“Mascherine pagate e mai consegnate”. Indaga anche Lugano

Anche la giustizia svizzera si sta occupando delle mascherine italiane, pagate ma mai arrivate alle Regioni che le avevano ordinate. Ieri la Guardia di finanza si è presentata negli uffici della Protezione civile del Lazio, in via Laurentina a Roma. Intanto, a Lugano, il ministero pubblico del Canton Ticino sta aprendo un’indagine sulla Exor sa, società domiciliata a Lugano ma guidata dal milanese Paolo Balossi. Il nome Exor evoca una omonima finanziaria della galassia Agnelli, ma quella di Balossi è semplicemente una scatola finanziaria con indirizzo a Lugano che si occupa di intermediazioni commerciali. Aveva promesso ad alcune aziende italiane massicce forniture di mascherine, da rivendere poi alle Regioni italiane come protezione dal contagio da Covid-19. Exor aveva incassato oltre un milione di euro: pagamento anticipato, per motivi d’urgenza, a marzo, nei momenti più caldi dell’emergenza virus. Ma le mascherine promesse non sono mai state consegnate. La Exor, come d’uso nelle grandi transazioni commerciali, aveva anche esibito il certificato Sgs che attestava l’esistenza della merce, rilasciato da una multinazionale della certificazione con sede a Ginevra. Il certificato è falso: la Sgs non lo ha mai rilasciato. Così ora l’azienda italiana che si ritiene truffata ha dato mandato a un noto avvocato svizzero di presentare a Lugano una denuncia penale per falso. Chiesto anche il sequestro dei conti in Svizzera della Exor sa.

La storia delle mascherine fantasma è stata raccontata fin dal 7 aprile da ilfattoquotidiano.it. Il Lazio tra il 16 e il 20 marzo aveva fatto tre ordini, per complessivi 7,5 milioni, per l’acquisto di mascherine Ffp2 e Ffp3. La Regione guidata da Nicola Zingaretti si era rivolta a una piccola società di Frascati, la Ecotech srl. Le mascherine a Roma non sono mai arrivate. Dopo gli articoli deilfattoquotidiano.it, la Procura di Roma ha aperto un fascicolo, con indagati i vertici di Ecotech.

Il fornitore di Ecotech, al quale sono stati anticipati oltre 14 milioni di euro sui 35,8 milioni totali, è proprio la società svizzera guidata da Balossi. Alla prima scadenza non rispettata, il 30 marzo, la Regione aveva reagito con la revoca dell’affidamento, datata 2 aprile. L’8 aprile, però, nel corso di una conference calll fra il direttore della Protezione civile Lazio, Carmelo Tulumello, il rappresentante di Ecotech, Sergio Mondin, e Balossi, la società romana ha mostrato i certificati Sgs a sua volta presentati da Exor, spingendo così la Regione ad annullare la revoca a partire dal 10 aprile e a dare nuova fiducia ai fornitori. Nell’atto amministrativo di “novazione” si specifica che la marca delle mascherine sarebbe dovuta essere 3M, cosa smentita prima dalla 3M Italia e poi da Exor. Poi sono arrivate confuse rassicurazioni e smentite dalla Cina, Paese da cui sarebbero dovute arrivare le mascherine. Le successive scadenze del 17 aprile e del 23 aprile non sono state rispettate, dunque la Protezione civile regionale ha firmato, il 25 aprile, la revoca totale della commessa. La Regione ora dovrà anche rientrare dei 14 milioni anticipati a Ecotech e in parte girati a Exor. In seguito alla segnalazione di un broker che dichiara di essere stato contattato da Balossi, Mondin ha sottoscritto il 20 aprile una polizza, pagando un premio di 160 mila euro, con la Seguros Dhi-Atlas, compagnia di Santo Domingo con sede a Londra e guidata da Andrea Battaglia Monterisi, 55 anni, imputato a Benevento insieme al boss di camorra Mimmo Pagnozzi.

Il caso delle mascherine fantasma del Lazio si è replicato, seppure con quantitativi decisamente inferiori, anche nella Regione Marche, per la quale Exor avrebbe dovuto fornire alla bolognese Envirotek srl una partita di 70 mila pezzi per una commessa da 120 mila euro. Anche in questo caso la Exor aveva presentato un certificato Sgs (con lo stesso numero di codice di quello fornito alla Regione Lazio) e lamentato “impedimenti delle autorità italiane”. Ma il governatore Luca Ceriscioli ha subito ordinato la revoca. La Exor sa fa capo all’italiana Bi International, srl con 2 milioni di euro di capitale sociale, un solo dipendente e la sede presso la residenza milanese di Paolo Balossi. Altre sue aziende nel 2013 avevano fornito le ambulanze all’Ares 118 del Lazio. Da febbraio è indagato a Brescia per indebita compensazione e truffa aggravata ai danni dello Stato, per aver eluso nel 2016 il versamento di Iva e contributi Inps attraverso crediti fittizi per circa 450 mila euro, utilizzando la società Intimax spa. Al centro dell’inchiesta di Brescia la commercialista Stefania Franzoni, fino al 2018 membro del collegio sindacale di Bi International, e Roberto Golda Perini, avvocato accusato in un’altra indagine bresciana di aver favorito un gruppo criminale legato alla mafia di Gela. Golda Perini aveva acquisito Intimax e aveva provato a chiuderla e riaprirla in Ungheria, prima di farla fallire e cederla a Mario Terenzio, 88enne amministratore di altre 26 società.

Meglio i contagi e i ricoveri, decessi ancora alti: ieri 323

Sempre più guariti, con una nuova persona positiva al Covid ogni 30 tamponi effettuati, mentre in generale per l’80% dei malati basta restare in isolamento a casa. E lo Stato assicura di essere “attrezzato per affrontare un secondo picco dell’emergenza”, spiega il commissario Domenico Arcuri.

