il modello a cui lo zar Nicola II stava ispirando le sue riforme illuminate; e non avremmo avuto la II guerra mondiale. Toccante la scena finale, dove un Lenin in lacrime, abbracciando una tigre albina, si scusa con i popoli dell’Urss per la situazione del Paese: ‘Non sapevamo nulla su come gestire una nazione, quando abbiamo cominciato la rivoluzione’”. Fra le celebrità contattate per il ruolo di Lenin: Sylvester Stallone, Peter Dinklage e Paris Hilton. Già assegnata la parte di Stalin. Nino Frassica.

(4. The End)

L’incubo Taranto non è l’epidemia, ma Ilva e le sue vittime

Si è tolto la vita a pochi giorni dal suo compleanno e dalla Festa dei lavoratori, un operaio dell’ex Ilva di Taranto. Aveva 44 anni e da tempo problemi di depressione che – raccontano i colleghi del “suo” sindacato l’Usb – si erano aggravati durante il passaggio degli impianti alla multinazionale ArcelorMittal. Un lutto che frena gli entusiasmi di una comunità che per due giorni non ha avuto contagi da Covid-19. Se l’emergenza sanitaria a Taranto non ha fatto paura, almeno nei numeri, è ancora una volta il lavoro ad appesantire il clima. Nella città che da anni ospita il vero palco di lotta socio-politica del Primo Maggio, il rapporto con ArcelorMittal sembra definitivamente compromesso anche se Confindustria Taranto invoca “un cambio di passo” accusando il management della multinazionale di perseguire esclusivamente “interessi legati al mero profitto” nel “pressoché totale dispregio del territorio in cui la stessa azienda opera”. Il pomo della discordia è nuovamente la sofferenza delle aziende dell’indotto a cui ArcelorMittal non starebbe pagando i lavori già fatti: il colpo di grazia in un momento già drammatico per molte Pmi.

Intanto nel quartiere Tamburi, il rione a due passi dalla fabbrica, è giunta la terza sentenza del Tribunale di Milano che riconosce ai cittadini il diritto di richiedere il risarcimento dei danni alla ormai fallita società Ilva. Se nelle precedenti due sentenze i giudici avevano riconosciuto la svalutazione degli immobili, ora i magistrati hanno certificato il mancato godimento del bene, cioè il danno patito per la vita con finestre chiuse, l’impossibilità di utilizzare i balconi e di lasciar giocare i bambini all’aria aperta. Come ha però spiegato l’avvocato delle famiglie, Massimo Moretti, i soldi non arriveranno mai: quando la fallita Ilva avrà ripagato banche e creditori, non ci saranno nemmeno pochi spiccioli.

Quasi 30 mila i contagiati in azienda. I morti per virus non solo tra i sanitari

Chi non sta lottando contro la disoccupazione, in questo Primo Maggio particolarmente sciagurato, si trova a fare i conti con un virus che è già diventato la principale causa di morte sul lavoro in Italia. Con le vittime che non sono solo medici e infermieri, ma anche gli operai, i commessi, i vigilanti, gli addetti alle pulizie e quelli della logistica e dei trasporti.

I dati sulle denunce arrivate in questi due mesi all’Inail lo confermano: il personale che opera negli ospedali e nelle residenze socio-assistenziali è il più a rischio. Questo è ovvio, ma anche gli altri settori mostrano numeri da non sottovalutare. Quello che è emerso è importante soprattutto alla luce del fatto che, tra tre giorni, si prepara a rimettersi in moto un’altra grossa parte di aziende finora in pausa forzata. Un monito affinché nessuno faccia scherzi sull’applicazione dei protocolli concordati con i sindacati. Tra marzo e aprile, l’istituto ha ricevuto 98 segnalazioni di decessi avvenute a causa del Covid-19 contratto durante il lavoro. Si tratta del 40% delle morti denunciate all’assicurazione pubblica nello stesso periodo. Di queste, il 42% riguardano la sanità e l’assistenza sociale. Il 13,4%, invece, vede coinvolte persone occupate nella manifattura, quindi prevalentemente nelle industrie rimaste aperte: farmaceutiche e agro-alimentari. Un altro 6,7% fa riferimento ai trasporti e al magazzinaggio e una percentuale identica si registra nel commercio all’ingrosso e al dettaglio. Dai servizi alle imprese – come per esempio le pulizie, la vigilanza e i call center – proviene il 4,4% delle denunce. Per sintetizzare, una discreta quota di queste tragedie ha interessato le fasce più deboli e meno pagate del mondo del lavoro. Inutile puntualizzare che si sono concentrate nella parte più produttiva del Paese: il Nord-Ovest fa da solo il 54,1%, aggiungendo il Nord-Est si raggiunge il 67,4%. Con il 36,7%, la Lombardia è in cima, seguita da Piemonte, Emilia Romagna e Campania tutte e tre con il 9,2 per cento.

