Recovery bond. “Rimetti a noi i nostri debiti”: l’Europa dovrebbe pensarci su

Buongiorno, giorni fa sui quotidiani si leggeva dei Recovery bond (siamo alle parole, ma non ai fatti) e del debito italiano che “esploderà” (sembrava già esploso rispetto al Pil); ora abbisogniamo di altri denari e debito. Vi chiedo, avendo noi un’economia in recessione o stagnazione (già prima del virus) e un debito mostruoso che produce interessi passivi, ha senso che ora ci apprestiamo a sottoscrivere altro debito (forse per sostenere anche la Newco di Alitalia…)? È questa l’unica soluzione per l’Italia? Tra qualche anno non lasceremo alle prossime generazioni (mettiamo dai 35 anni in giù) un problema enorme, come sta accadendo ora in Argentina? Conoscendo la reale situazione di questo Paese, anziché creare commissioni di super manager (Colao insegna), non sarebbe meglio applicare la strategia economica della “famosa” casalinga di Voghera?
Adriano Treccani

 

Credo che lei sappia per primo, caro Adriano, che tocca un nervo più che scoperto nell’attuale dibattito politico. Scoperto, in realtà, da molto tempo visto che la precedente crisi economica, quella del 2008, non è mai stata veramente risolta e ha generato altro debito per garantire un futuro al sistema finanziario. Quindi come uscirne? Sono d’accordo con lei che l’Italia non può pensare di sostenere per il futuro un debito crescente. L’attuale Def in discussione dice che sarà così, ma confida tutto negli investimenti che le prossime manovre di bilancio sapranno creare e negli svincoli ai lacci burocratici. Bene che, a differenza del passato, non si pensi di sostenere il debito futuro ricorrendo ai tagli a pensioni e sanità (chi potrebbe oggi proporlo?), ma forse la fiducia che dagli investimenti possa venire un contenimento del debito è troppo alta. Il Recovery Fund di cui si discute a livello europeo contiene un elemento fondamentale, se sarà approvato, la possibilità cioè di operare per “trasferimenti” e non solo con “prestiti” ai singoli Paesi. Questo è il punto decisivo per l’Italia: quanti trasferimenti? E, soprattutto, come saranno recuperati dal bilancio europeo che dovrà garantire il Fund? Magari con contributi più alti nel futuro da parte dell’Italia? La morsa del debito può essere la corda al collo che ci strozzerà e, a mio personale parere, è incredibile che nel dibattito complessivo non faccia mai capolino, nemmeno parzialmente, il precetto cristiano “rimetti a noi i nostri debiti”. Ci sono categorie che hanno beneficiato per anni di rendite favolose grazie al pagamento del debito e la pratica del parziale annullamento, è stata già adottata in passato. Per carità, non creiamo allarmi, l’Italia non potrebbe farlo da sola, altrimenti il proprio debito sarebbe spazzatura, ma l’Europa dovrebbe almeno discuterne.
Salvatore Cannavò

La sanità pubblica merita una riforma che premi i medici

Le crepe evidenziate in Lombardia da questa epidemia possono trovare diverse spiegazioni. Ma la verità è che, a parte eventuali errori od omissioni di singoli individui, questa è stata la Regione italiana che ha interpretato in modo più marcato la “legge Bindi”: una legge che attribuiva alle strutture sanitarie la qualifica di aziende, affidando gran parte della propria attività assistenziale a organizzazioni private convenzionate con il Sistema sanitario regionale (SSR). Tutto ciò ha portato al moltiplicarsi di cliniche private che nel corso degli anni si sono certamente distinte per efficienza, anche se per alcune di esse il termine di “eccellenza” è stato attribuito con troppa fretta ed eccessivo entusiasmo. Tali strutture forniscono prestazioni di vario genere (principalmente chirurgiche) a titolo gratuito per i cittadini, ma che vengono rimborsate a piè di lista dallo Stato tramite le Regioni stesse. All’atto della stesura della legge il concetto di azienda non è mai stato gradito, ma piuttosto “subìto” da gran parte della classe medica, consapevole di quanto tale concetto applicato alla salute potesse risultare astratto e fuorviante. Tuttavia da allora la gestione economica delle diverse aziende ha finito per prevalere sugli aspetti più propriamente clinici.

