I vegani carnivori

Dunque, ricapitolando.

1. Bobo Giachetti, renziano di stretta obbedienza radicale e noto mangiapreti, declama il Vangelo di San Matteo davanti a una chiesa vuota, opportunamente mascherinato, cavalcando la protesta dei vescovi più reazionari, ansiosi di celebrare messe e infettare un po’ di fedeli, scavalcando a destra Ruini e diventando più papista del Papa. Che infatti sconfessa tutti: Ruini, cardinali, vescovi e ateo-bigotti come Giachetti e le pagàno-beghine come la Bellanova. Prossima tappa: iscriversi al Ku Klux Klan e inneggiare ai neri e agli ebrei, o diventare nero o ebreo e inneggiare al Ku Klux Klan.

2. Il cardinal Angelo Bagnasco, poco prima della sconfessione papale, tuona contro il divieto di messa: “Musei aperti e messe vietate è una disparità di trattamento inaccettabile”, come se le messe non fossero dei riti collettivi, ma dei quadri attaccati al muro e visitabili dai turisti-fedeli uno alla volta. Prossima mossa: appendersi alla parete di un museo a piacere.

3. Lo Statista di Rignano e l’apposita Boschi al seguito, forse invidiosi per non essere riusciti quattro anni fa a saccheggiare la Costituzione repubblicana, se ne ergono a paladini e accusano il (loro) premier Conte di calpestarla (“scandalo costituzionale”) a suon di Dpcm, cioè di decreti del presidente del Consiglio, purtroppo per loro previsti dall’ordinamento costituzionale insieme ai decreti ministeriali per attuare in via amministrativa i principi contenuti in leggi e decreti. Forse i due paladini, e tutto il coro retrostante, hanno letto distrattamente l’art. 16 dell’amata Carta, che recita: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza…”. Prossima mossa: girare un film con Rocco Siffredi&Malena e chiedere l’abrogazione della pornografia.

4. Stefano Folli, assurto a editorialista principe della nuova Repubblica, dopo aver evocato e invocato per giorni un “uomo forte”, un “generale De Gaulle” purchessia che “gestisca” il “disastro” della “stagione drammatica” prossima ventura senza passare per i “canali tradizionali”, i “rituali tipici” e i “poteri riconosciuti” da quel ferrovecchio chiamato Costituzione, come si conviene alle “circostanze eccezionali” e cioè con un bel golpettino di larghe intese, tomo tomo cacchio cacchio riscopre i valori costituzionali citando Cassese e la retrostante Cartabia e accusando Conte di volere nientepopodimenoché i “pieni poteri” fuori dalla “cornice costituzionale”.

Prossima mossa: attaccare i notisti politici di Repubblica col riportino a nido di cinciallegra.

5. Fino a un mese fa i nemici del ministro Bonafede chiedevano le sue dimissioni e lo denunciavano per epidemia colposa perché non voleva scarcerare nessuno. Ora lo attaccano perché fa scarcerare i mafiosi, scambiandolo per un giudice di sorveglianza di Magistratura democratica. Ma sul Riformatorio, noto foglio umoristico edito da Alfredo Romeo, l’autorevole direttore Piero Sansonetti riesce a sostenere entrambe le tesi contemporaneamente: Bonafede ha nominato a capo del Dap l’ex pm Francesco Basentini che ha “confuso l’Italia per un paese civile” e ora mette a vicecapo del Dap l’ex pm Roberto Tartaglia che vuole tenere tutti dentro perché è un “travaglista vero” in quanto “antimafioso di professione”. Prossima mossa: proporre a capo del Dap un mafioso di professione, per la par condicio.

6. “Matteo Salvini rassicura i suoi: non crediamo ai sondaggi” (Corriere della Sera, 28.4). Faccia un po’ lui, ma se c’era uno che credeva ai sondaggi era lui, tant’è che quando giunse intorno al 40% fece cadere il governo di cui faceva parte. Oggi, al netto dei sondaggi, la Lega è al 17% e rotti delle elezioni politiche del 2018 e lui è il leader del terzo partito italiano. Prossima mossa: iscriversi al Burioni Fan Club e diventare No Vax.

7. I tre tenori della destra Feltri-Sallusti-Belpietro (e quelli dell’Huffington Post con la evve) che accusavano Conte di decisionismo, autoritarismo e ducismo, ora lo accusano di indecisionismo, incertezza e irresolutezza. Prossima mossa: diventare vegani e abboffarsi di trippa e abbacchio.

8. I tre tenori della destra Feltri-Sallusti-Belpietro hanno sempre giustamente attaccato le speculazioni che mandano alle stelle il prezzo delle mascherine nel silenzio complice del governo. Dunque ora attaccano Conte e il commissario Domenico Arcuri perché impongono il prezzo calmierato delle mascherine a 50 centesimi. Il Giornale: “Mascherine, caos sul prezzo: ‘Insostenibili i 50 centesimi’”, “Caos mascherine: per Arcuri è colpa dei liberali”. Libero: “Le mascherine a 5 cent soffocano le aziende. Schiaffo al made in Italy”. La Verità: “Arcuri fissa il prezzo delle mascherine e mette fuori gioco le imprese italiane”. Prossima mossa: fondare una Ong, noleggiare un cargo battente bandiera liberiana e andare a prendere una vagonata di migranti in Libia.