Nell’80% dei casi a perdere la vita è un uomo. Ma se allarghiamo il campo a tutte le 28.381 denunce di infortunio sul lavoro da Covid-19 pervenute in questo bimestre, quindi non solo le 98 con esito mortale, le proporzioni si ribaltano completamente: il 71,1% sono donne. Considerando la totalità degli infortuni, la prevalenza della sanità è ancora più netta, supera infatti il 72%. La manifattura si ferma al 2,8% (parliamo comunque di quasi 800 lavoratori). Questo è il quadro che viene fuori. Racconta che ogni cinque lavoratori che hanno perso la vita durante la propria attività, in almeno due casi si è trattato di coronavirus. Ma è un quadro parziale per tante ragioni. Bisogna infatti ricordare che i dati dell’Inail hanno sempre il problema di sottostimare il fenomeno, non per colpa dell’istituto, ma perché non tutti i lavoratori hanno un’assicurazione pubblica. Da questa tutela sono esclusi i medici di famiglia, quelli che esercitano come liberi professionisti e i farmacisti. L’Osservatorio indipendente di Bologna, che da dodici anni tiene il conto delle morti sul lavoro, parla di ben 344 morti per Coronavirus sul lavoro, tra cui 61 medici di base e 8 farmacisti. Restano significative, anche tornando sui dati Inail, le percentuali di industria, commercio e servizi. Una parte di aziende il 4 maggio e un’altra nelle prossime settimane torneranno a produrre.

In questi giorni, Fiom, Fim e Uilm hanno raggiunto accordi per lavorare in sicurezza in tante aziende come Fca, Whirlpool, Electrolux e Leonardo. Maggiori preoccupazioni destano le imprese che non hanno rappresentanze sindacali all’interno. L’Ispettorato del lavoro sarà chiamato a trovare un modo per verificare il rispetto dei protocolli e, contemporaneamente, proteggere i suoi ispettori durante i controlli.

“Lavoro essenziale”: peccato sia anche quello pagato meno

È la prima volta senza piazze. Un Primo Maggio ognuno a casa sua, come vuole la prudenza anti-Coronavirus. Ed è anche la prima volta che si celebra la Festa del lavoro avendo fatto i conti con quello “essenziale” codificato in provvedimenti ministeriali.

Un lavoro decisivo che ci spinge a guardare meglio dei soliti clichè al vero volto della “classe lavoratrice” e alla sua multiforme composizione: diversa per sesso, età, spesso per nazionalità. Ma che ripropone il problema del salario perché scorrendo l’elenco di quei lavori, si scopre che quello che è essenziale non è pagato come tale. I lavori più necessari, quelli che preservano la vita e curano i bisogni impellenti sono quelli pagati di meno.

Scorrendo la lista dei lavori indicati dal primo Dpcm firmato dal presidente del Consiglio il 23 marzo – leggermente rivisto due giorni dopo a seguito di un confronto sindacale – le attività che senza indugio vengono escluse dal lockdown dichiarato dopo la crescita esponenziale dei contagi e dei decessi, sono evidenti: l’assistenza sanitaria, ovviamente, il lavoro agricolo, l’industria alimentare, quella farmaceutica, una parte di manifattura per macchinari, il trasporto, il magazzinaggio, i servizi postali, l’informazione, le pulizie, l’assistenza sociale. Ci sono infermiere, addetti dei supermarket, rider, addetti ai servizi essenziali, lavoratori dei trasporti o della logistica, che hanno dovuto fare i conti con la paura del virus e che non si sono tirati indietro.

Scorrendo per le medesime categorie i dati Istat sulle retribuzione lorde orarie mediane, si nota però come si tratti dei lavori che quasi sempre si trovano sotto la linea media fissata da Eurostat: 12,50 per l’Italia, 13,20 per l’intera Unione europea.

Parliamo di retribuzioni che mensilmente superano a fatica la soglia dei 1.300 euro netti. Scorrendo l’elenco Istat (che risale al 2017, ma da allora gli stipendi non sono aumentati significativamente), osserviamo che la paga oraria nel lavoro agricolo per la qualifica di “operaio” si aggira intorno ai 7,3 euro, sale un poco nell’Assistenza sociale con 9,3, si mantiene su livelli bassi nei Servizi di cura alle persone (colf e badanti) con 8,32 euro e nel settore delle Pulizie (8,8) ed è sempre inferiore ai 10 euro per i Servizi postali (9,81).

Risale nelle attività più strutturate e industriali, ma sempre tenendosi sotto la media europea: l’assistenza sanitaria, l’attività che più ha pagato in termini di vite la propria essenzialità, con i suoi circa 600 mila addetti si attesta sui 10,23 euro lordi orari mentre l’operaio addetto alla produzione e riparazione di Macchine e apparecchiature si colloca a 10,52. Va un po’ meglio per il Trasporto (11,43), per gli Alimentaristi (11,21) o per i lavoratori dell’industria delle bevande (12,31).

Sopra il reddito medio c’è invece il comparto della Farmaceutica (15,90) e il variegato mondo dell’Informazione (13,19). Come detto nel caso delle paghe più alte non superiamo i 1.500 euro netti oltre ai possibili integrativi specifici.