Al momento le cifre tengono lontano l’incubo di un ritorno al passato: le persone attualmente positive al coronavirus in Italia sono 104.657, in diminuzione di 548, e si conferma, per quanto ancora drammatico, il trend al ribasso dei decessi, che negli ultimi quattro giorni resta sotto quota 400. Nelle ultime 24 ore sono salite a 27.682 le vittime, con un incremento di 323 in un giorno. E continuano ad alleggerirsi gli ospedali, dove sono scesi a 1.795 i ricoverati nei reparti in terapia intensiva (-68). Resta costante l’incremento quotidiano di oltre duemila guariti, arrivati complessivamente a 71.252. Dati in linea con la martoriata Lombardia dove anche qui il numero dei nuovi decessi (104) continua a calare rispetto al giorno precedente.

Il rischio di una nuova impennata, però, è concreto. Gli ospedali sarebbero pronti a sostenere la forza d’impatto di tanti altri casi gravi, secondo quanto affermano le autorità, con più ventilatori, più di 4mila nuovi di zecca, ed equipaggiamenti delle terapie intensive con novemila posti a disposizione. Secondo la Protezione civile c’è un altro record confortante: solo 3,2 persone positive per ogni cento tamponi effettuati.

Nei prossimi giorni è previsto un accordo per garantire la fornitura a farmacie e parafarmacie delle mascherine chirurgiche necessarie alla tutela della popolazione. “Abbiamo fissato un prezzo massimo di vendita, non di acquisto. Rassicuro che l’obiettivo di calmierare il prezzo non è ostile all’obiettivo di attrezzare una filiera italiana e sostituire con essa prodotti che siamo costretti a importare”, chiarisce Arcuri, replicando al Gruppo Crai, che ha annunciato di essere costretto a ritirare dalla vendita, nei propri negozi, le mascherine chirurgiche a causa del prezzo imposto massimo di 50 centesimi. Arcuri assicura: “Stiamo pensando a forme di ristoro se hanno comprato a un prezzo più alto, ma da oggi non potranno comprare a un prezzo più alto di quello calmierato”.

Bossi, cilicio, latex e affari: la chiamavano “mascherina”

I ragazzi non lo sanno, ma Irene Pivetti, che un tempo i politologi già chiamavano “mascherina” per via delle sue multiple identità, coperte prima da polverosi foulard a fiori, poi da cerniere Heavy metal, ha una biografia da epopea hollywoodiana. Uno di quei filmoni che iniziano con gli occhi limpidissimi della giovane protagonista, suor Irene, che sotto il cielo azzurro dei sogni, corre verso le burrasche della vita vera. Trionfa in abito celeste, con crocifisso al collo, diventando a soli 31 anni la regina della Camera dei perfidi deputati. È compassionevole e innocente. Per questo cade vittima del tradimento dei falsi amici. Casca nella polvere e nel tormento del cilicio.

Ma è un infernale sortilegio a trasformarla, con tuta latex, nella contessa di Montecristo che ritorna, i capelli rasati a zero, il frustino, i tacchi a spillo: dark lady della tv commerciale in compagnia non più di padre Pio, ma di Lele Mora, l’agente delle pupe, e di Platinette, il filosofo, che disse: “Con lei mi piacerebbe girare un porno”. E siamo solo alla fine del primo tempo. Nella pausa popcorn è giusto fare qualche passo indietro per raccontare il mistero di tante giravolte che persino lei, leziosamente si attribuisce: “Ho molte sfumature come tutti”.

Irene Pivetti nasce padana, da famiglia padana il 4 aprile 1963. Il padre Paolo fa il regista, la madre Grazia, la doppiatrice. Ha una sorella minore, Veronica, che da grande farà una cosa sola, l’attrice. Irene invece cresce insicura. Il liceo dalle monache benedettine fa il resto, trasformandola in scontrosa col birignao. Si laurea in Lettere alla Cattolica di Milano. A 27 anni, dopo avere lacrimato sulla sorte dei 117 mila contadini della Vandea insorti in difesa della vera fede e sterminati dai miscredenti della Rivoluzione francese, incontra Umberto Bossi. Lo informa del misfatto. E insieme si inventano la Consulta cattolica della Lega, anno 1990, baluardo della identità ultra cristiana, contro i veleni dell’Islam e le mollezze pagane di Roma ladrona. L’intera Consulta è lei, con sede in un sottoscala, ma ogni giorno spara petardi come un intero manipolo di hooligan. Chiama il settimanale Famiglia Cristiana “Fanghiglia cristiana”. Accusa il cardinal Maritini “di simpatie per i corrotti” e lo addita come nemico. Odia socialisti e democristiani. Per non parlare dei comunisti senza dio.

All’alba di Tangentopoli, anno 1992, la Lega trionfa e nella valanga c’è anche lei con tanto di camicetta bianca abbottonata fino al collo e rosario in mano. Poi accade l’impensabile: “Ero in macchina con Bossi, mi disse: te fai la presidente della Camera. Io? A momenti andavo a sbattere”. Invece va a sbattere l’Italia: eletta al quarto scrutinio, 347 voti su 617. Lei reagisce imperturbabile, mentre le tv la inquadrano salire sulla poltrona che ha appena sgomberato Giorgio Napolitano e a essere pignoli pure Nilde Iotti.

Ma siccome il bello della sacralità è ballarci intorno, ecco che Irene, liberata dalla Sacra Rota dall’illibato matrimonio con un certo Paolo, diventa “il sogno erotico dei deputati”, anzi degli italiani, la purezza da capovolgere, lo sfizio da immaginare. Salvo Vittorio Sgarbi, che ne parla con insolita gentilezza: “La Pivetti? È brutta e gengivona. Una dentona con le gambe storte e il sedere basso”.

