Guerra per la Rete, Starace sotto assedio dopo le nomine Enel

Francesco Starace era talmente sicuro di ottenere il terzo mandato alla guida di Enel che si è stupito quando il governo non gli ha lasciato il diritto di scegliersi il presidente. E si è stupito ancora di più quando, anziché proclamarlo amministratore delegato a vita con monumento equestre, i Cinque Stelle gli hanno fatto secca la fedele presidente Patrizia Grieco. Il Pd che non adora Starace – l’antipatia per la sua protervia unisce un’ampia fascia che va da Giuseppe Conte a Nicola Zingaretti fino a Massimo D’Alema – ha avallato l’indicazione del nuovo presidente, l’avvocato Michele Crisostomo, e del consigliere Costanza Esclapon, una comunicatrice con una carriera in gran parte accanto a Luigi Gubitosi di Telecom.

Starace ha fatto l’inferno contro le due nomine ma, come succede in questi casi, ha ottenuto solo di dare più soddisfazione a chi ha deciso di punirlo. Cristosomo è di certo più avvezzo a vicende bancarie che elettriche, ma è pronto ad appoggiare il progetto governativo della rete telefonica unica che Starace ostacola strumentalmente assieme all’unico alleato che gli è rimasto (a parte lo storico mentore Matteo Renzi): se stesso.

Ora si dirà: che c’entra l’infrastruttura di Internet con la multinazionale dell’energia? Bella domanda. Tutto nacque quando il governo Renzi pensò di fare concorrenza alla privatizzata Telecom sulla rete. A dicembre del 2014, all’alba dell’epoca renziana che si credeva eterna, fu così lanciata Open Fiber, a metà tra Cassa Depositi e Prestiti ed Enel. La nuova e vuota società ha vinto con enormi ribassi i bandi di gara per portare la fibra ottica nelle case delle zone più disagiate dell’Italia. E nel frattempo, tra enormi ritardi e difficoltà dei suoi cantieri di cablaggio, si è messa a battagliare con Telecom, che ha proprio la Cdp come secondo azionista.

Il governo, sul punto compatto come non mai, vuole un grande operatore di rete con la fusione in Telecom di Open Fiber. Ma Starace frena perché vuole che la sua quota in Open Fiber sia strapagata, riconoscendogli una plusvalenza sull’investimento fatto. E mentre si fa sovrastimare Open Fiber da Mediobanca, aumenta le offerte combinate di Enel col binomio internet-elettricità. Tra le più recenti c’è la più bizzarra, quella con Melita, azienda maltese appena sbarcata in Italia e subito accolta da una sinergia con Open Fiber. Anche negli ultimi giorni Enel ha proposto ai suoi clienti un contratto combinato con Melita a prezzi di saldo, dimostrando di crederci parecchio. Sicuramente ci crede Starace, che risulta tra i consulenti del fondo d’investimento Eqt, proprietario di Melita. A parte i potenziali conflitti d’interessi, Starace non vuole riconoscere le attuali imbarazzanti dimensioni di Open Fiber: 186 milioni di fatturato e 117 di perdita netta nel 2019. Enel ha a bilancio il 50 per cento di Of a 384 milioni, e Starace vorrebbe uscire dalla partita con un’ampia plusvalenza, vendendo la sua quota a non meno di 500 milioni, meglio se 700.

Cifre irrilevanti per un gruppo che nel 2019 ha aumentato i suoi debiti di 5,5 miliardi, toccando quota 61,5. Ma non è questione di soldi: Starace vuole poter dire che Open Fiber è stata una grande operazione di successo, un puntiglio irrinunciabile per un uomo che non vuole smentirsi o subire una decisione che non ha concordato.

L’istinto di imporsi sempre l’ha indotto, alla vigilia della presentazione delle liste per il Cda, a battersi con tutti i mezzi – anche spedendo in avanscoperta i suoi consulenti a spargere veleni – per bloccare le nomine di Crisostomo e Esclapon. Il primo ha due difetti: gli è sconosciuto e non è benedetto da lui. Il 48enne avvocato di origini salentine (da qui la leggenda che lo vuole tra i protégé di D’Alema) arriva all’Enel in schietta quota 5 Stelle, voluto dal sottosegretario Riccardo Fraccaro. E il suo mandato è quello di aiutare la nascita della rete unica. Anche Esclapon è in quota Cinque Stelle, anche se i suoi legami con Gubitosi sono così solidi che qualcuno la considera “in quota Telecom”.

