Speranza prepara la “sorveglianza”. Già assunti 21.758

La certezza sono le 21.758 assunzioni dal 21 febbraio al 24 aprile. Sono 4.535 medici, 10.265 infermieri e 4.579 operatori socio-sanitari che vanno a irrobustire la Sanità pubblica. Non riempiranno tutti i vuoti d’organico scavati negli anni ma sono una boccata d’ossigeno per un sistema che ha retto come ha potuto, anzi non sempre ha potuto reggere all’emergenza che ha travolto il Paese dal 20 febbraio. Il resto è affidato al “fu” decreto aprile, ormai destinato ad essere emanato a maggio: dal ministero dell’Economia fanno sapere che tra Servizio sanitario e Protezione civile si ragiona su 4 miliardi e conviene sempre ricordare che il Ssn ha perso 37 miliardi in dieci anni, secondo i calcoli della Fondazione Gimbe.

I numeri ricordano che l’epidemia è in pieno corso: ieri 382 morti, più dei 333 dei 260 di domenica, hanno portato il totale a 27.359; ancora 2.091 nuovi casi e siamo a 201.505, superando un’altra soglia psicologica; scendono ormai dai primi di aprile i pazienti in terapia intensiva (dai 4.068 del 3 aprile ai 1.863 di ieri, 93 in meno rispetto a lunedi) e quelli ricoverati (dai 29.010 del 4 aprile a 19.723, 630 in meno in un giorno); da dieci giorni diminuiscono anche gli attualmente positivi (105.205, 608 in meno da lunedì), che sono sempre e solo quelli noti a fronte di centinaia di migliaia mai registrati da tamponi e statistiche.

La sfida, per il ministro Roberto Speranza e le Regioni, è sempre quella. Sorveglianza, controlli, tamponi. Entro sabato un provvedimento del ministro della Salute, decreto o circolare non si sa ancora, stabilirà parametri e soglie per dare consistenza all’allegato 10 del Dpcm 26 aprile di Giuseppe Conte, cioè indicherà i limiti superati i quali dopo il 4 maggio si richiuderà tutto per tornare alla “fase 1”. Non c’è solo il monitoraggio di R0, il tasso di riproduzione del virus, quante persone sono infettate in media da un contagiato, che ora secondo l’Istituto superiore di sanità (Iss) è tra 0,5 e 0,7 ma secondo stime indipendenti è più vicino a 1. Il monitoraggio della “fase 2”, come da allegato 10, dovrebbe riguardare anche la rediness, la prontezza, l’abilità nell’individuare e testare i sospetti, risorse adeguate per il contact-tracing, l’isolamento e la quarantena, i carichi sugli ospedali e sul sistema sanitario. Servirà ma non basterà la app, che almeno a metà maggio – conferma il commissario Domenico Arcuri – arriverà. Il provvedimento di Speranza dovrebbe rafforzare i dipartimenti di prevenzione distrettuali delle Asl oltre che gli ospedali. La battaglia si vince sul territorio, prima che i malati gravi arrivino in ospedale.

Speranza e i suoi tecnici sanno bene che: 1) la pandemia ha mostrato una serie di falle del Servizio sanitario; 2) l’aumento dei contagi dopo le riaperture, per quanto calmierate, è scontato, c’è solo da augurarsi che non sia troppo violento e arrivarci più preparati che a febbraio. Oggi, secondo il professor Gianni Rezza dell’Iss, passano 15 giorni tra il contagio, i sintomi, il tampone (quando te lo fanno) e la notifica che poi finisce nel bollettino della Protezione civile. O si riduce quel tempo o l’andamento si capirà solo quando i malati torneranno a premere su pronto soccorso e ambulatori.

Innanzitutto si lavora al potenziamento della rete strutturale degli ospedali: vanno potenziati gli ospedali Covid, ma pure rideterminati i posti letto per i non Covid. In questi due mesi la medicina si è concentrata quasi esclusivamente sul coronavirus, trascurando molte altre patologie. Ma le cose non possono continuare così. Poi, si lavora al potenziamento della rete territoriale e assistenziale e di quella domiciliare. Il terzo piano riguarda il sistema di monitoraggio della diffusione del virus, il contact tracing (App, test sierologici, verifica dei dati). Sono sul filo e lo sanno, il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri lo dice: “Non si può programmare una riapertura senza avere la certezza di Usca e servizi territoriali, medici di Medicina Generale, medici competenti in Sanità pubblica e utilizzo dei tamponi”, ha detto a Sky Tg24 il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri. Ancora: “Nella fase 2 saranno i medici di base a fare i tamponi”. Vedremo. Secondo “si stanno colmando tutte le lacune necessarie. A mio avviso è molto meglio rinviare di qualche giorno la riapertura se tutto il sistema non è pronto”.

