Achtung virus: adesso vacilla anche la sicurezza tedesca

In Germania il contagio torna a salire, a pochi giorni dalle prime riaperture e proprio mentre infuria il dibattito sull’allentamento del lockdown, alimentato dall’agguerrita opposizione del partito di estrema destra Alternative für Deutschland. Ieri il direttore dell’istituto epidemiologico Koch Institut, Lothar Wieler, ha detto che il fattore di contagio R per la prima volta da metà aprile è tornato a salire in Germania, passando dallo 0,7 a 1. Questo significa che 1 persona ne contagia in media un’altra, mentre sarebbe necessario per la tenuta del sistema sanitario che questo valore rimanesse a un livello inferiore a 1. Come aveva spiegato la stessa cancelliera Angela Merkel in conferenza stampa, dando prova del suo passato di scienziata, un fattore di contagio uguale a 1 significa che il sistema sanitario raggiunge i limiti delle sue capacità a ottobre, un fattore superiore a 1, vuol dire che questo limite si raggiungere prima, a luglio. Dunque rallentare il contagio, aumenta la possibilità di cure adeguate. Il dato relativo all’aumento potrebbe dipendere al comportamento dei tedeschi nei giorni di Pasqua ma è solo un’ipotesi, ha sostenuto Wieler.

Il virologo si è poi appellato alla popolazione perché le regole di comportamento continuino a essere osservate. Mantenere la distanza di 1 metro e mezzo/2, evitare i contatti sociali, rimanere a casa, osservare le misure di igiene e usare le mascherine sono ancora essenziali se “vogliamo difendere i nostri successi”, ha detto.

Ma l’insofferenza cresce. Ne sono una prova le minacce di morte ricevute dall’altro virologo tedesco di fama: il direttore d’Istituto alla Charité di Berlino, Christian Drosten. Per molti tedeschi “rappresento il cattivo” che danneggia l’economia e costringe a casa i cittadini, ha detto il virologo in un’intervista al Guardian. Drosten ha messo in rilievo il “paradosso della prevenzione” in Germania: la gente vede che gli ospedali sono in grado di far fronte alla situazione e quindi non capisce il lockdown, mentre è proprio grazie alla prevenzione e ai test diffusi a tappeto che il Paese ha potuto finora evitare il peggio.

La risalita dei contagi conferma i timori della cancelliera che la settimana scorsa aveva stigmatizzato il dibattito sulla riapertura come “un’orgia di discussioni”, invitando alla cautela chi mordeva il freno per bruciare le tappe e riaprire tutto e in fretta. Ma il termometro della “nuova normalità”, per dirla con le parole del ministro delle Finanze Olaf Scholz, si misura dal riprendere quota delle voci dell’opposizione. L’Afd torna a sparare sul governo, accusato di voler impoverire i cittadini. “Lo shutdown minaccia di causare più danni del virus stesso. La continua e grave restrizione dei diritti fondamentali, la minaccia di scomparsa che grava su molte aziende e la desertificazione di intere aree del territorio stanno distruggendo la coesione sociale ed economica” ha detto il capogruppo al Bundestag, Alexander Gauland. Ma anche dall’opposizione di sinistra iniziano ad alzarsi voci critiche: il sindaco di Tubinga dei Verdi, Boris Palmer, ieri ha incendiato il dibattito dicendo che “in Germania riusciamo forse a salvare persone che tra sei mesi morirebbero comunque di vecchiaia o di malattia” al prezzo di aumentare l’impoverimento di alcune regioni, facendo pagare il prezzo maggiore ai bambini.

Intanto da una settimana “la nuova normalità” è ormai realtà in Germania. Dopo che anche la capitale si è adeguata, per ultima, all’obbligo di mascherina nei mezzi pubblici e nei negozi, la vita sta riprendendo: i negozi fino a 800 mq sono riaperti, i ristoranti possono offrire cibo da asporto, le piazze e i parchi sono più pieni che mai.

La tabella di marcia delle nuove aperture varia in ogni Land il 6 maggio una nuova riunione tra governo e Laender deciderà sul futuro. I temi sul tappeto rimangono le scuole e il settore della gastronomia e del turismo. I ministri dell’Istruzione dei 16 Land ieri hanno chiesto che gli studenti possano tornare a scuola in qualche forma prima della pausa estiva: con turni, in gruppi ridotti, a settimane alterne.

Gastronomia e turismo lamentano invece di essere i settori più danneggiati dalla crisi. Il ministro dell’Economia, Peter Altmaier, ha promesso aiuti, ma a una condizione: si smetta di premere per la riapertura.

Aspi tenta l’ultima furbata a danno degli utenti

Solo in Italia si trovano aziende così magnanime da regalare azioni ai dipendenti. Lo fece nel 1997 l’Alitalia, senza peraltro uscire dalla crisi in cui resterà impantanata. Oggi è pronta a farlo Atlantia, la holding del gruppo Benetton, che punta anche così a evitare la revoca della concessione.

