Politica e paura: così il capitalismo sfrutta il virus

Qualche giorno fa lessi un’intervista di un industriale. Alla domanda su cosa pensasse del contagio, la risposta suonava più o meno così: “Certo, il virus è pericoloso. Credo che gli operai debbano venire a lavorare nelle nostre imprese e poi debbano restare rigorosamente a casa”.

Quella risposta mi ha fatto intendere i caratteri della normalizzazione spietata del futuro che è in atto. Ciò che è in gioco è la politica del futuro, e a essa dovremmo cercare di connettere le nostre passioni collettive.

Non c’è dubbio, infatti, che la paura sia la passione dominante. Siamo tutti tentati dalla strategia del riccio, di fronte alla minaccia che celebra le nostre fragilità. Però la paura è passione politicamente controversa. Essa infatti serve a legittimare la cessione della sovranità e, così, è paradossalmente ordinatrice. È l’imminenza della paura che autorizza lo stato d’emergenza. Ma non possiamo restare immobili come il riccio per troppo tempo. Voglio con questo suggerire che anche per l’uso politico della paura ciò che conta è il suo rapporto con l’avvenire, più che col presente.

C’è un uso politico della paura che interdice la nostra immaginazione del futuro. Per inciso, il paragone con l’ultima guerra mi pare impreciso anche per questo. Perché la libertà non era ciò che si rischiava di perdere, ma ciò che si rischiava di non conquistare. Non stava dietro di noi, ma davanti. Non nutriva una nostalgia, ma un’utopia.

Invece la nostra paura si mescola oggi a una nostalgia di ciò che perdiamo. Sperimentando una delle reazioni tipiche ai traumi, noi normalizziamo la nostra scena politica. Abbiamo nostalgia di un mondo che la paura ha reso fiabesco. Il tempo sospeso. L’affidamento eccessivo della politica alla tecnica finisce per sancire questa sospensione della paura. Perché la tecnica ci dice come stanno le cose, non dove andremo noi attraversando le cose che stanno così. E i politici che seguono i tecnici si limitano all’amministrazione delle cose, non intendono nessun progetto di mondo.

Ma il punto vero è ciò che viene dopo. Non è la politica dell’emergenza, ma il progetto di futuro che nell’emergenza si sta profilando. Mentre la nostra paura ci immobilizza, qualcos’altro si muove. Pensa al futuro, delinea le tendenze. Si può definire anche secondo questa frattura l’enigma moderno della irriducibile frattura tra “i governanti e i governati”. I primi hanno secolarizzato gli affetti e, per questo, hanno necessità che i secondi ne siano ancora sequestrati. I governanti dovrebbero governare attivamente le passioni di tutti. I governati sono invece coloro che subiscono le passioni di tutti, come gli eroi greci. L’ira di Achille somiglia molto più alla rabbia di chi teme in questo momento per la sua sopravvivenza, fisica e materiale. La rabbia del povero, del disoccupato, del non garantito, del non riconosciuto. In questo ordine di cose “non sono gli uomini ad avere le passioni ma piuttosto le passioni ad avere gli uomini” (Sloterdijk). Per questo – per stare dalla parte dei governati – oggi sarebbe politicamente più opportuna l’ira, piuttosto che la paura.

I governanti (che non coincidono affatto coi politici), hanno invece secolarizzato le passioni e le governano. Non somigliano per niente agli eroi greci. È a loro che dobbiamo fare riferimento, per capire quale futuro è in gestazione in questo presente. A me non pare affatto un rinnovamento del mondo, piuttosto una sua sclerotizzazione. Tutta la sorpresa con cui il coronavirus ha teso un agguato alle nostre società a me pare stia lentamente dileguandosi. Troppo stupore per (quasi) nulla. Che lo stato sociale sia sostituito da uno stato paternalistico, o che la solidarietà sia stata messa da parte per il dogma immunitario non mi pare una novità. Certo, l’evento coronavirus avrebbe potuto mescolare le carte. Per esempio, la scoperta di quanto la vulnerabilità della singola vita sia affidata all’efficienza sociale della sanità pubblica non avrebbe potuto essere l’evidenza definitiva del fallimento di un progetto mondo? A me invece paiono due le tendenze più minacciose in atto che sfruttano le nostre paure.

La prima è molto semplice nella sua brutalità. Se c’è una cosa che bisogna riconoscere del capitalismo, è la sua straordinaria capacità mimetica. La sua distruzione creatrice. Laddove siamo ancora soggiogati dalla paura e vediamo le macerie, il capitalismo vede già un nuovo mondo da cui trarre profitto. Ecco perché le fabbriche non si chiudono, perché esse appartengono, letteralmente, “a un altro mondo”. Questa teologia politica della produzione – non esiste più il doppio corpo del re, esiste ormai il doppio corpo del lavoratore – era già presente in Marx: “La volontà del capitalista consiste nel prendere quanto più è possibile. Ciò che noi dobbiamo fare non è parlare della sua volontà ma indagare la sua forza”. Qual è la forza del capitalismo oggi? È quella di possedere le chiavi dell’unico progetto di mondo che può permettere alla paura di distogliere lo sguardo dal passato e di immaginare il futuro. Così facendo il capitalismo usa la paura non come una passione nostalgica, ma come una passione costituente.

La seconda tendenza discende dalla prima. A me pare che la minaccia più grande sia che il coronavirus possa essere utilizzato per ultimare il progetto di progressivo smantellamento della democrazia come argine alla predazione del capitalismo. E questo mondo a venire ha poco a che fare con il coronavirus. Normalizza il suo carattere di evento, lo inscrive dentro un progetto che è in atto da decenni. Come si può riassumere questo progetto? Torniamo da dove siamo partiti. Che il lavoratore debba mettere in salvo il suo corpo lavorante dentro il dispositivo che lo renderebbe per grazia ricevuta immune dal virus – dispositivo che non è una app ma è il luogo della produzione – è un dato che si accompagna all’altro mondo, al mondo in cui l’immunità non è concessa. Il rischio è quello di usare l’evento del coronavirus per tornare alla crudeltà del primo capitalismo. Non è un caso che la sospensione riguarda le due grandi sfere che hanno limitato la grande trasformazione: la società e la democrazia.