Il Pd: “Aprire i negozi”. L’Iss: così 32 mila in rianimazione

Ora la battaglia degli “aprite tutto” si sposta sul commercio, che secondo il Dpcm ricomincerà a respirare il 1° giugno. Ieri si è mosso persino il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che pensa ai suoi elettori nel Lazio: “La data mi pare molto lontana. Mi permetto di suggerire al governo di affidarsi alle curve epidemiche”. Battaglia subito fatta propria dai renziani, anche quelli rimasti nel Pd: “Credo che Conte abbia sbagliato sul cronoprogramma della fase 2. La riapertura di bar e ristoranti il 1º giugno è troppo lontana”, ha detto Andrea Marcucci, capogruppo in Senato. Giuseppe Conte, dal canto suo, continua a insistere che non si può: “Noi stiamo già affrontando un rischio: lunedì 4,5 milioni di lavoratori torneranno a lavorare. Per qualcuno non è sufficiente, ma non possiamo fare di più”.

Perché Conte insiste? Perché le simulazioni fatte dall’Istituto superiore di sanità, in un documento fatto proprio dal Comitato tecnico-scientifico e anticipato ieri dal Fatto, dicono che potrebbe mettere a rischio i risultati raggiunti finora. In breve, quello studio – su cui il governo ha basato il programma della fase 2 – sostiene che basterebbe riaprire anche solo tutti i negozi – oltre a industria ed edilizia che ripartiranno a pieno ritmo il 4 maggio – per far salire l’indice stimato dei contagi (Rt) sopra la fatidica soglia di 1, dove un contagiato infetta a sua volta in media un’altra persona.

Non ci sarebbe nemmeno bisogno di ristoranti, alberghi e scuole: l’epidemia riprenderebbe a correre anche se fossero tenuti a casa gli over 70, gli over 60 e perfino gli over 55, salvo l’ipotesi irrealistica che con tutti i negozi aperti – cioè un comparto da quasi 1,5 milioni di lavoratori – le occasioni di contatto (e di contagio) sui mezzi pubblici si mantenessero magicamente al livello attuale, stimato (con un certo ottimismo) al 10%. Per gli scettici, basta controllare gli scenari dal 23 al 34 delle “Valutazioni di politiche di riapertura utilizzando contatti sociali e rischio di esposizione professionale” (ieri abbiamo pubblicato l’intero documento su ilfattoquotidiano.it).

Un po’ di numeri. Oggi l’indice di riproduzione del virus (R0) secondo l’Iss viaggia tra 0,5 e 0,7 (in Lombardia era a 3 all’inizio dell’epidemia): riaprendo il commercio la previsione salirebbe a seconda delle combinazioni – con o senza esclusioni per fasce d’età, con più o meno persone in giro nel tempo libero e per motivi extra-lavorativi – tra 0,92 e 1,17. Sarebbero ricoverate in terapia intensiva fino a 5.303 persone tutte insieme (il picco del 3 aprile fu di 4.068), il totale potrebbe arrivate a 32 mila alla fine dell’anno: si tratta di cifre che il sistema sanitario potrebbe forse reggere, ma che comporterebbero un aumento notevole dei morti.

Naturalmente sarebbe ancora peggio se, oltre ai negozi, riaprissero subito pure ristoranti, bar e alberghi, che occupano 1,162 milioni di lavoratori e hanno milioni di clienti. Sono gli scenari contrassegnati dalla lettera C e dai numeri da 35 a 46: l’indice di contagio si alzerebbe tra 0,99 e 1,83, le terapie intensive dovrebbero accogliere, nel caso peggiore, 85 mila persone, i 7/8 mila posti letto attuali sarebbero saturi dal 31 agosto.

Gli scenari più drammatici li abbiamo già documentati ieri e sono quelli che prevedono la riapertura delle scuole: “La sola riapertura delle scuole – si legge nel documento – potrebbe portare allo sforamento del numero di posti letto in terapia intensiva attualmente disponibili a livello nazionale”.

