Maglia nera in Palio per renzi e Calenda

Assai scarso in tutti gli sport che ho fatto finta di praticare, mi appassiona la classifica degli ultimi, quella in particolare tra Matteo Renzi e Carlo Calenda. Personalmente faccio un tifo sfegatato per il leader di Azione, ma non vorrei che l’uomo di Italia Viva, la leggenda umana che perse il 40 per cento per conquistare il 4, ambisca a collezionare il definitivo tracollo, quello di maglia nera della politica italiana.

Trofeo che nel Giro d’Italia degli anni 20 ebbe un assoluto protagonista in Luigi Malabrocca, e un degno rivale in Sante Carollo. Stando alle cronache dell’epoca la spensierata coppia ricorreva a qualsiasi sotterfugio per farsi staccare irrimediabilmente dal gruppo. Si nascondevano nei bar, o sotto i ponti, o semplicemente danneggiavano la propria bici ficcando dei chiodi nelle camere d’aria. Malabrocca, che si fermava spesso a parlare con i fan durante la pausa caffè, che poi si trasformava in un lungo pranzo, fu persino sorpreso a pescare nel Ticino.

Ebbene, con la sua ultima intervista a Repubblica, là dove accusa il governo Conte di “calpestare la Costituzione”, temiamo fortemente che il Malabrocca di Rignano abbia sferrato un colpo decisivo al Carollo dei Parioli. Che, infatti, 0,1 dopo 0,1 adesso rischia perfino di raggiungerlo e superarlo, come del resto ha già fatto Sinistra Italiana, e si appresta a fare “Più Europa”. Detto che “Cambiamo!” del ligure Giovanni Toti concorre solo per il collegio di Albissola Marina, a questo punto Renzi potrebbe mettere al sicuro la sua libidine di sconfitta, per esempio sciogliendo Iv dentro la sigla “Altri”. Che, come si sa, chiude ogni sondaggio raggruppando tutti coloro che non hanno la benché minima idea di ciò di cui si sta parlando. Che è poi esattamente il suo manifesto politico.

“Porpore e politici parlano, ma io preferisco i primari”

Il divieto di dire messa e di frequentare le chiese sembra aver gettato una luce chiara sulla coesistenza di due diverse Chiese: una, legata alle alte gerarchie ecclesiali, che mette al centro la liturgia ed esige la ripresa dell’attività pastorale; l’altra, guidata da Papa Francesco, che applica la virtù della prudenza, intesa come discernimento, ed è vicina a chi soffre, con modalità diverse. Padre Alberto Maggi, teologo, biblista, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, appartiene a quest’ultima. Nel pieno della pandemia, nel comune marchigiano di Montefano dove ha fondato il Centro Studi Biblici Vannucci, ha fatto suonare le campane a distesa.

Padre Alberto, lei ha detto che ai vescovi non farebbe male una passeggiata nelle corsie per vedere le persone intubate. Non condivide quindi la nota della Cei contro il governo.

Tra il parere dei vescovi e quello dei politici, senza esitare scelgo quello dei primari di rianimazione. La situazione è ancora grave e occorre mantenere le severe regole che impediscono la propagazione della pandemia. Dio si manifesta nella vita non solo nel culto, a Lui sta più a cuore la salute dei suoi figli che la partecipazione ai riti.

I vescovi vogliono esporre al pericolo preti e fedeli?

Le celebrazioni liturgiche sono espressione di vita e vogliono manifestarla. Non si può rischiare di trasmettere anche un virus mortifero. La fede non esime dall’intelligenza ma la esige, non si può confondere la fede con il fanatismo. Sono già morti troppi preti e troppi fedeli.

Gesù ha detto: Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto”. La messa a cosa serve?

L’eucaristia è il momento prezioso e indispensabile per la crescita del credente e della comunità. In essa il Signore si fa pane, alimento di vita, in modo che quanti lo mangiano e assimilano siano capaci di farsi nutrimento per gli altri. Se per determinate circostanze non si può celebrare, ci sono altre alternative nel farsi pane.

È molto seguito sui social. Non c’è il rischio che il digitale diventi un sostituto del rapporto umano, se non dell’umanesimo?

Sia benedetto Internet! Santo subito! Le distanze vengono annullate e si può essere vicini a tante persone. Il nostro sito (www.studibiblici.it) è seguito da ben 145 nazioni. Ovunque arriva la buona notizia di Gesù, fiorisce la vita. La tecnologia non sostituisce il rapporto umano: può potenziarlo.

Molti hanno perso tutto: la salute, il lavoro, i genitori. La tragedia di Giobbe si ripete. Come può Dio permetterlo?