È da esse che dobbiamo ricominciare. Non possiamo rassegnarci all’idea che la società non può esistere. Ma per farlo dobbiamo riconoscere l’inconsistenza politica della paura. Essa non serve a mobilitarci davvero, fin quando non si accompagnerà a una idea di futuro. Bisognerebbe avere la stessa passione di don Chisciotte, trovare la forza di vedere ciò che non c’è ancora in ciò che c’è. Di trasformare i mulini a vento in giganti. E così sottrarre al capitalismo la sua forza, che usa le nostre paure per ridefinire i contorni del mondo e per sottrarci società e democrazia. Un grande romanzo politico da scrivere insieme, contro la paura.

Bici, università e cene. “Purché la normalità non sia quella di prima”

In questo periodo di reclusione forzata ci state raccontando le vostre giornate, tra nuove abitudini, prove di resistenza e sforzi di fantasia. Vi ringraziamo: le vostre parole sono la conferma che il Fatto non è solo un giornale, ma una comunità viva. Oltre a scriverci della vostra quarantena, vi facciamo un’altra proposta: raccontateci cosa farete dopo. Cosa vi manca di più, quali sono i primi desideri che esaudirete nella “fase 2”, o quando ritroveremo uno straccio di “normalità”. Vi aspettiamo sempre all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it.

 

Mi mancherà la calma di questo periodo

Vorrei andare un po’ contro corrente. È vero, mi manca uscire la sera per un buon cinema (mi piace lo schermo grande) o un concerto o mettermi seduta in un ristorante – magari all’aperto – e che qualcuno mi serva qualcosa che ho scelto e che non avrò cucinato io dopo aver fatto la fila per procurarmelo.

Ma so già che mi mancherà il silenzio – quello totale, bellissimo – e quello con il sottofondo della natura e della vita. Mi mancheranno quelle passeggiate con marito e cane (mai fatte prima!) sul far della sera quando le stradine piu interne erano proprio ma proprio vuote e passando si sentivano le voci della gente in casa e i profumi provenienti dalle cucine.

Mi mancherà anche quella riservatezza (mista a qualche timido sorriso dietro la mascherina) – forse dettata dalla paura del contagio – che si era instaurata tra la gente. E mi mancherà anche quella certa pigrizia che amo e che normalmente non assecondo, e che mi faceva prolungare il sonnellino pomeridiano anche fino alle cinque magari leggendo a letto qualcosa.

Insomma, quello che mi auguro è che si ritorni ad una vita piu attiva e sociale, ma anche più soft. Non è che la “normalità” di prima mi piacesse granché.

G.D.

 

Per il 4 maggio preparo una pedalata da 70 km

Sono un grossissimo appassionato di ciclismo, e come espressione di questa passione, nel mio soggiorno è appesa alla parete una riproduzione fotografica che mostra Coppi e Bartali che si passano la borraccia al Tour de France del 1952. Sulla riproduzione c’è anche l’autografo originale di Bartali.

Per i divieti sono dovuto restare a casa, o nel caso girare nelle vicinanze di essa. Io abito nel mitico Abruzzo, e il 4 maggio una bella sgambata di almeno 70 km non me la leva nessuno. Un saluto a tutti i giornalisti del Fatto.

Donato Cantusci

 

Non vedo l’ora che si possa ritornare in aula

Quando tutto sarà tornato alla normalità non vedo l’ora di tornare a respirare l’aria degli amati chiostri della Cattolica, con i loro prati curati che nessuno attraversa per la superstizione di non laurearsi, ritrovare i miei colleghi e amici dell’università, ritrovare Milano e il nostro rapporto di odi et amo.

Francesco Leone

 

Con gel e mascherina per comprare il “Fatto”

Stamattina, come molte altre, vado all’edicola del paese, cappellino, mascherina, gel disinfettante in tasca, testa bassa e umore sotto i piedi. Compero il Fatto, pulisco le monete di resto con le salviettine e rientro a casa badando bene di passare troppo vicino alle persone che incontro. Una volta rientrato mi leggo il fondo di Marco e quando arrivo ai “notisti politici di Repubblica con il riportino a nido di cinciallegra” e al “tenore dell’Huffington Post con la evve”, ecco che una ghignata incontenibile sale dal profondo e la giornata di colpo cambia, tutto sembra meno nero.

Ugo

La Germania si rilassa: pochi tamponi ed è punita

La Germania ha il pane e anche i denti, ma in pochi vogliono fare la fatica di masticare. Così nella gestione dell’emergenza coronavirus, si è disposta una potenza di fuoco negli strumenti per limitare il contagio, ma la percezione del pericolo è fortemente diminuita e questo potrebbe diventare un problema.

In pochi paesi in Europa si sono eseguiti tanti test come in Germania, oltre 2,5 milioni dall’inizio della pandemia. Questo ha permesso di monitorare in modo efficace l’evoluzione del virus fin qui. La capacità dei laboratori di analisi è cresciuta nel tempo e ora si è in grado analizzare tra gli 860 e i 900.000 tamponi a settimana. Ma il paradosso è che la settimana scorsa i test effettuati sono stati 460.000, appena la metà di quelli possibili, ha riferito ieri il presidente del Koch Institut, Lothar Wieler.

Fino ad un mese fa procurarsi i reagenti per i test non era impresa facile, ma ora solo un quinto dei laboratori tedeschi denuncia difficoltà di approvvigionamento. Allora qual è il problema? Secondo il presidente dell’associazione dei laboratori di medicina accreditati, Michael Mueller, la richiesta dei test è calata la settimana scorsa perchè le buone notizie legate al calo della curva del contagio e l’allentamento delle misure restrittive hanno portato a ridurre l’allerta delle persone. È vero che il fattore R0 è tornato a calare ieri a una soglia inferiore a quella d’allarme, cioè a 0,75, ma è anche vero che abbassare la guardia proprio ora, con circa 1500 nuovi contagi al giorno, sarebbe un errore fatale, ha ripetuto il virologo del Rki.

“Qualsiasi allentamento delle misure di contenimento porta le persone a muoversi di più” ha detto ieri la cancelliera Angela Merkel in conferenza stampa. “Ecco perché dobbiamo tenere costantemente sotto controllo gli effetti dell’allentamento e rimanere disciplinati, mantenere le distanze di sicurezza e seguire le misure di igiene” ha aggiunto la cancelliera, che ha guadagnato 12 punti di gradimento tra gli elettori secondo l’ultimo sondaggio del quotidiano Spiegel. In alcuni luoghi sensibili è decisivo aumentare il numero di tamponi effettuati. Il ministro della Salute Jens Spahn ha previsto, nel progetto di legge presentato in consiglio dei ministri, che sia potenziato il numero dei test nelle case di cura.