Non poteva durare e infatti non dura. La fanno scendere dalla giostra dopo un paio di anni. Lei casca da subito nel frullatore dei reduci, litiga con Bossi, viene espulsa dalla Lega, passa all’Udeur di Clemente Mastella, si barcamena fino all’anno 2001, quando decide di cambiare vita e mettersi a ballare anche lei. Ma stavolta sul serio.

E siamo al secondo tempo, che cavalca lungo gli anni Dieci del Ventunesimo secolo. Stagione memorabile, perché ha ancora i privilegi da ex presidente con ufficio, autista e staff alla Camera: “È un mio diritto, non un privilegio”. Ma intanto se la spassa in body e criminal tango. Trova un amore nuovo, un tale Alberto Brambilla, col quale fa due figli e poi purtroppo un divorzio. Dopo il quale le tornano i capelli in testa e un po’ di buon senso, almeno per gli affari. Smette di occuparsi in tv di chirurgia plastica, tette rifatte e sesso non riproduttivo, per rinascere in tailleur da manager, addirittura “consulente di relazioni istituzionali”, cioè a dire lobbista, trasformando in business per aziende private l’agenda telefonica trascritta prima dentro i corridoi della politica, poi in quelli dello spettacolo che dai tempi di Berlusconi & Bossi sono diventati la stessa cosa.

La nuova trasformazione è meno misteriosa della prima. Lele Mora, il suo mentore, è appena precipitato nella trama di un altro film: gangster, ricatti, discoteche in fiamme, prostituzione maschile e femminile, bancarotta fraudolenta, ed è opportunamente finito in manette. Irene trasecola, non poteva davvero immaginare. E dunque, profittando del buio, esce di scena con una Onlus ideata a fin di bene: “Learn to be free”, che aiuta i disoccupati a trovar lavoro. E che funziona benissimo per trovarlo a lei, trasformandola in titolare di una ditta import-export con la Cina, la Only Italia, specializzata nel commercio di cosmetici, moda, gastronomia, gioielli.

E siamo quasi alla fine del film. Salvo il colpo di scena di queste ore: Irene Pivetti, che fu terza carica istituzionale, nonché soubrette di Bisturi e Ballando con le stelle, è indagata per frode ai danni della Protezione civile per un import che non si fa, mascherine taroccate – sospettano i magistrati di due Procure – proprio nel bel mezzo della pandemia che ha messo in ginocchio gli italiani.

Nella circostanza Irene ha sfoderato gli artigli contro l’inchiesta: “Qualcuno si è stancato di fare torte e si è inventato questa storia”. Vedremo se siamo davvero ai titoli di coda. Non troppo tempo fa diceva: “L’Italia va indietro. Manca una politica economica. Nessuno ha idee”. Lei, importando quei 30 milioni di mascherine, ne ha avuta una.

“Sui boss fuori non ho colpe. Ora parere dei pm antimafia”

La prima risposta la dà di pancia: “Se sono amareggiato? Eh, bella domanda…”. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, risponde al Fatto poco prima di entrare nel Consiglio dei ministri che approverà il suo decreto contro le scarcerazioni. La mossa dopo giorni di polemiche per la concessione degli arresti domiciliari ad alcuni boss per motivi di salute, sull’onda del coronavirus.

La prima domanda resta quella: amareggiato?

Mi amareggia il fatto che la lotta alla mafia venga strumentalizzata per attaccare il governo.

Hanno scarcerato boss: logico che provochi grandi proteste, innanzitutto dalle opposizioni.

È sbagliato mentire, sostenendo che sono usciti con leggi di questo governo, che invece ha risposto con un segnale molto forte. Questo decreto che intendiamo approvare va a rafforzare ulteriormente il contrasto alle mafie nel pieno rispetto dell’autonomia della magistratura.

Il decreto prevede che i magistrati debbano chiedere il parere non vincolante delle Procure antimafia prima di scarcerare un detenuto sottoposto al 41 bis. Pare svilire il loro ruolo.

Niente affatto. Io rispetto profondamente il lavoro dei giudici. L’ulteriore passaggio con le procure distrettuali e la Procura nazionale antimafia è solo un modo per acquisire ulteriori informazioni su casi specifici.

Intanto qualche boss è tornato a casa. Non si sente corresponsabile?

Assolutamente no. Basta leggere la Costituzione per capire che i magistrati decidono nella piena autonomia.

Il risultato in questi casi preoccupa.

Non entro certo nel merito delle decisioni, ci mancherebbe. Il mio compito è portare avanti proposte come il decreto e avviare verifiche, come ho fatto in queste ore. Per il resto, voglio ricordare che un detenuto al 41-bis è il più isolato di un carcere, quindi al riparo da possibili contagi.

Forse i giudici sono stati sollecitati a muoversi da una circolare del Dap, un dipartimento del suo ministero, che chiedeva loro di segnalare alle autorità i casi di detenuti a rischio in questi tempi di coronavirus. O no?

Non può essere certo la circolare di un dipartimento a incidere sull’autonomia dei magistrati.

La circolare era giustificata?

Aveva il solo obiettivo di fare chiarezza sulla situazione sanitaria nelle carceri in una fase di pandemia.

Il capo del dipartimento Basentini non ha commesso errori? Nel caso del boss Zagaria, scarcerato sei giorni fa, ha atteso quasi due settimane prima di scrivere al giudice di sorveglianza di Sassari e dirgli che voleva valutare se farlo trasferire in ospedale a Viterbo o a Roma. Prima, risulta al Fatto, aveva aspettato perché pensava di trasferire Zagaria a Cagliari, in un carcere però non attrezzato per il 41-bis.

Su questo caso sono in corso degli accertamenti, quindi non posso rispondere.