Gesù ci ha liberati da questa immagine di Dio. Lui ci fa conoscere un Padre che è solo amore; sta a noi accoglierlo. Non siamo noi a dover chiedere a Dio perché tutto questo, ma è Lui che lo chiede a noi. Ci ha chiamato a essere custodi del creato e non i devastatori, far fiorire forme di vita e non farle appassire.

Lei ha avuto una esperienza che è finita nel libro Chi non muore si rivede e poi nel film Un eretico in corsia. La racconta?

Ho vissuto tre mesi in terapia intensiva tra la vita e la morte, un’esperienza che mi ha arricchito e che poi ha aiutato molte persone ad affrontare i momenti più difficili della vita con serenità e fiducia, nella certezza che c’è, accanto a noi, un Signore che ti dice: “Non ti preoccupare… Fidati di me!”.

Ha avuto davvero visioni di defunti?

Quando si è a un passo dalla morte, nel limite, vita e morte si confondono ed è possibile sperimentare la presenza di coloro che ci hanno preceduto nella nuova dimensione e vengono ad accoglierci. Non c’è bisogno di parole, è comunione vibrante, scambio arricchente d’affetto.

Molti sono morti soli, senza il conforto dei familiari.

La morte non separa dai nostri cari, ma ci unisce ancor di più. La loro non è un’assenza, ma una presenza ancora più intensa, non sono lontani ma vicini, e continuamente cercano di farci percepire che ci sono accanto con un amore ancora più grande. Perché la loro felicità sia piena hanno bisogno solo del nostro sorriso, e questo nessuna emergenza lo può impedire.

Che significato dà all’immagine del Papa solo in piazza San Pietro vuota?

Dai tempi dei Papi col triregno e la sedia gestatoria a Francesco dall’andatura incerta, ma allo stesso tempo sicura, se ne è fatta di strada e occorre continuare a percorrerla. Nella Chiesa c’erano tanti rami secchi ai quali eravamo abituati, la loro caduta può preoccupare, ma solo la loro scomparsa permetterà alle nuove gemme di nascere.

Ce la faremo a rinascere?

Ho un vantaggio anagrafico: sono nato nel 1945. Ho vissuto la mia infanzia tra le macerie della mia città, Ancona. Mancava tutto, ma c’era un’energia e una voglia di ricostruire, di vivere, di gioire, e l’impegno di tutti ha prodotto il “miracolo economico”. Dalle macerie fiorirà il nuovo miracolo, non più economico, ma umanitario.

Come fa ad essere così ottimista? Da dove trae la gioia di vivere?

È il dinamismo stesso della vita, più forte e tenace di ogni pulsione di morte. Se poi ci aggiungi la fede nel Padre che desidera la tua felicità, e per questo tutto trasforma in bene, sperimenti che ogni situazione, anche la più dolorosa, può diventare opportunità di crescita e occasione di ricchezza.

Messe, Francesco non protesta e sconfessa i vescovi (e Ruini)

C’è una vistosa mancanza di comunicazione e ci sono forti incomprensioni tra papa Francesco e la Conferenza episcopale italiana. Per la seconda volta in due mesi di pandemia si assiste allo stesso susseguirsi degli eventi: la Cei prende una posizione, il pontefice la corregge. Dopo due giorni di proteste dei vescovi per il divieto di celebrare messe anche nella fase due (o uno e mezzo), autorevoli pareri di cardinali, addirittura un furente comunicato dopo la conferenza stampa del premier Giuseppe Conte, ieri Bergoglio è intervenuto durante la messa all’alba che celebra a Santa Marta e ritirato la polemica: “In questo tempo nel quale si comincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni”. Così la Cei è stata chiamata a condividere la linea di Francesco e quindi a frenare l’opposizione mediatica alle scelte del governo. Per un tanto brusco capovolgimento ha parlato, sapendo come dire le cose, il sottosegretario don Ivan Maffeis: “Il richiamo del Papa è davvero la cifra che ci serve per contemperare due esigenze che non possono essere contrapposte, la salute di tutti non può essere sottovalutata. Sottovalutare le indicazioni dell’autorità sanitaria significherebbe di fatto irresponsabilità che nessun cittadino può permettersi, sarebbe come calpestare i tanti morti, medici, infermieri, gli stessi sacerdoti e quanti, in una forma o nell’altra, si sono esposti per curare i malati di coronavirus compromettendo la loro stessa salute”. Agli inizi di marzo, stesso canovaccio per la chiusura delle chiese. La Cei lasciò la possibilità della serrata, alcuni vescovi strinsero i lucchetti ai cancelli, anche il vicario di Roma, il vicario di Bergoglio, finché il Papa indicò la rotta e passeggiò per le vie della Capitale, per pregare, di chiesa e chiesa. Ieri anche il cardinal Camillo Ruini, che la Cei la guidò dal 1991 al 2007, aveva detto: “Bene ha fatto quindi la Conferenza episcopale a protestare con forza”. Sconfessato anche lui. L’idea del governo, intanto, sembra essere quella del via libera alle messe (all’aperto) a partire dall’11 maggio.