Ormai in molti ospedali della capitale tedesca si fanno test preventivi al personale. “Ogni tre giorni facciamo il test per il covid: sia infermieri che medici, chiunque lavori in ospedale” ha raccontato al Fatto un’infermiera che lavora per una delle cliniche Helios di Berlino. “A prescindere che si abbiano sintomi o meno” aggiunge.

Anche in Germania, come in Italia, qualche ospedale si è trasformato in focolaio. È accaduto nella clinica Bergmann di Potsdam in Brandeburgo, dove sono morti 41 pazienti con il covid-19, e oltre 178 dipendenti si sono infettati. In quel caso la decisione sanitaria di fare test a tappeto è stata tardiva, a contagio innescato. Un’altro posto “sensibile” dove fare i test sono le scuole, quando riapriranno, ha continuato il virologo del Koch Institut. Al momento in Germania si registrano oltre 160.000 contagi e 6.362 morti con coronavirus, riferisce Dpa. Ma “presumiamo che siano morte più persone di quante ne siano state effettivamente registrate” ha aggiunto Wieler.

Test, app e disciplina ferrea: così Seul ha azzerato il Covid

Zero casi di Covid-19. A due mesi dall’inizio del contagio, la Corea del Sud passa da principale hotspot della pandemia a fenomeno di successo grazie ai tamponi a tappeto, un ferreo rispetto delle misure di sicurezza, localizzazione via cellulare dei malati e, soprattutto, senza ricorrere al lockdown totale. Cinquantuno milioni di abitanti, a oggi 10.765 positivi, 237 morti e più di 8.000 guariti, il 20 febbraio la Corea del Sud si scopre esposta al virus attraverso una delle vie di contagio più difficili da frenare: la religione. Di 50 nuovi infetti, 30 sono seguaci della setta della Chiesa di Gesù Shincheoji della città di Daegu, 2,5 milioni di abitanti nel sud-est del Paese.

Le istituzioni avvertono di una crisi senza precedenti: partita da una donna che era entrata in contatto con altre 166 persone, la bomba virale è potenzialmente destinata a fare il giro del Paese tra i banchi delle chiese. Intanto il Covid fa la sua prima vittima. Il sindaco di Daegu chiude la città. Ma non basta. Prima ancora che l’Organizzazione mondiale della Sanità si appelli ai Paesi perché svolgano più test possibili sulla popolazione, Seul inizia la più grande campagna di tamponi sui propri cittadini. Dalle auto ai centri mobili, dai test volontari a quelli casa per casa, il governo arriva a testare più di 20mila persone in un solo giorno, 270.000 a metà marzo. Le statistiche si impennano: la Corea del Sud avanza nella classifica mondiale dei contagi, quando in Italia siamo alla ricerca del paziente zero di Codogno. Il 29 febbraio si contano 909 infezioni giornaliere. Ma allo stesso tempo le autorità sanno dove arginare il contagio, lo conoscono e lo tengono sotto controllo. I cellulari non smettono di suonare, neanche nel cuore della notte. Il ministero della Salute invia sms continui: “Lei è entrato in contatto con una persona risultata positiva al coronavirus”; “Nel locale che lei ha frequentato un uomo era infetto”. I cittadini si lamentano: “Sono messaggi spia, svelano a tutti dove siamo stati”, commentano sul sito del ministero. “Non sapevo fossero così tante le persone che vanno a fare sesso nei motel”, ironizza qualcuno. Intanto il Paese non è in lockdown. A chiudere sono le chiese, poi riaperte con misure di distanziamento molto rigide e le scuole, le lezioni sono solo online, fino agli esami. Il baseball non si ferma, si gioca a porte chiuse, gli arbitri devono indossare i guanti ed è vietato avvicinarsi anche per darsi il cinque.

Alla fine di marzo, le infezioni giornaliere si contano a dozzine e poi a una sola cifra. Nel giro di poche settimane, la Corea del Sud appiattisce la curva. “Seguire alla lettera le norme contro il contagio è stata la forza dei sudcoreani”, ha commentato ieri orgoglioso il presidente Moon Jae-in che mantiene in vigore le regole anche per gli studenti alle prese con gli esami di fine corso. Nei ristoranti, i commensali si parlano attraverso il divisorio di plexiglass e gli orari delle pause pranzo sono sfalsati. Per strada si gira in mascherina e prima di entrare in qualunque luogo pubblico viene misurata la temperatura. “È una nuova normalità”, spiegano dal governo che il 15 aprile ha testato la tenuta delle misure anti-Covid durante lo svolgimento delle elezioni parlamentari. Ogni elettore ai seggi ha ricevuto guanti di lattice, disinfettante e si è sottoposto alla prova della temperatura.

A distanza di due settimane è ufficiale: il picco di casi che si temeva non si è verificato. “Ventinovemila elettori e nessun caso segnalato in 14 giorni di incubazione”, ha detto soddisfatto il direttore della Commissione della Sanità, Yoon Tae-ho, ringraziando i cittadini per aver mantenuto le distanze e il personale che ha disinfettato i seggi in tutto il Paese. Il presidente Jae-in tuttavia si è raccomandato con i cittadini affinché continuino a rispettare le misure di sicurezza durante le prossime settimane in cui i sudcoreani viaggeranno molto per via dei festeggiamenti del compleanno di Buddha. “Finché non arriva un vaccino non ci possiamo rilassare”, ha avvisato Tae-ho.

Ufficio collocamento giudici, citofonare Luca Palamara

Luca Palamara nel marzo del 2019 sembrava “l’ufficio collocamento” della magistratura italiana. Erano in tanti a chiamarlo per chiedergli una mano in vista delle future nomine. Chi non lo chiama mai, a giudicare dagli atti depositati dalla Procura di Perugia, erano gli uomini indagati con lui di corruzione: l’ex legale esterno dell’Eni, Piero Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore e lo stesso Fabrizio Centofanti – l’imprenditore tuttora indagato con Palamara per corruzione per l’esercizio della funzione – che nelle informative finora visionate dal Fatto non appare neanche tra gli intercettati. Non è un caso che le posizioni di Amara e Calafiore al termine dell’indagine non facciano più parte del fascicolo, così come è caduta l’accusa iniziale del versamento di 40mila euro a Palamara per la nomina del pm Giancarlo Longo alla Procura di Gela.

