Qualche giorno fa lessi un’intervista di un industriale. Alla domanda su cosa pensasse del contagio, la risposta suonava più o meno così: “Certo, il virus è pericoloso. Credo che gli operai debbano venire a lavorare nelle nostre imprese e poi debbano restare rigorosamente a casa”.
Quella risposta mi ha fatto intendere i caratteri della normalizzazione spietata del futuro che è in atto. Ciò che è in gioco è la politica del futuro, e a essa dovremmo cercare di connettere le nostre passioni collettive.
Non c’è dubbio, infatti, che la paura sia la passione dominante. Siamo tutti tentati dalla strategia del riccio, di fronte alla minaccia che celebra le nostre fragilità. Però la paura è passione politicamente controversa. Essa infatti serve a legittimare la cessione della sovranità e, così, è paradossalmente ordinatrice. È l’imminenza della paura che autorizza lo stato d’emergenza. Ma non possiamo restare immobili come il riccio per troppo tempo. Voglio con questo suggerire che anche per l’uso politico della paura ciò che conta è il suo rapporto con l’avvenire, più che col presente.
C’è un uso politico della paura che interdice la nostra immaginazione del futuro. Per inciso, il paragone con l’ultima guerra mi pare impreciso anche per questo. Perché la libertà non era ciò che si rischiava di perdere, ma ciò che si rischiava di non conquistare. Non stava dietro di noi, ma davanti. Non nutriva una nostalgia, ma un’utopia.
Invece la nostra paura si mescola oggi a una nostalgia di ciò che perdiamo. Sperimentando una delle reazioni tipiche ai traumi, noi normalizziamo la nostra scena politica. Abbiamo nostalgia di un mondo che la paura ha reso fiabesco. Il tempo sospeso. L’affidamento eccessivo della politica alla tecnica finisce per sancire questa sospensione della paura. Perché la tecnica ci dice come stanno le cose, non dove andremo noi attraversando le cose che stanno così. E i politici che seguono i tecnici si limitano all’amministrazione delle cose, non intendono nessun progetto di mondo.
Ma il punto vero è ciò che viene dopo. Non è la politica dell’emergenza, ma il progetto di futuro che nell’emergenza si sta profilando. Mentre la nostra paura ci immobilizza, qualcos’altro si muove. Pensa al futuro, delinea le tendenze. Si può definire anche secondo questa frattura l’enigma moderno della irriducibile frattura tra “i governanti e i governati”. I primi hanno secolarizzato gli affetti e, per questo, hanno necessità che i secondi ne siano ancora sequestrati. I governanti dovrebbero governare attivamente le passioni di tutti. I governati sono invece coloro che subiscono le passioni di tutti, come gli eroi greci. L’ira di Achille somiglia molto più alla rabbia di chi teme in questo momento per la sua sopravvivenza, fisica e materiale. La rabbia del povero, del disoccupato, del non garantito, del non riconosciuto. In questo ordine di cose “non sono gli uomini ad avere le passioni ma piuttosto le passioni ad avere gli uomini” (Sloterdijk). Per questo – per stare dalla parte dei governati – oggi sarebbe politicamente più opportuna l’ira, piuttosto che la paura.
I governanti (che non coincidono affatto coi politici), hanno invece secolarizzato le passioni e le governano. Non somigliano per niente agli eroi greci. È a loro che dobbiamo fare riferimento, per capire quale futuro è in gestazione in questo presente. A me non pare affatto un rinnovamento del mondo, piuttosto una sua sclerotizzazione. Tutta la sorpresa con cui il coronavirus ha teso un agguato alle nostre società a me pare stia lentamente dileguandosi. Troppo stupore per (quasi) nulla. Che lo stato sociale sia sostituito da uno stato paternalistico, o che la solidarietà sia stata messa da parte per il dogma immunitario non mi pare una novità. Certo, l’evento coronavirus avrebbe potuto mescolare le carte. Per esempio, la scoperta di quanto la vulnerabilità della singola vita sia affidata all’efficienza sociale della sanità pubblica non avrebbe potuto essere l’evidenza definitiva del fallimento di un progetto mondo? A me invece paiono due le tendenze più minacciose in atto che sfruttano le nostre paure.
La prima è molto semplice nella sua brutalità. Se c’è una cosa che bisogna riconoscere del capitalismo, è la sua straordinaria capacità mimetica. La sua distruzione creatrice. Laddove siamo ancora soggiogati dalla paura e vediamo le macerie, il capitalismo vede già un nuovo mondo da cui trarre profitto. Ecco perché le fabbriche non si chiudono, perché esse appartengono, letteralmente, “a un altro mondo”. Questa teologia politica della produzione – non esiste più il doppio corpo del re, esiste ormai il doppio corpo del lavoratore – era già presente in Marx: “La volontà del capitalista consiste nel prendere quanto più è possibile. Ciò che noi dobbiamo fare non è parlare della sua volontà ma indagare la sua forza”. Qual è la forza del capitalismo oggi? È quella di possedere le chiavi dell’unico progetto di mondo che può permettere alla paura di distogliere lo sguardo dal passato e di immaginare il futuro. Così facendo il capitalismo usa la paura non come una passione nostalgica, ma come una passione costituente.
La seconda tendenza discende dalla prima. A me pare che la minaccia più grande sia che il coronavirus possa essere utilizzato per ultimare il progetto di progressivo smantellamento della democrazia come argine alla predazione del capitalismo. E questo mondo a venire ha poco a che fare con il coronavirus. Normalizza il suo carattere di evento, lo inscrive dentro un progetto che è in atto da decenni. Come si può riassumere questo progetto? Torniamo da dove siamo partiti. Che il lavoratore debba mettere in salvo il suo corpo lavorante dentro il dispositivo che lo renderebbe per grazia ricevuta immune dal virus – dispositivo che non è una app ma è il luogo della produzione – è un dato che si accompagna all’altro mondo, al mondo in cui l’immunità non è concessa. Il rischio è quello di usare l’evento del coronavirus per tornare alla crudeltà del primo capitalismo. Non è un caso che la sospensione riguarda le due grandi sfere che hanno limitato la grande trasformazione: la società e la democrazia.
È da esse che dobbiamo ricominciare. Non possiamo rassegnarci all’idea che la società non può esistere. Ma per farlo dobbiamo riconoscere l’inconsistenza politica della paura. Essa non serve a mobilitarci davvero, fin quando non si accompagnerà a una idea di futuro. Bisognerebbe avere la stessa passione di don Chisciotte, trovare la forza di vedere ciò che non c’è ancora in ciò che c’è. Di trasformare i mulini a vento in giganti. E così sottrarre al capitalismo la sua forza, che usa le nostre paure per ridefinire i contorni del mondo e per sottrarci società e democrazia. Un grande romanzo politico da scrivere insieme, contro la paura.