“Mi interessa la fame, non la fama: così ho creato il teatro on demand”

Si è fatto una domanda, si è risposto “on demand”: Andrea Rivera – attore, autore, cantautore – è pronto per lanciare il suo originale progetto di “teatro 2.0, The Best(ia) of Rivera, un grido di gioia e di dolore, uno spettacolo live a pagamento”, che debutterà su Vimeo il prossimo 7 maggio e sarà scaricabile dalla piattaforma a 8,50 euro.

Come le è venuta questa idea?

Ho pensato che il web fosse l’unica possibilità di sopravvivenza: non solo mia, ma anche delle maestranze e degli altri lavoratori coinvolti nel mio spettacolo, oltre che degli spettatori, ovvio. La risata rafforza il loro sistema immunitario.

Come si sente, lei che è un artista, in questo momento? Trascurato dalle istituzioni?

Trascurato dalle istituzioni? Mi viene da ridere: quelle mi hanno sempre messo gli occhi addosso, perciò vado poco in televisione. Se fossi invisibile, non mi censurerebbero. D’altronde l’hanno sempre fatto, anche con i più grandi, penso ad esempio a Dario Fo e Franca Rame, miei maestri: questi sono i miei veri premi, il loro riconoscimento e la loro stima. Se fossi depresso non andrei avanti nel mio lavoro: ci sono altre sfide, nuovi progetti; con Cristicchi voglio imbastire un Aspettando Godot, dal titolo Beckett a pezzi.

Perché è importante ora continuare a fare arte, e dal vivo?

Gli spettacoli intelligenti sono l’unico vaccino contro il vero virus, che è il non sapere, il non conoscere, il non leggere.

Morirà lo spettacolo dal vivo, dopo questa pandemia?

Le piccole realtà creative, come i piccoli artigiani, soffriranno di più. Ma io, come ho scritto in uno spettacolo, “ho risorto”, così come risorgerà il teatro.

La bellezza salverà il mondo, o lo faranno piuttosto i vaccini e i prestiti di denaro alle aziende?

Le favole cominciano tutte con “c’era una volta”: il problema è quello che hanno fatto, o non fatto, prima; i tagli alla Sanità, ad esempio. Ora, come antivirale, non ci resta che la letteratura; perciò io non “M’allarmé”.

Qual è la trama del suo show?

La trama è sempre la stessa: c’è sempre chi trama per non farlo uscire… Poi, i miei cavalli di battaglia, come il monologo delle medicine, canzoni, giochi di parole, improvvisazioni… I miei punti di riferimento, geniali, sono Bergonzoni e Rezza.

È ancora tempo di ridere? O la risata oggi suona irrispettosa?

La satira è sempre rispettosa perché dice ciò che non si deve dire, svela la realtà censurata: il successo vero è essere geni incompresi perché se si conosce bene il potere si rischia di non lavorare più.

Perché un cittadino, angosciato dal virus e impoverito dalla crisi, dovrebbe aver voglia e modo di pagare un biglietto, seppur forfettario, per il teatro?

Perché siamo il pane; il teatro, la cultura sono il pane quotidiano.

Ma in video e online il teatro non rischia di essere snaturato?

C’è questo rischio, ma bisogna correrlo… E poi mi stanno già chiedendo lo spettacolo tanti italiani all’estero: spero che diventi virale, in senso positivo.

Lei ha lavorato ovunque, dalla tv al palco, vincendo premi…

Più che la fama mi interessa la fame: sono stato spesso ostracizzato, ma ho sempre tirato dritto, come mi hanno insegnato. L’unica raccomandazione che mi ha dato mio padre è di non avere mai raccomandazioni. Il nostro ambiente è un bel “fotton club, in cui siamo troppi per pochi padroni”. Ecco perché ci vuole molta autoironia.

Lo spettacolo era già in crisi…

Certo; pensi che i grandi circuiti teatrali non vanno neppure a vedere gli spettacoli, li acquistano a scatola chiusa in base al nome… Mi ribattezzerò Andrea Fo, così qualcuno comprerà almeno le mie cover.

In questo momento storico vorrebbe non essere un artista?

No, no, vorrei solo cambiare molti teatri restando me stesso.

Mara e Cecilia, il desiderio ai tempi della Noia (e di Bube)

All’apparire degli anni Sessanta del secolo scorso, il decennio del cosiddetto boom economico, gli editori Einaudi e Bompiani mandarono in libreria La ragazza di Bube di Carlo Cassola e La noia di Alberto Moravia. Il primo era un romanzo sulla Resistenza come il precedente Fausto e Anna, tolstoiani entrambi, e il secondo era un romanzo-saggio del filone della gelosia, come Il disprezzo, legato a Tanizaki. Entrambi mettevano in crisi il neorealismo di autori come Pratolini.