Per “Stampubblica” la salute non è una priorità

Ma che bello il Paese che riparte, dove i problemi sono alle spalle e “la paura si allontana”. Leggendo la nuova Repubblica a trazione John Elkann (e quindi Fca) e a firma Maurizio Molinari (appena arrivato da La Stampa) l’Italia sembra un luna park pronto all’inaugurazione, in un clima per nulla scalfito dal virus. La priorità del nuovo corso editoriale sembra infatti coincidere – manco a dirlo – con gli interessi degli editori stessi: aprire il più possibile, far lavorare le persone, farle produrre e – più che altro – farle consumare.

Una carrellata di titoli e articoli rende l’idea. Negli ultimi due giorni ad usare la clava contro il governo, cioè contro sé stessi, sono due esponenti di Italia Viva, ovvero Teresa Bellanova e Matteo Renzi. La prima, intervistata lunedì, lamenta “poco coraggio”: “Se non riaprono i negozi le aziende restano a rischio”. Ancor più netto, ieri, il verbo dell’ex premier: “Così il governo calpesta la Costituzione, faccia un decreto vero e il Parlamento lo voti”. E ancora: “La ripartenza è lenta. Non si rendono conto che in autunno ci sarà una carneficina di posti di lavoro”.

D’altra parte nessuno sembra sfiorato dall’idea che ci voglia prudenza. L’edizione di ieri di Repubblica Milano racconta “il pressing milanese su Conte” perché “l’economia non può attendere”. A pagina 2, a titoli cubitali, campeggia un bel “Milano che riparte”. E poco importa che proprio ieri l’intera città metropolitana abbia fatto registrare 278 nuovi casi positivi al virus, in aumento rispetto al giorno prima (+188) e che l’aumento dei contagi sia quasi raddoppiato (+149 rispetto a +79),anche se un maggior numero di tamponi.

Su Repubblica Torino il leitmotiv è lo stesso. E pazienza se proprio il Piemonte sia la Regione con i dati più allarmanti dopo la Lombardia. Il 26 aprile il quotidiano titola festante: “Riparti Piemonte, pronti 800 milioni”. Il giorno prima, esordio dell’era Molinari, si assicurava che “la paura si allontana”, specie quella degli imprenditori: “Boom di richieste, oltre 3000 aziende vogliono riaprire”.

Il progetto nel cuore della nuova Gedi è che Giuseppe Conte si sbrighi ad accontentare gli industriali e poi lasci il posto a qualcun altro. Ieri lo ha scritto Stefano Folli: “O il Pd riesce a tenere sotto controllo il premier e il suo protagonismo o il tessuto del governo potrebbe lacerarsi. In quel caso, occorre aver predisposto un piano B, un sentiero tendenziale verso qualche forma di unità nazionale”. E per chi si stesse preoccupando, ecco la rassicurazione: “Se l’avvocato crolla, Forza Italia è già pronta per il dopo”.

Così magari ci sarà modo di portare a compimento quel che Massimiliano Panarari scriveva su una delle ultime edizioni della Stampa di Molinari (20 aprile) e cioè – sia consentita la parafrasi – rivedere l’odiosa dicotomia tra diritto alla salute e diritto di impresa. Secondo l’editorialista, “la sovraesposizione del premier” e una “deliberata strategia di marketing politico” hanno “proclamato l’esistenza di un non negoziabile primato della salute quale priorità esclusiva”. Il governo di unità nazionale deve ancora nascere ma può già contare su una riforma costituzionale: prima il profitto, poi gli altri diritti.

Aprire! Richiudere! Riaprire! La giostra allegra dei 2 Matteo

Rieccoli, i due Matteo. Gli equilibristi del Coronavirus. Quelli che vogliono aprire, poi chiudere, poi aprire, poi spalancare. Quelli che cambiano idea da una diretta Facebook all’altra.

I vescovi italiani attaccano il governo per la “fase 2” che non riapre le chiese. E chi sono i due leaderoni che sposano l’invettiva della Cei? Ovvio.

Salvini sgrana il rosario e invoca il liberi tutti: “Abbiamo voglia di tornare a uscire, incontrare, lavorare, guadagnare”. E soprattutto pregare: “I vescovi reclamano libertà di culto, assolutamente condivisibile”. L’altro – ex segretario di un partito, in teoria, laico e progressista – non può essere da meno. “Ora basta – dice Renzi – il governo calpesta la Costituzione. Io voglio tornare a prendere la messa. Perché il museo può aprire e la chiesa no?”.

Nobile afflato spirituale, ma è difficile prenderli sul serio: dall’inizio della tragedia Covid Matteo 1 e Matteo 2 ne hanno dette di tutti i colori.