“Registi e contenti, avevamo previsto l’epidemia virale”

Lillo & Greg contro il Covid-19. Sembra il titolo, ma il film è un altro: D.N.A. (Decisamente Non Adatti). Segna il debutto alla regia di lungometraggio di Pasquale Petrolo (Lillo) e Claudio Gregori (Greg), e anziché al cinema come preventivato uscirà on demand: il 30 aprile, sulle piattaforme SkyPrimaFila Premiere, TimVision, Chili, Google Play, Infinity, CG Digital e Rakuten TV. Il duo comico non dissimula, gli rode: da uno a dieci, “nove”.

La nostalgia c’è: “Mancherà la magia del grande schermo, ma è una scelta pragmatica, e anche la più giusta: evitiamo l’accavallamento con chi verrà”.

Scritta (con Edoardo Falcone), diretta e interpretata, è la storia di due ex-compagni di scuola elementare, uno bullo, l’altro bullizzato, che si rincontrano da adulti: Nando (Lillo) fa le estorsioni, Ezechiele il professore, per migliorarsi si scambiano i codici genetici, sicché il primo guadagna favella, il secondo cazzimma, eppure entrambi si riveleranno Decisamente Non Adatti alle nuove vite.

Il passaggio dietro la macchina da presa, dice Claudio, era obbligato: “Se anche da attori ‘semplici’ mettevamo del nostro, nessuno può veicolare il tuo umorismo come tu stesso, soprattutto un umorismo di situazione: Jerry Lewis, Woody Allen, il nostro nume tutelare Mel Brooks che qui citiamo esplicitamente, si sono messi tutti alla regia”. L’esperienza, aggiunge Lillo, s’è rivelata preziosa, “non solo quella teatrale, ma il mondo dei fumetti che abbiamo bazzicato agli albori: ragionare per inquadratura. E avere ben presente il look, l’andazzo visivo e narrativo, onde essere aiutati da chi poi mette in pratica: direttore della fotografia, costumi, scenografia, i grandi professionisti”.

Da parte loro, ci hanno messo l’abituale vis comica, e per bonus la preveggenza: non solo provette, laboratori, dna ed esperimenti, ma una pandemia dagli effetti antropofagi che si diffonde via fastfood. Ridono entrambi, Lillo riflette: “L’abbiamo scritto l’inverno scorso, ovviamente è una coincidenza, però… probabilmente le cose erano nell’aria, cose epidemiche, con diffusione virale. Ne siamo fagocitati, dai reality alle serie tv e Sanremo: sono simulacri, come gli influencer, i guru, i cuochi e gli opinionisti, e alla lunga diventano negativi”.

Altre novità riguardano le geometrie della coppia, che si apre al triangolo: Anna Foglietta è una e trina, ovvero moglie, prostituta e libraia. “L’importante è valorizzare i bravi attori, uomini o donne non importa, e Anna lo è: dal drammatico al comico può fare qualsiasi cosa, atteggiamento, postura e voce – unitamente a un grande lavoro al trucco – le hanno permesso tre personaggi diversi, perfino irriconoscibili”. Riconoscibile, viceversa, è il percorso che li ha portati a inventarsi Nando e Ezechiele. Affonda nella loro biografia e li vede entrambi dallo stesso lato della barricata: gli umiliati e offesi, ossia i bullizzati. Claudio Gregori si è ritrovato “fino a quasi tutto il liceo vittima di bullismo: avevo gli occhiali già a sette anni, amavo la musica, disegnavo e odiavo il calcio, insomma, ero un pesce fuor d’acqua e le vessazioni erano all’ordine del giorno”. Stesso spartito per Pasquale Petrolo: “Non violenza, ma prese in giro, tante. Ho pagato con la sofferenza psicologica le offese per la mia grassezza, e un quartiere duro come Torpignattara ha rincarato la dose”. Il domani s’è rivelato un giorno migliore, e nemmeno il lockdown può cambiare indirizzo, o quasi: “Si naviga a vista, ma confido che in questa tragedia ci scappi qualcosa di positivo per la società”, afferma Lillo, mentre Greg guarda a “un danno economico non indifferente: dalla radio agli spettacoli dal vivo anche noi siamo fermi, ma il problema è di chi non ha le spalle coperte. Scenografi, chi fa le luci, l’audio: quando e con quanta fatica se ne uscirà?”. Decisamente non adatti oggi è sentire comune – pure del governo: “Da tantissimi anni oramai non ne abbiamo più uno adatto”, affonda Claudio – e anche il cinema per come lo conosciamo non si sente troppo bene. “Il Covid-19 anticipa i nuovi modi di fruizione: la sala rimarrà come esperienza”. E D.N.A.? “Esce a 7 euro e 90: costa come un biglietto, ma lo si vede in quattro, padre, madre e due figli”. Con gli affetti stabili, si capisce, sarà ancora più conveniente.