A rileggerli oggi, a sessant’anni di distanza, spiccano i personaggi femminili, le ragazze Mara e Cecilia, più dei loro innamorati, Bube e Dino. La bionda Mara ha diciassette anni, un corpo magro, due tettine diritte e occhi giallo-verdi. Molto civetta, ha un carattere egocentrico, ubbidisce soltanto alle sue voglie ritenendo Bube un suo schiavo d’amore, con il quale è sempre lei a prendere l’iniziativa. Mara recita l’amore non interessandosi alla politica come il suo uomo, che è stato partigiano e viene chiamato “il vendicatore”. La ragazza di Bube nella seconda parte vede Mara diventare una donna tradizionale, grigia e devota nell’attesa dell’uscita dal carcere di Bube. Addio all’amore all’aperto nei dintorni di Volterra, alla passione che aveva incendiato il suo corpo adolescente, prima che Bube andasse in esilio in Francia. Nell’assenza del suo partigiano omicida, che l’armistizio di Togliatti non era riuscito a liberare, andò a servizio in una famiglia di Poggibonsi. Mara incontra in un luna park l’operaio poeta Stefano e se ne innamora, ma lo allontana quando Bube torna in Italia per subire un processo che lo condannerà a 14 anni di carcere. La ragazza di Bube vinse il premio Strega nonostante le critiche ricevute dai comunisti e incontrò una gran massa di lettori quando Mondadori lo inserì nei primi numeri dei suoi Oscar.

Cecilia de La noia ha anche lei, come Mara, diciassette anni, ma non è di origini povere, avendo i suoi genitori un negozio a Roma, nel quartiere Prati. Con due occhioni scuri, mora, e un corpo per metà bambina e per il rimanente donna fatta Cecilia “vestiva da ballerinetta con una leggera camicetta sbuffante e una gonna molto corta… con uno sguardo senza innocenza”. Faceva la modella nello studio del vecchio Balestrieri (alias Guttuso) in via Margutta dove operava anche Dino, il problematico protagonista del romanzo moraviano. Aveva appena accoltellato la sua tela bianca, e assistito al funerale di Balestrieri, quando Dino vede Cecilia entrare nel suo studio con un “invito muto”. Anche qui è la ragazza a prendere l’iniziativa, lasciando Dino alle sue elucubrazioni sulla realtà sconosciuta e sulla noia che gliela teneva celata. Dino ha paura che quel corpo così tanto penetrato finisca per ucciderlo, come era capitato a Balestrieri. E non fa che colpirla di domande fino a scoprire che lo tradiva con un attorucolo. Memorabile la scena di Cecilia nuda nella camera da letto della madre nella villa sull’Appia, quando la ricopre di bigliettoni da diecimila per costringerla a sposarlo. La terribile gelosia di Dino si stempera, dopo un tentativo di suicidio, nella scoperta di volerla soltanto guardare vivere, tra un amante e l’altro. La noia fu accolto positivamente dalla critica che lo vide con un capolavoro dopo Gli Indifferenti, anche se ci furono denunce di pornografia. Mara e Cecilia sono ragazze che anticipano entrambe una sorta di emancipazione femminile, mettendo in risalto la debolezza maschile, legata a una Storia incompiuta (la Resistenza) e a una Borghesia rimasta uguale anche dopo la Seconda guerra mondiale. Tre anni dopo la comparsa dei due romanzi nacque il Gruppo 63 che affibbiò a Cassola la dicitura di “Liala del romanzo” e vide in Moravia “un romanziere borghese”, come lo definì Edoardo Sanguineti. Non si accorsero nemmeno della definitiva crisi del Neorealismo denunciata in quei romanzi proprio di quella poetica così tanto da loro disprezzata.

Niente social né streaming, siamo seri e tarantini

Il Pianeta è diventato una grande Taranto e non ce ne siamo accorti. Nel frattempo il binomio salute-lavoro s’è trasformato in un dualismo planetario. Oggi “l’umanità vive il dramma che i tarantini vivono da decenni”. Lo ha detto l’attore Michele Riondino, direttore artistico di quella che sarebbe stata anche quest’anno la piazza sociopolitica per eccellenza nel giorno della Festa dei lavoratori.

La settima edizione di Uno Maggio Taranto a causa della pandemia cambia forma e linguaggi, ma lo spirito resta identico. Ieri, in conferenza stampa, il Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti ha reso noto il programma. Non ci sarà uno streaming. Gli artisti, che dal 2013 sostengono la battaglia del capoluogo ionico per rivendicare il diritto alla salute, prima di ogni profitto, auspicando la chiusura della più grande acciaieria d’Europa, non si esibiranno sui social. La piazza virtuale, che andrà in onda sui canali del Comitato, si popolerà di “interventi e proposte concrete di cambiamento”. E poi, in serata su La 7, andrà in onda il docufilm: un capolavoro di solidarietà, memoria e arte.

C’è un filo rosso, che il Covid non è riuscito a sfaldare, e tiene insieme tutto. Dai movimenti che il 23 marzo 2019, a Roma, hanno preso parte alla marcia per il clima agli artisti che non hanno rinunciato a solidarizzare con i valori del palco del Parco archeologico delle Mura greche. Li lega un sentimento forte di ribellione contro “il modello di sviluppo fondato sul ciclo estrazione, produzione e consumo”. Sarà anche quest’anno – spiega Virginia Rondinelli del Comitato – “un palco di lotta per la giustizia sociale e ambientale contro politiche violente”.

La parola andrà ai grandi “No”: al Triv, al Tav, al Tap, ai Pfas, al fossile, alla violenza di genere e, ovviamente, all’ex-Ilva. “La scelta – fanno sapere i direttori artistici Michele Riondino, Antonio Diodato e Roy Paci – rispecchia quanto in questi giorni moltissimi lavoratori dello spettacolo hanno sottolineato per non confondere l’esibizione in streaming come una possibile alternativa all’incontro fisico con un pubblico”. Una posizione politica, la loro, di denuncia per lo stato di abbandono a causa della pandemia. Il vocabolo più appropriato per definire Uno Maggio Libero e Pensante resta la partecipazione.