Tutti i Salvini del Covid. Il 21 febbraio Salvini collegava il virus ai soliti migranti, era allarmato dai barconi in arrivo, pieni di africani contagiosi. Non era ancora tempo di complotti cinesi: rischiamo il Covid per colpa dei neri. Esemplare questo tweet del 24 febbraio, è il Salvini della fermezza: “Non è il momento delle mezze misure: servono provvedimenti radicali, serve l’ascolto dei virologi e degli scienziati, servono controlli ferrei ai confini”. Tre giorni dopo, la prima conversione: mica il Covid può fermare tutto. È il 27 febbraio: “Chiediamo al governo di accelerare, riaprire, aiutare, sostenere. Accelerare, riaprire, ripartire”. È un aperturista radicale: “L’Italia è il paese più bello del mondo, veniteci. Fate turismo qui: è bello, sano e sicuro. Non è pericoloso. No no no”.

Passano due settimane e – puf! – ancora giravolta. È l’11 marzo: “Fermi tutti! Mettiamo in sicurezza la salute di 60 milioni di italiani. Chiudere! Prima che sia tardi”. Ma il Salvini del rigore dura poco: nella battaglia contro il virus gli scienziati non bastano, serve l’aiuto del “buon Dio”. È il 5 aprile: “Sostengo la richieste di chi vuole entrare in chiesa per la Messa di Pasqua. Per milioni di italiani può essere un momento di speranza”. Da quel momento è un altro crescendo: aprire chiese, negozi, fabbriche, tutto. Salvini abbraccia un giorno la Cei e un giorno gli industriali. Ora, altro che fase 2, suggerisce comportamenti eversivi: “Torniamo liberi alla faccia di ogni legge e ogni vincolo”. Lunedì 27 aprile minaccia un corteo anti Conte, poi si rende conto di averla detta troppo grossa. È l’ultima giravolta, ritratta: “I problemi non si risolvono manifestando 15 minuti in piazza”.

Tutti i Renzi del Covid. Matteo 2 ha un problema drammatico: la visibilità. È dentro al governo ma gioca contro. E infatti è il primo ad attaccare le scelte dell’esecutivo. Siccome è uno statista, il 12 marzo ridicolizza l’Italia sulla Cnn: vi prego – spiega al pubblico americano –“non commettete il nostro stesso errore”. Cioè quello di Conte. Chiudete tutto. Due settimane dopo però cambia idea. Conte ha davvero chiuso tutto? E allora bisogna riaprire, presto, malgrado le curve dei contagi non abbiano nemmeno iniziato la discesa. Lo dice il 28 marzo all’Avvenire, proprio il quotidiano della Cei: “Le fabbriche riprendano prima di Pasqua, le scuole il 4 maggio. C’è già fame, si rischia la rivolta”. Et voilà: chiudiamo tutto, apriamo tutto, che cambia?

Di chi sarà mai stato il primo tweet che ha aperto le polemiche sabato sera, appena finita la conferenza di Conte sulla fase 2? Di una ministra del governo Conte. La renziana Elena Bonetti: “In sicurezza si potrà visitare un museo, ma non si può celebrare una funzione religiosa? Questa decisione è incomprensibile. Va cambiata”. E riparte la giostra.

Il Pd vuole “parlamentarizzare” i Dpcm Casellati contro Conte: “Camere escluse”

Si voterà domani pomeriggio l’emendamento al decreto Covid-19 di Stefano Ceccanti, deputato Pd e costituzionalista, per “parlamentarizzare” i Dpcm. Tradotto: la modifica vuole introdurre un parere preventivo del Parlamento, obbligatorio anche se non vincolante, con un tempo certo di una settimana.

A esprimersi a favore, oltre al Pd, a Iv e a Leu, potrebbe essere anche la Lega. Mentre i Cinque Stelle stanno valutando. Spiega lo stesso Ceccanti che così “alcune criticità potrebbero essere prevenute dal Parlamento, senza che esso debba essere costretto ad intervenire ex post su altre fonti”. Si tratta di una presa di posizione concreta rispetto alla richiesta di maggior coinvolgimento del Parlamento, che ormai arriva da più parti.

Ieri ad attaccare Giuseppe Conte è stata la presidente del Senato, Elisabetta Casellati: “Il Parlamento, che è il cuore della democrazia, è escluso dalle scelte future”.

Se Matteo Salvini e Giorgia Meloni protestano contro la gestione “centralizzata” del governo dall’inizio dell’emergenza, più passano le settimane, più il disagio si espande. Ieri la leader di Fratelli d’Italia è andata a manifestare di fronte a Palazzo Chigi per chiedere che la Fase 2 si voti in Parlamento. Attirandosi le critiche del leader del Carroccio per una scelta estrema in tempi di contagio.