In questa fase di caos per l’emergenza Covid-19, con i riflettori spenti sulla sorte di Autostrade per l’Italia, cerca di portare avanti la trattativa per evitare la revoca. L’obiettivo è cedere la quota di controllo di Aspi (di cui ha l’88%) al fondo investimenti F2i (in cui ha investito anche la Cassa depositi e prestiti). Dunque il 51% della società non verrà messa sul mercato. Un modo per tenere alto il valore del pacchetto messo in vendita, che dovrebbe aggirarsi tra 4 e 5 miliardi: soldi che torneranno nelle tasche dell’azionista di maggioranza Benetton.

Nella trattativa Atlantia sta cercando anche di ottenere un piano tariffario (pare sottratto alla competenza dell’Autorità dei trasporti) che non minerebbe lo stato di salute di Aspi, che continuerebbe a fare lauti profitti. In questo modo Atlantia non pagherebbe con la revoca il disastro del Morandi, ma con la sola perdita del controllo di Aspi. Secondo i rumors, Atlantia cederebbe almeno il 40% al Fondo F2i e forse anche alla Cdp. Ma che vantaggi avrebbero i cittadini?

Agli utenti interessano due cose: che vengano fatte le manutenzioni necessarie a evitare altri crolli e che le tariffe vengano ridotte per evitare che la società continui ad accumulare gli astronomici profitti fatti dalla privatizzazione a oggi. Ma il Fondo F2i condividerebbe con Atlantia tutto l’interesse a minimizzare le spese per manutenzioni, massimizzare i profitti e distribuire tutti gli utili, come ha fatto finora Atlantia. Per un vero cambiamento il controllo dovrebbe passare allo Stato. Con un taglio delle tariffe che giustifichi un prezzo assai basso. Atlantia avrebbe comunque interesse a evitare il fallimento di Aspi, di cui garantisce parte delle obbligazioni. Ieri Atlantia ha rivelato di aver offerto 2,9 miliardi allo Stato per chiudere la ferita del Morandi. Di questi 600 milioni erano già dovuti per costruire il nuovo ponte, e 700 milioni sono previsti in nuove manutenzioni nel 2019-2023 (120 milioni l’anno). A conti fatti ci sono solo 1,5 miliardi, ma solo una parte destinata a ridurre le tariffe (da cui Aspi incassa quasi 4 miliardi l’anno).

Nonostante l’Italia si sia dimenticata della tragedia Morandi, un accordo così ha bisogno di un ulteriore consenso: ecco quindi in arrivo mille euro di azioni gratis per i 12mila dipendenti del gruppo, con i sindacati che parleranno prevedibilmente di un successo e dell’avvio di una nuova fase di democrazia economica. In realtà, sarebbe una manovra a tenaglia che ha un forte sapore corporativo.

*Presidente Osservatorio Onlit sui trasporti

A Genova la “Fase 2” è il Ponte. E il virus non blocca l’inchiesta

Seicentoventidue giorni. Dal 14 agosto 2018 al 28 aprile 2020. Ieri le due sponde della Val Polcevera sono di nuovo unite. C’è di nuovo un ponte che segna l’orizzonte. Certo, non è ancora percorribile, perché per l’inaugurazione, come ha spiegato ieri il sindaco di Genova, Marco Bucci, “dovremo attendere fino a luglio. Ma forse riusciremo ad accelerare”. E ieri per la cerimonia sotto il nuovo ponte sono arrivati in tanti. C’era il primo ministro Giuseppe Conte, poi la ministra delle Infrastrutture Paola Micheli, il governatore Giovanni Toti e, appunto, il sindaco Bucci. Forse perché, come ha detto Toti, “quest’opera arriva proprio all’inizio della Fase 2”. Insomma, il nuovo ponte di Genova non è soltanto simbolo di una città che rimargina una ferita tremenda, ma anche di un Paese che esce da due mesi terribili di quarantena. E l’Italia oggi ha un grande bisogno di simboli per il rilancio.

Lo hanno sottolineato tutti, a cominciare da Conte: “La luce della Lanterna di Genova oggi arriva in tutta Italia. È una giornata speciale – ha detto il premier – lo Stato non ha mai abbandonato Genova. Siamo consapevoli che questa ferita non potrà essere completamente sanata perché ci sono 43 vittime che non dimentichiamo”. Lo ha ricordato anche Micheli: “Questa esperienza ci insegna che è possibile completare le opere rapidamente e semplificare. Anche se questo modello non è totalmente applicabile ad altre situazioni”. Già, tutti invocano il modello-Genova. Anche Giuseppe Bono, numero 1 di Fincantieri in prima fila nel cantiere: “È il nostro modello, per il futuro del Paese”.

Adesso lo scheletro del ponte è di nuovo visibile. La struttura, progettata da Renzo Piano, è lunga 1.067 metri e conta 19 campate e 18 piloni alti 40 metri. Ora si dovrà lavorare al calaggio sugli appoggi di cemento della piattaforma. Poi si dovranno realizzare le giunture, le solette e l’asfaltatura. Si dovrà poi trovare anche un nome. C’è chi propone Ponte43 in memoria delle vittime. Piano avrebbe suggerito un nome discreto, ligure: Ponte di Genova. Altri stanno raccogliendo firme per intitolarlo al musicista genovese Niccolò Paganini.