Si dovrà attendere il docufilm Liberi e pensanti – uno maggio Taranto, prodotto da Pulse Films in collaborazione con Indiana Production e realizzato da Giorgio Testi, Francesco Zippel e Fabrizio Fichera, per ascoltarli, in un lavoro cinematografico miracoloso, in grado di ripercorrere la memoria senza rinunciare alla musica e all’arte. Con loro ci saranno anche Elio Germano, Carolina Crescentini, Zerocalcare, Ghemon, Vinicio Capossela, Piero Pelù, Brunori Sas, Niccolò Fabi, Negramaro, Elisa, Mama Marjas e molti altri. “Taranto è una città in cui bisogna fare molto rumore”, ha detto Antonio Diodato che le ha dedicato la vittoria del Festival di Sanremo. “È questo il motivo – ha spiegato – per cui era importantissimo non restare in silenzio. Tutti siamo dinanzi al dramma che ci impone di scegliere tra la salute e il lavoro”. Non va dimenticato – ha detto – che “quando parliamo di Taranto, parliamo di migliaia di morti tra cui tanti bambini. Questa è un’emergenza che dura da decenni”. Da quando cittadini e lavoratori si sono schierati contro i poteri forti.

Una data su tutte, il 2 agosto del 2012, quando durante lo sciopero organizzato dai sindacati contro il sequestro dell’Ilva, un manipolo di operai scortati da una Apecar si fece largo e prese la parola. È nato così l’Uno Maggio. “Taranto – come ha ricordato Roy Paci – è il paradigma assoluto di tutto quello che sta accadendo nel mondo. Il Covid è l’Ilva e chi la gestisce è spietato. È di pochi giorni fa la notizia di un lavoratore licenziato per aver denunciato lo stato dei lavoratori in quel mostro”.

La produzione non si è mai fermata. “L’ago della bilancia – secondo la presidente del Comitato, Simona Fersini – pende ancora a tutela del profitto e il peso di questa emergenza sanitaria pesa sulle spalle dei soliti noti”.

In segno di solidarietà, Uno Maggio promuoverà una raccolta fondi destinata ad Emergency. “Mi rammarica molto – ha dichiarato il fondatore, Gino Strada – non sentire dal mondo della politica un’autocritica per aver portato la sanità nelle mani dei privati. La speranza è nell’impegno di tante persone perbene”. Taranto ne è un esempio.

Nord Corea, “sorella Kim”: da regista a regina

È pallida ed esile quanto grasso è suo fratello, Kim Jong-un, scomparso dallo scorso 11 aprile. Kim Yo-jong è la possibile erede del potere del leader dello Stato più segreto al mondo. Nelle foto della nomenklatura della Difesa Yo-jong sporge con fierezza zigomi lentigginosi e gonna nera tra le divise verdi: è l’unica donna ammessa nel Politburo del Comitato centrale nordcoreano. Nata nel 1987, ha studiato come i suoi fratelli tra cavalli e prati verdi dei collegi in Svizzera per tornare in patria e specializzarsi all’università militare che porta il nome di Kim II-Sung, il “presidente eterno” della nazione morto nel 1994, cioè suo nonno.

È proprio sul modello di Sung che la discendente ha improntato la narrazione della figura di Kim Jong-un, divenendo testa d’ariete della sua propaganda, quando nel 2015 sale al vertice del “Dipartimento della pubblicità e informazione”. È la regista dei video, dei viaggi, delle cavalcate sul destriero bianco sul monte Paektu di Kim, che, grazie a lei, diventa icona: l’uomo razzo, re dei missili che minacciano i lontanissimi, potentissimi Stati Uniti. Lo fa dalle quinte di una scena dove appare, falsamente sommessa, solo per raccogliere le cicche di sigarette che il nevrotico Kim fuma per adempiere ligia al protocollo: eliminare ogni traccia di Dna del capo di Stato.

Regina della censura, nel 2017 è finita nella lista nera del Dipartimento del Tesoro Usa “per gravi violazioni dei diritti umani”. Nell’era della distensione della penisola nel 2018 è l’inviata in Sud Corea per i negoziati con il presidente Moon Jae-In, a capo di un Paese che però furiosa definirà “cane idiota che abbaia”, un anno dopo.

Se Kim Jong-un è deceduto o in punto di morte dopo un intervento cardiaco non è ancora certo. Il suo destino è avvolto dal silenzio di Trump, che ha detto di conoscere le sue condizioni di salute senza rivelarle.

Che sia vivo lo ha sostenuto in onda alla Cnn Moon Chung-in, consigliere della sicurezza sudcoreana. L’agenzia centrale nordcoreana, la Kcna, ha ripetuto invece che il leader ha appena inviato una lettera agli operai di Wonsan-Kalma, sito turistico in costruzione dove sarebbe ora fermo il convoglio ferroviario personale dell’uomo missile, spiato dai satelliti del mondo. Nelle ultime settimane la direzione del mirino dell’intelligence degli Stati Uniti si è però spostata sulla sorella: è stato dato ordine di riempire il serbatoio di informazioni che la riguardano, conferma Bruce Klingner, ex funzionario Cia. Per la successione Kim la preferirebbe alla zia Kim Kyong-hui, che Kim ha asfissiato con il suo narcisismo relegandola nel silenzio. Forse adesso toccherà a quella che il suo narcisismo lo ha alimentato, che finirà per occupare la sagoma di un caudillo che lei stessa ha costruito.