 

“41 progetti respinti: la Rai non vuole più le mie serie”

“In sette anni ho presentato alla Rai quarantuno progetti per fiction e nessuno è stato approvato”. Tra questi a essere rifiutato è stato quello su Tina Anselmi. “Una serie che ritenevo interessante produrre soprattutto per la Rai quale servizio pubblico. Tina Anselmi è stata fondamentale nella storia della nostra Repubblica”. Claudia Mori sta vivendo, come tutti, il suo isolamento domiciliare per proteggere se stessa e il marito Adriano dal coronavirus. Sabato scorso, su questo giornale, ha letto della richiesta avanzata alla Rai da Antimafia Duemila e da Maria Teresa e Gianna Anselmi di far ripartire la produzione della fiction sulla sorella Tina. Secondo l’appello, nel 2018 Rai Fiction aveva “dato il via libera alla realizzazione di un film tv” che avrebbe raccontato la storia della partigiana Gabriella (nome di battaglia di Tina) e della sua carriera politica e nei sindacati e poi, da presidente della commissione sulla P2, sugli affari di Licio Gelli; ma poi all’ultimo, BibiFilmTv, la casa di produzione, aveva rinunciato al progetto. “Non so neanche cosa significhi, rinunciare a un progetto e in particolare a questo”, ironizza Claudia Mori, che nel 1999 fondò la “Ciao Ragazzi! Srl”, una società di produzione cinematografica e televisiva che in vent’anni ha portato sugli schermi decine di prodotti di successo. “Fino a quando da sette anni, Rai Fiction ha smesso di farmi lavorare”.

Signora Mori, partiamo dall’inizio: perché rivendica la paternità della serie su Tina Anselmi?

Non rivendico al momento la paternità, ma le racconto come andò la presentazione di questo progetto. Presentai la fiction su Tina Anselmi a gennaio del 2017: scritta da Liliana Cavani e Italo Moscati con la regia della stessa Cavani. Mi fu risposto che il racconto non era completo. Ci lavorammo recependo le loro indicazioni – concept, soggetto, personaggi, riferimenti nazionali e internazionali, budget –, e lo ripresentai il 6 febbraio, sempre del 2017. Il 16 marzo la Rai mi rispose: no, grazie, non è conforme alla nostra linea editoriale e tra l’altro anche un altro produttore ha presentato lo stesso progetto. Non so a chi si riferissero.

Due motivazioni molto differenti nel giro di due mesi. Cosa pensò?

Be’, maturai delle perplessità. Nella prima risposta, “non è conforme”, nella seconda addirittura spuntò un secondo produttore. E due risposte differenti in poco tempo mi fecero sorridere. Ma finì lì.

Perché crede che non gliel’abbiano approvato?

Le risposte le ho trovate nei 41 progetti che in questi sette anni ho presentato e sono stati tutti bloccati. Persino una serie su Papa Bergoglio quando fu eletto, una sul gioco d’azzardo. Anche in questo caso mi fu detto che non era coerente con le loro linee editoriali, nonostante avessi portato Marco Risi come regista. Eppure Rai Fiction spese molti soldi per la sua attivazione, perché inizialmente le sceneggiature erano state approvate. Poi venne tutto bloccato.

Trova che vi sia stato un accanimento nei suoi confronti?

Non so se c’è stato accanimento, so che non ho più lavorato. Prima della nomina di Eleonora Andreatta a direttrice di Rai Fiction, quindi fino al 2012, ho prodotto serie Rai che hanno incontrato il successo di pubblico e critica: C’era una volta la città dei matti, Il cielo è sempre più blu, De Gasperi l’uomo della speranza, per citarne alcuni. Alcuni dei progetti che ho presentato li ho visti realizzare da altri. Fui la prima a produrre con Rai Fiction quattro tv movie sulla violenza contro le donne: uno con la regia di Margareth von Trotta, uno con Liliana Cavani e duediretti daMarco Pontecorvo. In quel momento il direttore era del Noce. Dopo di lui ho proseguito come ogni produttore a presentare progetti, ma non sono più riuscita ad azzeccare un tema (ride) che coincidesse con le idee della nuova direttrice.

Ha mai pensato di muovere un’azione legale contro la Rai?

Finora, no. In futuro non posso saperlo. Però sto pensando di chiudere la Ciao Ragazzi, la mia casa di produzione, se le cose proseguissero con questi incomprensibili e sistematici ostacoli, questo sì.

Posso chiederle come state vivendo questo periodo?

Come tutti, ma per fortuna meglio di molti: abbiamo una casa grande, un giardino. Siamo fortunati nella tragedia. Però io e Adriano siamo chiusi da oltre due mesi, non vediamo nessuno a partire dai nostri figli che, al momento del lockdown, erano a Milano. Non sono potuti tornare qui da noi. Questa situazione pesa molto, ma ci rendiamo conto che non è facile: bisogna tutelare la salute di tutti, e poi ovviamente il lavoro. È un equilibrio molto complesso. Stiamo vivendo una tragedia senza precedenti e il rischio di sbagliare è altissimo; non ci resta che rispettare quanto ci viene chiesto, ma vigilando attentamente su queste nuove regole che ci vengono “proposte”.

Ha paura?

Sì. Di sbagliare e di questa malattia del coronavirus così crudele e misteriosa.

Il settore delle arti è quello che, probabilmente, ripartirà per ultimo. Non crede che per un Paese come l’Italia, che già non investe sulla cultura, possa rappresentare il definitivo tracollo?

Temo di sì: è un grandissimo problema! Senza la cultura, la bellezza, l’arte, si sprofonda nel buio. Papa Francesco non a caso ha pregato l’altro giorno per gli artisti, la bellezza, l’arte. Per la prima volta nella mia vita non sono ottimista, ma spero fortemente di sbagliarmi.