Nel mondo politico già si intravedono alcune ‘divisioni’. La ministra Micheli avrebbe suggerito Ponte Italia. A Bucci pare non dispiaccia un più genovese Ponte San Giorgio. Si vedrà, anche i genovesi saranno consultati. Il ponte unisce e un po’ separa: quando crollò, la maggioranza che governava a Roma e Genova era piuttosto omogenea. C’era la Lega in entrambe. Oggi Italia e Liguria hanno colori diversi. Governo e istituzioni locali – ieri vicine, ben oltre i limiti del distanziamento sociale – hanno bisogno di intestarsi questo successo. Ma, come ha detto Conte, ci sono altri nodi da risolvere: “Ci sono giudizi di responsabilità su quella tragedia che vanno avanti”.

L’inchiesta sta andando avanti nonostante il virus: l’incidente probatorio decisivo – racconta il procuratore di Genova, Francesco Cozzi – “è previsto per la seconda metà di luglio. Ma è difficile che possa essere ospitato in tribunale con il virus: ci sono 72 indagati con avvocati e periti, poi magistrati e parti civili. Siamo ben oltre le cento persone. Impossibile pensare a un’udienza da remoto. Stiamo cercando una struttura fuori del tribunale che possa ospitare l’udienza” (è un discorso che vale anche per altri processi come le Spese Pazze e lo stralcio per il crollo della torre piloti in porto. Si parla della Fiera o dell’auditorium del Porto Antico. Ma i tempi slitteranno? Si rischia di non rispettare i termini? “No. Vedremo se qualche perito dirà che a causa del virus è stato impedito nel compiere le sue attività. Ma i termini di conclusione delle indagini scadrebbero a settembre e sono previste proroghe e sospensioni. Ce la faremo”.

Cairo rinuncia ai dividendi (ma non ai bonus)

Come tutte le società quotate, Rcs MediaGroup oggi tiene la sua assemblea degli azionisti a porte chiuse per la pandemia. Ma nelle ovattate stanze del Corriere della Sera circola un altro virus. Non è il Covid-19 e nemmeno un “baco” informatico come quello del 2004, quando nel mirino del “Tiger Team” finirono i dati dell’allora ad Vittorio Colao e del vicedirettore Massimo Mucchetti. Il nuovo morbo si chiama stato di crisi e ha colpito la sbandierata “diversità” dell’editore Urbano Cairo rispetto ai concorrenti.

Da quattro anni l’azionista di maggioranza, presidente e amministratore delegato si vanta di aver risollevato i bilanci del primo gruppo editoriale d’Italia senza aver toccato l’organico. Adesso però Rcs i lavoratori li taglia eccome. A febbraio ha chiesto al ministero del Lavoro lo stato di crisi con esuberi tra giornalisti, poligrafici e grafici. Il piano prevede 240 uscite su 3.200 dipendenti, cassa integrazione straordinaria e prepensionamenti. Secondo gli amministratori, gli esuberi dei giornalisti “si inseriscono nella riorganizzazione in corso dei processi editoriali proiettati allo sviluppo digitale, a una maggiore flessibilità e all’ingresso di nuove competenze”. Al Corriere Cairo e comitato di redazione alla fine la scorsa settimana hanno firmato l’accordo su 38 prepensionamenti volontari, nove assunzioni e cinque giorni di cassa per i giornalisti nel biennio 2020-2021. Oneri riversati sui conti pubblici e sul già disastrato bilancio dell’Inpgi, la cassa di previdenza dei giornalisti.

L’ultima volta che Rcs aveva tagliato il costo del lavoro era stato nel 2013. L’allora ad Pietro Scott Jovane aveva chiuso il bilancio del 2012 con una perdita monstre di mezzo miliardo. Dopo duri scontri con i sindacati furono concordati 70 prepensionamenti in quattro anni tra i giornalisti e 800 esuberi nel gruppo. Ma l’accordo non bastò a far quadrare i conti: dal 2011 al 2015 Rcs segnò perdite per 1,34 miliardi. Poi, dopo la gara con la cordata di Andrea Bonomi, il 15 luglio 2016 l’offerta pubblica di acquisto e scambio di Cairo ebbe la meglio. Nei conti del 2019 c’è stato il calo di ricavi editoriali (-5,5%), pubblicità (-5,2%) e dei costi operativi (-8,6%), con un costo del lavoro stabile, una forte contrazione del risultato operativo (-13%) e dell’utile netto (-16,7%) che comunque è stato di 68,5 milioni e porta il totale dell’“era Cairo” a 228,3 milioni. Poi però è arrivata la pandemia da coronavirus i cui impatti sull’editoria non sono ancora quantificati ma sicuramente pesantissimi e Cairo è corso ai ripari.