Starace avrà sicuramente le sue buone ragioni per lamentare con l’azionista di controllo, il Tesoro, che d’ora in poi quando il cda Enel parlerà di fibra ottica sarà come avere in sala un uditore di Gubitosi. Ma deve prendersela con se stesso se ha tardato a capire che adesso al governo ci sono i Cinque Stelle. I quali non hanno gradito il lavoro di sabotaggio di Starace e hanno scelto con cura nomi a lui sgraditi per il cda. I pentastellati sono stanchi di scontare l’atteggiamento isterico di Starace su Open Fiber. Neanche il premier Conte ne ha un buon giudizio e il Pd di Nicola Zingaretti lo reputa legato in maniera indissolubile alla stagione renziana. Anche per questo Starace ha tentato di agganciare D’Alema ma non è riuscito a entusiasmarlo, diciamo.

Per ragioni forti – la pandemia, la continuità, il Quirinale – e perché Enel ha fatto egregi numeri negli anni scorsi, Starace non ha rischiato la poltrona. Ma il suo terzo mandato, circondato da un cda non più amico, e un governo azionista che diffida di lui, comincia in ripida salita.

Sciascia chi? Gli universitari sanno tutto della Ferragni

Cosa sanno i giovani del passato? Poco o nulla. Non per colpa loro, ma degli adulti, responsabili di non coltivare la memoria. Alla Sapienza abbiamo lanciato un contest per sondare la conoscenza di personaggi storici, scrittori e registi con un risultato sorprendente. La maggioranza dei giovani sa chi è Chiara Ferragni (una cosiddetta influencer che solo a nominarla c’è chi prova disagio), ma non conosce Leonardo Sciascia. Sanno chi è Sofocle, ma ignorano un poeta come Eugenio Montale. Se poi approdiamo al cinema (un’indagine Doxa sui consumi culturali lo colloca al primo posto a quota 80%) solo una sparuta pattuglia ha visto un film di Rossellini o di Fellini, mentre quasi nessuno conosce Antonioni o Visconti. Pasolini è noto più per la sua tragica fine e quando abbiamo proiettato a qualche centinaia di studenti il suo ultimo film Salò o le 120 giornate di Sodoma in aula sono rimasti in pochi, inorriditi dagli eccessi. Come mai i ragazzi sanno di Omero e di Dante, vissuti secoli fa? Perché li insegnano a scuola. Questo il limite della cultura: praticare, come è giusto, il passato remoto, ma dimenticare quello prossimo a noi. Se Giovanni Verga è noto ai liceali, è raro che qualcuno sappia chi è Vasco Pratolini. Se leggessero Cronache di poveri amanti apprezzerebbero, come pure vedendone il film, con uno splendido giovane Marcello Mastroianni. Analoga sorte per due registi del calibro di Pietro Germi e Dino Risi, totalmente ignoti. Eppure quando i ragazzi hanno potuto visionare alcuni loro film sono rimasti sorpresi per l’attualità. Dobbiamo avere il coraggio di puntare il dito contro noi stessi. Se dimentichi le tue origini, rischi di precipitare in un mondo dislettico.

La scuola fa quel che può e l’aver patrocinato il nostro sondaggio è un segno positivo. Ma le famiglie? I genitori parlano a casa di quello che hanno letto e visto? Ahimè nella maggioranza no, anche perché spesso l’ignoranza degli adulti è un male profondo. Non è che altrove se la passino meglio.

In America, tempo fa hanno promosso una inchiesta per sondare la conoscenza della cittadinanza. Alla domanda dove si trovi il Canada un gran numero di intervistati ha risposto… in Francia. Devono aver sentito che in una parte del paese si parla francese e dunque ecco dove collocarlo. E stiamo parlando di un territorio che dista poche migliaia di chilometri dagli Stati Uniti. Non è che i cinefili, tra i cui compiti dovrebbe esserci la divulgazione del passato, siano immuni da colpe. Anche a loro ciò che è stato interessa poco. Eppure molti titoli di ieri possono appassionare i giovani quanto un film di Quentin Tarantino (aspettiamo qualche anno e temo che anche lui cadrà nel dimenticatoio).

La televisione per esempio, in primis quella pubblica, potrebbe fare opera di conoscenza. È vero che ogni tanto manda in onda qualche opera del passato, ma per lo più a tarda notte. Perché non trasmetterle in orari decenti, affidandone la presentazione proprio a dei giovani? Insistendo nell’esperimento la platea si allargherebbe. E finalmente i capolavori di ieri vivrebbero anche domani.

Attenzione però a criticare il pubblico giovanile. In tempi di coronavirus sta evidenziando una diffusa sete di sapere. Mentre un gran numero di adulti trova rifugio nell’apatia, i ragazzi occupano la Rete in cerca di passioni. Le trovano soprattutto nei film e nelle fiction. In queste settimane sono aumentati vertiginosamente i consumi di produzioni per lo più americane, con un netto rifiuto delle italiane sia Rai che Mediaset, ormai destinate a un pubblico over 60. Streaming è la parola d’ordine giovanile, orientati a prediligere soprattutto due generi: l’horror e il fantasy. Si direbbe che la realtà interessa poco, a meno che sia tinta di rosso, il colore del sangue.