Guerra tra sceicchi al Sud: Ryad lascia e Doha raddoppia

Lo Yemen, devastato da una sanguinosa guerra civile cominciata 6 anni fa con la conquista della capitale Sa’ana e di quasi tutto il nord del paese arabo da parte dei ribelli sciiti Houthi, sostenuti dall’Iran, sembra condannato a rimanere ancora a lungo un campo di battaglia e malattie.

Nonostante il cessate il fuoco unilaterale proclamato dall’Arabia Saudita sia stato esteso fino alla fine del Ramadan alla capitale e al nord dello Yemen, allo scopo ufficiale di evitare la diffusione del Covid-19 che ha fatto la sua comparsa anche qui nel posto più derelitto del mondo, il sud del Paese sta vivendo un ennesimo momento drammatico.

I separatisti del sud – riuniti sotto la milizia ombrello del “Consiglio meridionale di transizione (Stc)” – hanno dichiarato infatti che d’ora in poi governeranno da soli la cruciale città portuale di Aden e parte del sud. Ciò non muta la situazione sul terreno, visto che dalla seconda metà dell’anno scorso è l’Stc a controllarli dopo aver scatenato e vinto numerose battaglie lampo contro quelli che allora erano ancora alleati, ovvero il governo e il presidente Mansur Hadi riconosciuti dall’Onu e protetti dalla coalizione internazionale a guida saudita.

Il presidente Hadi, eletto nel 2012 in seguito alla primavera araba yemenita, fu costretto nel 2015 a lasciare Sa’ana e a trasferire la sede presidenziale ad Aden quando nel 2015 gli Houthi fecero il golpe. Il problema è che anche il Consiglio meridionale di Transizione ha fatto finora parte della coalizione che protegge Hadi. Tutto è cambiato, per non cambiare, quando gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita all’inizio di novembre 2019 firmarono un accordo per far confluire i miliziani sotto le insegne dell’esercito regolare yemenita di cui Hadi sarebbe il commander in chief. Ma ciò non è avvenuto, come non è avvenuto che i burocrati trasferitisi ad Aden con il governo abbiano migliorato i servizi sociali. L’ex protettorato britannico di Aden, crocevia fondamentale per il traffico mercantile e pertanto appetito dagli Emirati tanto quanto dall’Arabia Saudita, è ormai una città collassata sotto il peso delle battaglie tra alleati, la guerra contro gli Houthi, le calamità climatiche come la recente inondazione ed epidemie da colera e ora da Covid anche se nessuno conosce ancora la reale entità del contagio. Intanto il già misero sistema sanitario è esploso, disintegrato dalle bombe Houthi e della coalizione a guida saudita. Nel porto di Aden un tempo florido non c’è elettricità per la maggior parte del giorno e quando la temperatura estiva sale a 50 gradi i più deboli muoiono per il caldo e la mancanza di acqua potabile.

Il Consiglio di transizione meridionale ha dichiarato lo stato di emergenza e “l’autogoverno” ad Aden, escludendo così il presidente Hadi e l’esecutivo, dopo averli accusati di corruzione e cattiva gestione. I sauditi hanno rigettato la dichiarazione dei parenti-serpenti, ma la situazione sul terreno rimane di fatto la stessa. Ciò che sta cambiando da mesi a questa parte è la volontà da parte degli Emirati Arabi e dell’Arabia Saudita di uscire dalla guerra senza perdere la faccia, lasciando gli attori locali a scannarsi tra loro.

Lo scorso luglio le truppe emiratine sono rientrate in patria mentre la diplomazia di Doha iniziava il dialogo con Teheran, sponsor degli Houthi per spartirsi le città portuali: Hodeidah rimarrebbe sotto il controllo degli Houthi ed Aden all’Stc.

E l’Arabia Saudita, colpita al cuore dal crollo del prezzo del petrolio, da frizioni interne alla famiglia regnante e dal coronavirus, non ne risentirebbe più di quanto già accada. Tutti gli attori esterni avrebbero comunque il proprio vantaggio, primo fra tutti un paese perennemente instabile e indebolito da manipolare quanto e quando farà loro comodo. A farne le spese sono i più deboli dei civili yemeniti che stanno sperimentando le peggiori calamità: guerra, carestia ed epidemie.

Alkhader Sulaiman, portavoce della Stc con sede negli Stati Uniti, ha detto che il gruppo separatista è stato costretto a prendere in mano la situazione a causa dell’incapacità del governo di fornire servizi di base: “Questo non è un evento che è nato dal nulla. Assistiamo a un cumulo di cattiva gestione, cattiva amministrazione, specialmente nel sud dello Yemen, che non è mai stato sotto gli Houthi in questi quattro anni. Sfortunatamente, le cose sono peggiorate dal punto di vista umanitario. La situazione, in termini di servizi di base, è catastrofica”.