A rimetterci sempre i lavoratori: la cig fa perdere 470 euro al mese

Di male in peggio. Non c’è solo il drammatico ritardo con cui Inps e Regioni stanno pagando gli ammortizzatori sociali a chi da quasi due mesi non riceve più lo stipendio. Ora, calcolando gli assegni ricevuto dai primi beneficiari, si scopre che la cassa integrazione ordinaria e straordinaria legata all’emergenza Covid-19 comporterà una perdita secca sullo stipendio del 36%, mentre fino a oggi i lavoratori hanno potuto contare sull’80% della busta paga. Una contrazione che tende a salire più è alta la retribuzione. Si va, dunque, da una decurtazione media del 25% per le professioni non qualificate a una del 45% per professioni scientifiche e di elevata specializzazione. Così, secondo le stime elaborate dall’Osservatorio statistico consulenti del lavoro, un lavoratore rimasto a casa per effetto delle disposizioni di lockdown sta ricevendo un assegno medio di 851 euro, inferiore di ben 472 euro rispetto alla propria retribuzione netta che è in media di 1.324 euro al mese.

Nel dettaglio, lo studio mette anche in luce come solo il 39% dei cassintegrati riceverà una decurtazione minima del 20%. Ma per tanti lavoratori la perdita sarà più alta: per il 22%, infatti, la riduzione del proprio stipendio netto sarà di fatto tra il 21% e 30%; per il 18% tra il 31% e il 40%; e per il 21% addirittura superiore al 40%. Un po’ di casi. Chi lavora in ufficio, le cui entrate medie mensili ammontano a 1.292 euro, si ritroverà a percepire in cassa integrazione 863 euro. Gli operai e gli artigiani prenderanno 431 euro in meno, mentre le figure professionali a più basso reddito (retribuzione media mensile di 940 euro) sibiranno il taglio di 239 euro, pari al 25% del loro stipendio consueto. Secondo i consulenti del lavoro, il quadro risulta molto differenziato anche da un punto di vista territoriale: si va da un taglio medio della busta paga del 37% al Nord (pari a circa 512 euro) al 36% del Centro (469 euro in meno), per arrivare poi al Sud dove la maggior concentrazione di lavoratori con profili professionali e retributivi medio-bassi porta ad un taglio pari al 33% (396 euro).

Insomma una criticità inaspettata per una platea di 7,3 milioni di lavoratori che non solo è ancora in attesa di ricevere la cassa integrazione ordinaria e in deroga ssegno ordinario) ma, dopo aver atteso a lungo, finirà per percepire un assegno largamente inferiore alla retribuzione netta. Del resto la coperta è sempre troppo corta: se il governo ha messo sul piatto 6,2 miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali, ai lavoratori verranno comunque a mancare 3,5 miliardi al mese.

La sentenzache può smantellare l’Eurozona

Il destino dell’euro è in mano alle toghe rosse. Non sono, però, quelle che tanto preoccupavano Silvio Berlusconi, ma i giudici costituzionali della Repubblica federale tedesca che si riuniscono a Karlsruhe: martedì prossimo infatti, dopo aver rinviato la sentenza a marzo per l’emergenza Covid-19, decideranno se il Quantitative easing della Bce è conforme al diritto della Germania, il quale – va ricordato – è esplicitamente prevalente su quello Ue (qui in Italia siamo più laschi, per così dire). Se la decisione fosse nettamente contraria o particolarmente invasiva quanto a condizioni, cosa non impossibile, la Bundesbank non potrebbe più partecipare a operazioni “illegali” e semplicemente – senza l’ombrello della Bce – in poche settimane o anche meno il sistema dell’euro per come l’abbiamo conosciuto verrebbe giù.

L’inizio della storia. Per capire come si è arrivati fin qui serve un riassunto. La sentenza di martedì è solo l’ultimo capitolo, forse quello decisivo, di una guerra tra la Banca centrale europea di Mario Draghi e un pezzo di establishment tedesco iniziata anni fa, all’epoca del “whatever it takes”, del “faremo tutto quel che serve” per salvare l’euro. Era l’estate del 2012 e nacque il programma Omt (Outright monetary transactions), che consisteva nell’acquisto illimitato e diretto da parte della Bce di titoli di Stato a breve termine emessi da Paesi in difficoltà. Usiamo l’imperfetto perché, anche se non è mai stato usato, il programma Omt oggi in vigore è stato modificato profondamente da una sentenza della Corte di Karlsruhe del 2016.

Cosa contestarono all’epoca i ricorrenti, cioè una pattuglia di deputati della Cdu, il partito di Angela Merkel? Due grandi questioni: che la Bce stesse andando oltre il proprio mandato (la stabilità dei prezzi) e che le Omt aggirassero di fatto il divieto di finanziamento diretto degli Stati membri previsto dai Trattati europei.

Una vittoria a metà. Karlsruhe, pur condividendo la tesi dei ricorrenti, chiese un giudizio preliminare alla Corte di Giustizia dell’Ue: la risposta fu una sostanziale benedizione delle Omt, che pure ribadiva la cornice giuridica della “solidarietà” Ue (aiuti sì, ma solo in cambio di “condizioni”).

Nel 2016 la Corte costituzionale tedesca prese atto della cosa, dichiarò costituzionale l’Omt a patto che rispettasse alcuni vincoli che in sostanza rendevano inutile il programma: dimensione degli aiuti non illimitata, acquisti non annunciati, riservati a titoli che abbiano ancora mercato e di recente immissione, estensione limitata nel tempo e altre cosette (sulle “condizioni” modello Grecia non c’è neanche discussione: le danno tutti per scontate).