Dominano le emozioni forti o lo stile Marvel generato dalla Disney, che ha seguito la crescita del suo pubblico seguendolo passo dopo passo sin dall’infanzia. Italia, Paese stanco, quando ti sveglierai dal letargo?

L’onda lunga delle nomine di Conte

Nessuno sa bene che Italia ci sarà a settembre, quando capiremo se l’economia è sopravvissuta alla combinazione micidiale tra pandemia, lockdown e frenata del commercio globale. Il primo segno del ritorno alla normalità è che sono ripartite le chiacchiere di corridoio su un governo di unità nazionale al posto di quello Pd-M5S per gestire il “dopo”. Ora, a parte il sospetto che l’unità serva a preservare le solite rendite di posizione e privilegi in un mondo post-Covid, l’esito di queste trame è assai incerto.

L’intensificarsi delle voci impone una lettura diversa delle nomine fatte dal governo Conte nelle scorse settimane: tutti si sono concentrati sugli amministratori delegati (con la conferma dell’imputato Claudio Descalzi all’Eni), pochi hanno osservato il giro dei presidenti. Dopo due mandati, l’ex capo della polizia e dei servizi segreti, Gianni De Gennaro, ha perso la poltrona di Leonardo, il colosso della Difesa a controllo pubblico. Neanche Matteo Renzi all’apice del suo potere, a inizio 2014, aveva osato indispettire De Gennaro, che invece ora si trova senza incarichi. Al posto di De Gennaro è arrivato Luciano Carta, dopo un solo mandato alla guida dell’Aise, il servizio segreto estero, una promozione che sa di rimozione, visto che Carta avrebbe potuto fare almeno un altro mandato e poi magari passare al Dis, il coordinamento dell’intelligence. Ma Carta, in varie occasioni, si era trovato su posizioni diverse rispetto a Gennaro Vecchione, attuale capo del Dis, stimato da Giuseppe Conte. Vecchione è rimasto al suo posto e Carta è stato spedito a Leonardo, esilio dorato ma pur sempre esilio. Il premier Conte, proprio nel momento in cui tanti lo danno per pericolante, ha tentato una prova di forza su due degli uomini cruciali nel sistema delle relazioni discrete del potere italiano. E ha prevalso. Se il risultato sia una maggiore resilienza o soltanto una lista di nemici più lunga (e quindi una fine più rapida) lo capiremo col tempo.

Festa per Genova, senza dimenticare le responsabilità

Suonano le sirene a Genova, e non sono ambulanze. È il rumore di una rinascita: un viadotto ri-unisce la città spezzata in due il 14 agosto 2018. Una buona notizia in un brutto momento, cui giustamente l’informazione ha dedicato ampio spazio. Soprattutto celebrando Renzo Piano, l’architetto che ha firmato il nuovo progetto. Il quale ha fatto quel che poteva per sottrarsi alle lusinghe (“Nessuna festa. È un’opera che ci riempie di orgoglio ma nasce pur sempre da una tragedia”, ha detto a Repubblica). Certo, sottrarsi è complicato se le domande che ti fanno sono più o meno così: “Poco più di dieci mesi per tornare a unire la vallata con un viadotto. Cos’è, un miracolo?”. E lui, giustamente, “Macché miracolo”. Il nuovo ponte è invece “il simbolo dell’Italia migliore” secondo un pensoso commentatore della Stampa. Che ieri invitava i propri lettori a considerare la questione da più ampio orizzonte. “Il Ponte Morandi, se ci riflettete, era simbolo di un errore condiviso da troppi di noi, l’idea provinciale che ci sia sempre un modo ‘all’italiana’ di cavarsela, peculiare a noi e sconosciuto agli altri paesi, irrisi scrollando le spalle”. Vi è per caso scappata una riflessione sull’inchiesta penale? Sui report sullo stato di viadotti deliberatamente “sottovalutati” e sugli interventi “strutturali” consapevolmente fatti passare per ristrutturazioni locali, con l’unico obiettivo, del “tornaconto economico”? Riflettevate sui difetti esecutivi e sulla “mancata manutenzione negli ultimi 25 anni”, di cui hanno scritto i periti sostenendo che se sulla pila 9 fossero stati fatti i lavori svolti sulla pila 11, probabilmente il ponte non sarebbe crollato? Eh no, cari. Ecco su cosa dovete soffermarvi: “Morandi usò, davvero fino all’illusione, una sua individuale tecnologia, impiegata solo in poche altre esperienze, altrettanto infelici, mentre l’architettura internazionale cresceva impetuosa sperimentando tecniche innovative”.