Il Covid è peggio del Vietnam e frena la lunga fase di crescita

L’economia americana nel primo trimestre 2020 s’è contratta del 4,8%: sono i primi effetti, e non i peggiori, dell’epidemia di coronavirus, che gli Stati Uniti hanno iniziato ad avvertire con forza in marzo. Il dato, ufficiale, sancisce la fine della più lunga fase di crescita ininterrotta dell’economia Usa: iniziata dopo la recessione del 2008/09, ha praticamente traversato tutto il doppio mandato di Barack Obama e i primi tre anni alla Casa Bianca di Donald Trump.

L’annuncio “funereo” per l’economia americana arriva poche ore dopo che il numero delle vittime dell’epidemia negli Stati Uniti ha superato quello dei caduti in Vietnam: 58.220 in vent’anni di conflitto, tra il 1955 e il 1975. Stando ai dati della Johns Hopkins University, i morti da coronavirus erano ieri sera oltre 58.500, i deceduti martedì erano stati 2.200; i contagiati sono più un milione, almeno 1.015.000, rispettivamente, un quarto e un terzo dei totali mondiali.

Il peggio dell’epidemia potrebbe essere alle spalle: alcune proiezioni prevedono meno di 100mila decessi complessivi, l’ultimo pronostico di Trump è 70mila. Invece, il peggio dell’economia deve ancora arrivare: il secondo trimestre vedrà un calo del Pil fino al 30%. Il tasso di disoccupazione, che, in 40 trimestri d’ininterrotta crescita, era sceso al 3,5%, il minimo da mezzo secolo in qua, s’è impennato nelle ultime cinque settimane oltre il 10%: sono stati persi circa 30 milioni di posti. Altro indice sicuro di debolezza economica è che i compromessi per gli acquisti di case negli Usa sono crollati in marzo del 20,8%: mai così male dal 2010.

In piena tempesta sanitaria ed economica, Trump spinge per riaprire l’America il prima possibile: ipotizza il ritorno a scuola in alcuni Stati, firma il decreto con cui ordina agli impianti di lavorazione della carne di restare aperti – ci sono timori per le forniture alimentari dopo che diversi stabilimenti hanno chiuso causa contagio –. Numerosi Stati, a macchia di leopardo, allentano il lockdown e riaprono attività economiche non essenziali. Dopo le proteste dei giorni scorsi, proliferano sul web siti, spesso farlocchi, che criticano le misure di prevenzione e ne chiedono la revoca. Il presidente continua a prendersela con i soliti nemici: i “fake-news media” e la Cina. La stampa non dice che “gli Usa hanno un milione di casi di coronavirus solo perché le nostre capacità di test sono migliori di quelle di qualsiasi altro Paese”: gli Usa sono avanti sui test in numero assoluto – 5,8 milioni fatti –, ma non pro capite.

E la Casa Bianca ordina alle agenzie di intelligence di cercare di stabilire se la Cina e l’Oms abbiano nascosto ciò che sapevano all’inizio della pandemia. Agenti ed ex agenti dicono a Nbc News che diverse agenzie hanno ricevuto la scorsa settimana specifiche istruzioni per cercare di capire se c’è stato o meno insabbiamento da parte di Pechino e dell’ente dell’Onu. Intanto il vice presidente americano Mike Pence (in foto) si attira gli strali di media e social network dopo la visita a una clinica del Minnesota senza indossare la mascherina protettiva. Sul fronte Usa 2020, pure Hillary Clinton è con Joe Biden, candidato democratico alla Casa Bianca: ospite d’onore d’un evento online della campagna dell’ex vice-presidente di Barack Obama, la ex first lady, ex senatrice, ex segretario di Stato, ex candidata alla nomination nel 2008 e già candidata alla presidenza nel 2016 dice che il voto di novembre è un “referendum sul futuro che vogliamo”: “Joe rappresenta è un futuro più forte, migliore, in salute”. L’endorsement di Hillary segue quelli di Obama e della speaker della Camera, Nancy Pelosi, oltre che dell’ex vicepresidente di Bill Clinton, Al Gore. Proprio Bill Clinton e la ex first lady Michelle Obama potrebbero dichiararsi presto. Ufficiali, infine, i risultati delle primarie in Ohio, svoltesi per posta, dopo il rinvio, causa coronavirus. Senza rivali, ha vinto Biden.

 

Brasile
I decessi superano già la Cina Bolsonaro pensa alla famiglia

“Il contagio si sta aggravando soprattutto in alcune località”. Ha dovuto ammetterlo il neo ministro della Salute del governo Bolsonaro, riferendosi al triplicare dei morti per coronavirus a San Paolo e il quadruplicarsi dei contagi. In tutto il Brasile i dati descrivono una situazione già peggiore di quella cinese: 5mila sono i morti accertati. Eppure la linea continua a oscillare tra il polso duro di governatori e sindaci e quella scettica sui reali rischi del Covid-19 del presidente Jair Bolsonaro. Rispondendo a una giornalista che gli snocciolava i numeri, ha detto: “E quindi? Mi chiamo Messia (di secondo nome, ndr), ma non faccio miracoli”. A peggiorare la situazione è la crisi politica scatenata dalle dimissioni del ministro della Giustizia, Sergio Moro, le tre inchieste aperte sul presidente e la revoca della nomina del neo-capo della Polizia da parte della Corte Suprema.