Non è il caso che Basentini rassegni le dimissioni, come chiesto anche da esponenti della maggioranza?

Non è mia abitudine rispondere a questo tipo di domande.

Lei ha nominato Roberto Tartaglia come vice di Basentini: pare un commissariamento, no?

Nessun commissariamento, Tartaglia è un magistrato di grande valore, da sempre in linea contro le mafie, esperto nella gestione di detenuti al 41-bis come Totò Riina, Leoluca Bagarella e i fratelli Graviano.

Che effetto le ha fatto leggere le intercettazioni dei boss che si affannano a chiedere i domiciliari “perché con il Covid usciamo?”

I pensieri dei boss non contano, conta la lotta concreta contro le mafie come i tanti provvedimenti di 41-bis che ho firmato da ministro. Per questo trovo grave che qualche esponente politico metta la foto di Falcone e Borsellino solo per prendere qualche like. Non c’è più ritegno.

Nel decreto c’è l’ulteriore proroga della riforma delle intercettazioni, fino al 31 agosto. Perché?

La nuova normativa, che rafforza lo strumento delle intercettazioni per perseguire reati come la corruzione, prevede un necessario percorso di formazione del personale. Lo avevamo avviato, ma abbiamo dovuto interrompere per il coronavirus.

Giorni fa avete dato il via libera alle video-indagini.

È un modo per salvaguardare l’attività di tante procure, che possono così portare avanti le indagini con tempestività ed efficacia. In caso di emergenza, di fronte ai rischi di contagio del virus, possono collegarsi da remoto: per esempio per assumere informazioni.

Per il capogruppo alla Camera del Pd Delrio va posto un freno ai Dpcm per gestire l’emergenza, e “va ridato il potere di indirizzo al Parlamento”. Condivide?

Stento a comprendere perché lo possa dire un rappresentante delle opposizioni, figuriamoci se lo sento dire da parti della maggioranza. L’utilizzo del Dpcm non è un vezzo, ma una necessità in tempi di pandemia, nei quali bisogna intervenire quasi ogni settimana.

Per il segretario dem Zingaretti il 1° giugno per la riapertura di bar e ristoranti è “lontano”.

Tutti vorremmo riaprire al più presto. Ma il governo deve essere compatto nel capire che bisogna procedere con gradualità, perché prima bisogna tutelare la salute. Paesi come Germania e Francia che volevano riaprire tutto hanno dovuto subito ricredersi.

Sul Mes compatti non lo siete affatto.

Tra Pd e M5S ci sono differenze su questo, e nelle differenze ci rispettiamo. Ma Conte ha fatto la giusta sintesi, ribadendo con forza in Europa l’inadeguatezza del Mes e che il punto principale resta il Recovery fund. Va sostenuto.

Lo sostenete davvero tutti? Tira aria di governissimo.

In nessuna parte del mondo, in un momento come questo, si mette in discussione il governo. Stiamo lavorando in squadra, e dobbiamo continuare a farlo.

I nipotini di La Malfa si sono presi Repubblica

Chissà cosa direbbero Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini nel vedere i loro nipotini politici attovagliati in un gruppo, quello guidato da Repubblica, che alla sua nascita, secondo il fondatore Eugenio Scalfari, avrebbe dovuto essere, come per molti lustri è stato, “liberal-socialista”. Con un pubblico di riferimento nella borghesia di sinistra che, nel 1976, guardava al Pci e alla sinistra Dc.

Oggi queste categorie non ci sono più e John Elkann ha dato Repubblica in mano a Maurizio Molinari, persona perbene e buon direttore che però fa parte di un mondo assai diverso: di centro, atlantista, filoisraeliano. E che si ritrova a guidare un giornale, e un gruppo, dove sta incrociando i suoi vecchi compagni d’armi del Pri. Una cucciolata repubblicana che vede appunto Molinari direttore di Repubblica, Stefano Folli principale notista politico e Oscar Giannino ai microfoni di Radio Capital (gruppo Gedi). Con i tre, Molinari, Folli e Giannino, uniti, chi più chi meno, contro il governo di Giuseppe Conte. Ieri Folli, il più agguerrito, è tornato a bastonare il premier con un editoriale in cui si paventa “il fantasma dei pieni poteri” che, a suo dire, Conte starebbe avocando a sé.

Strano come questo giro di giostra abbia portato questi tre baldi ex repubblicani a ritrovarsi insieme dopo 35 anni. Molinari, professionalmente, nasce con Folli, è stato lui a insegnargli il mestiere. Il notista politico, infatti, all’inizio degli anni Ottanta è direttore della Voce Repubblicana, con Giovanni Spadolini direttore politico. È in quegli anni che un giovanissimo Molinari inizia a scrivere da Gerusalemme. Poi il rapporto si salda. Molinari lavorerà alla Voce a Roma, occupandosi della sua passione: la politica estera. La Voce è il giornale del Pri, il partito italiano più atlantista e filo americano, punto di riferimento anche del mondo ebraico. “La libertà dell’occidente s’inizia a difendere sotto le mura di Gerusalemme”, amava dire il vecchio Ugo La Malfa. Ma il Pri storicamente è pure il partito di riferimento della massoneria. Nel 1987 arriva come direttore Giorgio La Malfa.