Questa settimana, prima di essere illuminati sulle colpe di Morandi, abbiamo tenuto un piccolo conto, giorno per giorno. Ci siamo segnati quante volte compariva il cognome Benetton in relazione al crollo del ponte, visto che Atlantia, la società che controlla Autostrade per l’Italia (tutt’ora), è della famiglia veneta. Risposta: nessuna. Il 23 aprile abbiamo letto un ottimistico resoconto sul tavolo che si occupa della concessione (“si allontana la revoca”, ma nessun cenno al crollo del ponte); lo stesso giorno anche un articolo di moda: le griffe trainano la ripresa; il 25 aprile entusiastici pezzi (un po’ ovunque) a proposito della decisione del presidente e del dg di Atlantia di tagliarsi lo stipendio del 25 per cento e di istituire un fondo per Genova. Il massimo che siamo riusciti a trovare, nei quotidiani degli ultimi giorni è questa nota: “Al di là del sollievo generale per una cosa fatta bene e dei proclami che ne discendono, questa è davvero un’altra storia, molto delicata” (Corriere). Fine. Per il resto, nemmeno una parola sulle inchieste penali o sulla questione della concessione: tout est pardonné. Da subito, dall’inizio di questa tragedia, il primo istinto è stato quello dell’impunità, anche da parte dei diretti interessati, con i loro comunicati stampa asettici e le loro feste cortinesi. Il clima di rimozione non è stato aiutato dall’imperdonabile atteggiamento dei media, raramente come qui dissonanti dal sentimento del Paese: uno Stato protegge i suoi cittadini, esercita questa tutela in tutte le forme legittime che ritiene. Compreso revocare una concessione perché ritiene che la controparte, con il crollo di un viadotto e 43 persone morte, sia inadempiente. Quanto a noi non stupiamoci della crisi dei giornali, se abbiamo perso l’amore per la verità in favore di una mancanza di autonomia travestita da prudenza.

Salvini come in un gioco di ruolo: sbagliarle tutte e finire a polpette

Se fosse un gioco di ruolo, di quelli che girano sulla Playstation, la nuova fase di Salvini Matteo potrebbe intitolarsi “Sbagliarle tutte livello Pro”. È quella fase dove l’eroe affronta la realtà e ne viene polpettato, a dispetto del nuovo travestimento. Vi risparmio le puntate precedenti, livelli divertenti ma alla fine abbastanza facili: le ruspe, le felpe, le magliette della Polizia, i migranti sequestrati, persino le giacche di velluto a coste quando doveva battere la simil-sinistra emiliana, persino i golfini azzurri finto-sanitario. Ora siamo alla fase “commercialista di Saronno”, con gli occhiali e l’aplomb posato di chi manda all’Inps le richieste dei suoi clienti: niente di nuovo. O forse sì, varie cose.

In primis i sondaggi: una decina di punti in meno rispetto alle Europee secondo l’Ipsos di Pagnoncelli, ma non fa conto parlarne, perché i sondaggi quando non si vota sono come il vin brulé in luglio. Più interessante il comportamento sui social, dove pare che la “bestia” salviniana incominci a usare con frequenza il tasto “blocca” per escludere dalla platea virtuale nemici, avversari e semplici cittadini che gli rispondono per le rime ogni volta che si affaccia su Twitter o Facebook. È il segnale che la bolla mediatica perde colpi, che quel “basta che se ne parli” che gli garantiva la prima pagina un giorno sì e l’altro pure non funziona più. Da asso pigliatutto dei media, Salvini è tornato a essere in soli sei mesi il mesto gracchiare in sottofondo della più prevedibile delle opposizioni. Chiudere se il governo dice di aprire, aprire se il governo dice di chiudere, insomma un Salvini di Pavlov le cui uscite – prima spiazzanti e sorprendenti – diventano una pièce già vista e rivista, noiosa, stucchevole e spesso grottesca (ad esempio quando mette di mezzo la figlioletta innocente).