Matteo Renzi va ripetendo in ogni sede possibile che l’esecutivo sta calpestando la Costituzione (“Trasformiamo l’ultimo Dpcm in un decreto e portiamolo in Parlamento”, ha detto ieri a Repubblica).

A questo punto, nella maggioranza i dubbi sul modo di governare in questa Fase 2 della pandemia cominciano a farsi sentire. “Tutte le sollecitazioni ad un rigore in materia costituzionale sono importanti, ma credo che non siamo in presenza di violazioni della Costituzione”, ha detto con la consueta prudenza, ma inserendo comunque un elemento di riflessione, il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Stava rispondendo a una domanda sulle accuse di Renzi al governo Conte e alla richiesta di un commento sulle parole del presidente della Consulta Cartabia (che ha invitato a “un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici”).

E dunque, domani si vota l’emendamento Ceccanti. “Abbiamo fatto la riunione della Commissione Affari costituzionali in sede referente – racconta lui – e alla fine ho spiegato la ratio del mio emendamento: l’obiettivo non è attaccare il governo, ma avere una procedura che passi in Parlamento”.

Insieme a quello di Ceccanti, si voterà anche un emendamento di Italia viva analogo, analogo, presentato da Vito De Filippo. Nel frattempo, lunedì 67 deputati hanno presentato una lettera al presidente della Camera, Roberto Fico, sottolineando come l’Italia abbia bisogno di “un Parlamento nel pieno delle sue funzioni”.

L’iniziativa è di 5 deputati di maggioranza – Alessandro Fusacchia (Misto), Paolo Lattanzio (M5S), Rossella Muroni (Leu), Erasmo Palazzotto (Leu), Lia Quartapelle (Pd). L’iniziativa nasce a un mese esatto dall’appello di 90 parlamentari sull’adozione di misure di lavoro agile e da remoto per il Parlamento, perché niente è cambiato. Come spiega la Quartapelle: “Il problema va affrontato. Si può votare in varie Aule, fare Commissioni da remoto. Ma non la situazione farsesca di questi giorni”.

“I parchi, i bambini e i trasporti: ricade tutto su noi sindaci”

La vita di un sindaco in tempi di coronavirus è tutta di rincorsa, e non è solo una metafora. Chiedere per informazioni ad Antonio Decaro, primo cittadino di Bari per il Pd e presidente dell’Anci: “Il video in cui andavo dai cittadini per convincerli a lasciare un parco ha fatto il giro d’Italia, magari sono parso anche ridicolo, ma se la polizia municipale è impegnata altrove ci devo pensare io”.

Che ne pensa del nuovo Dpcm?

Abbiamo avuto molte interlocuzioni e riunioni con il presidente Conte e il governo. Sono state indicate le date per le riaperture e le attività che dovranno ripartire, come chiedevamo.

Ma?

Io avrei aperto di meno: o per essere più precisi, lasciando più restrizioni. È già complicato adesso, figuriamoci cosa potrebbe essere dal 4 maggio.

I numeri raccontano che la situazione è migliorata.

Non abbiamo sconfitto il virus, siamo usciti dall’emergenza sanitaria. Se dovessimo richiudere perché i contagi saranno risaliti, sarebbe peggio. E comunque c’è il tema dei controlli, che ricadono tutti su noi sindaci. Il dpcm ci chiede di controllare le nostre città, ma nel testo non si fa riferimento alla polizia municipale. Ma se vedono un assembramento i cittadini non chiamano il prefetto, chiamano noi sindaci.

E voi…

E noi possiamo mandare la polizia municipale, quando è possibile, però è chiaro che non basta. Poi ci sono altri problemi. Il dpcm prevede che si possano andare a trovare i familiari, o meglio gli ormai famosi congiunti, evitando però assembramenti. Ma sarebbe stato meglio precisare che dai parenti poteva andare una persona per volta. Altrimenti per compleanni o altre ricorrenze come faremo a evitare pranzi o cene collettive?

Già, come?

Ci esortano a fare appello al senso di responsabilità delle persone. Certo, con il passare dei giorni la situazione è migliorata. Ma nelle scorse settimane in certi casi abbiamo dovuto chiudere i supermercati. E ora ci ritroveremo tante persone in giro. Va bene allentare, ma va anche spiegato bene che il lockdown non è finito.

Lei è preoccupato dalle aperture, ma i governatori si lamentano per il motivo opposto: volevano più “coraggio”. Accontentare tutti è impossibile, no?

I governatori sono più sensibili alle pressioni delle forze produttive, mentre noi dobbiamo rendere conto alle comunità. Siamo le sentinelle, come ha detto Conte.

Quali altri problemi avete?