Il Coronavirus ha modificato la percezione complessiva del mondo del lavoro e forse anche quella che i lavoratori hanno di sé. Intanto ha contribuito a rinverdire la fotografia di insieme del Primo Maggio. Non tanto la festa delle vecchie “tute blu” che pure conservano un ruolo rilevante, ma una immagine più variegata e mossa, un quadro più colorato e multiforme che non ha, da tempo, un corrispettivo nel mondo della politica. E spesso anche in quello sindacale.

Il report Ue: “Covid diseguale, pagano i più poveri e precari”

Festeggiare il Primo Maggio significa guardare al futuro del mondo del lavoro, agli strumenti e ai meccanismi che possono migliorare le condizioni dei lavoratori, emancipandoli dal ricatto e dalla fatica. È per questo che è nata nel 1884 la giornata che oggi dedichiamo ai lavoratori e alle lavoratrici, i più colpiti oggi dalla pandemia, non solo nel pieno della crisi sanitaria, ma anche nel prossimo futuro quando l’economia avrà bisogno di politiche per affrontare la depressione economica ormai alle porte.

Gli effetti della crisi del Covid-19 non sono stati affatto neutrali, si sono scatenati in modo asimmetrico sulla società, non solo all’interno del singolo Paese ma anche nel confronto tra i Paesi europei. Un rapporto pubblicato ieri dal Joint Research Center della Commissione europea sugli impatti occupazionali del Covid non lascia dubbi.

L’analisi condotta a partire dai decreti sui servizi essenziali e attività chiuse (in toto o parzialmente) evidenzia il peso della tenuta della struttura economica di fronte alla crisi e di conseguenza dell’impatto che questa ha sui lavoratori. Paesi come la Spagna e l’Italia dove i servizi a basso valore aggiunto come turismo, ristorazione, servizi alla persona – quasi del tutto fermi per le disposizioni di legge – sono più elevati subiranno un impatto di medio termine più duro, sia per il calo inevitabile della domanda sia per l’incapacità di riconvertire la produzione in attività più produttive. A subirne maggiormente le conseguenze però saranno proprio i lavoratori che in questi settori sono relativamente già più poveri e più precari, non a caso anche più giovani. Ad esempio, nei settori chiusi in Italia, il 69% dei lavoratori fa parte del 30% più povero degli occupati, stessa quota lavorava con un contratto a termine, mentre un terzo come autonomo o collaboratore. Milioni di famiglie con scarso accesso agli ammortizzatori sociali che dovranno accontentarsi dei seicento euro del decreto Cura Italia, ma che rimarranno senza un lavoro dignitoso ancora per molto tempo.

Guardando ai settori che sono rimasti sempre aperti (al netto delle auto-certificazioni delle aziende), la quota di lavoratori relativamente più poveri scende al 27% per quelli strettamente essenziali come amministrazione pubblica e sanità, per aumentare ancora al 59% per quelli solo in parte essenziali e per i quali non è possibile svolgere le proprie prestazioni in telelavoro: il commercio e la logistica principalmente. Questa asimmetria di effetti che non arriva con la crisi, ma dipende da decenni di depauperamento del tessuto industriale e flessibilizzazione del mondo del lavoro. Due processi che hanno camminato sulle stesse gambe rinforzandosi a vicenda e che hanno caratterizzato soprattutto il Sud Europa tra riforme strutturali e ristrutturazioni aziendali.

Così come la crisi non è mai neutrale, lo stesso vale per la sua gestione: il modo in cui i governi affronteranno la questione sociale durante e dopo la crisi. L’esperienza del 2008 offre molti spunti sul cosa non fare se si vuole non soltanto avviare la ripresa economica, ma farlo in modo che i suoi frutti possano essere distribuiti equamente tra la società. Non sembra più rinviabile la messa in discussione di un sistema di mercato che attraversa tutte le sfere della produzione, un piano che ri-orienti le scelte produttive e di specializzazione settoriale per rafforzare l’intero sistema economico.

Sono questi i suggerimenti di policy del rapporto citato: forti investimenti in welfare sotto forma di aiuti a tutti quelli che ne hanno e ne avranno bisogno nel medio periodo. Tuttavia, si legge, il sostegno al reddito non è sufficiente: per ambire a una ripresa che rafforzi l’economia migliorando le condizioni della maggioranza è necessario intervenire con un piano massiccio di investimenti pubblici di orientamento produttivo. In questa direzione dovrebbero concentrarsi gli sforzi del Green New Deal tanto discusso nei mesi precedenti e sui quali ancora non esiste un indirizzo concreto.

Condizioni necessarie, ma non sufficienti per affiancare progresso sociale alla crescita economica. Ritrovare la crescita, in un Paese che si ostina ad ottenerla con salari da fame e condizioni di lavoro precarie, non libererà la maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici da una condizione di insicurezza sociale ed economica. Per questo, espandere davvero il welfare non può che significare continuità di reddito, ma anche un enorme piano di assunzioni pubbliche con tutele e salari dignitosi: nelle scuole, nella sanità, nelle infrastrutture, nell’amministrazione dello Stato.

*Quanto scritto è espressione dell’autore e non dell’istituzione d’appartenenza