Tornando al “caso Lombardia”, bisogna evidenziare che le strutture private di cui la Regione – come altre – si è dotata negli ultimi decenni, hanno l’obiettivo di realizzare un profitto e dunque la cura delle persone rappresenta il mezzo per raggiungere il proprio scopo. E quindi, la loro impostazione è tale da dimostrare la massima efficienza di fronte a patologie e pazienti super selezionati che risultano remunerativi, ma inadatte e professionalmente impreparate ad affrontare situazioni di afflusso di pazienti affetti da altre patologie, come un’epidemia. In questa drammatica circostanza, è apparsa del tutto evidente la totale inadeguatezza di una legge che prevede due sistemi, a mio parere assolutamente inconciliabili: uno, quello pubblico, che dovrebbe avere una esclusiva finalità terapeutica; e l’altro che utilizza tale mezzo per realizzare un profitto. Ma l’aspetto ancor più preoccupante riguarda il futuro della nostra professione. Un tempo, un posto di ruolo in un ospedale pubblico rappresentava la massima aspirazione (e un miraggio) di un giovane. Oggi gli ospedali si sono svuotati, i concorsi pubblici vanno deserti e i giovani specialisti sono molto più attratti da un lavoro più comodo, sicuro e remunerativo presso strutture private, dove non si fanno turni notturni e festivi, non si corre il rischio di essere vittime di aggressioni, si trattano casi più semplici con minori rischi di rivendicazioni medico-legali e dove si guadagna anche di più. Per tutte queste ragioni, ritengo oramai indispensabile porre mano a una riforma del SSN, che rimetta al centro i pazienti e gli operatori sanitari, che hanno pagato a carissimo prezzo la loro abnegazione. Come professore universitario e Direttore di Scuola di Specializzazione, ho un costante contatto con i giovani ai quali devo insegnare, ma dai quali devo anche sempre imparare qualcosa: e in primis, a conservare l’entusiasmo e la passione per la professione. L’ultimo episodio risale proprio all’inizio della epidemia quando, in attesa dell’ondata di piena che ci aspettavamo travolgesse anche il Lazio, stava maturando l’ipotesi che anche gli specializzandi di altre discipline potessero essere impiegati nei reparti Covid. La risposta, “Professore, può contare su di noi”, la dice lunga sul patrimonio di valori che dobbiamo preservare.

*Professore Ordinario di Ortopedia Università Sapienza, Direttore Unità Operativa di Ortopedia, AOU S. Andrea, Roma

Il Covid è avido: non facciamoci rubare i ricordi

Questo virus è avido: non gli basta vincere con i morti, gareggiare con i malati, invadere subdolamente i corpi degli asintomatici senza che loro ne sappiano niente, rubare l’ossigeno ai polmoni, umiliare i farmaci, giocare a guardia e ladri col vaccino. Non gli basta nemmeno lasciare immobili e spaventati tutti gli altri intorno: quelli che non l’hanno conosciuto personalmente ma l’hanno visto vincere con i morti, gareggiare con i malati, umiliare i farmaci e giocare a guardia e ladri col vaccino, e che vivono nella paura che da un momento all’altro arrivi a rubare l’ossigeno anche ai loro polmoni. No, Covid è talmente ingordo che vuole di più, vuole tutto quello che appartiene alle persone che sfida o che potrebbe decidere di sfidare: vuole i baci, gli abbracci, le carezze, le strette di mano, dalla voracità affettiva che ha sviluppato s’intuisce che il ragazzo ha avuto genitori anaffettivi. La crescita in un ambiente emotivamente represso gli ha anche fatto sviluppare tratti di perversione: basti pensare che le ammucchiate, assembramenti in gergo giuridico, sono il rapporto erotico che preferisce.