L’uomo, diciamo così, sta ormai seduto su un’altissima piramide di cazzate che sarebbe lungo elencare. Prima tra tutte – particolarmente grave se si pensa al tragico sacrificio del popolo lombardo, martire di una gestione dissennata dell’emergenza – la strenua difesa della sua classe dirigente in Lombardia. Che Fontana e il suo pard Gallera le abbiano sbagliate tutte è ormai conclamato e riconosciuto da chiunque (tranne da loro due, giapponesi nella giungla), e il sostegno indefesso di Salvini rischia di trascinarlo in basso insieme ai Gianni e Pinotto della pandemia. La difesa della gestione lombarda, che poggia ormai su un paradossale vittimismo albertosordista è aggravata dal fatto che poco più in là, in Veneto, un altro esponente leghista, Zaia, pare, per contrasto, una specie di Einstein. Basta seguire i ghirigori dialettici degli ultras leghisti per accorgersi del ribaltone, ormai l’esempio di efficienza è Zaia, non Fontana, lo stesso Zaia al quale Salvini non dedica nemmeno una parola: in via Bellerio la Lega veneta è sempre stata considerata il cugino scemo, e ora potrebbe prendersi le sue rivincite. Anche quando ha tentato di mettersi una medaglia, Salvini ha finito per pungersi: l’ospedale alla Fiera di Milano, costato oltre venti milioni e sbandierato come eccellenza (parola che si sconsiglia di usare in Lombardia per i prossimi secoli) è semivuoto e desolato, persino chi se lo era inventato per la propaganda non ne parla più, glissa, finge di non sentire.

Si aggiungano le cattive compagnie: i vecchi tweet esultanti per Bolsonaro, o peggio ancora per mister Trump, il famoso virologo che vuole curare il Covid con pere di candeggina, non rendono un buon servizio al neo commercialista già smutandato assaggiatore di mojito. Se fai la voce grossa chiedendo “pieni poteri” e solo qualche mese dopo ti presenti col cappello in mano a chiedere “grandi intese”, fai la figura di quello che annaspa perché non sa nuotare e, annaspando, affonda ancor di più.

Caro Feltri, il Sud è culla della civiltà

Nei giorni scorsi, durante la trasmissione Fuori dal coro condotta su Rete 4 da Mario Giordano, Vittorio Feltri, noto giornalista bergamasco, più volte direttore di quotidiani (L’Indipendente, Il Giornale, Libero), ha detto: “Perché mai dovremmo andare in Campania? A fare i parcheggiatori abusivi?… I meridionali in molti casi sono inferiori”.

Poiché tali affermazioni hanno suscitato un’aspra polemica e il Meridione è insorto contro il direttore di Libero, costui – peraltro, non nuovo ad attacchi nei confronti dei meridionali al punto da essere “sbeffeggiato” ogni venerdì dall’impareggiabile Maurizio Crozza – ha cercato di sminuire la gravità delle sue affermazioni dichiarando che l’espressione “sono inferiori” sottintendeva il termine “economicamente”, spiegazione che non appare convincente perché in nessuna parte delle dichiarazioni rese da Feltri a Giordano vi è un riferimento a condizioni di disparità economica tra Nord e Sud e, del resto, l’affermazione “in molti casi” non lascia dubbi sulla effettiva portata offensiva dell’epiteto “inferiore” che, nei dizionari italiani, sta a significare “persona che non è pari ad altri avendo minori capacità, doti, ecc.” (Coletti); “persona che è al di sotto per merito, attitudini, capacità” (Treccani).

Durante la trasmissione su La7, Non è l’arena, in cui è stata resa nota la spiegazione fornita da Feltri, il giornalista Luca Telese – che non gli ha lesinato aspre censure – ha definito “penosa” tale spiegazione, mentre Annalisa Chirico, giornalista de Il Foglio, ha affermato che “Vittorio Feltri ha il diritto di esprimere ciò che vuole”; affermazione, a dir poco, sorprendente soprattutto se proveniente da giornalista che dovrebbe sapere che il principio, costituzionalmente riconosciuto, di esprimere liberamente la propria opinione trova un limite invalicabile nel rispetto di altri diritti fondamentali della persona, quali la dignità, l’onore, la reputazione, tant’è che il diritto di critica è soggetto ai principi di veridicità e continenza e, cioè, all’obbligo di correttezza formale e sostanziale delle espressioni adoperate.

Ciò premesso, è forse necessario ricordare all’immemore giornalista bergamasco che – senza con ciò scomodare i grandi filosofi dell’antichità Parmenide e Zenone, nativi di Elea-Velia (l’odierna Marina di Ascea nel Cilento) che ivi fondarono la “Scuola eleatica” che influenzò per circa due secoli il pensiero filosofico greco – l’eccelso filosofo Benedetto Croce, “il più grande mostro della cultura italiana” (nativo di Pescasseroli) fu educato a Napoli, città alla quale fu legato per tutta la vita e a cui intestò la prestigiosa rivista Napoli nobilissima. E sarà utile ricordare che la prima e più importante Istituzione medica d’Europa nel Medioevo fu la “Scuola medica salernitana”, “uno dei fari culturali del Medioevo”; e, ancora, che la prestigiosa Università degli Studi di Napoli Federico II è stata tra le più antiche università del mondo, divenuta nel tempo anche la culla del diritto forgiando i più insigni giuristi, magistrati, avvocati, primi tra tutti, il napoletano Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica italiana, e il salernitano Alfredo De Marsico, uomini dall’imperituro ricordo.