Non abbiamo ancora ricevuto un protocollo sui trasporti pubblici. Eppure dal 4 maggio si sposteranno molte persone in più, e dobbiamo contemperare la sicurezza con le esigenze di chi deve muoversi. Poi c’è un altro tema, quello della socialità dei bambini.

Spieghi.

Va trovata una soluzione, soprattutto per il periodo estivo. Proprio oggi noi dell’Anci abbiamo avuto una riunione con alcuni ministri in cui abbiamo chiesto aiuti per quei genitori che non possono chiedere il congedo parentale. Dobbiamo evitare che i bimbi vengano lasciati ai nonni, con gli ovvi rischi del caso, o addirittura da soli. E allora servono centri estivi, oppure educatori che possano tenere durante il giorno 3 o 4 bambini ciascuno, con kit separati per il pranzo. E andrebbe allargato il bonus per le baby sitter.

Servono altri soldi.

Noi sindaci abbiamo chiesto 5 miliardi al governo e ce ne hanno promessi tre. Ma così molti Comuni rischiano il dissesto finanziario. Abbiamo avuto pesanti cali nelle entrate fiscali come la tassa sulle pubblicità. E altre imposte, come quella sull’occupazione del suolo pubblico, vorremmo almeno in parte restituirle oppure non chiederle. Però come facciamo ad andare avanti, a pagare i servizi?

Se non arrivassero quei soldi?

Alle difficoltà di tanti in questa congiuntura, pensi a chi vive di turismo, cultura e spettacolo, si aggiungerebbe il non poter contare sul sostegno dei Comuni. Gravissimo.

Regioni fai da te: nuovo caos. E Boccia frena i governatori

La corsa dei furbetti, come la chiamano il governo e i presidenti “responsabili”, non si potrà arrestare. Impossibile pensare di impugnare le ordinanze delle regioni che stanno di nuovo fuggendo in avanti. Dal Veneto alla Puglia, passando per la Toscana e l’Alto Adige: anche volendo rivolgersi ai tribunali, le “deroghe” al decreto del presidente del Consiglio sulla cosiddetta fase 2 resterebbero in vigore e rischierebbero solo di rinvigorire lo scontro tra poteri che va avanti dall’inizio del lockdown. Il “patto” che meno di dieci giorni fa palazzo Chigi aveva siglato con i governatori, infatti, è già saltato: non ha retto l’idea di una ripartenza dalla cornice nazionale uniforme, in cui le regioni avrebbero potuto al massimo emanare provvedimenti più restrittivi rispetto a quelli generali. Ieri il ministro Francesco Boccia non ha potuto fare altro che prenderne atto: “Chi sbaglia si assumerà la responsabilità dell’aggravamento della condizione sanitaria del proprio territorio”, ha detto, annunciando per oggi una videoconferenza con tutti i presidenti “perché ho il dovere di mettere su carta le fughe in avanti, così i cittadini sapranno”. Frase a cui il governatore del Veneto Luca Zaia, il primo a fare di testa sua, ha replicato provocando il governo, che ha “l’obbligo della vigilanza, di intervenire impugnando le ordinanze”, ben consapevole che i tempi giuridici per farlo non ci sono.

La sua, di ordinanza, è già in vigore da lunedì sera, quando per i veneti è arrivato con una settimana di anticipo il via libera a corse e biciclette lontani da casa. E che da ieri permette lo spostamento nelle seconde case per attività di “manutenzione”. Lo stesso stratagemma usato dal dem Michele Emiliano in Puglia, che ha liberalizzato anche l’attività della pesca amatoriale. Vincenzo De Luca non ha mancato di intervenire, ma nella direzione consentita dal decreto: ha vietato la corsa, in Campania si potrà solo passeggiare intorno a casa, perché per un runner – spiega l’ordinanza – è impossibile indossare la mascherina. Mentre il presidente della Lombardia Attilio Fontana, sempre dell’idea che “se aspettiamo l’R0 non apriamo più”, ieri ha scritto al premier Conte per condividere la richiesta dell’arcidiocesi di Milano di far ripartire le messe. Ma poi c’è anche il ligure Giovanni Toti, che chiede di gestire la fase 2 “territorio per territorio” e “anche con ordinanze migliorative”, parla di lockdown “insostenibile” un assessore della giunta siciliana di Musumeci, mentre la Toscana pensa di “accelerare” sulla riapertura dei cimiteri e il governatore altoatesino Arno Kompatscher minaccia leggi provinciali.

Invoca “pazienza”, il ministro Boccia, perché non si possono “distruggere due mesi di sacrifici di 60 milioni di italiani per tre giorni di fatturato”. E ricorda anche come ormai manchino solo una ventina di giorni al 18 maggio, quando arriverà la scadenza del decreto in vigore e le restrizioni più pesanti, quelle sugli spostamenti, cominceranno a dipendere dalle “differenze territoriali” e potranno prevedere addirittura misure sub-regionali, tra cui la creazione di zone rosse, se il monitoraggio del rischio sanitario desse esiti negativi.