Riaprire tutto, invece, secondo il modello matematico dell’Iss, sarebbe una tragedia: indice di contagio al 2,25 e 151 mila in terapia intensiva, rianimazioni piene già l’8 giugno (scenario A). Anche la sola riapertura delle scuole, senza edilizia, industria e commercio e col trasporto pubblico a scartamento ridotto, non sarebbe tollerabile: indice all’1,33, 7.657 in terapia intensiva, reparti saturi al 20 ottobre.

Golpubblica

Dal 25 Aprile, festa della Liberazione, il centrodestra (notoriamente privo di mezzi di comunicazione) ha un nuovo quotidiano: la Repubblica, agnellizzata da Maurizio Molinari. Chi pensava che il neodirettore avrebbe atteso un po’ prima di imprimere la svolta al giornale fondato da Scalfari, per tranquillizzare giornalisti e lettori in subbuglio dopo il brutale licenziamento di Verdelli, sbagliava. La sterzata è arrivata ieri: una fake news in copertina (“Messe, dietrofront di Conte”); la quotidiana intervista all’Innominabile, che voleva devastare la Costituzione e ora la insegna al premier; una ventina di pagine sui piagnistei di quelli che vogliono riaprire tutto subito, con tanti saluti ai morti (appena 3-400 al giorno, dunque spariti); e soprattutto la nota politica di Stefano Folli che, per la noia che emana, viene letta solo dagli addetti ai lavori, sempreché riescano ad arrivare in fondo senza cadere in catalessi. Nato a La Voce Repubblicana con Molinari e Oscar Giannino (quello che mentì sulla laurea e persino sullo Zecchino d’Oro, anche lui giornalista di centrodestra, ingaggiato dal gruppo Stampubblica e parcheggiato a Radio Capital), Folli stava al Corriere e poi al Sole 24 Ore, dov’era strenuo difensore di B. e fan del leghismo lombardo-veneto. Poi nel 2014 approdò a Repubblica, ma nessun lettore si domandò che ci facesse lì perché i pochi che leggevano i suoi arzigogolati dire-non-dire ne uscivano con la labirintite.

Ma ora il Folli liberato parla finalmente chiaro: evoca scenari da Grand Guignol e invoca un cambio non solo di governo (legittimo), ma addirittura di sistema costituzionale. L’altro giorno, con vari salti logici e storici, paragonava l’emergenza Covid che investe il mondo intero alla guerra d’Algeria che in Francia riportò al potere il generale De Gaulle. E augurava all’Italia una bella svolta presidenzialista con apposito “uomo forte”, possibilmente Draghi. Ieri, con chiarezza per lui inusitata, ha optato per il golpe bianco, invitando Salvini & Meloni a prepararsi per non mancare all’appuntamento. Titolo: “Il tempo stringe per Salvini e Meloni” (entusiasmo incontenibile degli eventuali lettori nel vedere il loro giornale, che un tempo sussurrava al Pci-Pds-Ds-Pd, consigliare amorevolmente Matteo&Giorgia). Svolgimento: “Dopo la prova televisiva di domenica, è opinione diffusa che Conte si sta avviando a diventare il capro espiatorio del possibile disastro”. Di chi sia l’opinione diffusa e in quale terrazza o loggia si annidi, visto che il sondaggio Openpolis sulla prova televisiva di domenica dà l’81% pro Conte e il 16% anti, non è dato sapere.

Ma il Folli già sa che presto arriverà “l’ancora più drammatica emergenza economica. Il che pone due interrogativi”. Tenetevi forte, perché qui entriamo in una via di mezzo fra il Piano di rinascita della P2 e Vogliamo i colonnelli di Monicelli: “La crisi si aprirà secondo canali tradizionali e sarà gestita dalle forze politiche in base al rituale tipico ovvero l’insieme di protagonisti e comprimari è destinato a essere travolto da circostanze eccezionali?”. Ora sarebbe interessante sapere di quali “canali tradizionali”, “rituali tipici” e “circostanze eccezionali” stia vaneggiando. La Costituzione prevede che le crisi di governo si aprano in Parlamento, dove il capo dello Stato verifica l’esistenza di una maggioranza e, in caso contrario, indìce le elezioni. Senz’alcun cenno a circostanze eccezionali. Folli (o chi per lui) sta chiedendo qualcosa di diverso a Mattarella, in codice? Lo fa pensare il secondo interrogativo: “Nel caso in cui il bandolo della matassa fosse ancora nelle mani dei poteri riconosciuti, c’è qualcuno che già ora si prepara a gestire una stagione drammatica?”. Ecco: a quali mani, diverse da quelle dei “poteri riconosciuti” (capo dello Stato e Parlamento eletto dal popolo) il Folli vorrebbe consegnare il bandolo della matassa? La famiglia Agnelli-Elkann? La Fiat-Fca tornata a essere “la Feroce” di Pansa? La Confindustria? Una superloggia? Qualche conventicola di tecnocrati mai eletti né legittimati dal Parlamento? L’esercito? I Caschi blu? Le teste di cuoio? Le Giovani Marmotte?