Il duello sul Qe. Mentre c’era questo rimpallo tra il Lussemburgo e la Germania, però, Mario Draghi aveva dato vita al Quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli pubblici e non sul mercato secondario (2.700 miliardi di euro tra il 2015 e il 2018), resuscitato in una forma minore l’estate del 2019 e ancora in corso almeno fino alla fine dell’anno.

Ovviamente, anche il Qe è stato sottoposto al vaglio della Corte costituzionale tedesca sostanzialmente per gli stessi motivi per cui ci era arrivato l’Omt e anche in questo caso (nel 2017) la palla è stata preliminarmente passata alla Corte di Giustizia dell’Ue: anche stavolta in Lussemburgo hanno benedetto il parto di Draghi dicendo che l’acquisto di debito sovrano è lecito se “non è selettivo e non soddisfa i bisogni specifici di finanziamento di taluni Stati membri della zona euro”. In buona sostanza veniva ribadito il principio del “capital key”, cioè l’acquisto in proporzione alle quote della Bce detenute dai singoli Stati (l’11,8% l’Italia, il 18,4 la Germania), che peraltro Draghi aveva già moderatamente violato a suo tempo.

La sentenza della CgUe di fine 2018 fu definita dalla stampa tedesca (Die Welt) “un affronto” ai giudici di Karlsruhe, che ora – dopo le udienze pubbliche della scorsa estate – sono chiamati a dire la loro. Il problema è che nel frattempo non solo è risorto il Qe, ma gli è stato affiancato il Peep da 750 miliardi, il programma di interventi contro le turbolenze finanziarie da Covid-19 che è una versione più estrema del Quantitative easing: la Bce, infatti, oggi può comprare sforando non solo il “capital key”, ma tutti gli altri vincoli usati finora per evitare di favorire gli Stati in difficoltà (il 33% di ogni singola emissione, la vita residua dei titoli, eccetera). Una chiara violazione dei paletti costituzionali elencati dai giudici tedeschi e l’inizio di una monetizzazione di fatto del deficit degli Stati: un incubo visto da Berlino.

Cosa può succedere? Se la Corte tedesca vorrà ribadire i principi già elencati nel 2016, l’attuale azione della Bce ne verrà fortemente limitata (la Bundesbank tedesca, che vale un quinto della Banca centrale europea, non potrebbe partecipare a un programma che Karlsruhe giudica incostituzionale): in questa fase, ad esempio, Qe e Peep stanno deviando molto dal “capital key” a favore di Francia, Italia e Spagna; se la Bce dovesse rispettare quel limite, non ci sarebbero sul mercato bund tedeschi a sufficienza per coprire l’intervento necessario ai Paesi del Sud.

E qui forse diventa più chiaro l’ossessivo dibattito sul Mes, il Meccanismo europeo di stabilità che è l’anticamera per accedere al programma Omt della Bce (aiuti ma versione Troika): il punto è se la Bce può fare quel che razionalmente dovrebbe, cioè fare la Banca centrale, oppure quel che legalmente dovrebbe nella cornice anti-solidale dei Trattati europei. È un conflitto che va avanti, come detto, da quando Mario Draghi ha iniziato a puntellare/sostituire la politica nazionale e continentale da Francoforte: ora il nodo potrebbe essere giunto al pettine nel momento peggiore.

Polizze anti-Covid, l’inutile regalo ai dipendenti che fa ricche le compagnie

Nella gara di solidarietà che da marzo si è innescata tra le aziende in favore dei dipendenti c’è qualcuno che riesce sempre a guadagnarci di più: le compagnie assicuratrici. Questa volta il loro cavallo di Troia si chiama polizza anti-Covid-19, un prodotto che sono riusciti a piazzare alle più importanti aziende italiane che però si sono ritrovate a spendere più o meno inutilmente circa 9 euro a dipendente. Quello che, infatti, gli assicuratori non hanno ben spiegato è che il più delle volte queste polizze non copriranno una reale necessità del dipendente: non aggiungono nulla in più a quanto previsto dalle normali coperture di welfare aziendale o dai contratti di categoria. “Ad oggi – spiega Uberto Ventura, esperto di risk management- sono almeno 2 milioni i lavoratori in Italia che hanno questa copertura per un totale di 18 milioni di euro di premi incassati dalle assicurazioni”. Tra le aziende che le hanno sottoscritte ci sono Tim, Enel, Mediobanca, Fincantieri, Barilla o il gruppo Atlantia. “Per tutti si tratta di premi aggiuntivi su una evenienza già assicurata che perlopiù corrisponde a una diaria da ricovero, riconosciuta però solo dopo un numero di giorni in franchigia e che, quindi, non verrà pagata. C’è poi qualche altra prestazione di difficile erogazione”, aggiunge Ventura. Insomma, poca roba dal momento che i danni veri derivanti da Covid-19 sono già coperti, o perlomeno non esclusi, dalle polizze property all risks già sottoscritte, ma le cui modalità non sono state spiegate bene dai brooker che hanno preferito nella maggior parte dei casi fare casse sfruttando la sensibilità di una parte delle imprese verso i dipendenti.