A quel punto prima Molinari e poi Folli prenderanno strade diverse, e alla Voce arriva Oscar Giannino, capo dei giovani repubblicani e portavoce del partito con La Malfa junior segretario, cui è legatissimo. A inizio anni ’90, poi, Folli e Molinari s’incrociano anche al Tempo, giornale storico della destra romana. Di lì a poco per Folli – che nel frattempo ha transitato per la rivista politica Occidente, molto elegante e filo-Washington – si apriranno le porte del Corriere della Sera, di cui diventerà notista politico fino ad arrivare alla direzione, nel 2003. Poi passa al Sole 24 ore, come editorialista, e infine, nel 2014, a Repubblica. Molinari invece nel 1997 arriva a La Stampa, dove per oltre un decennio sarà il corrispondente dagli Stati Uniti. Nel 2015 c’è da fare il nuovo direttore del quotidiano torinese: molti puntano su Massimo Gramellini ma dalla ruota degli Agnelli esce il nome di Molinari. Giannino, invece, ha una carriera più tortuosa perché, tra i suoi impegni giornalistici (tra cui Libero, Foglio e Radio 24), ci mette anche la politica attiva con la fondazione del movimento “Fare per fermare il declino”, che si presenta alle Politiche del 2013 senza fortuna (ma col mini-scandalo delle lauree inventate). Nel 2019, dopo la cacciata da Radio 24, approda a Radio Capital.

Ora questi ex ragazzi nati sotto il segno dell’edera incrociano ancora i loro percorsi in un giornale la cui proprietà è della famiglia che, con Gianni e Susanna, fu molto vicino al Pri, così da chiudere un immaginifico cerchio.

La Lega “occupa” le Camere. Ma il centrodestra si spacca

“Il lock down è come il vaso di Pandora: quando finirà, ricominceranno le manovre politiche”. Dalle parti del Pd la raccontano (anche) così. Nel frattempo, la Lega occupa il Parlamento: “È ora che si torni a essere una democrazia compiuta”. E dunque: “Restiamo a oltranza in Parlamento, finché non ci saranno risposte per tutti i cittadini. Non rallenteremo né impediremo il regolare svolgimento dei lavori programmati. Rimarremo finché il governo non darà risposte chiare”. L’idea è quella di fare i turni per restare in Aula, anche dopo la fine delle sedute. Giorno e notte. Fino a quando il governo non si prenderà le sue responsabilità, smettendo di rimpallarsela con le Regioni (così la vedono dal Carroccio). E fino a che non arriveranno risposte più chiare da Conte sulla situazione sanitaria e non verrà ripristinata la democrazia parlamentare, rispetto a quello che viene definito uno “stato di polizia” . Un atto forte, dirompente, dopo settimane di minacce. Talmente estremo che arrivano critiche anche da Giorgia Meloni, che esprime “sorpresa”. Eppure la Lega sostiene di aver invitato (invano) i capigruppo di Fi e Fdi a partecipatre all’iniziativa.

Ma che il Carroccio e Fdi non procedano esattamente allineati, neanche nella prospettiva di un governo di unità nazionale, non è un mistero per nessuno. Come non lo è il fatto che Salvini e Matteo Renzi questa prospettiva l’abbiano presa in considerazione. E che adesso si trovino su posizioni simili. Quel che è certo è che la temperatura politica è salita esponenzialmente negli ultimi giorni. E che la Fase 2 metterà alla prova Giuseppe Conte più di quanto abbia fatto il primomomento di emergenza.

Ancora. Del fatto che i due principali partiti di maggioranza non viaggino più del tutto uniti si è avuta ieri una prova. Stefano Ceccanti, deputato del Pd, aveva presentato un emendamento al decreto Covid 19 per prevedere un parere del Parlamento preventivo ai Dpcm del governo. Iniziativa sulla quale aveva registrato la convergenza non solo del suo partito, ma anche di Leu e Italia Viva. Oltre all’interesse della Lega. Il voto era previsto per oggi pomeriggio. Ma ieri il governo, nella persona del ministro dei Rapporti con il Parlamento, Federico d’Incà, gli ha chiesto di ritirarlo. Racconta il deputato: “Mi ha segnalato che non condivide la proposta dell’emendamento perché irrigidirebbe troppo. Immagino che il Governo stia studiando soluzioni alternative. Se le troverà nessun problema a ritirarlo”. Il punto è che l’esecutivo una soluzione non l’ha ancora trovata: e così il voto slitta alla settimana prossima. Meglio non rischiare. Anche perché il capogruppo Pd a Montecitorio, Graziano Delrio, è da tempo critico sulla centralizzazione estrema delle decisioni da parte del governo. Posizione condivisa dal gruppo. In Senato, non va molto meglio: Andrea Marcucci, il capogruppo, più passano i giorni, più torna ad esprimere posizioni vicine al suo ex sodale Renzi.

La critica sui Dpcm è condivisa dal Nazareno. Dove ribadiscono che il sostegno a Conte non è in discussione. Ma anche che tutto sta a vedere come gestisce la ripresa.

Resta il fatto che un vero piano B, rispetto al governo attuale non c’è, nonostante i colloqui a tutto tondo con Forza Italia. Oggi Conte riferisce in Parlamento sulla Fase 2: nessun voto. In Senato interviene Renzi. C’è chi è convinto che sia pronto a ripartire da prima che il Covid arrivasse a stoppare ogni fuga in avanti: a febbraio era sostanzialmente pronto a sfiduciare il governo e a riposizionarsi. In un governo di unità nazionale. Oppure con un appoggio esterno a un esecutivo di centrodestra.

“Fateci il tampone”: terrore in Aula per il leghista infetto

È bastata la notizia di un nuovo caso di contagio tra i deputati a far precipitare ancora una volta la Camera nel terrore. In cinque della Lega (Gusmeroli, Frassini, Comencini, Ferrari, Potenti) sono stati invitati a mettersi in quarantena dopo che il loro vicino di scranno, Diego Binelli, che siede nella fila della piccionaia in cima all’emiciclo di Montecitorio, è risultato positivo pur senza sintomi, al coronavirus: le chat di tutti i gruppi a quel punto hanno cominciato a ribollire perché la preoccupazione è alle stelle. C’è una mini-rivolta e non solo tra gli onorevoli: i dipendenti tremano e ancora di più i collaboratori parlamentari che si sentono meno tutelati di loro e ora chiedono di essere messi nelle condizioni di lavorare in sicurezza negli uffici o di poter accedere allo smart working a prescindere dal tipo di contratto con i loro parlamentari.