 

Spagna
Lava la sabbia con candeggina: disastro ambientale a Cadice

Zahara de los Atunes, Cadice, Andalusia. Zero contagi per 1300 abitanti: il villaggio è riuscito a isolarsi dal Covid anche grazie alla solerzia del sindaco: strade annaffiate con disinfettante e disinfestazione alle auto all’ingresso del paese. Tutto bene, finché la solerzia non ha superato il buon senso e l’alcalde, Agustín Conejo non ha deciso di disinfestare anche la spiaggia locale, chiusa per via del virus, in vista della prima uscita dei bambini domenica scorsa. Mille litri di acqua per 20 di candeggina spruzzati dai trattori come se non ci fosse fauna o flora o fosse in atto una moratoria sui disastri ambientali. È tra quelle dune che il corriere dalle zampe nere – uccello in via d’estinzione – nidifica. Il premier Sanchez ha inviato una delegazione a valutare il danno e stabilire una multa. “Dopo 60 giorni di lotta al virus, la tensione ci ha sopraffatti” si è scusato Conejo.

1970: così il lavoro è uscito dalla fogna

Tra pochi giorni ricorrono i 50 anni dello “Statuto dei Lavoratori” e a luglio il centenario della nascita (Recanati, 19 luglio 1920) di Giacomo Brodolini che ne fu l’ispiratore.

La legge 20 maggio 1970 n. 300, che definisce le “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” [GU 27 maggio 1970, n. 131] venne presentata in Parlamento, come disegno di legge, da Brodolini il 24 giugno 1969; la scomparsa del ministro del Lavoro l’11 luglio 1969, non fermò tuttavia l’iter della legge, proseguito dal suo successore Carlo Donat-Cattin, e in certo modo accelerato dai moti dell’“autunno caldo”. Chi legga oggi il testo può rimaner sorpreso dal contrasto tra l’art. 1: “Libertà di opinione” e l’art. 2: “Guardie giurate”; ma va ricordato quale era allora il clima di controllo nelle fabbriche, evocato nella relazione introduttiva di Brodolini: “Il proposito del disegno di legge che il governo si onora di presentare è di contribuire in primo luogo a creare un clima di rispetto della dignità e della libertà umana nei luoghi di lavoro, riconducendo l’esercizio dei poteri direttivo e disciplinare dell’imprenditore nel loro giusto alveo e cioè in una stretta finalizzazione allo svolgimento delle attività produttive. A tale fine si è ritenuto, nel Titolo I del presente testo, di riaffermare il principio di libertà di opinione, nonché di eliminare tutti quei sistemi di vigilanza e controllo disciplinare che, pur tenuto conto delle esigenze produttive, non sono compatibili con i principi della Costituzione, quali enunciati in particolare dall’art. 41, diretto a contemperare, come è noto, lo svolgimento della iniziativa economico-privata con le esigenze di libertà, sicurezza e dignità umana”. Non si tratta di enfasi: il controllo nelle fabbriche, per evitare che fossero trafugati pezzi o utensili, poteva arrivare – all’uscita ai cancelli – all’ispezione corporea; gli operai piemontesi designavano l’operazione con un termine a un tempo esatto e sprezzante: fugné (dal francese: fouiller, rovistare, cercare con cura strato a strato), fare la fogna ai lavoratori. Lo Statuto la disciplinava nell’art. 6: “Visite personali di controllo”. Era inoltre da riconoscere il ruolo delle rappresentanze sindacali come componente organica della vita del lavoro; pare oggi un’archeologia, ma conviene leggere i paragrafi che Brodolini adduce (si comprenderà meglio, anche, l’“irriconoscibilità” oggi dell’Europa): “Il potenziamento del sindacato a livello di impresa è d’altronde ormai un orientamento di tutti i Paesi ad alto livello di sviluppo. Basti pensare che tale esigenza è stata solennemente riaffermata l’anno passato dal Rapporto presentato dopo tre anni di studio al governo inglese da parte della Royal Commission e noto come Rapporto Donovan, e che nel dicembre scorso il governo francese emanò un provvedimento di riconoscimento dell’organizzazione sindacale a livello di impresa”.

Oggi che siamo “tracciati” su tutto possiamo rileggere, con il giudizio che ognuno vorrà dare, ciò che è stata la nostra giovinezza: “I successivi art. 1 e 2 disciplinano l’utilizzazione di guardie giurate e l’installazione di impianti audiovisivi, precludendone la strumentalizzazione a finalità diverse da quelle tipicamente correlate alla rispettiva funzione di tutela del patrimonio aziendale e di organizzazione dell’attività produttiva. La normativa concernente le guardie giurate elimina la pratica delle cosiddette ‘polizie private’, che hanno sollevato vive proteste nell’ambiente di lavoro, riconducendo l’uso delle guardie giurate ai compiti istituzionali di tutela del patrimonio aziendale”.

La legge venne approvata con l’astensione del Pci e dello Psiup. Si ripeteva – se Brodolini fosse stato vivo – lo stesso strappo che con il Pci era per lui avvenuto con la rivolta di Ungheria il 27 ottobre 1956: allora vicesegretario socialista della Cgil convinse il Segretario generale della Cgil, il comunista Giuseppe Di Vittorio, ad aderire a una dichiarazione di condanna dell’invasione sovietica, dichiarazione che suscitò, da parte di Togliatti, una severa istruttoria interna, mentre il gesto detterà a Italo Calvino, lo stesso 28 ottobre, il seguente telegramma a Di Vittorio: “Commosso condivido tua posizione. Indispensabile per salvare nostro partito e causa socialismo”.