È ingordo di celebrazioni: si è preso tutti i matrimoni, i funerali, i compleanni, gli anniversari, persino la Pasqua si è preso. La coratella soffritta o l’agnello al forno sono stati gli unici atti d’insubordinazione che ci siamo concessi. Ha voluto le passeggiate, i film al cinema, le cene al ristorante, gli aperitivi nei tavolini all’aperto, i pigiama party, gli incontri clandestini degli amanti, tutte le adunate, quelle sediziose e quelle disciplinate, i concerti, i viaggi (il principale pro della vituperata globalizzazione), le lezioni in palestra, le corse al parco, le partite a briscola, persino le fantasie su dove andare quest’estate. L’idea è quella che dal 4 maggio cominceremo a riprenderci qualcuna delle cose che c’ha rubato. Non molte, solo qualcuna. Nella fase di convivenza, l’obiettivo sarà imparare a dividerci con Covid alcune cose, come due fratellini che giocano a turno con lo stesso giocattolo: le corse al parco ad esempio, o gli acquisti in libreria, un po’ a noi un po’ a lui. Come abbiamo fatto in queste settimane con la spesa, una delle poche cose che c’aveva lasciato. Con misura ed equilibrio, evitando scene del tipo “Mamma mamma, Covid mi ha finito tutti i caffè al bar”: una prova di maturità insomma. A proposito di prova di maturità, tra chi vuole tentare l’impresa della spartizione col virus, ci sono Chiara e Roberta, studentesse al quinto anno del liceo Luca d’Aosta di Padova, che hanno avanzato una richiesta ufficiale alla ministra dell’Istruzione: quella di riaprire gli istituti scolastici, solo alle classi quinte, per l’ultima settimana di giugno. Chiaramente con tutti gli strumenti di prevenzione possibili. Un compromesso insomma, per nulla ingordo e autoreferenziale: di fronte a una proposta così democratica persino Covid il tiranno potrebbe scendere a miti consigli. D’altronde ci sono cose che non si può permettere che ci vengano scippate senza nemmeno provare a difenderle, perché non esiste forza dell’ordine che possa ritrovare “l’ultimo giorno di scuola, l’ultimo abbraccio ai compagni, un saluto al ragazzo meno simpatico, l’ultimo caffè alle macchinette, l’ultima volta oltre quel vecchio portone, l’ultimo addio alla classe che per cinque anni ci ha accolti, l’ultimo grazie ai professori”.

Chiara e Roberta hanno capito che la parsimonia e la responsabilità sono le uniche armi con cui si può impedire al virus di soffiarci anche i nostri ricordi senza pagare dazio. E forse sono anche l’unico modo per evitare pericolose derive figlie dell’insofferenza, come il mercato nero degli abbracci o il contrabbando dei baci. D’altronde in tempo di guerra le reti di scambi clandestini sono l’inevitabile conseguenza della cattiva gestione pubblica: l’unico modo per evitarle è amministrare bene la trattativa Stato-Covid.

L’audace golpe dei soliti noti

Ho fatto il cronista politico per una vita, mai mi era capitato di assistere al linciaggio mediatico di un premier come quello a cui viene sottoposto Giuseppe Conte. Certo, con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi fu un bombardamento quotidiano (diedi il mio fattivo contributo all’Espresso, all’Unità e poi al Fatto); ma, a parte l’incallita frequentazione del presidente-padrone di aule di tribunale e cene eleganti, egli poteva disporre di una contraerea tv-giornali dalla potenza di fuoco micidiale, che Conte si sogna. Si potrebbe aggiungere che all’avvocato pugliese è toccata in sorte una mezza apocalisse; ma, come dice lo spiccio Sallusti, di fare il presidente del Consiglio non gliel’ha mica ordinato il medico. Personalmente, ringrazio ogni giorno il Padreterno che a guidare il Paese ci sia lui (e non, per dire, uno dei due agghiaccianti Matteo), ma sono anche disposto a considerare tutte le accuse che gli vengono rovesciate addosso: inetto, confusionario, vanesio, ridicolo, servo della Merkel, traditore della patria, dittatorello che fa strame della Costituzione, megalomane che conduce il Paese alla fame e alla rivolta sociale. Purtuttavia, questa specie di immane pericolo pubblico continua a godere di un vasto consenso, secondo tutti i sondaggi, circostanza indubbiamente né assolutoria, né permanente (anche Hitler e Mussolini furono popolari assai, direbbe Sallusti). Cortocircuito che però ci aiuta spiegare l’ostilità di cui sopra.

