Siamo finiti in gabbia insieme all’orso M49

Giusto o sbagliato catturare l’orso M49 Papillon? Dipende dai punti di vista, proviamo a metterci da quello dell’orso: ha sempre meno spazi, turismo, strade, piste da sci e infrastrutture invadono il territorio alpino, quindi o si estingue o si adatta e si fa avanti negli abitati.

Vero che è un orso più audace dei suoi compari più “orsi” – anche tra di loro ci sono caratteri diversi – ma non ha mai fatto male agli umani. Se dovessimo agire con lo stesso criterio di arresto preventivo nella nostra società, dovremmo incarcerare milioni di persone solo perché ritenute troppo aggressive, basta guardare i commenti su qualsiasi forum virtuale. Il danno presunto di Papillon non è per nulla proporzionale al danno che facciamo noi agli habitat naturali. Proprio ieri l’IPBES, il comitato intergovernativo sulla biodiversità, ha ospitato una dura presa di posizione di quattro suoi autorevoli membri che ricordano come la comparsa di nuovi virus sia da imputarsi al comportamento umano, una minaccia alla stabilità del clima e della biosfera causata dal “nostro sistema economico e finanziario, basato su un paradigma di corte vedute che premia la crescita economica ad ogni costo”.

Pandemie come quella dell’attuale coronavirus emergono dal disturbo che l’uomo procura alla fauna selvatica e agli animali d’allevamento, serbatoi naturali di microorganismi che possono diventare patogeni anche per noi. La deforestazione, l’espansione di agricoltura e attività minerarie, il commercio di animali selvatici, creano la tempesta perfetta per il salto di specie dei microrganismi verso le persone che invadono habitat naturali ormai compromessi su più di tre quarti della superficie terrestre.

Siamo dunque noi che stiamo invadendo lo spazio di Papillon, e non il contrario. Abbiamo ora una piccola finestra di opportunità nel riprogettare il mondo post-Covid, per evitare crisi ancora peggiori in futuro. Maggior protezione ambientale, meno agricoltura intensiva, meno viaggi aerei, meno energia fossile, più investimenti in sanità (pure dell’ambiente con cui siamo connessi), e, più importante di tutto – prosegue il comunicato IPBES – un nuovo paradigma economico fondato su una profonda responsabilità ambientale contro gli interessi del mondo business-as-usual che si oppongono a questa transizione. Per quanto ci sembri costoso oggi, sarà nulla di fronte alle perdite irreversibili del domani. È la natura che stabilisce il nostro rating, non l’agenzia Fitch, chiaro?

Non smetto di sognare le polpette della nonna

In questo periodo di reclusione forzata ci state raccontando le vostre giornate, tra nuove abitudini, prove di resistenza e sforzi di fantasia. Vi ringraziamo: le vostre parole sono la conferma che il Fatto non è solo un giornale, ma una comunità viva. Oltre a scriverci della vostra quarantena, vi facciamo un’altra proposta: raccontateci cosa farete dopo. Cosa vi manca di più, quali sono i primi desideri che esaudirete nella “fase 2”, o quando ritroveremo uno straccio di “normalità”. Vi aspettiamo sempre all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it.

 

A proposito dei nuovi vocaboli della pandemia

Buongiorno! Verbo “TAMPONARE” usato, soprattutto nel modo indicativo, tempo passato prossimo, dal nostro governatore Zaia, per esprimere “sbrigativamente” l’operazione di eseguire tamponi ai cittadini veneti, nell’ambito di controllo pandemia. Non mi piace e preferirei rimanesse confinato nel vocabolario automobilistico… Cordiali saluti da una fedele lettrice dalla provincia di Treviso.

Roberta

 

Il dolce ricordo dei profumi dell’infanzia

Quando penso al buon senso mi viene sempre in mente mia nonna e in questi giorni ancora di più visto il numero dei decessi tra gli anziani. Ancora oggi, quando devo prendere una decisione importante, mi domando cosa mi consiglierebbe lei. Quello stesso buon senso forse portava mia nonna a non sanzionarmi se trafugavo dal forno i carciofi fritti nella pastella o le pettole col ripieno di baccalà poco prima di pranzo. Non è questione di intelligenza o di cultura, quanto della capacità di avere la misura per tutto, di perseguire il giusto, non quello legale, ma umano. Penso che questo virus abbia portato via, oltre che un patrimonio di affetti e di memoria, anche uno di conoscenza culinaria. Quella conoscenza che forse predilige la sostanza più che gli impiattamenti raffinati, perché il cibo all’epoca (quando c’era) doveva nutrire il corpo per davvero, prima che gli occhi. Forse è quella la generazione che ha inventato il q.b. che si trova nelle ricette e che si appella a quello stesso buon senso di chi ha imparato a saper dosare tutto nella vita ed è quindi capace di farlo anche in cucina. Ricordo tanti sabato sera a preparare la mia microfocaccia con una pallina di impasto staccata dal suo e a gioire nel vederlo lievitare nel forno…