Furono anni difficili (1956-1970) per il Paese; anni – almeno per me – di formazione, di speranze, di disinganno: il boom economico, il Concilio Vaticano, Joan Baez e Bob Dylan, The Beatles… Il primo uomo sulla Luna (21 luglio 1969) quasi fece dimenticare la scomparsa prematura di Brodolini avvenuta 10 giorni prima a Zurigo. Ma l’entusiasmo durò poco. Di quell’anno, 1969, così pieno di stridenti contrasti, un’immagine sola – accanto al volto di Brodolini – mi è rimasta, folgorante e amara, nella mente: la sequenza iniziale della Via Lattea di Luis Buñuel. I due pellegrini che camminano stanchi e affamati verso Santiago di Compostela incontrano un distinto signore e chiedono un po’ di elemosina; questi li interroga: “Hai del denaro?”; “No, signore, no”, risponde il primo; “Tu non avrai niente. Capito? Niente!”. “E tu?”, dice all’altro: “Sì, io ne ho un po’”; “Allora ne avrai molto di più. Tieni”, conclude il signore. Poi avanza, si volta, ritorna sui suoi passi, e di scatto, scandisce due versetti terribili del profeta Osea, dei quali oggi – più che allora – misuriamo la parabola, lungo anni di pavidi tradimenti: “Chiamala Non-amata,/ perché non amerò più / la casa d’Israele, / non avrò più misericordia” (I, 6). Il signore si riavvia infine dando mano a un bimbo, dal seno del quale si leva una colomba. In futuro chissà…

Donato Carrisi: “Il 4 maggio preferisco non uscire”

Pacato. Preparato. Dettagliato. Donato Carrisi non è il maestro italiano del thriller a caso: ha studiato nei particolari il Covid, la Sars, Ebola e la Spagnola. Cita cifre, casi, cause, misteri.

Però: cosa farà il 4 maggio?

Non lo so; (ci pensa) in particolare, che accade?

Maggiore possibilità di uscire.

No, resto a casa.

Ha paura?

No, devo finire il prossimo romanzo, e tra un mese mi nasce il secondo figlio.

Meglio sbrigarsi.

Sono rimasto bloccato in Puglia.

Cioé?

Il 21 febbraio sono arrivato a Martina Franca (sua città Natale) per una presentazione, e non mi sono più mosso.

Lungimirante.

Dopo il primo caso di Codogno ho detto ai miei: “Siamo nella merda”.

Appunto, lungimirante.

Siamo scesi in Puglia con una valigia di cinque giorni, e adesso appoggiati a casa di amici.

Eppure…

Secondo me finirà come è arrivata: all’improvviso.

Auspicio.

No, ho incrociato i dati delle vecchie pandemie.

Resta un auspicio.

Be’, sì.

Le fa le pulizie?

(Stupito) Certo.

Bravo.

Noi Carrisi (non sono parenti) non ci fermiamo davanti a nulla; all’Isola dei Famosi tra un po’ Al Bano si metteva a coltivare la vigna.

In questi mesi, cosa le ha strappato un sorriso?

La storia della mamma novantenne di un mio amico: da sempre si è vantata di non avere capelli bianchi, mentre tutti conoscevamo la verità.

E…

È uscita di nascosto per comperare la tinta, ma per la fretta ha sbagliato il flacone e si è ritrovata bionda. E pure mortificata.

 

Quant’è fortissimo Mr Salini-Impregilo

L’intervistaa Pietro Salini, boss della Salini-Impregilo, comparsa ieri sul Foglio è di quelle memorabili: “Mi dice una cosa fortissima”, ci avverte eccitato il cronista. E infatti il costruttore romano è un fior d’intellettuale e, tra le altre cose garantite dalla libertà di pensierino, ci spiega che la crisi del 1929 “in Europa ha prodotto il nazismo e il fascismo”, che bontà sua s’era portato avanti da solo. Salini, che è nella cordata che ha realizzato il nuovo ponte di Genova, rivela al giornale clandestino “il piano” necessario all’Italia: lavori pubblici a tutta randa, via lacci e lacciuoli e tutta la nota chincaglieria. Posizione su cui potremmo convenire se non fosse che il nostro pensa solo alle cosiddette “grandi opere” – che, quando servono, hanno effetti significativi sul Pil nel medio periodo – e in particolare alle sue (tipo il Terzo valico, su cui è agguerrito il dibattito scientifico: inutile o dannoso?). Poi il buon Salini ha anche timori più specifici: c’è un problema coi “tempi di risoluzione delle controversie: fino a 25 anni”. Chissà se si riferisce alla sua pretesa di avere un miliardo dallo Stato per aver deciso di non fare il Ponte sullo Stretto di Messina pagandogli tutti i lavori fatti e un bonus del 10%: pretesa che, bocciata in primo grado, il nostro ha riproposto in appello perché ci tiene all’Italia. La ricchezza si crea col lavoro, si sa, in certi casi soprattutto quello degli avvocati.