Inutile dire però che gli animi sono surriscaldati soprattutto tra gli eletti. Un deputato pentastellato, ma non è il solo, pretende che si facciano i tamponi a tutti e si sente discriminato perché al Senato sono stati fatti anche se preferisce l’anonimato per non mettere in difficoltà il presidente Roberto Fico. Emanuele Fiano del Pd è tornato alla carica insieme a quanti già 60 giorni fa, all’inizio dell’emergenza, avevano chiesto la possibilità di votare da remoto o comunque collegandosi da altre sale della Camera oltre che dalle tribune che sono state già allestite con i tablet e adesso assicurano 138 postazioni sicure, oltre alle 335 che possono essere occupate in aula rispettando le distanze minime. Il fatto è che i deputati sono in tutto 630 anche se per la verità il plenum non c’è mai nemmeno in tempi di pace, figurarsi ora. Ma tale è il clima che la promessa di Matteo Salvini di mettere d’ora in poi le tende con i suoi in Parlamento, scatena ironie (il Capitano spesso e volentieri marca visita), ma suona come una minaccia.

Nella riunione dei capigruppo della Camera si è dibattuto a lungo su come garantire i lavori in massima sicurezza, ma pure dei comportamenti indisciplinati dei deputati: i questori, come aveva anticipato il 5S Francesco D’Uva, sono pronti a fare la faccia feroce se ricapiterà che qualcuno ignorando il responso del termometro, come ha fatto scorsa settimana Giuseppe Basini della Lega, entri comunque alla Camera. Minacciano di sanzionare anche quelli che insistono ad assembrarsi in Transatlantico o chi la mascherina, come Vittorio Sgarbi, la porta solo per figura.

Anche al Senato la tensione è molto forte. Il presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati bardata di tutto punto, guanti neri e mascherina rossa, a un certo punto interrompe il dibattito per ricordare di evitare assembramenti. “I nostri questori hanno lavorato intensamente per dare il posto a tutti, ma seguendo delle regole di sicurezza minime che riguardano le distanze. Capisco che ci sia la necessità di interloquire, però non è possibile. Ringraziando il cielo, qui al Senato non ci sono casi proprio perché fino a oggi abbiamo rispettato tutti con grande senso di responsabilità queste misure. Vi pregherei di farlo ancora e di non abbassare la guardia perché non è il momento” dice prima di cogliere in fallo qualcuno: un capannello attorno al banco della capogruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini, la fa andare su tutte le furie.

“Senatrice Bernini, l’ho appena detto” grida la presidente mentre quella, sentendosi presa di mira ingiustamente perché non si era mossa di un centimetro, le risponde che no, lei non c’entra. “L’ho richiamata più volte come altri colleghi. Le distanze non c’erano. Lei non si è mossa, ma vicino a lei c’era un gruppo” insiste Casellati come un arbitro pronto ad attivare il Var o a estrarre il cartellino rosso per l’espulsione.

Ospedali e contagi: così si tornerà alla Fase 1

Sono tre i “criteri d’allerta” in base ai quali, dopo il 4 maggio, il governo potrà decidere di chiudere le aree ritenute a rischio, regioni intere o anche porzioni più piccole di un territorio regionale. Cioè di tornare alla Fase 1. Saranno indicati nella circolare che il ministro della Salute Roberto Speranza dovrebbe emanare entro sabato, illustrata ieri dal ministro stesso ai governatori e agli assessori alla Sanità delle Regioni e delle Province autonome.

L’Huffington Post ha anticipato in serata un testo non ancora definitivo. Il primo campanello d’allarme suonerà se i posti letto di terapia intensiva per i pazienti Covid-19, il cui numero dovrà essere definito dalle Regioni, saranno occupati per oltre il 40 per cento. Il secondo se l’occupazione di oltre il 40 per cento dei posti letto riguarderà i reparti di Area Medica per Covid-19. E soprattutto se il tasso Rt, che indica quante persone possono essere contagiate in media da un solo infetto, supererà 1. Attualmente, secondo l’Istituto superiore di sanità, la media italiana si colloca tra 0,5 e 0,7, ma stime indipendenti lo calcolano più vicino a 1 e anche leggermente superiore per alcune Regioni del Paese.

I criteri sono relativi a “indicatori di processo sulla capacità di monitoraggio”,“indicatori di processo sulla capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti”, “indicatori di risultato relativi a stabilità di trasmissione e alla tenuta dei servizi sanitari”. È noto a tutti che la capacità del servizio sanitario di rintracciare e sottoporre a tampone i contatti delle persone positive fin qui, nel complesso, non ha brillato. Dal 4 maggio si valuterà in particolare la cosiddetta “resa” dei tamponi, la quantità cioè di tamponi positivi su quelli effettuati. Se è stabile si resta nell’ambito della soglia, se aumenta si entra in stato di allerta. E dall’allerta si potrà passare alla revoca delle misure di allentamento, cioè al ripristino di un lockdown come l’attuale.

La bozza richiama all’attenzione sui nuovi focolai che si possono sviluppare nell’arco di sette giorni in Rsa/ospedali/case di riposo o altri luoghi che ospitano popolazioni vulnerabili. “La presenza di focolai – si legge nella bozza – richiede una valutazione del rischio ad hoc che definisca qualora nella regione vi sia una trasmissione sostenuta e diffusa tale da richiedere il ritorno alla Fase 1”.