 

Gualtieri: “Mai vista una manovra così espansiva, conti in sicurezza”

Una manovra diversa da quella auspicata a inizio anno, ma che è servita a difendersi dalle accuse rivolte dalle opposizioni e che riuscirà all’Italia a far fronte al cigno nero che rischia di affossare l’economia con un crollo del Pil dell’8%. Così il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ieri si è presentato in audizione alla Camera sul Documento di economia e finanza (Def) varato la settimana scorsa parlando di “una manovra espansiva imponente, di un’entità mai raggiunta dal dopoguerra a oggi”. Ma questo passa per l’autorizzazione a ricorrere a un maggiori indebitamento per 55,3 miliardi nel 2020, tenuto conto anche della maggiore spesa per interessi, che corrisponde a 3,3 punti di Pil, che si traduce in un incremento del fabbisogno del settore pubblico di 65 miliardi con gli interventi previsti che, ha spiegato Gualtieri, prefigurano un incremento del saldo netto di 155 miliardi. “Tenuto conto di queste necessità, lo scostamento richiesto per il 2021 ammonta a poco meno di 26,5 miliardi in termini di indebitamento netto. Se prendiamo in considerazione le risorse previste nella Relazione dello scorso marzo e quelle inserite nella nuova Relazione allegata al Def, si tratta di circa 75 miliardi aggiuntivi per il solo 2020 in termini di indebitamento netto, che corrispondono a circa 180 miliardi di stanziamenti di bilancio”, ha spiegato.

Gualtieri ha quindi assicurato che l’Italia resta “impegnata in un’azione di riduzione del debito che punta a ricondurlo nella media dell’area euro nel prossimo decennio” sottolineando che “maggiore sarà la credibilità delle riforme e delle politiche, minore sarà il livello dei rendimenti sui titoli di Stato agevolando il processo di rientro del debito”. Non solo. “Per stimolare la crescita – ha detto – agiremo anche attraverso la previsione di specifici incentivi” destinando “parte delle maggiori risorse chieste per il 2021 e per gli anni successivi, circa 6 miliardi l’anno fino al 2031, a sostegno degli investimenti”. Per quanto riguarda il Mes e relative polemiche riguardo l’utilizzo ha precisato che “a oggi stiamo parlando semplicemente di offrire la possibilità di una linea di credito senza condizioni”.

Anpal, la resa dei conti delle Regioni contro Parisi

Più che una riunione di consiglio di amministrazione, oggi l’Anpal vivrà un nuovo round della sua rissa interna. Il rappresentante delle Regioni Claudio Di Berardino (anche assessore al Lavoro del Lazio) presenterà al presidente dell’agenzia Mimmo Parisi un elenco di critiche alla sua gestione emerso dai confronti con gli altri assessori. Tra queste, la stabilizzazione di soli 500 precari sui 663totali. Alla finestra il Pd, che da tempo cavalca le polemiche per ottenere le dimissioni di Parisi e la sostituzione con un suo nome.

Un guazzabuglio politico niente male. Fu Luigi Di Maio, a inizio 2019, a mettere il docente del Mississipi alla guida delle politiche attive del lavoro, con grandi aspettative per lo sviluppo del reddito di cittadinanza. Il feeling con l’attuale ministro del lavoro, Nunzia Catalfo non è invece mai decollato, al punto che ormai ministero e Anpal sembrano viaggiare su binari separati. Il problema è anche nelle contestazioni subite da Parisi sul piano personale. Primo, il fatto che non abbia reciso il legame con gli Usa e che i suoi frequenti viaggi aerei in business class oltreoceano abbiano fatto lievitare i costi per l’agenzia. Lo ha ammesso lui stesso il 16 aprile davanti alla commissione Lavoro della Camera, giustificandosi con la necessità di incontrare la sua famiglia e di combattere il “mal di schiena” assicurandosi i posti comodi. Inoltre, Parisi ha ancora un rapporto di lavoro con l’Università del Mississipi e questo ha sollevato il dubbio di un conflitto di interessi. “Non c’è subordinazione – ha detto – e un parere giuridico ha escluso l’incompatibilità”.

Il 26 marzo Parisi ha presentato il piano industriale, ma Di Berardino ha chiesto di sottoporlo alle Regioni. Parlando con i colleghi, sono venute fuori perplessità. Secondo gli assessori, le azioni proposte per rispondere alla crisi Coronavirus sono deboli. Parisi ha suggerito l’avvio di servizi da remoto, progetti per i beneficiari del nascituro reddito di emergenza e ripresa a distanza dell’alternanza scuola-lavoro; gli assessori vogliono di più. Poi le questioni di metodo: per le Regioni il docente sta conducendo l’Anpal accentrando il potere nella presidenza a scapito del consiglio di amministrazione. Le Regioni, inoltre, vogliono stabilizzare tutti i precari e non solo 500. Come ricordato in questi giorni dalle Camere del lavoro autonomo e precario (Clap), tra luglio e settembre scadono 520 contratti, si rischia una crisi occupazionale nell’Anpal.

Ancora, mentre Parisi insiste su sistemi informativi e servizi “self-service”, le Regioni – che hanno competenza nelle politiche attive del lavoro – vogliono un robusto innesto di personale qualificato nei centri per l’impiego. Punto già posto un anno fa, quando Parisi voleva 6mila navigator e gli assessori hanno chiesto di dimezzarli per aumentare le assunzioni nei cpi regionali. Gli occhi saranno puntati sul cda di oggi: il Pd spera nella rottura definitiva. Anche perché sin dall’insediamento del governo Conte bis ha ritenuto sproporzionata la distribuzione delle poltrone in tema lavoro, con i Cinque Stelle che hanno scelto ministro e presidenti Inps, Anpal e Inapp.