Politicamente, si sa, Giuseppi è un figlio di nessuno, spuntato fuori quasi per caso dal caos 5Stelle (tra milioni di cazzate, una cosa giusta ci può stare, è un fatto statistico). E dunque non è stato generato per partenogenesi dal sistema radicato e strutturato di clan, logge, camarille, conventicole, consorterie, combriccole, amici degli amici, aumm aumm che da sempre distribuiscono i pass per accedere ai piani superiori. Andiamo a intuito, ma sospettiamo che se il nostro si fosse mostrato un tantino più disponibile alle istanze di certe note eminenze professorali, editoriali, emerite e maneggione avrebbe sicuramente goduto di una migliore stampa. Purtroppo il palazzo non è più quello di una volta (come ci scrive Alessandra Savini, grande amica del Fatto).

2. Però le svolte autoritarie bisogna anche saperle fare e, se uno invoca il generale De Gaulle, non può pensare di trovarlo con un annuncio su Repubblica. Una volta lessi di uno stadio argentino che dimostrava come il boato seguito ai gol di un celebrato puntero facesse vibrare i sismografi. Lo stesso vale per i nostri cospiratori alle vongole, che pensano di produrre un terremoto politico strillando tutti insieme: cacciate Conte! Che poi non si capisce chi e come dovrebbe assumersene la responsabilità. Il Quirinale? Magari con un drappello di Corazzieri spedito ad arrestare il premier abusivo? La presidente della Consulta, Marta Cartabia? Che tuttavia, Costituzione alla mano non sembra aver trovato il giusto appiglio per procedere all’impeachment del pericoloso eversore (come richiesto da Renzi, noto garante di quella Carta che cercò invano di distruggere). Facile invocare Mario Draghi al potere, e che poi se la veda lui. Il consueto metodo delle barricate con il mobilio degli altri. E da quali immaginifici apporti dovrebbe scaturire la vagheggiata unità nazionale della ricostruzione? Nicola Zingaretti più Renzi, più Gianni Letta, Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia, leggiamo nei retroscena più fichi. Con Salvini e Giorgia Meloni ad applaudire. E i 5Stelle affanculo. Ci sarebbe da ridere se la cacofonia non agisse da detonatore per reazioni più serie. Delusi dal Papa che non segue i vescovi sulla imprudente riapertura delle chiese. Con i mercati che non danno retta al declassamento Fitch e non ci affondano come da alcuni patrioti ardentemente sperato. Con la Germania e la Francia costrette a imitarci sulla via della cautela e della gradualità, gli sfasciacarrozze dell’apocalisse (annidati negli show de profundis di Giletti, Porro, Giordano e Del Debbio) hanno costantemente l’orecchio poggiato sul selciato in attesa che da qualche luogo giungano finalmente i rumori dell’insurrezione e della rivolta. Intanto, dall’alto di contratti giornalistici e televisivi non disprezzabili, versano calde lacrime sul “Paese allo stremo”.