Il ministero della Salute precisa che nei primi 15-20 giorni dopo la riapertura parziale del 4 maggio è atteso un aumento del numero dei casi. In questa fase lo stato d’allerta sarà valutato sulla base della presenza di focolai. Alle Regioni spetterà il compito di registrare, su scala mensile, un trend un miglioramento del 60 per cento dei numeri relativi a contagiati, ricoverati, pazienti in terapia intensiva e contagiati in auto-isolamento. Solo la conferma di un andamento stabile o in miglioramento dell’insieme di questi standard epidemiologici porterà in seguito alla fase cosiddetta 2b di ulteriore allentamento delle misure anti-pandemia, come previsto dall’Allegato 10 al Dpcm del 26 aprile cui si riallaccia la circolare di Speranza.

“Chiedete, ma decide Roma”. Boccia imbriglia le Regioni

Ai lati opposti del tavolo, seppur in videoconferenza, siedono il Veneto e la Campania. Da una parte Luca Zaia, che insiste a dire che indietro non si torna e che lui l’ordinanza che ha firmato lunedì non la ritira (anche perché – al netto della propaganda – ormai oggi è giovedì e tra tre giorni le corsette che già fanno in Veneto si potranno fare ovunque). Dall’altra la Campania, l’unica regione finora ad aver emanato una ordinanza più restrittiva del decreto nazionale, perché ammette le passeggiate intorno a casa ma vieta di fare jogging, perché se corri non riesci a tenere indossata la mascherina. Ma è chiaro che i distinguo sull’attività motoria, per quanto importanti in termini di tenuta della pace sociale, non sono il centro delle preoccupazioni delle regioni del Nord che spingono per riaprire.

Eppure, quello di ieri non è stato il vertice teso che poteva immaginarsi alla vigilia. Perché Boccia ha usato bastone e carota. E mentre minacciava “diffide” per chi continuerà a fare ordinanze che allentano le restrizioni del Dpcm, ha concesso qualche spiraglio di trattativa per le prossime settimane. Quelle che vanno da lunedì 4 maggio, quando ripartiranno l’edilizia e la manifattura, il 18 quando riapriranno le attività commerciali e il 1 giugno quando potranno alzare le saracinesche bar, ristoranti, parrucchieri e centri estetici. Nessuno ha chiesto esplicitamente riaperture anticipate, anche perché nessuno vuole assumersi la responsabilità di liberalizzazioni che incidano sulla risalita dell’indice dei contagi. Ieri Boccia lo aveva detto chiaro: chi sbaglia, paga. E il sottotesto sono il fiume di richieste di risarcimenti che potrebbero arrivare se l’epidemia riprendesse fiato. Messaggio che evidentemente non ha fatto breccia nella governatrice della Calabria Jole Santelli, che ieri sera ha autorizzato per bar e ristoranti l’uso dei tavoli all’aperto.

Molti in realtà chiedono di non fissare una tabella di marcia chiusa, che non tenga conto di eventuali miglioramenti della situazione epidemiologica. Tradotto: dire adesso ai ristoratori e ai parrucchieri che dovranno stare chiusi un altro mese, non è stata una mossa geniale. Tant’è che si moltiplicano i flash-mob di chi a giugno rischia di non arrivarci proprio.

Per questo Boccia, oltre a minacciare diffide e impugnazioni, ha concesso qualcosa sul piano della flessibilità, per altro già prevista dal Dpcm, che indica la possibilità di interventi “sub-regionali”. Così si è stabilito un “metodo di lavoro”: le regioni che avranno esigenze particolari si impegnano, prima di scrivere ordinanze autonome, a condividerle con gli altri presidenti. Resta da capire – qui la discussione è ancora aperta – se poi la regione in questione emanerà comunque un’ordinanza o se invece sarà il governo ad aggiornare il Dpcm in vigore, inserendo le misure richieste dalla regione stessa. A titolo puramente esemplificativo: se il Molise pensa di aprire i barbieri prima del 1 giugno, condivide la richiesta e può darsi – se prevarrà la linea sostenuta dai governatori del Pd – che il governo modifichi il decreto accogliendola. “Le richieste territoriali si possono valutare – ragionano dal governo – ma è sempre Roma che decide”. Ovviamente resta tassativo – e qui sono i presidenti meridionali a tenere il punto – il divieto di spostamento da una regione all’altra. Poi c’è il centrodestra, che appena fuori dalla riunione, scrive a Conte e al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per denunciare la “compressione delle libertà costituzionali”, legata proprio all’impossibilità di allentare a livello regionale le disposizioni previste dal decreto.

Oggi i governatori torneranno a riunirsi, questa volta oltre a Boccia ci sarà la ministra Paola De Micheli, per discutere di un’altra faccenda ancora nebulosa: i trasporti. Non è ancora chiaro come si potrà evitare che si crei folla negli orari di punta, visto che non ci sono indicazioni sui tempi di apertura di uffici e negozi. Tanto più che le aziende del trasporto pubblico locale dicono di non poter rispettare le distanze di sicurezza a bordo: chi controllerà? Atac, la municipalizzata romana, ha già detto che per lei è impossibile: dovrebbe assumere cinquemila persone in più.

L’app per tracciare i contatti: decise le regole su Immuni

Un’applicazione che sposa i principi a cui stanno lavorando Apple e Google, che garantisce la pseudo-anonimizzazione dei dati (custoditi da Sogei) e la loro cancellazione entro l’anno ma che ancora manca, tanto da spingere il capo della task force per l’emergenza, Vittorio Colao, a esortare a far presto, affinché possa essere efficace. Intanto, però, il quadro è più chiaro e cosa sarà Immuni (si prevede che parta entro metà maggio) è in parte contenuto nel decreto portato ieri sera in Consiglio dei Ministri e in parte ricostruibile da varie fonti vicine al dossier.