Mancano i braccianti? Falso. È che nessuno vuole pagarli

All’app anti-caporalato Fair Labor, lanciata dalla Regione Lazio per incrociare legalmente domanda e offerta di lavoro in agricoltura, si sono iscritte solo cinque aziende. Proprio così: un numero misero nell’Italia in cui si leva il grido disperato sulla carenza di manodopera nei campi e si parla di 300 mila addetti mancanti per il Coronavirus, in cui un ampio fronte politico e imprenditoriale vuole che a raccogliere frutta e verdura vada chi prende il reddito di cittadinanza e in cui tra questa e l’idea di tornare ai voucher, sembra fuori moda il contratto nazionale in un settore con più di un terzo dei dipendenti in nero. E mentre ci si svena per trovare una soluzione alla scarsità di lavoratori, le offerte per braccianti nei siti dei centri per l’impiego sono rare. È sempre stato così ed è così anche nella crisi da Covid-19.

Il caso laziale è clamoroso: la giunta regionale ha avviato la sperimentazione di Fair Labor a luglio 2019 nella provincia di Latina per combattere l’intermediazione illecita. Le imprese l’hanno snobbata, mentre 160 lavoratori hanno dato la propria disponibilità. Ci sono poi esempi simili visto che a fronte degli allarmi si moltiplicano i portali. Promossi da Regioni, associazioni di imprese e pure dalla ministra Teresa Bellanova, che ha annunciato la nascita di un servizio nazionale. I risultati, però, sono gli stessi: vengono presi d’assalto da migliaia di aspiranti operai agricoli, mentre l’atteggiamento delle aziende è “timido”. Al punto che nessuno crederebbe alla storia della manodopera carente. Su Job in Country, piattaforma dell’associazione Coldiretti, da metà aprile sono arrivate molte centinaia di richieste di disoccupati pronti ad andare nei campi (più di sessanta candidature al giorno). Le imprese che hanno pubblicato ricerche di personale, invece, sono poco più di trenta, massimo cinque al giorno.

Convincere le aziende a tirare fuori gli annunci non appassiona la politica. Mandare in campagna chi riceve il reddito di cittadinanza, invece, è in cima all’agenda. A sostenere l’invio dei percettori del sussidio nella filiera agricola è stata proprio la ministra Bellanova. Al coro si è appena unito il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Un’opportunità per queste persone di “restituire quello che prendono”, dice lui. Anche nella sua Regione, però, gli imprenditori agricoli ignorano i centri per l’impiego. Sul sito regionale “Lavoro per te”, gli annunci per operai dei campi e affini sono solo 25. Leggendoli, non pare plausibile poterci mandare gente senza esperienza: a volte richiedono il patentino fitosanitario o almeno la capacità di condurre mezzi agricoli. Lo stesso in Veneto: con la parola chiave “agricolo” nel portale regionale ClicLavoro, vengono fuori solo 22 offerte e molte con specifiche competenze necessarie.

Da dove viene il paradosso dei lavoratori che mancano e degli annunci introvabili? Le imprese rivendicano questo atteggiamento perché, dicono, i centri per l’impiego “sono inefficienti”. Il rischio di carenza di braccia è reale, i rumeni impegnati nelle raccolte stagionali sono rimasti nel loro Paese per il lockdown. Anche i guadagni dei produttori agricoli, però, sono incerti vista la chiusura del turismo e dei ristoranti. Quindi l’obiettivo è cogliere l’occasione di questa caciara per risparmiare sul costo del lavoro. Impiegare i beneficiari del reddito di cittadinanza, al più integrando con i voucher, farebbe spendere meno rispetto al contratto nazionale ed è per questo che i sindacati sono contrari. Anche chi lavora regolarmente in campagna non diventa ricco, i salari minimi vanno dagli 870 ai 1.300 euro.

A infastidirele imprese, poi, c’è anche l’obbligo di autocertificazione per chi esce da casa: sarà più difficile impiegare lavoratori in nero. L’illegalità nel settore agricolo – non necessariamente il caporalato, è infatti a un livello spaventoso. Lo conferma l’Istat: nel 2017, su 470 mila dipendenti, addirittura 164 mila erano irregolari, il 36%. Ora si parla di regolarizzazione degli immigrati: così – ha calcolato Tito Boeri – emergerebbero 65 mila braccianti extra-comunitari. L’ipotesi è sostenuta anche da sindacati come la Flai Cgil e associazioni umanitarie. Le aziende agricole comunque insistono sui voucher e sull’impiego di sussidiati. La sanatoria toglierebbe qualche rogna alle imprese disoneste, non tutte, che in questi hanno lucrato con il lavoro nero. Ma richiederebbe un “prezzo” che finora hanno detestato: una volta regolarizzati, dovranno fare un contratto vero ai lavoratori.