La domenica mattina di ritorno dalla messa sentivo già per le scale il profumo delle polpette fritte… Ho ancora il suo quaderno di ricette, tutte ahimé piene di quei q.b., che saprò decifrare solo a forza di tentativi. Quando aveva 88 anni l’accompagnai a braccetto a votare… fu la sua ultima volta. Il suo passaporto era scaduto, mia nonna sorrise e rispose che per il suo prossimo viaggio non le sarebbe servito. Ringrazio quella Commissione per aver accolto e ricambiato quel sorriso, consegnandole la scheda elettorale e consentendole di esprimere il suo voto. Non so quale sia stato ma sono certa che era giusto, quanto basta.

Cesira di Noi

 

Gli spazi domestici assegnati per decreto

Per le parole entrate nel lessico familiare, segnalo Dipiciemme (Dpcm): cioè l’insieme di regole che disciplinano l’uso degli spazi comuni per decreto domestico. Un caro saluto.

Salvatore Gensabella

La giravolta di Sorbillo: pizze a domicilio ora sì

Chissà se quando si guarda allo specchio Gino Sorbillo, professione pizzaiolo a Napoli ed esportatore del suo brand di successo in mezzo mondo, riesce a essere d’accordo con se stesso. O fa in tempo a cambiare idea tra il lavarsi e la rasatura. Le sue fulminee giravolte durante l’emergenza coronavirus sono state un caso da scuola. E se non fosse per la tragedia che stiamo vivendo – non solo le pizzerie napoletane, che comunque soffrono tantissimo per essere state completamente chiuse per un divieto ad hoc del governatore Vincenzo De Luca, e che meriterebbero un portabandiera più coerente e credibile di Sorbillo – andrebbero derubricate a farsa. La sua. Amplificata dai tanti media che gli hanno offerto un microfono, soddisfacendone la sete narcisistica di visibilità senza la quale Gino Sorbillo non sarebbe Gino Sorbillo.

L’ultima giravolta è ancora fresca come la pasta delle sue margherite. Sorbillo ha deciso di riaprire e di consegnare le pizze a domicilio a Napoli. Pochi giorni fa aveva invece augurato “buon lavoro a tutti coloro che ricominceranno a lavorare con il delivery del cibo in Campania dal 27 aprile, noi per ora non lo effettueremo, non riapriremo, ci confronteremo per valutare le altre problematiche…”.

Eravamo saltati sulla sedia. Ma come? Era lo stesso Sorbillo che un giorno sì e l’altro pure aveva fatto il giro di tv e giornali per criticare le sceriffate di De Luca, implorare “a nome di tutta la categoria” la ripartenza del delivery “perché una macchina è sempre meglio tenerla in moto con un filo di gas che fermarla del tutto”, e concludere che per colpa del governatore “sarò costretto a chiudere quattro delle mie pizzerie”?

Abbiamo verificato, nel timore di esserci imbattuti in uno dei parenti pizzaioli di Sorbillo. Non era un’omonimia. Era proprio Gino Sorbillo. Che si era fatto quattro conti e aveva concluso che la macchina era meglio tenerla in garage.

Comprensibile. Sorbillo non aveva mai fatto delivery a Napoli, non ne valeva la pena, circondato da una rete diffusissima di pizzerie forse meno brave di lui ma in grado di sfornare comunque ottime pizze coprendo il territorio palmo a palmo. Ma sui social gli hanno fatto notare che riaprire sarebbe stato un messaggio di speranza. Che uno ricco e famoso come lui che annunciava la chiusura di quattro locali alla prima emergenza, non era un bell’esempio per il piccolo pizzaiolo di quartiere che a stento sopravvive. E che forse le chiusure avevano altri motivi, che lo stesso Sorbillo si era fatto sfuggire: “Coronavirus a parte alcuni locali giravano meno bene, alcuni avevano spese di gestione troppo alte, sto rivedendo i bilanci…”.

E ora Sorbillo cambia idea di nuovo. Riapre. Ma solo dopo aver appreso che a Napoli lunedì hanno ordinato ben 60.000 pizze. Consegnate in grandissima parte grazie a piccoli pizzaioli che senza avere i mezzi di Sorbillo si sono assunti un rischio di impresa enorme per soddisfare la voglia del popolo napoletano orfano da due mesi del loro cibo simbolo. Ai quali ora Sorbillo dovrebbe dire grazie. E scusarsi per averli lasciati soli.