“In quel caso”, scrive il (ti)gellino, “occorre aver predisposto un piano B”. Un bel piano Solo, o più probabilmente un piano Sòla: “un sentiero tendenziale verso qualche forma di unità nazionale”. Fortuna che “il Pd – incalzato da Renzi – comincia a rendersi conto che lo status quo non può durare” e bisogna

“tenere sotto controllo il premier” (per fargli fare quel che vuole Folli o chi per lui). Invece, se Dio vuole, “FI è già pronta per il dopo” (qui i lettori di Rep fanno proprio la ola). Purtroppo “Salvini ha perso il piglio che aveva a suo tempo, comunque si volesse giudicarlo” (testuale), ma Zaia e Giorgetti scalpitano e “per lui il tempo stringe”, sennò si perde sul sentiero tendenziale. Meglio la Meloni, che “non esclude il confronto” e ha

“carte migliori da giocare al tavolo dei futuri assetti” per evitare, Dio non voglia, che “il 14% dei sondaggi finisca in frigorifero”. Nulla è previsto, nel Risiko folliano, per quel trascurabile dettaglio del M5S, partito più votato alle ultime elezioni. Ma l’allegato 13-bis del Piano Sòla, intitolato “Gli enucleandi”, prevede per loro la deportazione nella base di Capo Marrargiu.

Vasco e gli altri: il Primo Maggio dal divano

Alla fine il Concertone del Primo maggio si farà, nonostante il divieto di assembramento, attraverso i contributi video di qualità registrati in alcune location del Belpaese: il Fabric e il museo del 900 a Milano, l’Auditorium di Roma oltre a vari studi di Napoli, Firenze e Veneto, per garantire il massimo della qualità evitando collegamenti precari via web. Un concertone virtuale con una serie di nomi di tutto rispetto, alcuni scelti come headliner della serata: Vasco, Gianna Nannini e Zucchero. Sarà interessante soprattutto capire che tipo di esibizione avrà pensato il rocker di Zocca, ultimamente molto attivo nei social con alcune interpretazioni acustiche dei suoi classici. “È giusto che il primo maggio vada in onda anche se da una piazza virtuale e con l’aiuto della rete: l’ho voluto a tutti i costi” commenta Massimo Bonelli direttore artistico della serata. In onda dalle 20 alle 24 su Rai Tre e in contemporanea su Radio 2 Rai, il Concerto del Primo maggio avrà come tema – scelto da Cgil, Cisl e Uil – “il lavoro in sicurezza: per costruire il futuro”.

A coordinare i vari video degli artisti ci sarà una diretta dal Teatro delle Vittorie a Roma. Al momento sono confermati Niccolò Fabi, Ermal Meta, Alex Britti, Bugo (con Nicola Savino), Fulminacci, Lo Stato sociale, Fasma, Aiello, Le Vibrazioni, Fabrizio Moro, Francesco Gabbani, Rocco Papaleo, Leo Gassman e l’Orchestra Accademia di Santa Cecilia. Le donne sono rappresentate da Paola Turci, Tosca, Noemi, Irene Grandi e Margherita Vicario. Tornerà anche Cristiano Godano dei Marlene Kuntz in versione solista mentre Eugenio Bennato sarà accompagnato dal fratello Edoardo per una nuova canzone inedita, scritta a quattro mani e ispirata al periodo di quarantena in seguito alla pandemia. Saranno presenti anche i quattro vincitori del Primo maggio Next, contest dedicato ai nuovi artisti selezionati appositamente per il Concertone: Lamine, Ellynora, Matteo Alieno e Nervi. “Il mio sogno resta quello di festeggiare il trentennale del Primo maggio a San Giovanni il prossimo 2021” chiosa Bonelli, “l’anniversario è solo rimandato”.