Se non v’è traccia delle telefonate con i suoi coindagati dell’epoca, c’è invece una montagna di conversazioni con magistrati. E sin da marzo gli investigatori hanno la consapevolezza che Palamara sta conducendo una strategia tutta sua per portare Marcello Viola a capo della Procura di Roma al posto di Giuseppe Pignatone ormai prossimo alla pensione. In quel momento il trojan non è stato ancora richiesto dagli investigatori del Gico della Guardia di Finanza, né dalla Procura di Perugia. In quel momento siamo in presenza delle sole intercettazioni telefoniche.

Scrive la Gdf nell’informativa di fine marzo: “Chiarificatrice in tal senso risultava tra le altre la conversazione captata il 3 marzo 2019 ore alle 17.25 tra Palamara e Luca Forciniti nel corso della quale gli interlocutori in relazione alle nomine dei Procuratori di Roma e Perugia facevano riferimento ad accordi con appartenenti all’associazione di Magistratura Indipendente.” Di lì a poco sarà intercettato anche il parlamentare del Pd e uomo forte di Mi, Cosimo Ferri. La manovra di Palamara per portare Viola a Roma sarà intercettata in diretta. A marzo gli investigatori hanno il primo segnale.

Dice Forciniti a Palamara il 3 marzo: “Anche perché Roma e Perugia a seconda di chi va l’altro deve essere cioè uno di Unicost e uno di Mi….” “Oh, allora pure li va chiu… Dobbiamo iniziare a chiuderla l’operazione…”, risponde Palamara. E Forciniti: “Ma l’operazione vedi che o… tu al di là di Viola e Primicerio (Leonida, ndr) vedi qualcun altro?” “No”, risponde Palamara “ormai no.” “Se deve essere uno dei due o su Peru…” continua Forciniti “se è Viola su Perugia mettiamo chi diciamo noi. Se è Primicerio su Perugia mettiamo quello di M I.” “Eh però su Primicerio mo dimme la verità, tu ti fidi o no? va bene o no?” domanda Palamara. “Ma” risponde Forciniti “secondo me allora che è uno di immagine che ti fa fare una bella figura di immagine… non credo proprio, ma che è uno che va là e gli si può dire quello che interessa secondo me si può fare (…) cioè proprio affidabile come uno che è molto legato cioè uno dei nostri ci vedo più Viola nel senso che faccio quello che dice Cosio (fonetico) però secondo me Leonida è un uomo di mondo e se puntiamo su di lui queste cose le capisce.” E in quei giorni, sebbene indirettamente, viene intercettato lo stesso Viola.

È il 14 marzo e Palamara viene chiamato da un altro magistrato, Nicola Clivio, mentre è fisicamente in compagnia di Viola. Palamara passa il telefono a Viola, che parla con Clivio, il quale gli dice: “Ti si vede in lizza per grandi cose.” Viola ride e glissa: “Spero di vederti presto, un abbraccio.” Il telefono torna nelle mani di Palamara al quale Clivio dice: “Marcello dove lo piazzi al posto del Pigna?” “A Ciccio”, risponde Palamara, “ammazza aoh sei il numero uno.”

Il numero di magistrati intercettati con Palamara è impressionante. C’è anche l’ex l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte che chiama Palamara il 23 marzo 2019. Dal brogliaccio si legge che Albamonte parla delle nuove nomine interne all’Anm: “Magistratura Indipendente mette Grasso (Pasquale, ndr) come Presidente e che più di così non si poteva fare”. Poi aggiunge: “L’unica cosa che potete fare per gestire alla grande (…) la cosa è mettere Caputo (Giuliano, della corrente Unicost, ndr). Se già c’è Grasso e voi mettete Infante (Enrico, sempre di Unicost ma ritenuto più a destra, ndr) mi sa che non ci entriamo proprio”. Il concetto sembra essere quello di evitare che Infante diventi segretario dell’Anm e c’è l’invito a preferirgli Caputo, ritenuto più vicino alla corrente di Area. E così in effetti avverrà. Ci sono poi magistrati che chiedono a Palamara di interessarsi alla loro nomina. Per esempio Francesco Mollace che, scrivono gli investigatori, aveva “proposto la propria candidatura per una carica vacante presso il Tribunale di Frosinone” e “chiedeva un intervento a Palamara affinché venisse ascoltato dal Consiglio Giudiziario verosimilmente chiamato a esprimere un parere (…) in relazione precedenti vicende penali e disciplinari”. Nessuno dei magistrati fin qui nominati, a eccezione di Palamara, è coinvolto nell’indagine.

E non lo è neanche Giuseppe Maria Berruti, commissario Consob con un lungo passato al Csm, che parla con Palamara dell’incontro avuto il giorno prima con il ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede. Berruti riferisce di una chiacchierata con il ministro sull’Anm: “Mi ha spiegato che ha a che fare con un’associazione di dementi e sono totalmente d’accordo… ha detto che sono cretini divisi tra di loro che questa cosa di un anno per ciascuno (la rotazione, ndr) è stato un disastro che sono andati a finire tutti in bocca a Davigo”. Interpellato dal Fatto, Berruti ha precisato: “Mai il ministro ha espresso critiche o posizioni irrispettose nei confronti dell’associazione. Non ricordo il colloquio con Palamara, ma sicuramente il ministro mai ha utilizzato espressioni irriguardose”.

The show must go on. Proposte per ricominciare

Lo spettacolo dal vivo è più morto che vivo: secondo le stime di Agis – che ieri ha presentato al Mibact le sue proposte per la ripartenza – il solo teatro di prosa (chiuso) perde almeno 20 milioni di euro a settimana; ormai siamo alla soglia dei 200 milioni bruciati, senza contare la lirica, la danza, il circo, il cinema e la musica dal vivo. Non si salva nessuno, e il comparto sarà l’ultimo a riaprire – si spera a fine anno – per ovvie ragioni di sicurezza e salute di artisti, maestranze e pubblico. Oltre a un fondo collettivo di (appena) 130 milioni di euro, il ministro Franceschini ha promesso altri 20 milioni extra-Fus; 13 milioni dalla copia privata per autori, interpreti ed esecutori con redditi inferiori a 20 mila euro; 5 milioni per lo spettacolo viaggiante. Noi, intanto, abbiamo chiesto un parere sulla crisi e qualche idea per la ripartenza ai professionisti e maestri dell’arte.