Il decreto. La norma indica il recinto dentro il quale si muoverà l’applicazione di contact tracing che gli italiani potranno scaricare nella fase 2 per sapere se sono stati in contatto con un positivo al coronavirus (il funzionamento è nel box di lato). È prevista una piattaforma informatica istituita al ministero della Salute “per il tracciamento dei contatti stretti tra i soggetti che, a tal fine, hanno installato, su base volontaria, un’apposita applicazione sui dispositivi di telefonia mobile” in coordinamento con la Protezione civile e l’Istituto superiore di sanità e con “le strutture pubbliche e private del Servizio sanitario nazionale”. Prevede che gli utenti ricevano, prima dell’attivazione dell’applicazione, informazioni chiare e trasparenti e precisa che non è previsto alcun tipo di limitazione o restrizione nel caso in cui non si scarichi la app. Tramonta definitivamente, dunque, l’idea circolata nei giorni scorsi che senza app non si possa accedere ai mezzi di trasporto.

I dati. Nel testo, si parla di “tecniche di pseudonimizzazione” dei dati. “Insieme alla cifratura è una delle due misure di sicurezza previste dal regolamento europeo sulla Privacy – spiega Pierluigi Perri, professore di sicurezza informatica, privacy e protezione dei dati sensibili alla Statale di Milano –. Significa che i diversi dati che compongono una informazione completa sono divisi e custoditi in diversi contenitori”. In questo modo, se ad esempio qualcuno viene in possesso del numero identificativo di una app, non può associarlo ad altre informazioni perché, ad esempio, l’elenco con i nomi è custodito altrove. “È la misura di sicurezza base, che si può complicare fino ad arrivare al dato anonimo – continua Perri –. Ovviamente, questo significa che chi ha la chiave per associare le informazioni potrà comunque risalire all’informazione originaria”. Viene confermato l’utilizzo del bluetooth per stabilire i contatti tra i telefoni (e quindi tra le persone) nonché l’esclusione della geolocalizzazione: nessun tracciamento di spostamenti e posizione. La app saprà solo se “ha incontrato” un’altra app, quando e per quanto tempo. Il ministero della Salute deve stabilire il lasso di tempo entro il quale si sarà considerati contatti a rischio (si ipotizzano 15 giorni precedenti alla scoperta della positività e un contatto per 15 minuti). Inoltre, i dati raccolti attraverso l’app possano poi essere utilizzati “in forma aggregata o comunque anonima, per soli fini statistici o di ricerca scientifica”. Viene fissata la data per la cancellazione definitiva di tutti i dati o della loro definitiva anonimizzazione al 31 dicembre 2020.

I server. Mentre si specifica che si utilizzeranno “esclusivamente infrastrutture localizzate sul territorio nazionale e gestite da amministrazioni o enti pubblici o in controllo pubblico” nel progetto iniziale, salvo modifiche, la scelta è ricaduta su Sogei, la in house informatica del ministero dell’Economia e delle Finanze. La scelta della soluzione decentralizzata prevede infatti chela notifica che arriverà ai contatti “a rischio” viaggi solo via telefono, senza quindi passare attraverso un server centrale (come si pensava all’inizio). Su questo dovrebbero finire solo “i codici” dei positivi e, semplificando, è lì che le app verificheranno se ci sono codici con cui sono entrata in contatto per allertare l’utente. Potrebbe essere poi anche utile per raccogliere le informazioni del “diario sanitario” che gli utenti potranno tenere sulla app (è prevista una sezione apposita), della cui implementazione successiva ha più volte parlato il commissario straordinario Arcuri e che potrebbero essere trasferiti all’operatore sanitario e diventare anche base dati statistica. Proprietario e responsabile dei dati sarà il ministero della Sanità.

I tempi. Ieri, in una intervista al Corriere della Sera, Vittorio Colao ha detto che è necessario fare in fretta. I tempi, in effetti, si allungano sempre più ma il commissario Arcuri ha assicurato che a maggio la app dovrebbe partire. A contribuire all’allungamento dei tempi, sia la mancanza della legge (nel caso specifico il decreto in via di approvazione) sia la necessità di adeguarsi al sistema di Google ed Apple per evitare che la app non funzioni su tutti gli smartphone. Sistema che è a sua volta ancora in fase di sviluppo e che dovrebbe essere pronto entro il 15 maggio. “Adottare un’app per il tracciamento non è come acquistare un’auto chiavi in mano – ha detto ieri la ministra dell’Innovazione, Paola Pisano – ma solo un primo passo funzionale a successivi verifiche e adattamenti. Verifiche iniziate e che sono ancora in corso”.

L’efficacia. Se secondo uno studio del Big Data Institute dell’università di Oxford, preso a riferimento dalla Commissione Ue, nelle scorse settimane si era sostenuto che l’app sarebbe stata efficace nel contenimento dei contagi solo se scaricata da almeno il 60 per cento dei cittadini, ieri la ministra Pisano ha detto che questo tipo di soluzioni “già al 25-30% hanno una buona resa”. Da sola non basta: sono previsti call center di primo e secondo livello connessi all’uso dell’applicazione. Il primo per aiutare a installarla e a usarla, il secondo per dare “rassicurazioni” ai cittadini che ricevono l’alert e dar loro informazioni su come controllarsi oltre quelle già previste dall’applicazione. “Da sola la app non basta – spiega Perri – bisogna capire quale sia il contesto di governance in cui si inserisce. È necessario, sia chiaro, il piano di gestione totale dell’emergenza: qual è la conseguenza delle informazioni trattate e comunicate? Quale la risposta del sistema sanitario, quali le condizioni? Bisogna comprendere il contesto. Si può anche prevedere una momentanea e definita compressione di alcuni diritti in presenza di situazioni di necessità, ma è necessario farlo con chiarezza e nei modi previsti dalla legge”.