Bassetti, medico amato dalla tv adesso fa il modello di vestiti

L’infettivologo star. Testimonial. Eccolo intervenire alla tv. Poi il suo nome salta fuori nel certificato di una ditta di sanificazione. Infine, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, compare con il camice bianco in mezzo a foto di modelli che indossano vestiti di un negozio di abbigliamento. Matteo Bassetti è uno dei maggiori esperti italiani di malattie infettive: cattedra all’Università di Genova, decine di pubblicazioni. Ma fino a pochi mesi fa era conosciuto solo tra gli addetti ai lavori.

Poi è arrivato il virus e la situazione, ammette lui stesso, forse è scappata un po’ di mano: “La notorietà è complessa. Se arriva all’improvviso e non sei abituato, commetti errori… ti capitano piccole cadute”. Già, con il virus gli infettivologi ormai sono diventati più famosi di Fiorello. Anche Bassetti, 50 anni, primario dell’ospedale di San Martino (il più grande della Liguria e uno dei maggiori d’Italia). Figlio d’arte; suo padre Dante, anche lui professore a Genova, era tra i più noti studiosi di malattie infettive. Da febbraio Bassetti compare in tv per cercare di orientare gli italiani nella confusione e nel panico del Covid-19. Ma nei giorni scorsi a Genova cominciano a circolare la fotografie di un attestato esposto in un albergo della città: “Certificato di sanificazione, rilasciato in base alle direttive del professor Matteo Bassetti”, scrive la ditta responsabile. Detto, fatto, in un attimo qualcuno lo vede e lo diffonde online. “Cosa c’entra un professore universitario con la sanificazione di un albergo?”, si chiede qualcuno. “Era l’hotel di mia moglie”, spiega Bassetti. Il guaio arriva dopo, quando un cronista di Repubblica gli chiede spiegazioni: “Inopportuno? Ma perché mai, ho la mia popolarità e ne faccio quello che voglio. Lo fanno i calciatori con le pizzerie, lo posso fare io che sono professore universitario”. Disastro. Non è finita: ieri sulla bacheca Facebook di un noto negozio di abbigliamento – Ghiglino 1893 – qualcuno, in mezzo a foto di modelli che indossano giacche e pantaloni, nota il volto di Bassetti. Sotto il camice sfoggia una cravatta di Ghiglino con tanto di sigla M.B.. Le foto fanno il giro della città. Fioccano commenti impietosi: “Che pena”, “Ma è il caso?”, “Ora fa pure il testimonial delle cravatte…”. Il caso finisce in una lettera al rettore e al preside di Medicina: “Le dichiarazioni di Bassetti ci sembrano sconcertanti”, scrivono il consigliere regionale Gianni Pastorino e il gruppo di Sinistra Italiana. Bassetti, però, giura: “Non ne sapevo niente, non ho visto le foto. Quel negozio ha fatto una donazione al nostro ospedale. Ci avevano fatto fare una foto con la cravatta. Credevo che sarebbe stata utilizzata per scopi benefici”.

Poi, dopo aver visto Facebook, sospira: “Eh sì… messa così non si capisce. Non va bene. Chiederò che sia chiarito (infatti in serata sul sito compare la spiegazione sollecitata dal professore, ndr)”. Bassetti prepara una discesa in politica, come qualcuno già sussurrava? “Macché, non ci penso nemmeno. Faccio la professione che ho sempre sognato: mi occupo di infettivologia nella città dove sono nato. Cosa potrei chiedere di più alla vita? Non sogno altro che tornare al mio lavoro, stringere la mano ai malati senza scafandro e guanti. Non avrei mai pensato che Genova fosse così… come sono venuto posso andare via… siamo come i calciatori (di nuovo quel paragone, ndr) perché adesso ahimé abbiamo tanto mercato. Io me lo sono sudato, andate a vedere il mio curriculum. Ma c’è chi mi vuole male”. Poi, però, ci pensa e abbassa i toni rispetto alla prima uscita: “La fama è difficile da gestire. Viste le conseguenze, non mi comporterei più così. Il mio lavoro è curare la gente, questo ho imparato a fare”. Come va in corsia? “È stata dura. Siamo stati costretti a navigare a vista: dovevamo affrontare un virus che non conoscevamo senza sapere quali farmaci funzionassero. Ma adesso abbiamo già imparato parecchie cose. La mortalità è calata. E forse anche il virus si è indebolito”.

Ecco come la Cina ha fermato il virus

Una ricerca scientifica appena apparsa sulla rivista internazionale Science stima per la prima volta la reale efficacia delle principali misure di distanziamento sociale adottate per contrastare l’epidemia di Sars-Cov2. Un modello di diffusione epidemica sviluppato da ricercatori italiani e cinesi e basato sui dati raccolti a Wuhan, Shanghai e nella regione di Hunan, in Cina, mostra come il solo distanziamento sociale a seguito dei lockdown abbia ridotto il parametro R0 – quello che indica il numero di persone che un singolo individuo positivo al virus può infettare – da 3,5 a meno di 1. Il che significa che un rigoroso distanziamento sociale, da solo, è di per sé sufficiente a interrompere la diffusione del virus. La chiusura delle scuole, invece, mostra di aver contribuito ad arginare il tasso di trasmissione della malattia in modo significativo – riducendo il numero complessivo di casi e l’onere per il sistema sanitario del Paese – ma da sola non sarebbe bastata a riportare R0 sotto 1, cioé a fermare l’epidemia.