 

Gigi Proietti

Il sistema va disegnato da capo: facciamo sapere che esistiamo

Il teatro è in re ipsa: in video è un surrogato. Forse la messa in tv è valida, ma il teatro no. Anziché continuare a fare spettacoli in streaming, servirebbe una enorme campagna promozionale, con slogan, spezzoni, spot… Che si sappia almeno che il teatro esiste. Poi bisognerà mettere mano all’intero sistema e disegnare per la prima volta – non ridisegnare, perché non c’è nulla – una mappa dello spettacolo dal vivo con tutti i suoi “attori”, dalle istituzioni agli artisti. Al teatro serve più budget, almeno in linea con gli altri Paesi europei, e che venga considerato un vero lavoro, non un passatempo. Ma adesso ancora adda passà ’a nuttata, se non altro per capire: mi pare che nessuno abbia capito come e quando si riaprirà. Facciamo pure mille appelli al giorno, ma servono a poco: anni fa era tutto un dibbbattito, e non siamo neanche riusciti a diventare una categoria unita, non c’è una politica precisa, nemmeno dal punto di vista fiscale… Che fare, dunque? Magari andremo al teatro Drive-in.

 

Anna Bonaiuto

Senza corpi vivi, il teatro è morto. Ma continuiamo a progettare

Oggi il sentimento di tutti è lo spavento, la paura della povertà e di non vedere la fine. Per noi dello spettacolo la fine è davvero lontana. Si dice che “il vero scandalo” sia il corpo di un attore sul palco: questa che è la sua bellezza ora diventa la sua condanna. Non maschere ma mascherine, guanti, distanze? Bisogna rassegnarsi a una morte apparente e sperare in una resurrezione vera. Pensare a modalità più semplici? Uno-due-tre attori, pochi tecnici e poco pubblico? Oppure spettacoli in streaming e tv? Ma questo non rischia di diventare, senza il corpo vivo, la certificazione del teatro morto? Intanto i teatranti devono vivere; la loro situazione ora è disperata: licenziamenti, incertezza degli aiuti, regole nebulose. C’è bisogno di sussidi trasparenti e mirati. Un attore deve continuare a progettare insieme per non sprecare il lavoro fatto e il talento: non può rinunciare perché abbandonato dallo Stato. Una società non può definirsi tale quando la cultura viene considerata, in fondo, inutile.

 

Massimo Popolizio

Dobbiamo essere trattati da lavoratori e non lasciati soli

Rivendico il diritto di fidarmi di ciò che dicono gli esperti e non urlo “voglio lavorare per forza” quando non ci sono i presupposti; ma le variabili sono due: o riapriamo o non riapriamo. Detto questo: siamo dei lavoratori socialmente utili e ci devono mettere nelle condizioni di portare in scena i nostri spettacoli; mentre ho la sensazione che tutte le soluzioni ipotizzate sono atte solo a mantenere in vita la struttura, il contenitore e non i contenuti, perché temo che queste misure igieniche permettono di portare su un palco appena dei monologhi o testi con due attori. Per chiarezza: dietro al teatro pubblico lavorano funzionari, amministrativi, direttori, impiegati, uffici stampa assunti, e ancora; tutti questi hanno garantito il reddito o ammortizzatori e paracaduti sociali; quel reddito nasce dagli artisti che vanno in scena, eppure per gli artisti non c’è alcuna seria copertura. Bisogna stare attenti, così si crea una frattura sociale tra garantiti e non. E parlo da lavoratore non da artista.

 

Andrea Occhipinti

Si rafforzerà lo streaming, ma la sala sarà valorizzata

Futuro? Un’accelerazione sul digitale. Dallo smart working – che ha indubbi pregi, anche se si finisce col lavorare di più – alla fruizione dei contenuti audiovisivi da casa, già viviamo un’apoteosi. C’è chi dice Netflix sia stata salvata dal Coronavirus, di certo, nel primo trimestre ha registrato 16 milioni di nuovi utenti. Ma la mano santa è anche per le generaliste: hanno ritrovato ascolti pazzeschi. Sono tendenze, soprattutto per la pay-tv e le piattaforme, che verranno consolidate. Viceversa, credo si ridurrà il numero delle sale, alcune non riapriranno. Si rafforzerà, però, la valorizzazione del film in sala: la cassa di risonanza è indubbia, ma non è per tutti, alcuni titoli finiranno direttamente sulla piattaforma. Sto in Spagna da un mese, e mi fa impressione non ci si possa più toccare, abbracciare, baciare, ancor più per noi latini. Non vorrei che anche il cinema del futuro prenda le distanze, con film dallo stile rarefatto, pareti bianche, tavoli ampi e famiglie lontane.

 

Anna Foglietta

Torneremo sul set (non ora) e ripartiremo dalle storie

Oggi lo streaming è un’opportunità, un segnale di vita, ma in futuro potrebbe rivelarsi un boomerang. Credo sia il tempo della condivisione e della comunicazione: noi del mondo della cultura e dello spettacolo ci siamo e, tra ristrettezze e permessi, vogliamo privilegiare le storie da raccontare. Ritroveremo il palcoscenico, il set con tutte le precauzioni del caso, ma non possiamo pretendere che tutto ritorni come prima: ogni crisi, e questa è una delle più grandi, comporta un cambiamento, una trasformazione. Non confido negli ibridi, quali il teatro in streaming, ma nell’evoluzione dei linguaggi. Come sempre, bisognerà ripartire dalle storie: il futuro del cinema me lo immagino domestico, oggi un film come Perfetti sconosciuti sarebbe perfetto. Non fasciamoci la testa, rivendicare il proprio diritto all’esistenza è sacrosanto, dovrebbero farlo come noi tutte le categorie, però non è questo il momento di pretendere: il rischio è troppo alto, la responsabilità troppo grande, dobbiamo aspettare.

 

Stefano Fresi

“Presidente, manco ’na parola”

Il monologo di Stefano Fresi su Instagram, prima che ieri Conte parlasse dello spettacolo e dell’arte.

Sor presidente mio, che ve succede? Ve siete ariscordato la menzione?
Eppuro stamo qui,
nella nazione.
Nemanco una parola? Nun ce se crede.
Stamo rinchiusi ne l’abitazione, a fa’ scenette a chi ce le richiede, a da’
conforto, a faje batte er piede, cantanno, co’ ‘n po’ de recitazione.
Perciò ‘na cosa qua bisogna dilla: ma pensa un po’ si in questa quarantena l’arte nun poi vedella né sentilla, ma sai sì quanta noia, quanta pena?
Noi semo artisti, gente che nun strilla, c’abbasta che ce nominino appena.