Per i Subsonica la capsula spaziale arriva dal passato

“Giorni del futuro passato”. C’era un disco storico dei Moody Blues che si chiamava così, e sarebbe stato calzante anche come alternativa a Mentale Strumentale. Un disco “nuovo” dei Subsonica che arriva dal passato ma con dentro di sé la tensione verso un futuro possibile. Un po’ come quella fantascienza vintage, di impronta sociologica ed estetica psichedelica che ha caratterizzato gli anni a cavallo tra 60 e 70 e che – tra una puntata del leggendario telefilm Ufo con il comandante Straker, una visione de La decima vittima di Elio Petri e i dischi di effettistica sonora rinvenuti nello studio del padre regista e attore – ha formato l’immaginario del giovane Max Casacci, poi fondatore e chitarrista della band torinese. “Nei primissimi tempi del gruppo abbiamo fatto musica strumentale per sonorizzazioni di mostre d’arte, quindi questo ‘format’ è nel nostro dna”, racconta Casacci. Le registrazioni di Mentale Strumentale (pubblicato per ora solo sulle piattaforme di streaming, con le royalties che andranno alla Fondazione Caterina Farassino per la distribuzione di materiale medico nei reparti ospedalieri) risalgono tuttavia a qualche anno dopo, quando nel 2004 i Subsonica si trovavano in fase di chiusura dei rapporti con la prima etichetta, la Mescal. “Dovevamo loro ancora un album doppio, e ci siamo detti perché non farne uno strumentale, in cui provare a destrutturare la nostra formula? Così ci siamo chiusi in studio con un sacco di strumentazione inusuale che all’epoca acquistavamo in modo compulsivo: synth analogici, percussioni, bodhran, balafon e altre cose esotiche che magari non sapevamo neppure bene come suonare”. Quelle registrazioni sono poi rimaste nel cassetto (“avevamo appena pubblicato il live Controllo del livello di rombo, pensammo che uscirsene con un doppio disco strumentale in quel momento potesse sembrare pretenzioso”), e la scelta di renderle pubbliche proprio in questo momento non è casuale.

Le dieci tracce – la metà di quelle originarie – si possono ascoltare così come sono state incise e mixate sedici anni fa e suonano sorprendentemente più “contemporanee” di quanto avrebbero potuto sembrare allora. Un viaggio (sub)sonico e concettuale – si parte con Decollo e si atterra inevitabilmente con Rientro in atmosfera – che ha il pregio di mostrare un volto inedito e affascinante del gruppo. Tra ambient incorporea alla Brian Eno, suggestioni kraut-rock che fanno venire in mente i Can di Future Days e ricordi di certe colonne sonore sci-fi di Umiliani o Piccioni, questa capsula spaziale in arrivo dal passato emette un segnale in sintonia con il tempo irreale che stiamo vivendo. “Abbiamo sempre mantenuto una relazione affettiva con questo materiale, sapevamo che prima o poi lo avremmo fatto uscire. Forse questo presente sospeso, in cui ci aspettiamo trasformazioni che adesso non riusciamo ancora a immaginare, rappresentava davvero il momento giusto”.

Morelli “Un miracolo: ho girato un film in 4 settimane”

I problemi quotidiani non sono solo le pulizie, la spesa, il lavoro, magari un film appena uscito, ma anche ristudiare a 46 anni le “addizioni in colonna, la scansione in sillabe, l’italiano. E soprattutto fingere preparazione e sicurezza: con i figli è fondamentale”.

Giampaolo Morelli per addizioni e sillabe non può indossare gli occhiali a goccia di quando interpreta l’ispettore Coliandro, meglio il ruolo romantico, un po’ credulone, finto pragmatico di Giulio, protagonista di 7 ore per farti innamorare: storia divertente e ben costruita di un promesso sposo lasciato alla vigilia delle nozze per corna conclamate, e impegnato in un training per acquistare sicurezza, fascino e cinismo.

Per Morelli, già attore feticcio dei Manetti Bros, è l’esordio alla regia, e intorno a sé ha ottenuto un gruppo di colleghi-amici “perché sul set hai bisogno di persone affidabili e talentuose, soprattutto con un’opera prima”.

Beghe da esordio?

Non hai gli agi tipici di chi ha già dimostrato di saper portare a casa un film, ed è giusto, visto che il cinema è una macchina costosa, è una responsabilità non piccola.

Un agio che le è mancato…

Il tempo: ho girato in sole quattro settimane e due giorni, una sorta di miracolo; (sorride) per fortuna da attore sono sempre stato molto vicino ai registi, ho sempre cercato una visione dell’insieme.

Come è nata questa avventura?

Non scalpitavo, non sapevo neanche di essere in grado, però avevo scritto due storie: una molto più autoriale, un’altra più romantica; poi Federica Lucisano (la produttrice) ha letto il romanzo e dopo due giorni mi ha chiamato: “Giriamolo”.