Ma al di là delle iniziative dei singoli, c’è il punto che solleva Nicola Zingaretti e che riguarda la scelta del governo di indicare sin da ora le altre scadenze, come la riapertura di bar, ristoranti, parrucchieri e centri estetici il primo giugno: “La sollecitazione è a verificare le curve epidemiche per intervenire quanto possibile sul calendario”. Che tradotto significa che, per esempio, se gli indici di contagio dovessero ulteriormente scendere, la riapertura di quelle attività si potrebbe anche anticipare.

Ieri, nel frattempo, è arrivato un primo segnale di attenzione alla vita dei bambini: la ministra Azzolina ha dato la “disponibilità” per quest’estate ad “affidare a personale esterno” i cortili e i giardini delle scuole, in cui potrebbero tenersi attività per “piccoli gruppi contingentati”.

La cauta liberazione della Francia: “Se la malattia ritorna, rinunceremo”

La Francia, “chiusa” dal 17 marzo, si prepara a riaprire per tappe: “Una restrizione troppo lunga potrebbe avere effetti deleteri. Prolungarla oltre il necessario comporterebbe un rischio di crollo per il Paese”, ha detto ieri il primo ministro Edouard Philippe presentando il suo piano per la ripartenza in un’Assemblea semivuota, poiché solo 75 deputati (su 577) potevano essere presenti. Voto finale, approvazione con 368 favorevoli e 100 contrari. Ma il paese ripartirà solo a una condizione: “Il rischio che l’epidemia riprenda ci impone prudenza. Se gli indicatori non saranno favorevoli, rinunceremo a uscire dal confinamento l’11 maggio”. La prima tappa è fissata dall’11 maggio al 2 giugno. La seconda dal 2 giugno all’estate. Ma la ripartenza non sarà uguale per tutti. Il virus ha colpito in modo brutale certe regioni, ma ne ha risparmiate o quasi altre. Prima dell’11 sarà dunque resa nota la lista dei dipartimenti (l’equivalente delle nostre province) “verdi” e “rossi”, in funzione della circolazione del virus e dalle capacità di accoglienza degli ospedali. Nei “rossi” le misure resteranno più strette.

Il motto di Philippe è: “Proteggere, testare, isolare”. Dopo il lockdown la Francia effettuerà 700 mila test a settimana e le persone infettate saranno isolate. Sulla controversa app Stop-Covid il dibattito invece è rinviato. L’11 torneranno a scuola i bambini delle materne e elementari, il 18 quelli delle medie (con obbligo di mascherina), ma saranno i genitori a decidere se inviare o no i figli a scuola, con un massimo di 15 allievi per classe. È rinviata invece l’apertura dei licei (la decisione sarà presa a fine maggio).

L’11 riaprono tutti i negozi, i mercati (a discrezione dei sindaci), le biblioteche e i piccoli musei locali. Restano chiusi invece caffè e ristoranti, cinema, teatri e grandi musei (decisione anche in questo caso a fine maggio).

Le manifestazioni sportive e culturali con più di cinquemila persone si terranno solo a settembre. Per il rientro al lavoro, il governo chiede alle aziende di adattare gli orari e conservare lo smart working dove possibile. I francesi saranno di nuovo liberi di muoversi senza l’autocerficazione, ma non si potrà ancora uscire dalla propria regione, se non per motivi di lavoro o familiari urgenti. Sui trasporti pubblici la mascherina sarà obbligatoria e un posto su due dovrà restare vuoto. Nel metrò di Parigi le ore di punta potranno essere riservate ai lavoratori. Le cerimonie religiose sono rinviate al 2 giugno, ma si potrà tornare al cimitero e i funerali restano autorizzati per un massimo di 20 persone. Il piano per la ripartenza arriva in un clima di polemiche, per le scuole, i test, le mascherine, e di generale sfiducia: il 65% dei francesi, da studio Odoxa, non crede nelle capacità del governo a gestire bene il dopo-lockdown. Il loro morale, stando all’Insee, l’istituto nazionale di statistica, non era così basso dal 1972. E il governo si prepara a prolungare lo “stato di emergenza sanitaria” fino al 23 luglio, mentre il Covid continua a fare vittime, 23.660 dall’inizio dell’epidemia. Dopo il discorso di Philippe, il dibattito si è prolungato in Assemblea per ore, prima del voto dei deputati (non vincolante) in tarda serata. Il governo è accusato di voler andare troppo di fretta e di restare sul vago. La France Insoumise, sinistra radicale, opposta alla riapertura delle scuole, aveva già detto che avrebbe votato contro: “La gestione della crisi è stata catastrofica”, per Jean-Luc Mélenchon, che chiede mascherine gratis per tutti. A destra, Les Républicains dubitano che il governo possa mantenere la promessa sui test di massa. I socialisti accusano il governo di aver “mancato l’appuntamento sociale” con il paese: “Mentre solo un bonus è accordato a chi tiene in piedi la nazione, prendete un impegno forte, sospendete i regali fiscali indecenti che fate ai più ricchi”, ha chiesto il segretario del Ps, Olivier Faure.