Lo smog adesso è crollato, ma la pandemia resta una minaccia per il clima

Nel suo ultimo messaggio pubblico, per la cinquantesima giornata mondiale della Terra, l’attivista Greta Thunberg ha detto una cosa all’apparenza assurda: la pandemia da Coronavirus ha dimostrato “che la nostra società è insostenibile” e quindi il mondo deve “scegliere un percorso nuovo per andare avanti”. Eppure i cieli sono sgombri di aerei inquinanti, le auto arrugginiscono nei parcheggi, le ciminiere delle fabbriche non emettono nulla da settimane, i produttori di idrocarburi sono così disperati che stanno chiedendo ai mercati finanziari di aiutarli a smaltire il petrolio estratto. Le emissioni di anidride carbonica nell’Unione europea sono scese del 60 per cento. Sembra la rivincita della natura e il trionfo di Greta. Ma la ragazzina svedese ha ben chiaro che la risposta economica al Covid-19 può invece segnare la fine del movimento ambientalista globale che ha animato negli ultimi anni.

Nel pacchetto di sostegno all’economia americana approvato tre settimane fa dal Congresso americano – oltre 2.000 miliardi – non c’è alcun vincolo ambientale per le imprese che ricevono gli aiuti (in prestito o a fondo perduto) dal governo. Secondo il sito inglese CarbonBrief, le emissioni di anidride carbonica della Cina sono crollate del 25 per cento in un mese, quando Wuhan è stata chiusa per contenere il contagio. Ma già a fine marzo l’attività economica ha iniziato a tornare alla normalità e di conseguenza anche la domanda e la produzione di energia.

Il Fondo monetario internazionale avverte di non scambiare gli effetti transitori del blocco delle economie per una riduzione permanente dell’inquinamento: per raggiungere gli obiettivi di contenimento delle emissioni ai livelli dell’accordo di Parigi – evitare l’aumento delle temperature medie oltre i 2 gradi rispetto al mondo pre-industriale – i produttori di anidride carbonica dovrebbero pagare una costo pari al danno che causano (come dicono gli economisti: internalizzare l’esternalità negativa che generano). Questo costo dovrebbe essere di 75 dollari per tonnellata di anidride carbonica emessa, mentre nel mondo pre-covid era in media intorno ai 2 dollari. Anche in tempo di pandemia, chi inquina paga troppi pochi costi per il danno che produce e quindi continua a inquinare.

Secondo le stime di Zeke Hausfather e Seaver Wang di un centro di ricerca californiano, il Breakthrough Institute, le emissioni di diossido di carbonio nel 2020 dovrebbero contrarsi soltanto tra lo 0,5 e il 2,2 per cento. Nelle recessioni – come abbiamo visto nel 2008 – il commercio globale crolla molto più rapidamente del Pil, mentre l’inquinamento scende in modo più graduale.

Nel 2008 la Corea del Sud è stato uno dei pochi Paesi a reagire alla crisi finanziaria globale con una serie di leggi per forzare l’economia coreana a uscire dalla recessione molto più sostenibile dal punto di vista ambientale di come ci era entrata. L’amministrazione di Lee Myung-bak nel 2010 ha introdotto un insieme di politiche di contenimento delle emissioni che le ha permesso di trarre profitto dalla ripresa globale (la Corea è anche uno dei Paesi che ha gestito la pandemia con le minori ricadute economiche grazie ai protocolli sviluppati ai tempi dei focolai di Mers-CoV nel 2015).

Di fronte alla crisi da Covid ci sono parecchie ragioni per essere pessimisti: il Fondo monetario ha un database sulle politiche di sostegno all’economia di tutti i Paesi del mondo e nota quali prendono impegni sull’ambiente. Il fatto che la Lituania, per esempio, co-finanzi il 20 per cento di 250 miliardi di investimenti privati per la transizione energetica è un’ottima notizia, ma se la Cina evita di menzionare l’ambiente nella sua strategia anti-Covid, tutto il resto è praticamente irrilevante.

Il fronte dei pessimisti osserva poi che il crollo del prezzo del petrolio – sia per gli scontri interni al cartello dei produttori dell’Opec, sia per il calo della domanda – è una pessima notizia per l’ambiente. Con il barile a 20 dollari si fanno meno investimenti in energie rinnovabili rispetto a quando i prezzi erano sopra i 100, come durante l’ultima crisi finanziaria. Le associazioni dei produttori di pannelli solari stanno già facendo lobbying sui governi di tutto il mondo perché in tempi di recessione nessuno pensa a installare costosi sistemi che si ripagano nel corso di anni ma nell’immediato danno benefici soltanto all’ambiente.

Anche gli ottimisti, però, hanno qualche argomento. Il mondo non è più quello del 2008, le tecnologie “green” sono diffuse, economicamente sostenibili, modelli alternativi come l’estrazione dalle rocce hanno cambiato la geopolitica, gli Stati Uniti sono diventati esportatori di petrolio.

Almeno i banchieri centrali, che non devono preoccuparsi dei voti dei disoccupati, ora dicono che il cambiamento climatico è una minaccia superiore a quelle tradizionali, come inflazione o depressione.

L’ormai ex governatore della Banca centrale inglese, Mark Carney, è stato quello che più si è battuto per diffondere consapevolezza. In un influente discorso di dicembre 2019, Carney ha detto: “I cambiamenti climatici, le nuove tecnologie e l’aumento dei rischi politici costringeranno a rivalutare il prezzo praticamente di tutti gli asset finanziari. Le imprese allineeranno i loro modelli di rischio, avranno enormi benefici, quelle che non riusciranno ad adattarsi cesseranno di esistere”. Poteva sembrare un allarme eccessivo, la pandemia ha dimostrato anche e soprattutto a imprese e banche quanto può essere pericoloso sottovalutare l’impatto economico di eventi così catastrofici da essere difficili da immaginare.