Mail box

 

Dpcm, se Renzi li ritiene illegittimi ricorra al Tar

Ho sentito che Renzi critica Conte per aver emanato dei Dpcm invece di un decreto legge. Conte ha adottato dei provvedimenti “contingibili e urgenti” che sono di competenza del sindaco se limitati a un Comune e del Presidente del Consiglio se rivolti al territorio nazionale. Sono cioè provvedimenti amministrativi suscettibili di essere impugnati davanti al Tar se ritenuti illegittimi. Lui vuole il decreto legge perché vuole politicizzare il problema al fine di poterne parlare in Parlamento in sede di conversione. Renzi, se li ritiene illegittimi, li impugni davanti al giudice competente.

Emilio Zecca

 

Quali diritti hanno i detenuti per mafia?

Caro direttore, da ex magistrato non condivido la sua posizione circa la cultura del carcere. Che, così come da noi strutturato, non serve alla finalità di applicazione della pena, che si deve accompagnare alla rieducazione del detenuto che un giorno dovrà tornare nella società. Quanto al 41 bis per i condannati di Cosa Nostra non va dimenticato che la dignità dell’uomo sussiste anche per loro. Non prevedere possibilità di recupero equivale a stabilire la loro condanna a morte, che non si addice a una società civile.

Pietro Chiaro

Caro dottor Chiaro, la pensiamo diversamente. Per me, se il Codice penale prevede tot anni di “reclusione”, la reclusione deve durare esattamente tot anni. È la certezza della pena, senza la quale non esiste Stato di diritto.
M. Trav.

 

Troppi imprenditori strumentalizzati dai politici

Conte non piace a molti, e fin qua tutto bene, si chiama democrazia; quello che invece si capisce meno è cosa dovrebbe fare e, soprattutto, cosa farebbero gli illustri e illuminati censori: dichiarare guerra alla Germania e all’Olanda o, meglio, a tutta l’Europa? O dichiararla al malefico virus che sta solo aspettando che tutti gli italiani vengano rimessi in libertà? Spiace che taluni imprenditori, opportunisti e strumentalizzanti politici non vogliano capire che parliamo di vita e di morte… Si parla tanto dei diritti degli imprenditori (che per carità esistono), ma dei diritti e del rispetto verso chi da mesi sta lavorando, in condizioni indecenti anche per i tagli alla Sanità voluti dagli stessi politici che oggi starnazzano, salvando vite, non vogliamo parlarne?

Albarosa Raimondi

 

Far ripartire calcio e Lotto è demenziale e imprudente

Egregio direttore Padellaro, in questa pagina trovo spesso una o due lettere di nuovi lettori che hanno scoperto (era ora!) Il Fatto: ne sono entusiasti e diventano adepti (spero per sempre). Ciò è motivo di soddisfazione e orgoglio per tutti voi che faticate indefessamente per un’informazione obiettiva sull’unico giornale libero… Due considerazioni: 1) Il “panem et circenses” dell’antica Roma aveva due intelligentissimi scopi: garantire il pane e offrire spettacoli per divertire e tenere buona la plebe. Ora far ripartire il calcio avrebbe il solo scopo “distraente” su un popolo che ha invece bisogno di “pane”. 2) Far ripartire Lotto e Superenalotto è imprudentemente demenziale. Senza contare che gli effetti deleteri sarebbero quelli di tipo psichiatrico (ludopatia, depressione galoppante e altre psicopatologie).

Giulio Guagliardo

 

La mia prima lettera a un giornale è per voi

La mattina non vedo l’ora di scendere per andare all’edicola e acquistare il vostro giornale. È la prima volta (ho “solo” 65 anni) che scrivo a un giornale per esprimere apertamente la mia opinione. Grazie di tutto.

Antonella Gaggioli

 

Noi negozianti aspettiamo il “miracolo” dal governo

Come si fa a non capire che senza contributi a fondo perduto pari al 30% del fatturato delle aziende nel 2019, chiuderanno il 60/70% dei negozi (sapendo con certezza che quest’anno fattureremo -50%)? I grandi gruppi resisteranno un anno forse due: a che serve? A niente, in quanto i disoccupati non avranno soldi per comprare. Atra aprire o chiudere? Meglio non aprire. Ma il nostro settore di negozianti avrà milioni di disoccupati se non apriamo, e il governo dovrà sostenere con redditi o cassa integrazione questi disoccupati, buttando via risorse superiori a quelle a fondo perduto: il fondo perduto si rigenererebbe in 3-4 anni facendo girare l’economia che produrrebbe entrate… Siamo uniti, non apriamo per il bene delle famiglie nostre e dei nostri dipendenti e delle nostre aziende. Intanto restiamo a casa. Aspettando un contro-miracolo positivo: quello del governo.

Ferdinando Grimaldi

 

I liberali auspicano un nuovo leader coerente

In questa clausura si ha più tempo per pensare. Oltre al piacere del Fatto sorgono elaborazioni personali. Una di queste mi porta a dire che il pensiero neoliberale sia alla ricerca di un nuovo esponente dopo la caducità dei due Matteo. Quando il popolo scopre le bugie e non crede più al comunicatore è tempo di cambiarlo. Ma sarebbe necessaria coerenza: non si può essere liberali quando va bene e chiedere gli aiuti di Stato quando va male.

Stefano Paoli

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri ho confuso l’istituto di sondaggi Demopolis con il sito Openpolis. Me ne scuso con gli interessati e con i lettori.
M. Trav.