E lei?

Mi è preso un colpo.

Punti di riferimento?

Sono nato e cresciuto con le cassette di Eduardo de Filippo, e sento forte la cultura napoletana; a questa associo una passione per le commedie statunitensi.

Competitivo?

Il giusto, non credo di essere malato; (ci pensa) non provo l’invidia cattiva: se non arrivo a un obiettivo, mi interrogo sui possibili errori commessi o in assoluto sulle mie qualità.

Il suo primo set.

Studiavo giurisprudenza, poi un giorno leggo un annuncio sul Mattino: “Vuoi diventare attore? Hai la faccia tosta? Allora vieni a Roma, Sindoni sarà presente”.

Partito.

Presi il treno all’alba e al teatro trovai una fila di 300 persone; l’incaricato delle prime selezioni era Marco Manetti (dei Manetti Bros).

E poi?

Vinsi il provino, seguito da un “ci faremo sentire”. Mi chiamarono dopo settimane, e quella telefonata non mi sembrò vera.

Cioè?

Quando mi dissero il compenso, cinque milioni di lire, iniziai a balbettare tanto che l’incaricato si preoccupò: “Va bene?” Io sbiascicai “sì”. In realtà stavo urlando, mi sembravano un’infinità. Avevo vent’anni.

Insomma, primo giorno di set…

Deludente: mi aspettavo un luogo dove tutti lavoravano per il bene del film, avvolti dalla gioia, mentre ogni minuto scoprivo qualcuno che si rompeva le scatole.

Eppure…

L’errore era in partenza: non avevo inquadrato il set sotto la sfera “lavoro”, e il lavoro ha le sue rogne; così ancora oggi quando mi domandano: “Mi dice qualcosa di divertente del set?”, rispondo: “Non esistono, ti fai un culo dalla mattina alla sera”.

Con tempi infiniti.

Circa 12 ore al giorno.

Oggi come giudica il suo esordio?

Lasciamo perdere, qualcosina c’era, ma questa professione si impara sul campo: non sono nato genio e, in assoluto, a quel tempo non ero sciolto.

Timido?

Iscritto in primina a quattro anni e mezzo; a 12 ero al ginnasio…

Un pupo.

Liceale con voce bianca.

La prendevano in giro?

Sono stato bravo a sparire, a mimetizzarmi, a non cadere nella trappola dei bulli; tutta questa fatica me la sono portata dietro, per questo non ero scioltissimo.

Però prestigiatore.

Frequentavo una scuola di magia e ciò fa capire che ero un nerd…

Quando ha smesso di esserlo?

In realtà chi lo è in quella fase della vita, lo resta sempre; al massimo può cercare delle armi sostitutive, delle strategia per apparire altro.

Studiava?

Non molto, non riuscivo a concentrarmi, la testa mi partiva per viaggi lontani, e non seguivo la lezione.

Da regista, come si è comportato da attore?

Non male, ma potevo dare di più: ero così concentrato sul film da lasciare la recitazione come ultimo dei problemi.

Difetto.

Ne ho mille; sono testa dura e m’incazzo.

Vizio.

Quello vero non lo dico.

Scaramanzia.

La grattatina con garbo, non la nego.

Sex symbol.

Magari! Quando me lo dicono ringrazio sempre.

Chi è lei?

E come faccio? (Ride) Mi dia un aiuto.

Un figlio della tradizione napoletana?

No, troppo! Sono uno che ci prova.

(All’improvviso il richiamo della casa: “Papà, i compiti”. (sospiro) “Arrivo”)

Carceri, dopo Hiv e tubercolosi il colpo di grazia del Covid-19

La Federazione supererà la soglia dei 90mila infetti dichiarati, ma non si conoscerà presto il numero dei positivi al Covid-19 rinchiusi nelle sue celle. Dopo America e Cina, la Russia ha la terza più numerosa popolazione carceraria al mondo. Asfissiati tra brande e orinatoi, in camerate sature di disperazione e miseria, rimangono ammassati i galeotti slavi, mentre il virus colpisce da una latitudine all’altra il loro Paese.