Nelle domande degli azionisti per l’assemblea Ivo Caizzi, corrispondente da Bruxelles spesso in scontro frontale col direttore Luciano Fontana e col vicedirettore Federico Fubini, ha chiesto lumi sulle ragioni del taglio dei dipendenti mentre era in programma un dividendo totale di 15,6 milioni. Rcs gli ha risposto che il cda di Cairo Communication (che controlla la società con il 59,693%) ha deliberato di votare contro la distribuzione del dividendo “per attribuire ulteriori risorse alla società” e supportare “i significativi sforzi che il gruppo, i dipendenti, collaboratori e fornitori saranno chiamati a sostenere per contrastare gli effetti dell’emergenza sanitaria dell’epidemia”. Ma all’epoca del cda che ha approvato i conti 2019, il 26 marzo, il dividendo fu proposto nonostante l’epidemia infuriasse già. Comunque i sacrifici da Covid19 non toccheranno Urbano Cairo che per il 2019 incasserà 1,5 milioni di compensi fissi e un milione di premio per i risultati.

I boss al telefono dal carcere: “Con la scusa Covid usciamo”

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede lancia un messaggio forte e chiaro contro le scarcerazioni di questi giorni di boss mafiosi per presunto pericolo di contrarre in carcere il Covid-19. Lo fa con una richiesta al Csm che rappresenta nei fatti una presa di distanza dai gravi errori compiuti in queste settimane dal Dap (il Dipartimento affari penitenziari) diretto da Francesco Basentini. Lascia al suo posto il capo Dap, ma lo commissaria: Bonafede ha chiesto l’autorizzazione al fuori ruolo del pm antimafia Roberto Tartaglia (processo Trattativa) come vice di Basentini, a cui viene contestata la circolare di marzo inviata ai direttori delle carceri. È quella che ha dato la stura agli avvocati dei boss al 41-bis per chiedere i domiciliari, appellandosi al rischio coronavirus. Secondo quanto risulta al Fatto, a dirlo sono diversi mafiosi ai loro familiari durante conversazioni telefoniche, anche di pochi giorni fa, registrate in carcere.

Mafiosi e familiari fanno riferimento alla circolare inviata da Basentini ai direttori dei penitenziari che devono comunicare “con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza, il nominativo” del detenuto che ha una serie di patologie o che ha più di 70 anni, nessuno escluso. Musica per le orecchie dei mafiosi. Boss della camorra e della ’ndrangheta nel carcere duro di Parma, registrati mentre parlano con mogli e figli, fanno riferimento a quell’ordine. Uno di quei boss dice a un familiare di “contattare con urgenza” il suo difensore in modo da presentare subito una richiesta di scarcerazione per rischio coronavirus “perché il Dap ha emanato una circolare” in tal senso e lui sicuramente rientra nella categoria e può fare la richiesta perché cardiopatico. In un altro caso è la moglie di un camorrista, sempre al 41-bis, a raccontare al marito di questa nuova possibilità e quindi lo sollecita a farsi visitare in carcere in modo che l’avvocato possa chiedere la cartella clinica. Ne parlano coi familiari anche boss rinchiusi a Rebibbia. Uno di essi, siciliano, invita un parente a chiamare l’avvocato perché dalla Tv ha saputo che ci sono novità sui domiciliari anche per i 41 bis.

Ecco spiegata la scelta di Bonafede di volere come vice di Basentini, Roberto Tartaglia, pm antimafia a Palermo per 10 anni. Ha fatto parte del pool che ha indagato sulla trattativa Stato-Cosa Nostra. Ha lavorato per anni fianco a fianco con Nino Di Matteo, ora al Csm, e attualmente è consulente della Commissione parlamentare antimafia. Secondo quanto risulta al Fatto, sulla decisione di “commissariare” Basentini pesa anche il caso dei domiciliari ottenuti dal boss dei casalesi, Pasquale Zagaria, e concessi il 23 aprile dal giudice di Sorveglianza di Sassari, dove Zagaria non poteva più essere curato perché l’ospedale è “Covid”. Il Dap scrive al giudice Riccardo De Vito solo il 23 aprile, giorno del provvedimento, per dire che vuole verificare la possibilità di farlo curare negli ospedali di Viterbo o Pertini di Roma, con reparti di medicina protetti. Dall’11 al 23 ha perso tempo, cercando di capire se poteva mandare il boss nel carcere “ordinario” di Cagliari, dove un detenuto come Zagaria, al 41-bis, non può andare. È vero però che il giudice, a prescindere dal Dap, concede i domiciliari perché convinto del rischio alto di contrarre il virus in carceri-ospedali (salvo mandarlo a casa nella zona rossa del Bresciano). Ma se il Dap si fosse mosso in tempo sarebbe stato possibile impugnare l’ordinanza del giudice.

Bonafede nulla può dichiarare, essendo il ministro, sulle decisioni dei giudici di Sorveglianza, ma ha ufficializzato che domani presenterà un decreto ad hoc per scongiurare altre scarcerazioni. L’ultimo caso ieri: il Tribunale di Sorveglianza di Potenza ha concesso i domiciliari a Pietro Pollichino, del mandamento di Corleone.