Lo studio mostra anche come la probabilità di infettarsi dipenda effettivamente dall’età: i bambini sotto i 15 anni sono risultati i meno suscettibili al virus, mentre quelli che lo contraggono di più sono le persone sopra i 64 anni. È evidente che “l’epidemia a Wuhan e nel resto della Cina si è attenuata dopo l’attuazione di rigorose misure di contenimento e di restrizioni al trasferimento”, spiegano gli autori, tra i quali i fisici Alessandro Vespignani della Northeastern University, Boston (Usa) e Fondazione Isi di Torino, e Marco Ajelli della Fondazione Bruno Kessler di Trento. “Restavano però interrogativi fondamentali sul profilo di età della suscettibilità all’infezione, sul modo in cui la distanza sociale modifica i modelli di contatto specifici per età e su come questi fattori si combinano per influenzare la trasmissione del virus”, si legge. Domande rilevanti per la scelta delle politiche di controllo da parte dei governi, finora implementate senza disporre di una misura scientifica della loro reale efficacia. Lo studio ha cercato di porre rimedio a questa carenza con una tecnica che ha permesso di stimare l’impatto che ha avuto il solo distanziamento sociale da un lato, la chiusura delle scuole dall’altro, e valutandone l’efficacia in base all’età e quindi alla probabilità di infettarsi.

Lo studio mostra che a Wuhan e a Shangai, il distanziamento sociale messo in atto ha ridotto i contatti giornalieri di ogni singolo individuo da 18 persone al giorno, a 2, e solo all’interno del proprio nucleo familiare. I ricercatori hanno raccolto i dati nel bel mezzo dell’epidemia di Wuhan e Shangai, tra il 1° e il 10 febbraio, grazie a questionari anonimi che chiedevano informazioni sul numero di contatti avuto durante il giorno prima e dopo i lockdown, per un campione di 1.200 partecipanti e un totale di 2.500 contatti analizzati. Successivamente, per stimare la suscettibilità al virus in base all’età, hanno analizzato i dati del tracciamento dei contatti dei pazienti positivi raccolti dal Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) della provincia di Hunan, in Cina. Sulla base di questi dati empirici, i ricercatori hanno sviluppato un modello matematico di trasmissione della malattia che ha evidenziato e misurato come la trasmissione del virus sia influenzata sia dalle differenze di età che incidono sulla capacità biologica dell’organismo umano di contrarre il virus, sia dalle misure di distanziamento sociale. “Nel caso in cui l’epidemia fosse stata incontrollata (senza misure di distanziamento, restrizioni di viaggio, o se lasciata al comportamento del singolo individuo), con un parametro R0 tra 2-3 come nella regione di Wuhan, stimiamo che il tasso medio di contagio della popolazione sarebbe oscillato tra il 53%-92% dopo un anno di circolazione del SARS-CoV-2”, spiegano gli autori nello studio.

I risultati non sono però sovrapponibili tout court ad ogni nazione, proprio per variazioni nella composizione della popolazione di ogni singola area geografica per fasce d’età. Rispetto alla valutazione della chiusura delle scuole, ad esempio, gli individui tra i 5 e i 19 anni rappresentano il 9,5% della popolazione di Shanghai, da cui il campione analizzato proviene. Una percentuale inferiore sia alla media di tutta la Cina – che è del 16,9% – ma anche di nazioni occidentali, come gli Usa, dove la fascia tra 5-19 anni di età rappresenta il 19,7% della popolazione.

Cirio fa assessore il camerata del Donbass

Dopo aver convocato la giunta regionale il 25 aprile, come se non fosse la Festa della Liberazione, il governatore del Piemonte Alberto Cirio ha assegnato a Maurizio Marrone, classe 1982, capogruppo di Fratelli d’Italia, la carica di assessore lasciata vacante dopo l’arresto l’anno scorso di Roberto Rosso. “La sua competenza e la lunga esperienza di amministratore, nonostante la giovane età, saranno preziose per il difficile lavoro che stiamo portando avanti”, ha spiegato il governatore. Del resto Marrone, nonostante la giovane età, come sottolinea Cirio, è persona molto inserita nella società piemontese, e oltre, fin da quando era ragazzo essendo stato il padre, Virgilio, a lungo grand commis della famiglia Agnelli come direttore di Ifil Exor.