Ufficialmente in otto prigioni, in sette diverse regioni russe, sono stati registrati contagi; ma oltre alla carenza dei test, c’è quella cronica delle informazioni che penetrano oltre il territorio recintato delle colonie penali russe. Quello che si riesce a sapere lo riporta il Moscow Times: nella lista dei malati ci sono 21 prigionieri e due guardie nel distretto ebraico siberiano; altri malati nell’istituto di correzione a Bira. A Rybinsk, sul Volga, dodici prigionieri hanno riferito di avere febbre alta. Pochi hanno contatti con i loro avvocati, ovunque le visite sono momentaneamente vietate e, insieme ai familiari, all’interno delle carceri è ora impedito l’accesso a medicinali e cibo che i parenti fornivano ai reclusi. In assenza di cure adeguate e strutture ospedaliere nelle vicinanze, un’immediata condanna a morte per i prigionieri può essere rimanere contagiati dal virus. Non hanno dispositivi di protezione, ma dallo scorso marzo, sono proprio alcuni detenuti in diverse prigioni a produrre mascherine.

Fuoco e proteste nel ventre della Siberia. Nella colonia penale numero 15 ad Angarsk è scoppiata una rivolta, decine fra i 1.200 detenuti si sono tagliati le vene contemporaneamente per protestare contro la brutalità dei secondini e il fatto di essere stati lasciati senza protezioni contro il virus. A Yaroslav, riferiscono attivisti ed associazioni che aiutano le famiglie dei detenuti, molti pazienti riportano chiari sintomi di polmonite come avviene nel penitenziario federale Matrosskaya Tishina a Mosca, epicentro del virus. Nella Capitale, per estenuanti condizioni di lavoro e totale assenza di materiale protettivo, si sono licenziate decine di infermiere che hanno abbandonato i reparti del Kommunarka, l’ospedale visitato in scafandro giallo dal presidente Vladimir Putin. Una matrioska di tormenti, con una pandemia dentro l’altra: dietro le sbarre l’epidemia può trovare terreno fertile perché prima del Covid-19 esistevano già i focolai di altre malattie, soprattutto tubercolosi ed Hiv.

Inascoltati gli appelli di amnistia rivolti dal gruppo Mosca Helsinki al Cremlino, che non ha dato alcun tipo di risposta. Dal Tatarstan a Murmansk sono solo i giornalisti indipendenti a fornire dati sulle sindromi respiratorie che colpiscono i reclusi in questi giorni. Quanto sia difficile avere notizie lo spiega bene un articolo apparso tre giorni fa sulla Novaya Gazeta, il giornale della Politovskaya, dal titolo “La legge sulle fake news è una trappola per giornalisti: ovvero perché è così difficile scrivere del virus in prigione”. A ribadirlo e ripeterlo ad alta voce è stata poi Olga Romanova, membro dell’organizzazione “Russia dietro le sbarre”, messa a tacere quando le autorità l’hanno richiamata subito per “diffusione di fake news”. Intanto il governo pensa già di ridurre le restrizioni dopo il 12 maggio, ma ciò sarà “possibile” solo se i cittadini si atterranno “rigorosamente a tutte le regole necessarie”: lo ha detto la direttrice dell’Agenzia federale russa per la Salute e i diritti dei consumatori (Rospotrebnadzor), Anna Popova, in un’intervista tv ripresa dall’agenzia Interfax,

La scuola boccia il governo: “Rientrare è irresponsabile”

Riaprire le scuole alla fine del lockdown sarà una bella sfida per il governo francese. La decisione, presa senza l’avallo degli scienziati, è respinta in primo luogo dai diretti interessati, gli insegnanti e i genitori. Tornare in classe l’11 maggio è “irresponsabile, pericoloso e impossibile. La data è prematura”, sostengono i sindacati degli insegnanti, che hanno già minacciato uno sciopero fino a fine maggio “in mancanza di un piano che garantisca la sicurezza e la salute di tutti”. Da un sondaggio Odoxa, portato avanti su mille intervistati, il 63% dei genitori terrà i figli a casa. E numerosi sindaci hanno già deciso che lasceranno chiusi i cancelli.

La polemica sulle scuole è scoppiata sin dal discorso del 13 aprile in cui Macron ne annunciava la riapertura “progressiva” dall’11 maggio. Di fronte alle critiche, il ministro dell’Istruzione Blanquer aveva dunque deciso che il ritorno a scuola si sarebbe fatto su base volontaria, che cioè saranno i genitori a decidere. È stato anche anticipato che le scuole riapriranno a tappe, su tre settimane, dalla materna al liceo, e che le classi saranno limitate a 15 alunni. La polemica si è inasprita però quando, sabato sera, è stato reso noto il contenuto di un rapporto del Comitato scientifico, datato 20 aprile, in cui gli esperti consigliavano al governo di lasciare chiuse le scuole fino a settembre. Nel frattempo il Comitato ha detto di aver “preso atto della decisione politica” e ha elencato tutta una serie di raccomandazioni: mascherine obbligatorie alle medie e superiori, banchi distanziati di un metro, sanificazione dei locali più volte al giorno, gel e saponi disponibili, niente assembramenti davanti alla scuola, e così via. Regole molte strette che per gli insegnanti sono impossibili da rispettare e da mettere in atto in così poco tempo. Sul piano politico, le opposizioni criticano la “fretta” del governo. Il Ps lo accusa di voler nascondere il suo vero scopo, economico: “Riportare i genitori al lavoro”.