Sognando gli agrumeti di papà, la “congiunta” e le escursioni

 

Da guida ambientale cerco di tenermi allenato

Io, abituato a fare 40/50 km di sentieri a settimana, mi sono dovuto reinventare una vita al chiuso. Sono una guida ambientale escursionistica per passione/lavoro. Fin da piccolo avevo il pallino di far conoscere le bellezze naturali del nostro Paese. Vivendo a Roma la gente ha ancora più voglia di evadere durante il fine settimana. All’inizio i romani mi chiedevano: ma dove ci porti? Ma che ci sono le montagne vicino Roma? E così tutti i weekend per far scoprire la natura a due passi da casa, con gli appassionati del settore, tra relax e la giusta fatica che ti scarica la mente da tutti i pensieri. Quando il governo ha emanato le norme sulle restrizioni mi è cominciato a mancare l’aria. E mi sono fatto un calendario per non pensare troppo alla mancanza di natura. Sveglia di buon’ora, corsettina sotto casa e poi via a sistemare tutti i miei strumenti di lavoro (cartine, mappe, zaini ecc) e così mezza giornata è andata.

Dopo pranzo si ricomincia con il pomeriggio. E dunque via a studiare nuovi percorsi di trekking con un occhio a quando si potrà ripartire, e quindi ok a larghi sentieri non troppo lontani da casa, magari qualche tratto di via Francigena. E poi alla sera un buon libro per conciliare un sonno che mi faccia sognare una ripartenza alla grande.

Marco Marini

 

Non vedo l’ora di portare mio padre nei suoi campi

Il mio desiderio? “Portare mio papà, 81 anni, 3 patologie gravi, nel suo agrumeto e nel suo uliveto/mandorleto a passeggio e a “constatare se tutto è in ordine” (malgrado non ha quasi più consapevolezza). Praticamente, era (ed è) una sua esigenza quotidiana pre-Covid19.

Salvatore

 

Ancora non potrò vedere la mia fidanzata lontana

Cosa farò dopo il lockdown? Beh, andrò dalla mia “congiunta” fidanzata che non vedo ormai da quasi due mesi. Avrei anche altre cose da fare, tipo recarmi nella mia nuova casa che ho acquistato, visto che convivo ancora con mia madre, ma in base al decreto del premier Conte non posso andarci; sarò lieto di attendere ancora.

Altre cose che mi mancano sono le uscite con gli amici, uscire in moto, andare a mangiare una pizza, da uomo del Sud è irrinunciabile; cose semplici che davamo per scontate e che ti fanno capire quanto le cose semplici siano quelle più importanti.

Ormai è assodato che dovremo convivere con il virus, distanziati, con mascherina e guanti, ma la storia ce lo impone e sono sicuro che ce la faremo.

Antonio

E a Bergamo l’Ats “processa” i medici di base

I buchi su cui fare luce sono tanti. Dalla mancata chiusura il 23 febbraio del pronto soccorso dell’ospedale di Alzano, nel Bergamasco, alla famosa delibera con la quale la Regione Lombardia ha aperto al trasferimento nelle Rsa dei pazienti Covid. “Per arrivare – dice Jacopo Scandella, consigliere regionale del Pd – alla questione dei tamponi, visto che ne vengono fatti ancora pochissimi, e all’attivazione delle Usca, le unità di continuità assistenziale: siamo fermi a 44, dovrebbero essere 200…”. Il Pd lombardo, insieme a M5S, +Europa, Italia Viva e Lombardi civici europeisti, ha chiesto e ottenuto la commissione d’inchiesta sull’emergenza Covid 19, che dovrà concludere i lavori entro un anno. Il via libera all’insediamento è arrivato ieri dall’ufficio di presidenza del Consiglio regionale. Sarà composta da tre consiglieri per i gruppi più consistenti (Lega, Pd, M5S, FI) e da un consigliere per gli altri gruppi, mentre il presidente sarà indicato dalla minoranza (ma dovrà essere votato a maggioranza dalla commissione). E avrà il compito di portare a galla tutto ciò che non ha funzionato, indipendentemente da eventuali ricadute penali. Perché, come spiega Marco Fumagalli, capogruppo M5S, “vanno affrontati i motivi per cui l’epidemia ha avuto una così grande diffusione nella nostra regione”. Tutto è nato dalle sollecitazioni arrivate dai territori. E, in particolar modo, dal Bergamasco. Un’area dove proprio in questo giorni si è consumato un altro strappo, sulla gestione dell’emergenza, tra i 700 medici di famiglia convenzionati con l’Ats e la stessa azienda sanitaria. Quest’ultima ha incaricato un legale, Angelo Capelli, già consigliere regionale, di verificare “eventuali responsabilità nella gestione dell’emergenza”, comprese “le modalità di gestione sul territorio da parte dei medici di medicina generale convenzionati con l’Ats di Bergamo, con particolare riferimento alla disponibilità e utilizzo di dispositivi di protezione individuale”. Un incarico di oltre 15mila euro, quello al consulente legale, che ha fatto insorgere Marco Agazzi e Mirko Tassinari, segretari provinciali dei due sindacati di categoria dei medici, rispettivamente Snami e Fimmg. “Si addossano responsabilità ai medici di famiglia, che hanno già pagato un prezzo elevatissimo in prima persona”, dice Tassinari, facendo riferimento ai 150 colleghi bergamaschi che si sono ammalati (sei quelli morti), mentre prestavano servizio quasi totalmente privi di mascherine.