Cirio ha conferito per decreto a Marrone numerose deleghe di peso, non solo per quanto riguarda l’agenda politica domestica: Rapporti con il Consiglio regionale, delegificazione e semplificazione dei percorsi amministrativi, affari legali, post olimpico, emigrazione e cooperazione internazionale. Ma sono soprattutto le ultime due ad aver provocato le proteste di alcune organizzazioni per i diritti umani e dell’opposizione.

Marrone, da quando, nel 2014, i separatisti filo Putin del ricco Donbass ucraino hanno lanciato una guerra ibrida finanziata dal Cremlino per rompere con Kiev, ha coltivato rapporti e incontrato in loco alcuni esponenti e mercenari delle autoproclamate repubbliche autonome di Donestsk e Luhask (le regioni omonime costituiscono il Donbass) tra i quali figura anche il latitante neo nazista Andrea Palmeri e alcuni sostenitori della Lega e dell’estrema destra italiana.

Nel 2017 le telecamere della trasmissione Nemo lo ripresero mentre cenava assieme a Palmeri e altri uomini del fronte nero internazionale in un ristorante di Luhansk. Tornato in Italia, Marrone divenne presidente del “Centro di rappresentanza in Italia della Repubblica Popolare di Donetsk”, rimasta l’unica sedicente ambasciata dei separatisti in Europa dopo la chiusura per manifesta illegalitá e propaganda filorussa di quella aperta nella repubblica Ceca. Nel giugno 2017, quando Marrone incontrò personalmente Palmeri, il fondatore degli ultras di estrema destra della Lucchese (in seguito sciolti) era già ricercato dalla magistratura italiana per aver violato l’obbligo di firma in Italia. In seguito fu condannato dalla magistratura di Lucca con sentenza definitiva a 2 anni e 8 mesi per aver accecato nel 2013 con un tirapugni un giovane dei centri sociali e per spedizioni punitive contro gruppi antifascisti. Palmeri – un tempo sposato con una cittadina di Luhansk – è inoltre ricercato dalla magistratura di Genova per il reclutamento di mercenari italiani per combattere nel Donbass a fianco dei separatisti.

La nomina di Marrone è stata subito contestata dai consiglieri regionali del Pd Domenico Rossi e Diego Sarno che hanno chiesto soprattutto la revoca della delega alla Cooperazione internazionale “perchè in evidente contrasto con le scelte di politica estera dell’Italia e dell’Unione europea”. Per ora nessuna risposta da Cirio.

Operato all’anca, s’infetta in ospedale. Muore senza aria

Condannato due volte. Prima al contagio e poi a morte. In due differenti ospedali. “Ora vogliamo vederci chiaro, perché il decesso di mio marito poteva essere evitato. Doveva essere evitato”. Margherita Dellafiore è una delle tante donne bresciane rimaste vedove in questa emergenza coronavirus. Il marito ha lavorato fino a tre giorni prima di morire e aveva un’agenda piena di udienze. Alessandro Manzoni era un avvocato civilista. È stato stroncato a 71 anni dal Covid, lo scorso 16 marzo. È morto con la “fame d’aria”, senza un respiratore disponibile “perché doveva essere lasciato a pazienti più giovani”. Ma questo è solo l’ultimo capitolo della vicenda che ha travolto e stravolto una famiglia lombarda.

L’avvocato Manzoni in ospedale ci era infatti finito per una semplice operazione all’anca. Era stato operato all’istituto clinico Città di Brescia, e poi trasferito alla Casa di Cura San Camillo per la riabilitazione che inizia il 20 febbraio. Quattro giorni dopo, in provincia di Brescia, si registra il primo caso certificato di Covid-19 ma, come sappiamo, il virus si stava già diffondendo in Lombardia da almeno un mese. Probabilmente anche all’interno della struttura sanitaria dove Manzoni stava affrontando quotidianamente la riabilitazione post intervento chirurgico.

“Voglio arrivare fino in fondo, perché nessuno mi toglie dalla testa che mio marito ha contratto il Coronavirus durante quel ricovero in ospedale: sono sicurissima che ci fossero casi Covid e che tutto sia stato sottovalutato”. Margherita Dellafiore si è già rivolta a un avvocato per portare il caso sul tavolo della Procura di Brescia: “Chiedere la verità è il minimo”. “Durante la riabilitazione il personale della struttura aveva iniziato, tra le righe, a consigliare a mio marito di andare a casa, perché la situazione generale cominciava a diventare critica”, racconta la moglie. Nessuno parla apertamente di Covid, ma diversi pazienti iniziano ad accusare i primi sintomi: febbre e tosse, soprattutto. Il 4 marzo il paziente Manzoni sta passeggiando fuori dalla sua camera alla Clinica San Camillo, seguendo le indicazioni terapeutiche del fisioterapista. Una suora lo richiama: “Non bisogna uscire dalla camera, forse non avete capito. La situazione è grave”. Due giorni dopo l’avvocato Manzoni sceglie di uscire dall’ospedale, firmando le dimissioni che oggi “assumono il valore di un testamento”, spiega l’avvocato Alberto Scapaticci che sta seguendo per la famiglia il caso.