3. Che la gente non ce la faccia più, chi fa uso strumentale del disagio è il meno indicato a dirlo, ma è la verità: la gente non ce la fa più e ha paura del futuro. Non è questa la sede per un esame del “Cura Italia” e della necessità di provvedere quanto prima al salvataggio degli esercizi commerciali e delle piccole e piccolissime imprese attraverso forme efficaci di finanziamenti e sussidi da erogare nella forma più diretta e immediata. Perché a minacciare il governo Conte più che le grida renziane, e dei soliti mestatori prêt-à-porter sono due categorie: la pubblica amministrazione e le banche. Riguardo alla prima, bene illustrata nelle sue eccellenze da Marco Travaglio, non sappiamo quanto si possa evitare che il percettore di un aiuto da parte dello Stato finisca per perdersi nella selva oscura e mai disboscata di leggi e codicilli. Quanto al sistema bancario (già tristemente noto ai risparmiatori di Etruria, banche venete e Popolare di Bari) temiamo che l’“atto d’amore” chiesto da Conte per sveltire pratiche e procedure non sia sufficiente. Quando poi lo vediamo incarnato nella figura non proprio amorevole di Antonio Patuelli, che era già presidente dell’Abi quando andavamo alle elementari, proviamo un sincero rimpianto per il generale De Gaulle.

Il tirchio Lenin ha registrato i brani di Morgan

Riassunto delle puntate precedenti: il gruppo Bilderberg vuole rilanciare il comunismo sovietico per sostituire il defunto neo-liberismo, tanto non cambia niente. La Scuola Holden s’aggiudica la commessa per un nuovo storytelling che attragga le masse al leninismo come una serie di Netflix, e racconti Lenin per quello che era realmente: un redneck omosessuale poligamo del Volga con un mullet ossigenato e la fissa per le tigri. La trama di “Lenin Exotic – Murder, Mayhem and Madness” – questo il titolo completo – è inestricabile fino all’inverosimile, un flusso indomabile di assurdità, animali esotici, droga, assassini, vendette, sette e campagne politiche fondate sul nulla. Non mancano le armi, e l’idea, data per scontata dai protagonisti, tutti rivoluzionari comunisti, di farsi giustizia da sé, cosa che li aliena in modo totale da qualsiasi concezione di Stato borghese e di regole condivise. Domina anche il loro legame morboso con i soldi, il guadagno a tutti i costi, l’avidità spacciata per lotta contro i nemici del proletariato, di cui si fanno paladini pur non avendo mai messo piede in una fabbrica. Uno dei personaggi più loschi della docuserie è sicuramente l’imprenditore Pierre Lafargue, dirigente del Partito Operaio Francese, nonché genero di Karl Marx, che negli episodi finali ammette di avere incastrato Exotic per prendere possesso della III Internazionale, di cui è effettivamente diventato proprietario.

Le autorità non hanno mai spiegato la decisione di non incriminarlo per i suoi guai con la giustizia (fu persino citato in giudizio da Prince, che lo accusò di avergli venduto del falsetto contraffatto): Lafargue, che nella serie viene sempre mostrato con una scimmietta al collo, è al centro di quattro processi a Parigi, dove è accusato di fare propaganda rivoluzionaria senza licenza. Altre polemiche virali: Lenin si vanta di aver registrato diversi dischi ma, nonostante abbia girato moltissimi videoclip, la webzine musicale “L’orecchio di Van Gogh” ha scoperto che le canzoni uscite a suo nome sono state composte e registrate dal cantante Morgan: Lenin si limitava ad assegnargli un tema e, nel giro di un paio di Plegine, Morgan produceva un nuovo motivetto. Il suo ex-produttore, György Lukács, racconta: “Una volta che era un po’ fatto e ubriaco, convincemmo Morgan a cantarci un pezzo di una sua canzone. Non riusciva a tenere nemmeno una nota. Fu imbarazzante”. Una delle sottotrame più bizzarre di “Lenin Exotic” riguarda la milionaria e attivista animalista Rosa Luxemburg, accusata di avere ucciso l’ex-marito Leo Jogiches, per ottenerne l’eredità e aprire un bioparco con animali esotici a Pigalle. Uno degli autori del documentario ha spiegato al Riformista di avere una teoria sulla sparizione di Jogiches, ma che non intende sbottonarsi finché Sansonetti avrà come editore Romeo e vicedirettrice la Bergamini. (Il nostro Marco Lillo, dopo un tampone faringeo non omologato, si è convinto che Rosa abbia dato Leo in pasto alle tigri). Non mancano assurdi personaggi minori, come Heinz Felfe, un allevatore di animali esotici sudamericano, privo di dita, che contrabbandava cocaina infilandola nel culo dei pitoni.