Nel corso della trasmissione su La7, si è accennato anche alla criminalità organizzata che opera nel Sud, ma se questo è vero, è altrettanto vero che imprenditori lombardi non hanno “disdegnato” i capitali mafiosi (come accertato nel processo “crimine infinito”) e che grandi corrotti e grandi evasori fiscali si annidano, come stabilito da recenti sentenze definitive, nel Settentrione d’Italia.

Mail box

 

Vi ho scoperto per curiosità: complimenti per il giornale

Buongiorno, sono un lettore di quotidiani che hanno la cronaca locale di Pordenone e provincia. È da poco che, più per curiosità, ho acquistato il vostro giornale e devo ammettere che sono rimasto veramente colpito. Sicuramente continuerò a leggerlo e con questa mia vi faccio i complimenti e auguri sinceri. Ps. siete forti!

Ermes Zille

 

Prima la salute, poi la messa: Dio sicuramente capirà

Vivo a Bergamo, martoriata dal virus. A messa non ci vado per evitare il contagio e non perché c’è il divieto. Se il governo togliesse il divieto, continuerei a seguire la messa da casa in tv. L’atteggiamento della Cei è incomprensibile: prima viene la salute pubblica, tutto il resto è secondario. Sono convinto che Dio capirà.

Marco Locatelli

 

È tempo di essere guardiani della Memoria

Stimato dottor Colombo, dopo aver letto il suo articolo di domenica, le scrivo per manifestarle il mio profondo rispetto e la mia ammirazione. Sono un ragazzo che vive di ideali, perciò mi trovo spesso deluso, a causa dei tempi di sterilità emotiva che viviamo. Impegnerò tutto me stesso nella quotidiana attività di guardiano della Memoria. Non è più il tempo di distogliere lo sguardo.

Lorenzo Iezzi

 

Gli inopportuni sproloqui su noi meridionali

A oltre 150 anni dall’unità d’Italia e a oltre un secolo dalle tesi di Lombroso riecheggiano le argomentazioni sconclusionate di Vittorio Feltri, che in una trasmissione tv ha sottolineato la presunta “inferiorità” dei meridionali. È davvero triste che un decano del giornalismo si lasci andare a frasi del genere, che trasudano solo odio gratuito in un momento così delicato. Tristissima, poi, la complicità di un altro giornalista, Mario Giordano, che ha dato spazio allo scatenato Feltri senza impedirgli di proseguire il suo sproloquio né dissociandosi. Bene ha fatto il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, nel condannare quelle sparate. Invito Feltri a visitare la Basilicata e la mia città, Venosa, che diede i natali a Orazio. Scoprirà un luogo unico che già duemila anni fa era crogiolo di culture. Sono certo che piacerà a Feltri.

Gianni Leggieri, Consigliere Regionale Basilicata del M5S

 

Una petizione per riaprire le scuole in sicurezza

Siamo docenti di un liceo di Roma: abbiamo scritto una lettera aperta alla ministra dell’Istruzione perché riteniamo sia fondamentale, ora che si parla di ripresa, rimettere al centro la Scuola. Come tutti i colleghi, ci stiamo impegnando nella “didattica” a distanza, consapevoli tuttavia che questa modalità debba costituire l’eccezione e non la regola. L’apprendimento è un processo complesso, che può avvenire soltanto all’interno di una cornice emotiva e relazionale che lo strumento multimediale non consente. La formazione è un bene primario e perciò facciamo proposte per riprendere con gradualità, rispettando le misure di sicurezza. La nostra lettera è ora una petizione: http://chng.it/n9YKxqSk.

Alessia La Barbera, Giovanna Mayer, Giorgio Zaccaria

 

Giulietto Chiesa merita un funerale dignitoso

Domenica è morto un grande italiano. Giulietto Chiesa, piemontese del 1940, ha studiato fisica a Genova, poi giornalista all’Unità e corrispondente da Mosca, anche per la Stampa, negli undici anni della fine della Unione Sovietica. Lì ha potuto apprezzare l’assurdità della guerra fredda e delle sanzioni economiche… Vogliamo celebrarne la vita partecipando al suo funerale. Il funerale è un diritto dei vivi: Priamo si addentra nelle schiere achee fino a raggiungere la tenda di Achille, dove non sa se l’attenderà la morte, per poter celebrare il funerale del figlio Ettore. In tanti, nelle battaglie, sono caduti per assicurarsi le spoglie di loro compagni o compagne, fratelli, figli, figlie o sorelle. Questo dobbiamo a Chiesa.