 

Luciano Cannito

Nella task force di scienziati ci sia pure chi fa arte dal vivo

Il mondo dello spettacolo è un mondo di dedizione, passione, disciplina. In particolare i danzatori hanno bisogno di allenamento continuo, quanto e forse più degli atleti olimpici. Ogni giorno di mancato training potrebbe danneggiare la carriera futura di tanti artisti del mondo della danza. Direi che in generale tra tutte le categorie professionali del pianeta, quella degli artisti è forse la carriera dove la gavetta, le cadute con la faccia nel fango, le privazioni, le lotte, sono state più frequenti, fino a diventare parte del Dna. Sarebbe auspicabile avere pertanto un tavolo di lavoro congiunto, dove accanto alle task force di scienziati e gente di laboratorio, ci fosse anche una rappresentanza di gente di teatro, cinema, musica, danza. Gente che sa di cosa si parla e che potrebbe dare un contributo costruttivo e competente nello scrivere insieme delle regole precise, ma di buon senso, per consentire un graduale ritorno alla dignità del lavoro.

 

Mimmo D’Alessandro

Abbiamo bisogno di una data per dare risposte sicure ai fan

Noi organizzatori di spettacoli dal vivo saremo probabilmente tra gli ultimi a ripartire: l’idea generale è che dovremo aspettare un vaccino. Si è parlato di possibili soluzioni per riprendere, ma rifiuto l’idea di un concerto in cui il pubblico assiste a due metri l’uno dall’altro: se togliamo la funzione di aggregazione un live perde gran parte del suo fascino. Siamo grati al Governo per essere stato il primo tra i paesi europei ad aver dato la possibilità di poter rimborsare i biglietti dei concerti annullati con dei voucher: ci consente di mantenere quel filo di liquidità con cui fornire respiro vitale; però sarebbe fondamentale che venisse stabilito un orizzonte chiaro: Francia, Belgio, Germania, Irlanda e molti altri hanno già dichiarato che fino a settembre niente live. Questo ha dato modo ai Festival di quei paesi di poter prendere decisioni definitive; un’altra cosa che ci aspettiamo è l’erogazione di misure di sostegno economico a tutte le categorie coinvolte nell’intrattenimento dal vivo.

 

Fabrizio Moro

Concerti online a pagamento per tutelare tutti i professionisti

Oggi vedrete il Primo Maggio in tv: un piccolo miracolo. Ma osservare i colleghi in fila all’Auditorium e i tecnici che sanificavano ogni cosa mi ha convinto che la strada è lunga. Sul palco mi è venuto istintivo rompere la barriera con la band. E il teatro vuoto è un colpo al cuore. Il rock è contatto, partecipazione. Impossibile pensare a concerti affollati prima di un vaccino. Servono soluzioni alternative. Non credo nei Drive-in con la gente chiusa in auto. Un’idea? Eventi online a pagamento, per tutelare i lavoratori più a rischio. Il mio tour è stato rimandato di mesi: sono a disposizione con l’agenzia per valutare una redistribuzione degli anticipi, perché i tecnici non siano ridotti alla fame. Dobbiamo rimboccarci le maniche: con Ermal Meta scriveremo una canzone su questo tempo strano. E ho chiesto ai fan di mandarmi clip per il video di Il senso di ogni cosa: mi aiutino a capire cosa conti per tutti noi, ora.

 

Alex Britti

Mi manca il live, ma il pensiero va a chi sul palco mi sta intorno

Qui è necessario suonare le corde del pragmatismo: fino a quando non ci sarà un vaccino o una cura efficace, trovo impossibile ripartire con spettacoli dal vivo. E mi manca. Mi manca tantissimo suonare sul palco, sentire quell’energia condivisa con il pubblico, ritrovare le liturgie della band e di tutto ciò che circonda una spettacolo dal vivo. Ed ecco uno dei punti: “Tutto ciò che circonda”, intendo chi monta e smonta, la sicurezza, i facchini, la segreteria, chi si occupa delle luci, del suono, dell’organizzazione; è tutto un mondo attorno che difficilmente ritroverà un’occupazione e li sento, ed è un dolore. A questo si associa la preoccupazione per i musicisti, i ragazzi che vorrebbero dire la loro in un contesto già complicato, con spazi stretti e pochi sbocchi professionali. Così sono d’accordo nell’aiutare tutte le professioni ora in crisi, ma non dimentichiamoci dell’arte: senza “arte” questa quarantena sarebbe stata molto più dura.

 

Il piano dell’Agis

Calendario certo, fondi pubblici e igiene. Ma niente mascherine

1) Calendario di ripresa delle attività di spettacolo dal vivo e delle proiezioni cinematografiche, valutato e “aggiustato” ogni mese.
2) Misure di sicurezza a livello nazionale, senza oneri aggiuntivi né aggravi delle procedure per gli operatori. Agis propone l’installazione di dispenser con disinfettante, le comunicazioni delle corrette modalità di comportamento, l’igienizzazione periodica, una distribuzione a “scacchiera” del pubblico come già sui mezzi pubblici.
3) Cronoprogramma per la ripresa delle attività produttive per il progressivo reimpiego di maestranze e artisti, mantenendo la possibilità di fruire degli ammortizzatori sociali.
4) Misure di sicurezza: distanziamento sociale degli artisti, che potranno non utilizzare mascherine. Nel caso di impossibilità di distanziamento e mascherine, si propone un piano di test e monitoraggi medici periodici.
5) Interventi pubblici di sostegno, come fondi integrativi, almeno fino alla fine del 2021.

 

“Upload”, il futuro come difficilmente potremmo immaginarlo

La prima scena, in cui un tizio è seduto nella metropolitana con la mascherina, sembra quasi profetica. In realtà riassume in maniera piuttosto efficace quello che è il problema principale di Upload, che poi è lo stesso di molti prodotti di fantascienza sin dai tempi di Ritorno al Futuro: più che immaginare il futuro, estremizzano i pregi e i difetti del presente finendo per mancare il bersaglio (per caso siete mai saliti su uno sketeboard volante come fa Marty McFly?).