“Ci sono ricoverati con febbre e tosse. Non voglio ammalarmi” scrive Manzoni in una mail inviata alla direzione della clinica per motivare la sua richiesta di dimissioni. Il 7 marzo esce dall’ospedale, torna a casa e la sera stessa inizia l’incubo: brividi e febbre a 38. “Poi già qualche giorno dopo faticava a reggersi in piedi, mangiava poco”, racconta la moglie Margherita. Gli antibiotici consigliati dal medico di base non servono a nulla, le chiamate al 112 risultano vane. Non c’è mai posto per lui sulle ambulanze. L’avvocato bresciano continua a peggiorare. E la mattina del 16 marzo alza bandiera bianca e chiede disperato un intervento dei medici. Questa volta l’ambulanza arriva e lo porta alla clinica Poliambulanza, in un momento di ricoveri in terapie intensive al collasso per Covid. Il pomeriggio dello stesso giorno la moglie viene avvisata: “La situazione è disperata, venga”. “Al telefono mi dicono – ricorda lei – che i polmoni di Alessandro sono collassati. Quando arrivo in stanza, lui è agitato, non riescono a tenerlo fermo. ‘Non respiro più, sto morendo’, mi dice. Chiedo al medico perché non lo intubassero”. La risposta non la dimenticherà mai. “Abbiamo pochi ventilatori e purtroppo suo marito ha 71 anni e dovremmo tenerlo per i pazienti più giovani”, spiega il medico. L’avvocato Manzoni muore perché non riesce più a respirare. “Ora vogliamo la verità – dice la famiglia – vogliamo capire perché. Questa morte poteva essere evitata”.

Aperto fascicolo in Procura sul San Raffaele di Sulmona

Quarantatré positivi (su 155 tamponi) tra dipendenti e degenti del San Raffaele di Sulmona hanno trasformato la struttura in uno dei cluster dell’Abruzzo. Tutto sarebbe partito da una 74enne arrivata nella Rsa del gruppo Tosinvest Spa (del forzista Antonio Angelucci) il 10 marzo dall’Humanitas Gavazzeni di Bergamo. Prima di lasciare la Lombardia, però, la donna avrebbe fatto il tampone e sarebbe stata messa in isolamento. “Il tampone è stato fatto perché la San Raffaele – spiega la Rsa – lo ha posto come condizione per il trasferimento, solo dopo che ha avuto esito negativo è stata trasferita”. E l’Humanitas conferma di aver seguito “i protocolli di sicurezza” durante lo spostamento. Il 18 marzo, però, nella Rsa un’infermiera accusa i primi sintomi del Covid-19. Anche i suoi genitori, che vivono in casa con lei, si sentono male. Il 24 marzo vengono fatti i tamponi: i positivi sono 43 tra cui l’infermiera, colleghi e degenti, compresa l’anziana arrivata da Bergamo.

La famiglia dell’infermiera presenta una denuncia alla Procura di Sulmona, che ora indaga per omicidio ed epidemia colposa, in cui spiega che “agli operatori sanitari non sarebbe stato riferito che la paziente era a rischio infettivo” e che non sarebbero stati forniti “materiale sanitario a sufficienza o comunque idoneo alla protezione”. La San Raffaele replica che l’anziana “non aveva alcun sintomo, era eupnoica”. E che il personale era “informato sulla paziente”: “Solo i dipendenti dotati dei dpi potevano entrare nella stanza”. In poche settimane i contagi riconducibili alla Rsa hanno superato quota 60 con tre decessi. Per un errore di comunicazione tra Rsa e Asl, la 74enne arrivata da Bergamo è finita nell’elenco dei decessi, ma è ricoverata a Chieti. “La signora è la vittima e non l’untrice, è partita in condizioni di assoluta estraneità al virus. È stata infettata lì”, spiega il suo legale Luca di Edoardo”.

Rsa, da marzo 700 ispezioni: gravi irregolarità in una su 4

Non c’è solo Milano. E non c’è soltanto il Pio Albergo Trivulzio. L’inferno delle Rsa si può comprendere anche analizzando i dati del lavoro svolto dai militari del Nucleo antisofisticazione dei Carabinieri nelle Rsa. Dall’inizio della pandemia si contano almeno 690 ispezioni in tutta Italia. Non parliamo soltanto di Rsa in senso stretto, ma anche di case di riposo e “case albergo” per anziani. Un numero che cresce di giorno in giorno se consideriamo che soltanto ieri i Nas hanno ispezionato una decina di Rsa in Abruzzo, Sicilia, Basilicata e Sardegna. Non si tratta sempre e soltanto di un’attività disposta su delega dell’autorità giudiziaria. Il Nas non s’è mosso solo su disposizione di una procura ma, come vedremo, è molto alto il numero degli interventi di “iniziativa”, ovvero i casi in cui l’Arma s’è mossa autonomamente. Il controllo sulle Rsa peraltro non è una novità dovuta alla diffusione del Covid – 19.