Associazione Centro di Gravità

 

DIRITTO DI REPLICA

Nell’articolo del 15 aprile di Natascia Ronchetti, dal titolo “Niguarda, contagi reparti Covid free”, il passaggio “la maggioranza dei contagiati, tra gli operatori sanitari, opera nei reparti Covid free” è frutto di un equivoco. La citazione corretta è: “Vi è stato un numero di contagi superiori a quelli attesi per il tipo di fornitura data in quei reparti (mascherine)”.

Marigo Libero, Nursing Up (Mi)

 

In merito all’articolo “Molise, ai privati il 95% del fatturato per stare chiusi” pubblicato domenica, premettiamo che Neuromed avrebbe volentieri rinunciato ai rimborsi forfettari contrattualizzati dalla struttura commissariale. Non appena si è riscontrata la presenza di pazienti Covid-19 (asintomatici) nel reparto di Neuroriabilitazione, ha chiesto all’Asrem di poterli trasferire nell’Hub regionale del Cardarelli a Campobasso. L’Asrem ha risposto con un diniego e Neuromed ha presentato un art. 700 per ottenere il trasferimento dei pazienti e si è visto costretto a organizzarsi per la loro gestione, proseguire l’attività del reparto di Neuroriabilitazione, svuotando e riadattando gli altri reparti e bloccando altre attività con un danno economico rilevantissimo. In merito all’accordo sottoscritto con la struttura commissariale, è previsto che “in caso di emanazione di norme legislative incidenti sul contenuto del contratto stipulato, lo stesso deve ritenersi automaticamente modificato e integrato, fatti salvi gli effetti prodotti”. Viene da sé che il 95% del pagamento previsto verrebbe allineato a quanto stabilito dal dl 23/2020. Quindi l’acconto economico non ci verrebbe corrisposto per restare chiusi, perché viceversa il Neuromed è rimasto sempre aperto, convertendosi in centro Covid-19. Chiarimento che dimostra la qualità dell’impegno dell’Istituto a livello clinico e scientifico. I ricercatori hanno avviato progetti scientifici con oltre 30 centri Covid-19 sul territorio nazionale. Altra iniziativa: la realizzazione, con tecnologia di stampa 3d, di valvole destinate a maschere respiratorie per la terapia sub intensiva.

Ufficio stampa Neuromed

 

Prendiamo atto della nota che non smentisce nulla. Restiamo in attesa che la struttura commissariale e la Regione rettifichino gli atti cosicché l’utilizzo del modo condizionale (“il pagamento verrebbe allineato”) si trasformi in presente e venga applicata la quota di remunerazione adottata a livello nazionale, come previsto dal dl 23/2020.

PdR

È ancora in sperimentazione. Non bastano alcuni dati positivi dei guariti

Buongiorno caro direttore, leggo sempre e apprezzo in maniera incondizionata il vostro giornale. Sono mantovano di nascita e seguo il lavoro fatto lì per il Coronavirus, anche perché ci vive mio fratello. Ho seguito i tentativi con la plasmaterapia, e capivo che i risultati sono stati buoni. Ho letto anche un recente articolo sugli Ospedali di Pavia e Mantova che curano i pazienti Covid-19 con la sieroterapia, ovvero le trasfusioni di plasma dei guariti: questo sostanzialmente conferma, ampliando, le mie sensazioni. Vi pongo dunque una domanda: perché, a parte la guarigione di una donna incinta con l’uso di questo metodo, non se ne parla a livello globale come cura? Non è che ci sono troppi interessi sotto e trovare una cura poco costosa, che limita sostanzialmente l’uso delle terapie intensive e di tutte le restrizioni imposte, fa paura? Perché una cura non può diventare essa stessa come un vaccino? Mi farebbe piacere una risposta dalla medicina in merito, in modo da avviare una discussione ampia. Grazie.

Stefano Zaccaron

 

Gentile signor Zaccaron, non conosco e non mi interessano le trame e gli intrighi, qualora ci fossero. La plasmaterapia è una delle terapie oggi in sperimentazione, poiché, oltre alle sensazioni o ad alcuni risultati positivi, è necessario che soddisfi dati statistici. Sono convinta che li avremo presto.

Maria Rita Gismondo

Lenin Exotic e Rosa Luxemburg tra balletto e tigri

Riassunto della puntata precedente, a cura del gruppo Bilderberg: “Arrangiatevi.”