Upload, da oggi su Amazon Prime Video, è la nuova serie di Greg Daniels, la mente dietro ad alcuni episodi memorabili dei Simpson e a comedy di successo come The Office Usa e Parks and Recreation. Siamo nel 2033 e Nathan, un 27enne belloccio che lavora come coder, muore in un incidente stradale causato dalla sua auto a guida autonoma. Finirà nel “paradiso” che la biondissima fidanzata Ingrid ha scelto per lui, un Victorian Hotel affacciato su un lago idilliaco. Ecco l’idea attorno a cui ruota la serie: nel futuro prossimo la morte per come la conosciamo sarà una scelta riservata ai poveri, mentre chi ha soldi in banca può farsi caricare (upload) nel paradiso preferito, progettato sul modello delle colline toscane o dei casinò di Las Vegas. L’aspetto meno comedy consiste nel mistero sulla morte di Nathan. L’incidente è stato davvero casuale? Oppure il ragazzo, che stava lavorando a un’app per crearsi gratuitamente la vita dopo la morte, è stato ucciso dalla potentissima lobby dei paradisi artificiali?

Il futuro di Upload contiene alcune idee originali, tipo il microonde-stampante 3d per chi non può permettersi il cibo vero, la pet therapy obbligatoria per chi tenta il suicidio o le cappelle digitali dove assistere ai funerali in streaming (l’elogio funebre comincia così: “Ho googlato Nathan Brown, e quello che ho visto mi è piaciuto…”). Altre, come gli ambienti di lavoro totalmente spersonalizzati e le stellette alla Black Mirror per valutare tutto e tutti, paiono già vecchie. Upload non è Greg Daniels al suo meglio, ma merita comunque una possibilità.

Neanche Hollywood brilla(va) d’oro

Dreamland, la terra dei sogni. Ecco cos’è Hollywood a metà degli anni Quaranta: un trampolino di lancio, una calamita per tutti i giovani che sognano di diventare delle star… E che spesso finiscono in fila fuori dagli studios per un ruolo da comparsa. Ma “dreamland” è anche una parola d’ordine. A pochi chilometri dagli stessi studios, Ernie gestisce una pompa di benzina che, oltre a vendere carburante, distribuisce ragazzi affascinanti a ricche mogli frustrate e uomini gay: basta dire “dreamland” e si aprono le porte del paradiso.

È qui, alla pompa di benzina, che si incontrano l’aspirante attore Jack e l’aspirante scrittore Archie. Anche loro sognano di sfondare ma intanto, per sbarcare il lunario, sono costretti a vendere il loro corpo. Archie ha scritto una sceneggiatura su Peg Entwistle, l’attrice che negli anni Trenta si suicidò gettandosi dalla lettera “H” della gigantesca scritta sulle colline di Hollywood. Una casa di produzione ha deciso di girare Peg, ovviamente senza sapere che Archie è nero e omosessuale; e grazie alle conoscenze che ha fatto lavorando come gigolò, Jack ha ottenuto un provino proprio per quel film.

È a questo punto che avviene la prima svolta. Raymond, il giovane regista a cui viene affidata la pellicola, decide di fare qualche modifica: la protagonista non si chiamerà Peg ma Meg, sarà una donna nera e verrà interpretata dalla sua fidanzata Camille. Meg, dice Raymond, sarà il film che cambierà la storia del cinema e degli Stati Uniti: perché se c’è qualcosa che può cambiare il mondo, beh, sono proprio i film di Hollywood. O forse no. Nessuna casa di produzione farebbe uscire una pellicola che ha come protagonista una ragazza di colore. Non è mai successo e non succederà mai, perché un film del genere verrebbe boicottato al grido di “Keep movies white”: negli Stati razzisti del Sud non si troverebbe nemmeno una sala disposta a trasmetterlo. Forse.

Con Hollywood, da oggi su Netflix, Ryan Murphy riscrive la storia del cinema americano. Lo fa utilizzando una tecnica che lui chiama “faction”: i fatti mescolati alla fiction, personaggi realmente esistiti accanto ad altri inventati. Qui compaiono la protagonista di Via col Vento Vivian Leigh, il terribile agente Henry Willson, Hattie McDaniel che fu la prima attrice nera a vincere un Oscar, la sino-americana Anna May Wong e Rock Hudson, costretto a nascondere la propria omosessualità per lavorare. Proprio le storie di McDaniel, Wong e Hudson, che colpirono Ryan Murphy da giovane, hanno ispirato la miniserie.

“Abbiamo a che fare” ha spiegato Murphy “con un’idea di storia sepolta a Hollywood: l’idea che le persone non potessero essere quello che erano davvero, che non potessero mostrare il loro lato migliore”. “Ci siamo chiesti: cosa sarebbe successo se fosse stato permesso a un gruppo di outsider di raccontare la loro storia? Se il potere di dare il via libera ai film l’avesse avuto una donna? Se lo sceneggiatore fosse stato nero, la protagonista femminile una donna di colore, l’attore emergente un omosessuale?” ha aggiunto Janet Mock, che con Murphy e Ian Brennan ha scritto i sette episodi. In teoria sarebbe un period-drama: peccato che il #Metoo abbia squarciato il velo di ipocrisia che copriva gli abusi imperanti a Hollywood, mostrando che il tema è tremendamente attuale.

Ryan Murphy, creatore fra le altre di Glee e Pose, un fuoriclasse nel conciliare qualità e intrattenimento, è riuscito in una doppia impresa: raccontare gli anni d’oro del cinema e, contemporaneamente, mostrare che quell’oro non era poi così luccicante. Che il racconto avvenga attraverso una serie tv, e non un film, è un segno chiarissimo dei tempi, la “nuova” Hollywood che celebra quella “vecchia”: chi l’avrebbe mai previsto, negli anni Quaranta, che i soldi e il successo si sarebbero spostati in televisione? Forse solo Netflix e Ryan Murphy, che con la streaming company ha firmato un contratto da 300 milioni di dollari per cinque anni, potevano permettersi di portare a termine un’operazione del genere.

 

Hollywood

Da oggi su Netflix

Dal Rap alla cella. Siamo tutti Jahkor Lincoln

Per Black Panther, campione d’incassi e nel 2019 primo superhero movie a venire candidato agli Oscar, i favori della critica e del pubblico andarono a Ryan Coogler, regista e co-sceneggiatore. Giustamente, ma con dolo: Joe Robert Cole rimase nel cono d’ombra, sebbene potesse spartirsi, corroborati dal non disprezzabile esordio alla regia Amber Lake (2011), i meriti di scrittura. In particolare, la capacità di far scivolare tra i canoni del genere supereroico tematiche sociali, rivendicazioni identitarie, “Wakanda Forever” e via discorrendo: gli afroamericani si sentirono a casa, gli altri spettatori comunque accolti, Marvel & Disney incassarono felici e contenti.