Da tempo il Nas si occupa di controllare la regolarità delle strutture residenziali e assistenziali per anziani. Il diffondersi dell’epidemia ha però moltiplicato l’esigenza dei controlli. E anche per questo, in molti casi, soprattutto nelle prime settimane, i carabinieri hanno svolto il ruolo di “facilitatori” per la comunicazione dei dati sulle Rsa (e non solo) tra istituzioni regionali e protezione civile. Ai dati sui controlli nelle Rsa, che analizzeremo per macro aree – Nord, Centro e Sud – si aggiungono le attività nel settore sanitario: verifiche negli ospedali che presentavano criticità nei percorsi differenziati per pazienti positivi al Covid-19, le ispezioni nei laboratori privati che proponevano controlli non previsti dalle norme. Un esempio: 360mila sequestrate nell’ultima settimana.

Partiamo dal Nord. Giusto per citare un dato, ieri il procuratore di Bergamo Maria Cristina Rota ha dichiarato che, dal primo gennaio, gli anziani morti nelle 65 Rsa della Bergamasca ammontano a 1.998: 1.322 in più rispetto allo stesso periodo del 2019, nel quale si contano 676 decessi. Dato emerso dall’indagine aperta in seguito a 13 esposti su altrettante strutture.

Sette indagini aperte a Como. L’ultima nasce da un esposto che ha segnalato 40 morti sospette. Il numero dei fascicoli sulle Rsa aperti al Nord è impressionante. Basti pensare che tra Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria, Trentino, Val d’Aosta e Friuli-Venezia Giulia, il Nas ha ricevuto ben 82 deleghe d’indagine. La percentuale maggiore dei controlli – ben 378 ispezioni – è stata effettuata per diretta iniziativa dei militari. In totale sono state controllate circa 330 rsa. Una settantina, il 20 per cento, ha presentato situazioni carenti di varia natura. Una dozzina gli interventi nel settore sanitario.

Nel centro Italia si contano 64 strutture controllate, 37 le deleghe ricevute dall’autorità giudiziaria e 27 le ispezioni autonome. Trentacinque, invece, gli interventi nel settore sanitario, dei quali il 70 per cento su iniziativa diretta dei carabinieri.

Al Sud – Campania, Calabria, Puglia, Basilicata, Sicilia e Molise – le strutture controllate sono state circa 300. Tra queste, in 16 casi i militari si sono mossi su impulso di una procura mentre, per i restanti 264 casi circa, s’è trattato d’una attività di iniziativa dell’Arma. Per 11 delle circa 300 strutture controllate è stata richiesta proposta la chiusura o il sequestro. In cinque occasioni i carabinieri si sono trovati dinanzi a strutture completamente abusive. In questi casi non si trattava di Rsa ma a volte di “case alloggio” per anziani. È accaduto per esempio a Gallico, in provincia di Reggio Calabria, il 18 aprile. Si contano invece 27 interventi nel settore sanitario. Sono stati rinvenuti macroscopici errori nei percorsi Covid e no-Covid all’interno di alcuni ospedali. S’è intervenuto anche all’interno di laboratori che effettuavano test sierologici senza avere alcuna autorizzazione. Anche la tempistica delle ispezioni rivela le modalità del contagio. Se il primo controllo effettuato dai Nas al Nord risale al primo marzo, al Sud avviene 10 giorni dopo. E può anche accadere che una sola ispezione non sia sufficiente.

Ieri il Nas di Catania, nell’ennesima verifica in una casa di riposo della provincia di Messina, ha scoperto che la struttura, dove il Comune aveva già disposto un’ordinanza di sospensione e il trasferimento degli ospiti, non aveva rispettato i provvedimenti. Se non bastasse, la struttura non si era neanche adeguata alle misure preventive del potenziale rischio contagio.

A Vibo Valentia, nei controlli effettuati ieri, s’è scoperta invece un’altra casa di riposo che non conforme alle misure necessarie per la prevenzione del Covid-19.

In queste settimane, secondo il ministero della Salute, proprio analizzando i dati del Nas, è emerso che il 25 per cento delle Rsa controllate non erano in regola.

“Le visite dei Nas – ha dichiarato ieri il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri – testimoniano un lavoro attento e costante. Dall’inizio dell’epidemia sono state controllate dai Nas oltre 600 strutture, riscontrando che almeno in una Rsa su quattro ci siano gravi irregolarità, che vanno a sommarsi ai dati dei contagi e soprattutto dei decessi, la metà almeno del totale delle morti per Covid in Italia”.