“In Spagna il Covid ha trovato uno Stato svilito dalla destra”

Ci eravamo lasciati alle porte della ripresa economica post-crisi del 2008 in Spagna con il professor Fernando Luengo, docente di Economia applicata all’Università Complutense di Madrid, ora in pensione, tra i tecnici di riferimento dell’area di Podemos e critico dell’austerity europea di allora e delle politiche del governo popolare di Mariano Rajoy. “La destra ha distrutto il settore pubblico, dalla Sanità ora al collasso, al welfare: per quanto il governo Sanchez abbia dato l’impressione di improvvisare, credo la destra non avrebbe mai messo in atto queste politiche di sostegno, come Ere (la cassa integrazione, ndr), aiuti alle imprese, moratoria sugli affitti, fondi di investimento”.

Professor Luengo, i dati di oggi parlano di 300mila posti di lavoro persi per il Covid-19 già nel primo trimestre. La Spagna torna al livello del 2013.

Sì, è terribile. Ma non credo che siano questi i dati da guardare: si riferiscono a gennaio, febbraio e parte di marzo, solo quest’ultimo toccato dalla crisi del coronavirus. Aspettiamoci che i numeri verosimili per capire la profondità di questa crisi arrivino nel secondo trimestre, quando ci saranno imprese che chiuderanno, casi di bancarotta, impiegati stagionali del turismo che non riprenderanno a lavorare.

C’è chi dice che questa volta – a differenza del 2008 – sarà più rapida la ripresa, soprattutto in Spagna per il suo di tessuto produttivo.

Non credo. Più che una ripresa a V. cioè rapida, o a U, con un momento di debolezza e poi la ripresa, secondo me parliamo di una ripresa a L, anche se credo che bisognerà conoscere tutte le variabili come la fine dell’epidemia per trarre le somme. Anche per il Pil, nel 2008 abbiamo perso il 2, il 3%, ora si parla del 10%. Una recessione così non si vedeva dal ’29. Riguarda allo stesso tempo la domanda, l’offerta e la produzione.

Crede che aver riaperto le aziende potrebbe portare a un nuovo focolaio in Spagna?

Questo non possiamo saperlo, ma Sanchez non ha ceduto all’Economia né agli imprenditori.

A proposito di produzione, uno dei compiti non portati a termine dalla Spagna in questi anni è stata la riconversione del tessuto produttivo per rendere l’economia più solida. Perché?

Semplicemente perché non era nell’agenda Rajoy. L’unica cosa a cui i suoi governi si sono dedicati è stato il pareggio di bilancio seguendo l’austerità imposta dall’Europa, a costo di una riforma del lavoro che permette di licenziare chiunque in qualsiasi momento. Più lavoro anche se a basso costo, senza diritti e per poco tempo. E poi i tagli, alla Sanità: ciò che vediamo negli ospedali sopraffatti dal Covid è il risultato di una totale privatizzazione della destra. Hanno smantellato il pubblico per dare al privato.

E il governo Sanchez?

Guardi, il cuore di questo esecutivo è stata l’agenda sociale e mentre la stava mettendo in atto con il salario minimo ad esempio, è arrivata la pandemia. La mia paura è che questa crisi spinga alla retorica del tipo: non è il momento per i lavoratori di esigere più diritti, per chiedere stipendi più dignitosi o ‘meglio un po’ di lavoro che stare senza…’ ecc. Vecchie propagande che tornano.

A proposito di déjà vu, i prezzi delle case e degli affitti stanno scendendo.

Sì, chi resta senza lavoro non può permettersi certo di pagare il mutuo. E gli aiuti di Stato finiranno.

A meno che l’Europa non decida di sostenere gli Stati membri.

L’Europa in questo momento non si sta dimostrando all’altezza della situazione. Non parliamo di Mes o di prestiti. A Bruxelles si dovrebbe parlare di fondo unico per la ricostruzione. Con i prestiti i Paesi saranno costretti a indebitarsi oltre le loro possibilità.

Cosa succederà dopo?

Per fare delle previsioni mancano ancora i dati di un’altra parte del mondo: America Latina e Africa, che verranno a bussare alle porte dell’Europa; dovremmo imparare la lezione per un’economia più egualitaria, con una maggiore redistribuzione della ricchezza e sostenibile. Ma non sono ottimista.