(3. Continua)

Il mondo è morto, non può risuscitare

A un certo puntoci ho sperato/ che avremmo fatto buon uso/ della nostra sventura:/ poi il mondo si è fatto di colpo piccolissimo,/ ognuno si è rinchiuso dentro la sua smania./ E così ho il cuore da giorni aggrovigliato,/ non vedo e non credo più a niente/ che non sia furore, penso al grido/ di Ciccio Ingrassia sull’albero di Amarcord:/ voglio una donna./ Ma ora qui neanche quello,/ lamentele seriali sul governo/ o sul mondo, piccole parole segnaposto/ per dire che ci sono anch’io,/ come se non sapessimo/ che neppure la nostra morte/ ormai può emozionare qualcuno./ Il mondo è morto e il virus/ non poteva resuscitarlo./ Bello però che oggi il cielo/ cambia aspetto ogni minuto,/ tra un respiro e un altro/ spunta una foglia./ Insomma, fuori dell’umano/ c’è vita e il vento non soffia/ più per noi, la natura ci ha già messo/ da parte, nessuno di noi sa tessere la trama che sa fare/ un ragno./ I morti che non abbiamo pianto/ non torneranno.

Matteo e i discorsi della lavastoviglie

La versione italiana dei “discorsi del caminetto” di Roosevelt sono i discorsi della lavastoviglie di Salvini. È con questo format che il capo delle opposizioni si presenta al suo pubblico: si collega in video sui social network verso l’una di notte vestito sostanzialmente in pigiama – canottiere o magliettacce da battaglia, pantaloncini corti da basket – lo sguardo emaciato sotto gli occhiali nuovi; il profilo pingue, stanco e cadente. Mostra la sua lavastoviglie piena di piatti sporchi e disordine; la cucina sporca, gli avanzi della cena sparpagliati sugli scaffali (ali di pollo fritte, pizza, ma una sera c’era pure un Buondì Motta). Gioca con gli ascoltatori sul fatto che in un’altra stanza c’è “Francesca”, la sua fidanzata, miss Verdini. Ma pare proprio triste. Salvini non somiglia più solo all’uomo qualunque, all’ italiano medio: sembra un cittadino qualunque ma depresso. La sua vita quotidiana in quarantena pare di una mestizia inconsolabile. Chissà se anche quest’ultima versione crepuscolare dell’ex ministro – un tempo invincibile capitano dei destini della Lega – è stata disegnata a tavolino dal presunto genio di Luca Morisi. Magari ha ragione lui: forse a certi italiani piace. Agli altri però comincia a fare tenerezza.

Separare nonni e nipoti

Si è parlato di Fase 2 per gli adulti, della possibilità di muoversi per far visita ai congiunti, ai fidanzati e alle fidanzate (a debita distanza!), ma poco si parla dei bambini. Pare che possano andare nei parchi a maggio e forse nei centri estivi a giugno, mantenendo però il distanziamento sociale.
Ci viene difficile pensare che anche i più piccoli stiano attenti a rispettare fra loro il metro di separazione. Quali giochi potranno fare? Come spiegare, senza provocare problemi psicologici, che sarebbe pericoloso stare vicino al compagnetto del cuore, abbracciarlo, baciarlo? Eppure è necessario non trasformare i loro momenti felici in una fabbrica di nuove infezioni. Quando in una scolaresca arriva un virus, nel giro di pochi giorni si diffonde senza risparmiare nessuno. Il Sars CoV2 può infettare i bambini, anche se fortunatamente si registrano solo sporadici casi gravi. Tornati da scuola o dai parchi, i bambini con chi avranno contatto? Il 1° ottobre 2019 l’Istat calcolava che l’80% dei nonni si prende cura dei nipoti e il 31% lo fa quotidianamente. L’86% dei bambini fino ai 13 anni è affidato alle loro cure. Secondo un recente sondaggio, la presenza dei nonni diventa determinante persino nella decisione di avere più figli. Nella nostra società il legame nonno-nipoti è molto saldo e difficilmente mutabile. Come in Spagna e in Francia. Se questo dato mette in luce un importante aspetto affettivo di cui la nostra società ancora può vantarsi, non possiamo ignorare che proprio in questo momento potrebbe rivelarsi un vero pericolo per la sanità pubblica. I nonni devono stare separati ancora per un po’ dai loro nipoti. Il rischio è che, per troppo amore, potremmo perderli.