“Una sera, nel teatro Mariinsky di Pietrogrado, Lenin Exotic, un eccentrico cantante country allevatore di tigri, con meches bionde, piercing alle orecchie, revolver al cinturone, e pantacollant animalier troppo stretti, assiste alla prima di ‘Rivoluzione!’, una produzione di Diaghilev su musiche di Debussy. Il balletto lo incanta. L’inizio è quasi statico: due danzatori in proscenio (il capitalismo e la borghesia) contemplano lo spazio, come in attesa di un tram. D’un tratto, sulle note di un mambo scatenatissimo, una danzatrice (la rivoluzione) entra in scena alle loro spalle, percorrendo a balzelloni il palco deserto come una necessità storica. La sua sensualità è ridicolizzata dal boa di struzzo: è la sensualità che dice ‘I soldi non danno la felicità, ma la felicità non dà i soldi’. La danzatrice va verso i due uomini, che la ignorano come la società di massa ignora spudoratamente il singolo, e sventola davanti alle loro facce algide un fazzoletto rosso, accompagnando il suo grand jeté en tournant con una risata sguaiata, un effetto talmente potente che convinse Trotsky ad aderire al bolscevismo. Il susseguirsi dell’azione scenica evoca le danze tribali, a simboleggiare il soggettivismo psicologico dei populisti, con movimenti iterativi, di una acrobaticità strabiliante, che rendono perfettamente l’idea delle loro teorie consolatorie. Il 7 novembre, ancora galvanizzati dalla performance, i bolscevichi prendono il potere, e Bucharin celebra l’evento lanciandosi in un paso doble che gli lussa l’anca. Viene lanciata la NEP, che apre l’URSS all’economia di mercato, ma senza Las Vegas. Nel 1924, Lenin muore, allontanandosi per sempre dalle idee marxiste”.

Le scene clou, nell’intenzione degli autori, colpiranno e divideranno il pubblico, ipnotizzandoli: tigri di 180 chili che si ammassano davanti alla gabbia, le vibrisse che arpeggiano sulle sbarre, alla vista dei dissidenti politici macellati, messi lì per nutrirle; bambini a galoppo dei felini come fossero peluche, che però potrebbero staccargli la testa in un sol boccone croccante (“Magari!”, esclama Farinetti, un socio della Holden, col segno del dollaro negli occhi dilatati, ben sapendo che l’interesse morboso si nutre di curiosità, indignazione, sconcerto e appetito per emozioni sempre più forti, come insegna da mezzo secolo la Formula 1); Lenin Exotic, che del suo parco di animali esotici, la Russia, si definisce “il sindaco, il giudice, il poliziotto e il boia”, mentre si ciba degli animali, investiti sulle strade, che un gruppo di volontari recupera per provvedere al suo fabbisogno alimentare; il piano caotico e rocambolesco di Lenin Exotic per sbarazzarsi dell’arci-nemica Rosa Luxemburg (veleno sulle pagine dei suoi settimanali di gossip preferiti, che sfoglia umettandosi la passera), la Luxemburg erede della fortuna del marito misteriosamente scomparso (accoltellato nel sonno dalla mogliettina, e poi macinato per fare salsicce con cui nutrire le pantere nel suo giardino); Lenin Exotic che si dichiara innocente, tenendo in mano la testa, decapitata a morsi, dello zar Nicola II.

(2. Continua)

Paura seconda ondata

Scorrendo le notizie di questi giorni di attesa della fase 2, si trovano dichiarazioni ottimistiche e altre pessimistiche. Non ho mai escluso che nell’affrontare questa pandemia le scelte delle misure avrebbero potuto essere altre. Per esempio, analizzando i dati provenienti dalla Cina, isolare i soggetti a rischio e individuare più prontamente i focolai da circoscrivere lasciando in libertà (vigilata) tutti gli altri. Certo, è facile fare considerazioni a posteriori. Le scelte, a livello internazionale, sono state tutte Wuhan-simili e ci siamo adeguati. Forse anche perché nessuno avrebbe voluto assumersi la responsabilità di stare fuori dal coro. Siamo, obtorto collo, tutti in lockdown. È un sacrificio importante, anche dal punto di vista economico. Abbiamo perso il perdibile e forse di più, oltre sarebbe impossibile. Siamo sicuri ora di non vanificare questo enorme sacrificio irripetibile? È legittimo il timore che, come un gioco d’azzardo, dal 4 maggio potremmo mandare in fumo gran parte dei nostri sacrifici, dei quali ancora non ci è arrivato il conto. I numeri ci dicono che i contagi stanno calando, ma ancora sono molto alti, soprattutto al Nord dove è più intensa l’attività lavorativa. Oggi abbiamo lo stesso numero di infetti che poche settimane orsono faceva dichiarare che sarebbe stato rischioso mettere il naso fuori dalla porta. Il 27 aprile si sono registrati gli stessi numeri dell’11 marzo. Fatti due conti, se durante la fase 2 i contagi dovessero raddoppiare, ci troveremmo con la saturazione dei letti in terapia intensiva e un numero di morti crescente e nella condizione di non poter più proporre un lockdown. Non riesco, forse per la prima volta, a essere ottimista.