“Ci sentiamo traditi”, rincara Agazzi. Così, ecco la stoccata per Angelo Capelli; lo stesso, ricordano i due medici, che “insieme a Fabio Rizzi, poi arrestato per appalti truccati nella sanità lombarda, è relatore della legge regionale di riforma sanitaria del 2015, quella che oggi ha mostrato tutte le sue debolezze”. Poi arriva l’affondo: i camici bianchi deceduti, “morti per aver fatto il loro lavoro, nella miseria di dispositivi di protezione individuale ricevuti, spesso troppo tardi”. E ricordano che “i dpi li avremmo acquistati volentieri anche da soli, se non ci fosse stato impedito perché sequestrati”. Replica del direttore generale dell’Ats, Massimo Giupponi: “La consulenza serve ad avere un quadro della situazione, non per accusare altri enti o operatori sanitari”. Uno scontro di fronte al quale lo stesso Scandella, che è bergamasco, redarguisce l’azienda: “Invito l’Ats a occuparsi di cose più urgenti come i test sierologici. Gallera ne aveva annunciati 20 al giorno, nell’area. Di fatto, venerdì eravamo a 534”.

Sindrome Kawasaki causata dal Covid: allarme sui bambini

Dall’Italia al Regno Unito, si registrano casi di bambini che hanno sviluppato una infiammazione dei vasi sanguigni probabilmente causata dal Covid: somiglia alla cosiddetta malattia di Kawasaki, una vasculite sistemica febbrile rara che colpisce i bambini per lo più fino ai 5 anni e con una media di 8 casi su 100mila ed è caratterizzata dall’infiammazione dei vasi di medie dimensioni, nei casi più gravi associata ad aneurismi delle arterie coronarie che, se non trattati, possono essere letali. Nei Paesi sviluppati, è la causa più comune di cardiopatia acquisita nei bambini e se non adeguatamente curata costituisce un fattore di rischio per la cardiopatia ischemica nell’età adulta.

“All’ospedale di Bergamo Giovanni XXIII sono 13 i casi registrati nell’ultimo mese, dai neonati ai 16enni, mentre finora ce n’erano stati al massimo quattro all’anno”, spiega al Fatto Lucio Verdoni, reumatologo e pediatria all’ospedale di Bergamo. “Solo 2 dei 13 bambini sono risultati positivi al tampone, mentre 11 lo erano al test sierologico” aggiunge. “Pensiamo che sia una manifestazione dei bambini che hanno contratto il virus in modo asintomatico, per sviluppare poi questa infiammazione a distanza di tempo – spiega –. Non abbiamo assoluta certezza che sia una patologia causata dal Covid, ma certo è che un aumento così significativo di casi in un solo mese, a partire dal 21 marzo e in concomitanza della pandemia, rappresenta un dato molto significativo”. Il quadro clinico poi è consistente con quello da Covid. Nei casi più gravi, i bambini ricoverati a Bergamo hanno sviluppano un’infiammazione severa del miocardio e sono entrati in terapia intensiva. Ma adesso, assicura Verdoni, stanno bene. La terapia è quella utilizzata per la Kawasaki, a base di immunoglobuline e aspirina. Sebbene queste manifestazioni rispondano al quadro clinico della Kawasaki, non sempre presentano tutti i sintomi tipici. Vari ospedali italiani hanno osservato un aumento dei casi nell’ultimo mese. Tant’è che la stessa Società Italiana di Pediatria (Sip) ha informato i pediatri e medici di base dell’aumento atipico di casi ascrivibili alla Kawasaki nei bambini. Lo stesso è avvenuto nel Regno Unito. Come riporta il quotidiano britannico The Guardian, i funzionari del sistema sanitario nazionale (Nhs) hanno avvertito tutti i medici di base di Londra: “Nelle ultime tre settimane si è registrato un aumento apparente di casi di infiammazione sistemica che ha necessitato il ricovero in terapia intensiva nei bambini di tutte le età, a Londra e in altre regioni del Regno Unito – riporta il Guardian –. I casi hanno in comune una sovrapposizione di sintomi della sindrome da shock tossicologico e della malattia di Kawasaki atipica, con parametri ematologici consistenti con un quadro clinico severo da Covid. Sarebbero 12, finora, i casi nel Regno Unito. Come per Bergamo, alcuni dei bambini britannici sono risultati positivi al Covid-19, altri negativi. Ciò potrebbe suggerire – spiega l’Nhs – che non hanno il Covid o lo hanno avuto in passato o che i test hanno dato esito sbagliato. Il consulente medico per il Covid del governo britannico, Chris Whitty, ha però dichiarato che pur trattandosi si una situazione molto rara “sia plausibile che sia causata da questo virus”.