Allarme magistrati: “Codice rosso per mafia e usura”

Tracciabilità dei flussi finanziari, potenziare i controlli e creare una sorta di “codice rosso” per le segnalazioni di operazioni sospette. Sono alcune delle proposte dei procuratori italiani ascoltati ieri nelle Commissioni riunite Finanze e Attività produttive, nell’ambito del decreto sulle garanzie pubbliche per la liquidità delle imprese. Parliamo di prestiti fino a 300 miliardi che possono usufrire della garanzia dello Stato.

Per il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, c’è il rischio usura per le aziende in difficoltà, e quindi “è essenziale applicare la norma sulla tracciabilità dei flussi finanziari”. “Nel decreto liquidità – ha spiegato – va previsto che tutti i movimenti devono essere registrati su conti correnti dedicati e devono essere effettuati tramite bonifico per consentire la piena tracciabilità e individuare l’accaparramento di finanziamenti pubblici da parte della criminalità”. Per De Raho quindi “vanno potenziati monitoraggio e controllo delle segnalazioni su operazioni sospette. Prefetture e Dna potrebbero gestire le informazioni prodotte con autocertificazione dalle aziende”, e inoltre “bisogna puntare sulla normativa antiriciclaggio”.

La ricetta del procuratore capo di Milano Francesco Greco invece riguarda la necessità di “assicurare al finanziamento garantito dallo Stato la massima tempestività e immediatezza perché ogni ritardo pregiudica l’effetto sperato”. L’altro principio che deve guidare la normativa deve essere, secondo Greco, la “massima tutela dell’intermediario finanziario”, in tal senso “la massima sicurezza” sarebbe garantita da due condizioni: “prevedere una seria autocertificazione che riguarda i requisiti patrimoniali, fiscali e reputazionali del soggetto che chiede il finanziamento” e dall’altro “prevedere dei conti dedicati per poter tracciare il denaro”; conti dedicati che riguarderebbero i finanziamenti “superiori ai 25mila euro”, perché “anche un controllo dello stato successivo non può disperdersi in mille rivoli”.

Per Greco, però, bisogna anche “modificare leggermente le fattispecie, aumentare le pene, lasciare sotto il profilo meramente amministrativo, quindi togliere via dal penale, i finanziamenti fino a 25mila euro”.

In commissione ieri è stato sentito anche il procuratore capo di Napoli, Giovanni Melillo. Ecco la sua proposta: “Il Parlamento, come ha fatto per i reati di violenza domestica e di genere, può valutare una sorta di ‘codice rosso’ per le segnalazioni di operazioni sospette, per assegnare priorità assoluta alla trattazione sia delle indagini che dei processi relativi ai più gravi abusi collegati alla dispersione di queste risorse”. Per il procuratore capo di Napoli “occorre monitorare le attività commerciali esistenti sul territorio proprio per intercettare gli eventuali interessamenti anche indiretti, ad esempio alla vendita delle società o alla cessione di quote dei pacchetti azionari delle società che esercitano queste imprese”.

Proprio ieri il ministero dell’interno ha avvertito: “Nella Fase due l’intero circuito produttivo e commerciale è a rischio infiltrazione delle organizzazioni mafiose”.