Le aziende fanno già i test del sangue per ripartire subito

Le liste di attesa nei centri prelievo sono lunghissime. Le aziende, che scalpitano per ripartire e riportare la produzione ai livelli del periodo pre-emergenza, hanno acquistato migliaia di kit e alcune hanno già testato i dipendenti in vista della Fase 2. A Palazzo Lombardia si lavora per mettere a punto gli ultimi dettagli del testo che dal 4 maggio consentirà ai laboratori privati accreditati di effettuare il test sierologico, quello che viene fatto tramite prelievo endovenoso, per il Covid-19. “Lunedì si riunirà la giunta, che varerà la delibera – spiega Melania Rizzoli, assessore al Lavoro e all’Istruzione della Regione – moltissima gente ce lo chiede, vuole sapere se è venuta a contatto con il virus”.

L’obiettivo: individuare le persone che hanno sviluppato una risposta anticorpale al Sars-cov-2, il virus che provoca il Covid-19, e misurare quanto questo abbia circolato tra la popolazione. La Lombardia è stata la prima a lanciarsi e il presidente Attilio Fontana la vende come “patente di immunità”. Ma la definizione è ottimistica. L’Istituto Superiore di Sanità ne sostiene l’utilità ma con i dovuti distinguo. Il 25 aprile, è arrivata anche l’Oms: “Non ci sono prove scientifiche che le persone guarite abbiano anticorpi in grado di proteggere da un seconda infezione”. E, quindi, che i test sul siero siano lo strumento più adatto per lo screening. Ma in vista della Fase 2 sono ritenuti utili a individuare l’insorgenza di nuovi focolai di infezione per isolarli ed evitare nuovi lockdown. Così la Regione martire ha avviato le operazioni nelle strutture pubbliche il 23 aprile, con l’utilizzo dei 500 mila kit acquistati dall’italiana Diasorin. I primi sottoposti a prelievo sono medici e operatori sanitari delle province più colpite: Lodi, Brescia, Bergamo e Cremona. Sono raccomandati, ha spiegato l’assessore al Welfare Giulio Gallera, anche ai “cittadini in quarantena, soggetti sintomatici, quelli senza sintomi da almeno 14-21 giorni e i contatti di casi asintomatici o con sintomi lievi identificati dalle Ats (le Agenzie di tutela della salute, ndr)”.

Ora la possibilità di somministrare i test – solo quelli che avvengono tramite prelievo del siero e non quelli rapidi, i cosiddetti “pungi dito”, sui quali è in corso la valutazione del ministero – viene estesa anche ai laboratori privati e darà la possibilità ai cittadini di presentarsi in un centro accreditato e richiedere l’analisi del sangue. Non solo: le aziende, che da tempo fanno pressione su Palazzo Lombardia per l’ok alla procedura, potranno acquistare kit diagnostici da somministrare i loro dipendenti: “Non ho ancora visto la delibera – spiega Giuseppe Pasini, presidente dell’Associazione Industriale Bresciana – a noi è stato detto che potremo fare i test sierologici tramite kit che abbiano il marchio CE. Nel momento in cui viene rilevata una positività questa dovrà essere riferita all’Ats, che sottoporrà al tampone il dipendente. Se quest’ultimo risulterà negativo potrà tornare al lavoro, in caso contrario verrà isolato”. Le imprese si sono portate avanti: “Noi abbiamo comprato i kit e lunedì il nostro medico del lavoro partirà con i prelievi – prosegue Pasini, titolare della Feralpi Group – entro due settimane conto di fare lo screening a tutti i nostri 520 dipendenti, compreso il sottoscritto. Alcune altre aziende hanno già cominciato a farli”.

Qualcuna però, rileva la Cgil, ha utilizzato i “pungi dito”: “Questa scelta non è stata concordata o comunicata ad Ats Brescia”, rileva il sindacato in un’informativa del 27 aprile. “I test non sono affidabili e i lavoratori devono tornare dal medico per avere maggiore tutela – prosegue il documento – nel frattempo tutti rimangono sospesi in un limbo di incertezza, il lavoratori in primis, ma anche chi ha lavorato con loro così come i famigliari con cui sono stati a contatto”.

Anche i medici avanzano dubbi sui test utilizzati. In una lettera inviata all’Ats Ottavio Di Stefano, presidente dell’Ordine di Brescia, ha sottolineato come dopo aver effettuato il test i lavoratori “richiedano in caso di positività, pur in assenza di sintomatologia, ai medici di medicina generale certificazione di malattia Inps”. Allo stesso modo “in caso di negatività viene richiesta una certificazione di assenza di malattia per consentire al lavoratore la ripresa dell’attività lavorativa. Trattandosi di test non validati a livello istituzionale – sottolinea Di Stefano – tali certificazioni non possono essere rilasciate non essendo né deontologicamente né scientificamente corrette”.