Al Corriere, il presidente della Società italiana di pediatria Alberto Villani ha dichiarato che i pediatri stanno raccogliendo già da qualche settimana “dati che indicano la presenza della malattia di Kawasaki in alcune aree del paese, in particolare in Lombardia, Piemonte e Liguria”. Sembrerebbe, per ora, che solo una piccola minoranza di bambini infettati da SarsCov2 sviluppa la malattia di Kawasaki, meno dell’1%. Ma questo nuovo aspetto, proprio perché ancora tutto da chiarire, pone un ulteriore ostacolo all’imminente apertura della Fase 2. “È importante tenere presente tutte le conseguenze che questo virus insidioso può causare, sia nella fascia di età adulta che in quella pediatrica”, ha aggiunto Villani.

Il pasticciaccio dei numeri: “La Regione gonfia i dimessi”

C’è una distorsione, nei dati dell’emergenza virus forniti dalla Regione Lombardia, che è o un pasticcio scientifico e comunicativo, o un imbroglio. È nei numeri dei “dimessi” e dei “guariti” comunicati giorno per giorno dai vertici del Pirellone, e proprio nella regione in cui quei numeri pesano da soli la metà di tutto il contagio Covid-19 in Italia. Il Fatto lo ha denunciato già diverse volte. Ma ora a segnalare questa distorsione non è un giornalista, un commentatore, un oppositore politico, ma è un medico dell’ospedale Humanitas, il dottor Paolo Spada, aiuto di chirurgia vascolare e animatore del blogilsegnalatore.info.

Regione Lombardia fin dall’inizio dell’emergenza comunica ogni giorno quanti sono i positivi al Covid-19, quanti i tamponi effettuati, i pazienti ricoverati, quelli in terapia intensiva, quelli in isolamento domiciliare, quanti i morti e quanti i dimessi. La cornice è quella della quotidiana conferenza stampa a Palazzo Lombardia con il presidente Attilio Fontana e l’assessore al welfare Giulio Gallera. All’incontro vengono forniti i dati del giorno, con unaslideriepilogativa e alcune tabelle che sono poi comunicate anche al ministero della Salute, per contribuire ai dati nazionali. Ebbene– rileva il dottor Spada – nelleslidedella Regione Lombardia i“dimessi” sono divisi in due categorie:“pazienti con un passaggio in ospedale” e quelli“per cui non si rileva alcun passaggio”.“Curiosamente – nota Spada – le due cifre riportate sono esattamente quelle trasmesse da Regione Lombardia al ministero rispettivamente come‘guariti’ e‘isolamenti domiciliari’”. È stato insomma “deciso di definire comeguarititutti idimessida ospedale”. Ma – viene da chiedere – anche i “clinicamente guariti”, ovvero i pazienti ex Covid trasferiti dagli ospedali nelle Rsa e negli hospice, in seguito alla delibera del 23 marzo? E anche quelli che passano dalle corsie all’isolamento domiciliare?

In Regione d’altra parte, continua Spada, hanno deciso di presentare comedimessi“anche i pazienti che con l’ospedale non hanno mai avuto contatto e che Regione Lombardia stessa continua a mantenere ufficialmente nella categoria degli attualmente positivi, in isolamento domiciliare” (continuando così a comunicarli al ministero). Insomma: un pasticcio. Ma con conseguenze pesanti: una sovrastima deiguariti, perché non tutti idimessilo sono, poiché non è detto che tutti, nel momento in cui lasciano l’ospedale, abbiano estinto la carica virale. Così come non è detto che tutti siano stati sottoposti a doppio tampone, a distanza di 48 ore uno dall’altro, per avere certezza della negativizzazione.

Non solo. La confusione peggiore scatta sul conteggio deipositivi. Nei grafici forniti dalla Regione, le persone in isolamento domiciliare fanno gruppo a sé,“del tutto esterno ed estraneo al gruppo dei pazienti con passaggio ospedaliero”. Nella realtà, accade che prima o dopo l’isolamento domiciliare si possa entrare in ospedale, oppure risultareguariti.Nei dati della Lombardia questo non succede. Il dato degliisolativiene fornitoaggiungendo di giorno in giorni i nuovi arrivi, senza rilevare le possibili uscite (né per guarigione, né per morte). A questo punto il dottor Spada si pone la domanda cruciale: se cioè“la mancata conversione degli isolamenti domiciliari verso la guarigione” non sia“segno di assenza di controllo del decorso di queste persone”, abbandonate a casa. Per chi è rimasto isolato in casa, niente tamponi, insomma, e niente prova di guarigione. Un problema rilevante, se si considera che le persone in isolamento domiciliare in Lombardia sono oltre 20 mila, senza contare per ognuno la cerchia dei familiari.