È il ‘decreto Maggio’. Ma si va a giugno sui soldi ai disperati

Doveva essere il “decreto aprile”. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri lo aveva annunciato già a metà marzo, presentando il primo dl da 25 miliardi. E invece il nuovo provvedimento economico – 55 miliardi di deficit (155 di stanziamento effettivo) – arriverà a maggio. Niente Consiglio dei ministri oggi, si andrà – se va bene – alla prossima settimana. Il tentativo disperato dei piani alti del ministero di approvare un testo in bianco (“salvo intese”) per evitare la figuraccia è naufragato. Un testo che vale tre manovre finanziarie non può essere gestito così.

Il problema, immagine a parte, è che anche le misure di sostegno slittano. In buona parte, parliamo di un rifinanziamento di misure già in essere, ma non solo. L’aspetto più delicato riguarda il cosiddetto “Reddito di emergenza”, un sussidio destinato a tutti quelli lasciati fuori dalle altre forme di aiuto messe in campo a marzo: lavoratori in nero, atipici o precari, disoccupati con i sussidi scaduti e via discorrendo. Una platea stimata in circa 3 milioni di persone, senza considerare colf e badanti (800 mila). Problema: le norme ancora non ci sono, ieri in serata era previsto il loro approdo al Tesoro dal ministero del Lavoro guidato da Nunzia Catalfo, titolare della materia, ma il lavoro richiederà altri giorni. Sul meccanismo le idee non sono unanimi. Il sostegno ipotizzato è di 500 euro al mese per due mesi (aprile e maggio, marzo non è più considerato) con possibilità di aumentare in base ai figli a carico. La platea stimata è di 1 milione di nuclei familiari, circa 2,5 milioni di persone. Per coprirla servono poco meno di 2 miliardi, Catalfo ne aveva annunciati 3 un mese fa: al Tesoro al momento la cifra destinata è di un miliardo. Non è l’unico problema. L’ipotesi di usare un’autocertificazione per i nuclei beneficiari, in modo da bruciare i tempi non è stata sposata dalla ministra. L’idea è invece di usare l’Isee, l’indicatore della situazione economica, anche se nella versione “corrente”, riferito cioè agli ultimi 12 mesi, perché considerato più affidabile, scelta che però allungherà i tempi. I tecnici del Tesoro stimano che, anche nella versione semplificata, servirà almeno un mese per effettuare i pagamenti (se ne occuperà l’Inps) e così si arriverà a giugno inoltrato. Giova ripeterlo: parliamo di milioni di persone escluse da qualsiasi altra misura, anche se, nella pratica, a chi invece è “coperto” fin da marzo non è che sia andata tanto meglio: a oggi, sul lato lavoro, sono arrivati i versamenti della sola indennità di 600 euro per autonomi e stagionali (e per i professionisti iscritti alle casse previdenziali, dove però i fondi sono esauriti). La Cassa integrazione, in gran parte, dev’essere ancora versata.

Il rifinanziamento del pacchetto lavoro, studiato al Tesoro dai viceministri Laura Castelli (M5S) e Antonio Misiani (Pd), vale 24 miliardi: 13 miliardi per Cig e cassa in deroga per altri due mesi; 7 l’indennità da 600 euro, che diventeranno 800, per gli autonomi (si ipotizza un tetto di reddito per la terza mensilità, la seconda dovrebbe arrivare in automatico in 24 ore); un miliardo per la Naspi, l’assegno di disoccupazione; un altro per colf e badanti (si parla di 400 euro); mezzo miliardo per rinnovare il bonus baby sitter e i congedi parentali.

Il pacchetto fiscale va invece dalla sospensione dei pignoramenti a quella per altri tre mesi degli atti di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, dall’aumento dei limiti alle compensazioni dei crediti fiscali (fino a un milione) alla sospensione per il 2020 di quelli tra crediti fiscali e cartelle. Ai Comuni andranno 3,5 miliardi per i mancati incassi.

Ci sarà poi un pacchetto imprese: 50 miliardi a Cassa Depositi e Prestiti per entrare nelle imprese in crisi; 5 miliardi per ricapitalizzare le Pmi; ristori a fondo perduto da 5.000 euro per le microimprese.