Nel 2022 Coogler, pandemia permettendo, tornerà da solista con Black Panther II, Cole è già tornato: All Day and a Night esce oggi 1° maggio su Netflix. Diciamolo subito, ne risentiremo parlare, forse anche il 28 febbraio del 2021, alla 93esima Notte degli Oscar.

L’alveo è quello black-generazionale, da cui negli ultimi anni abbiamo tratto soddisfazione: Prossima fermata Fruitvale Station, diretto dallo stesso Coogler nel 2013; il miglior film agli Academy Awards 2017 Moonlight e Se la strada potesse parlare (If Beale Street Could Talk, 2018), entrambi firmati da Barry Jenkins; Waves (2019), che annovera – unico del lotto – un bianco alla regia, Trey Edward Shults, e come i due precedenti è passato alla Festa di Roma.

All Day and a Night non sfigura nel corpus, anzi: meno stiloso di Waves, meno furbo di Moonlight, meno lirico di Beale Street, meno programmatico di Fruitvale, eleva a potenza naturalista l’empatia, portandoci dentro il protagonista Jahkor Abraham Lincoln (Ashton Sanders, già apprezzato in Moonlight), che sogna di farsi strada nel rap ma finisce in carcere – il film si apre così – per duplice omicidio. L’opzione di Cole, che scrive, dirige e produce, è dichiaratamente determinista: ereditarietà, epoca storica, ambiente sociale, la voce narrante di Jahkor descrive quel che accade, come accade, senza illusioni, spiegazioni e ravvedimenti. Forte dell’esperienza di produzione e scrittura per American Crime Story, di cui ritrova alcuni partner, il regista evita fronzoli e compiacimenti – la parata notturna con le auto e annessa sparatoria dice bene di quel che è capace, se solo volesse – e affonda la camera in una realtà, quella afroamericana di Oakland, che conosce bene per averci vissuto. Mette tutto al muro: machismo o, come si dice oggi, mascolinità tossica, violenza ciclica, istituzioni, sistema, roots e coercizione, se Émile Zola tornasse a tempo di rap non vi si discosterebbe troppo. Sì, c’è anche lo J’accuse, ma Cole non vi piega i personaggi, il procedimento non è a tesi, bensì umanistico: percepiamo un senso di minaccia costante, sperimentiamo un timore profondo, un’incomprensione lancinante, sebbene sappiamo come sia andata a finire, e male. Di padre in figlio, Jahkor ritrova in prigione quel J.D. (Jeffrey Wright, Westworld) a cui mai avrebbe voluto assomigliare: scopriremo, viceversa, come i loro destini siano legati a doppio filo, e come la violenza li abbia forgiati malgrado la volontà, l’affetto e le buone intenzioni. Una speranza residua c’è, ma a serbarla è una domanda invero retorica: potrà il figlio e nipote affrancarsi, laddove papà e nonno stanno dietro le sbarre?

L’hip hop per flow e flusso di coscienza, le gang e le famiglie che condizionano, gli amori (Shakira Ja’Nai Paye) che tengono ma non trattengono, l’astensione – Jahkor con la droga non vuol averci a che fare – che non paga, la vendetta che richiama: All Day and a Night rischia la sottovalutazione, della serie “l’abbiamo già visto” e altre sciocchezze, ma il non essere – non voler essere – eclatante è una virtù, e una promessa di felicità artistica. Si ammazza e si interra una pianta senza battere ciglio, come se fosse la stessa cosa, e forse lo è. Disperato empatico stop.

 

giro

E poi “ai tecnici” (il governo Monti che lui applaudiva inneggiando da Palazzo Vecchio alle letterine della Bce e al massacro sociale conseguente). Ergo ora “non possiamo abdicare ai virologi”, tipo il compare Burioni che ai tempi del suo governo voleva vaccinarci pure contro i brufoli e le ragadi. Del resto, assicura, “la gente di Bergamo e Brescia che non c’è più, se potesse parlare, ci direbbe di riaprire”: deve averlo saputo in una seduta spiritica della fondazione Open alla Leopolda, o forse sente direttamente le voci come Giovanna d’Arco. Ora si attende una class action dei parenti delle vittime per vilipendio di cadaveri. Il secondo motivo del flop dell’ennesimo penultimatum è lo stato larvale in cui versa la nanoparticella denominata umoristicamente Italia Viva, che doveva “svuotare il Pd” e invece ha riempito tutti gli altri partiti della maggioranza e precipita nei sondaggi a rotta di collo verso lo zero assoluto, mentre Pd, 5Stelle e Sinistra crescono. L’insuccesso, si sa, dà alla testa. Ma a lui dà alla pancia: più voti perde, più chili guadagna; più cala nei sondaggi, più sale sulla bilancia; più l’elettorato si restringe, più il girovita si dilata; ogni mezzo punto in meno, un doppio mento in più. E il colesterolo acceca più dell’onanismo. Ma gli altri parlamentari italovivi, famigli a parte, ci vedono benissimo. Sanno che questo è l’ultimo giro di giostra ed è bene tenersi stretto il governo, cioè il cadreghino. Ove mai l’Innominabile se ne andasse, non dietro agli elettori che non ha, ma alle lobby che ha, molti resterebbero dove sono, lasciandolo solo. Anche perché, se del governo Conte sono la ruota di scorta, di un’ammucchiata Draghi (o chi per lui) sarebbero il pelo superfluo.

Quindi, almeno per ora, nulla cambia. A meno che l’intervento del senatore Pd Dario Stefàno non rifletta la posizione del Pd, che a sentire Orlando alla Camera pareva opposta. Noto voltagabbana salentino, passato da Confindustria alla Margherita a Sel, con fuitina presso l’Udc prima di planare nel Pd, lo Stefàno ha chiesto a Conte di “abbandonare la prudenza” per riaprire tutto subito, associandosi agli altri Bolsonaro de noantri che ciarlavano come se il virus fosse scomparso dal suolo patrio e i 205.463 contagiati e i 27.967 morti non fossero mai esistiti (l’unica a ricordarli è stata la M5S Maiorino). E autorizzavano il sospetto di essere tutti pagati da Conte per esaltarne il solitario buonsenso. Geniale anche l’idea di Stefàno di riaprire subito per battere sul tempo le “fughe in avanti di alcune regioni”. Cioè: visto che la Santelli fa cazzate in Calabria, facciamole prima noi in tutta Italia, così la freghiamo. Furbo, lui.