Leslidedella Regione nelle ultime settimane hanno semplificato le indicazioni sui dimessi. Viene fornito un numero solo e non più due come prima (“pazienti con un passaggio in ospedale” e quelli“per cui non si rileva alcun passaggio”). Ma quel numero, nelle comunicazioni ufficiali al ministero, è sempre la somma di due categorie: i“guariti” e i“positivi in isolamento domiciliare”.

Conclude il dottor Spada:“Non si è avuto modo a oggi di ottenere risposta riguardo la logica di una simile classificazione, che comporta, anche dal punto di vista del modello epidemiologico, l’impossibilità di ottenere una stima del tasso di guarigione”. Si continua a sovrastimare, con un trucco, i“guariti”. Confondendo, nel gran calderone delle cifre somministrate ogni giorno da Fontana e Gallera, i pazienti guariti da Covid-19 e altri che stanno a casa, ancora infetti e contagiosi.

“Allentare queste regole di contenimento può costarci 70 mila vittime entro fine anno”

Sulla carta d’identità di SarsCov2 c’è un dato immutabile, il numero di riproduzione di base, cioè quante persone possono essere contagiate da un solo individuo. È l’ormai noto “R con zero”. Che nel caso di SarsCov2 è di 2,5/3. Un numero che resta un marchio sull’Rna del virus. In una condizione di libertà assoluta e in assenza di una terapia certa, ogni infetto ne contagerà altri tre. È successo prima del 20 febbraio e potrà succedere di nuovo. Ora quello che si può fare è comprimere questo numero fino a farlo scendere sotto la soglia di 1, asticella decisiva per poter affermare che l’epidemia è sotto controllo.

Questo numero chiamato “R con t” è oggi in Italia dello 0,8. Evviva, dunque. Siamo fuori dal tunnel. Per niente. È come la falla nello scafo, appena tolto il blocco l’acqua riprende a entrare. Il blocco per quanto riguarda l’emergenza Covid è rappresentato dalle misure di contenimento che se allentate, secondo un studio pubblicato su Nature Medicine al quale hanno contribuito diversi atenei italiani, porteranno a 70.000 morti entro la fine dell’anno. La ricerca ha preso come base di partenza reale l’incremento del virus dal 21 febbraio al 4 aprile. I risultati ottenuti mettono sul tavolo tre ipotesi, tutte collegate al grado più o meno elevato di misure e alla capacità di tracciamento dei positivi e dei loro contatti attraverso l’uso dei tamponi rapidi.

Il caso più nefasto è quello che purtroppo meglio si attaglia al nuovo vestito previsto dalla nostra fase 2. Secondo lo studio, con misure di contenimento allentate e l’assenza di un tracciamento epidemiologico completo entro la fine dell’anno l’Italia potrebbe arrivare a contare 70.000 morti di Covid-19. Giusto per capire: il bollettino di ieri fissava i decessi totali a 27.359. Se la situazione delle misure, è la seconda ipotesi, dovesse permanere simile a quella odierna avremmo un incremento simile a quello di oggi con circa 20.000 morti in più alla fine dell’anno. La terza ipotesi, a dir poco lunare rispetto all’Italia, prevede la scomparsa del virus in due mesi se alle misure di contenimento rigide si affianca un tracciamento di infetti e dei loro contatti quasi assoluto. Di più: una mappa epidemiologica rigorosa, secondo i ricercatori, può ammorbidire le misure del lockdown. “Il nostro modello – si legge nel report – conferma che le campagne di diagnosi possono ridurre il picco di infezione e aiutano a porre fine all’epidemia più rapidamente”. I tamponi più che i test sierologici sarebbero la soluzione. In Lombardia però sono ancora troppo pochi.

Ieri ne sono stati processati 8.537. Immaginare uno studio come a Vo’ Euganeo dove tutta la popolazione è stata testata prima e dopo il lockdown, appare una missione impossibile. Nel comune veneto la diffusione si è ridotta del 90%. Lo studio di Nature si basa sui dati reali emersi dal 21 febbraio al 4 aprile (46 giorni). Qui si è visto che l’R con zero è sceso da 2,38 allo 0,85. Con le misure restrittive ammorbidite lo scenario, come avviene in Germania, è una nuova esplosione del tasso di riproduzione. Che, nel caso peggiore, porterà al decesso dello 0,12% della popolazione. Percentuale che scende allo 0,04% con misure più rigorose. Le regolamentazioni più rigide riducono il picco degli infetti e anche l’accesso alle terapie intensive. Conclusione: “Applicare misure di distanziamento sociale forti è urgente, necessario ed efficace. Prima viene applicato il blocco, più forte è l’effetto ottenuto”. A questo si dovrà aggiungere una nuova politica sanitaria. La Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti) ha lanciato un appello in vista della fase due e di una prossima ondata di contagi: incrementare del 50% i posti di terapia intensiva. Posti stabili, non quelli ricavati durante l’emergenza. Uno scenario auspicabile ma lontano dalla realtà italiana.