Oggi il premier Philippe deve presentare in Assemblea i dettagli del piano per la ripartenza della Francia, seguito dal voto (non vincolante) dei deputati. Un’Assemblea in formato ristretto, poiché solo 75 deputati (su 577) potranno essere presenti. Dall’inizio dell’epidemia il virus ha già ucciso 23.293 persone in Francia (+437) e ne ha contagiate almeno 128.339 (+3.764).

 

Stati Uniti
La mossa dei Repubblicani: ora i Dem sono amici dei cinesi

La parola d’ordine dei Repubblicani, in vista della campagna elettorale per Usa 2020, è tenere Donald Trump al riparo dalle critiche per l’impatto dell’epidemia di coronavirus: oltre 55 mila vittime, una su quattro al mondo, e più di 970 mila contagiati; e il crollo del Pil e l’impennata della disoccupazione. La ricetta di un memo di 57 pagine distribuito ai candidati repubblicani, e reso noto da Politico, è molto semplice: accusare i Democratici di essere morbidi nei suoi confronti, minacciare sanzioni a Pechino per la diffusione del virus. L’altra via maestra della tattica repubblicana, o almeno presidenziale, è prendersela coi giornalisti. Trump, dopo avere deciso di non andare più ai briefing quotidiani alla Casa Bianca con una raffica di tweet difende il suo operato e accusa i “fake-news media”, i “nemici del popolo”, di raccontare falsità: “Non abbiamo mai avuto una stampa così ostile e corrotta, nel mezzo dell’emergenza nazionale per il nemico invisibile”. La settimana vede numerosi Stati allentare le misure di lockdown.
Giampiero Gramaglia

 

Regno Unito
Si rivede Johnson, però c’è un nuovo allarme per i bimbi

Boris Johnson è tornato al lavoro ieri mattina dopo più di tre settimane di malattia, con un discorso alla nazione. Il Covid non ne ha smussato la retorica: “Stiamo iniziando a invertire la rotta” ma “rifiuto di gettare al vento l’impegno e i sacrifici della popolazione” e quindi il lockdown resta. Cita “l’evidente successo ottenuto tutti insieme nel proteggere il servizio sanitario e superare il picco”, dichiarazione surreale viste le almeno 130 vittime fra infermieri e medici – ogni morte compensata con 60mila sterline alle famiglie – e gli oltre 21mila decessi solo in ospedale. E c’è un nuovo allarme: secondo una circolare inviata ai medici di base “nelle ultime 3 settimane, in tutta Londra e in altre regioni del Regno Unito c’è stato un chiaro aumento del numero di bambini di tutte le età che presentano uno stato infiammatorio multi-sistemico, che richiede cure intensive”. Una sindrome sconosciuta, “legata al covid o a un nuovo patogeno infettivo non ancora identificato”. I sintomi: dolori addominali, disturbi gastrointestinali, infiammazione cardiaca”. I casi sono pochi ma preoccupano le autorità sanitarie.
Sabrina Provenzani

 

Nord Corea
Kim, ultima ipotesi: sta bene ma fra la sua scorta c’era il virus

Il leader nordcoreano Kim Jong-un “è vivo e sta bene”: con questa dichiarazione Moon Chung-in, funzionario per la sicurezza nazionale del presidente Moon Jae-in, ha ribadito alla Cnn che il suo governo non crede che il dittatore della porta accanto sia in pericolo di vita. Da Pyongyang, il ‘caro leader’ in apparenza manda messaggi – agli operai, al Sudafrica – ma non appare. Kim è assente da eventi pubblici da due settimane, incluso quello solenne del 15 aprile dedicato al compleanno del nonno Kim Il-sung, ‘presidente eterno’ e fondatore dello Stato. In merito ai possibili motivi per cui il capo del regime sia sparito, il giornale sudcoreano JoongAng Ilbo cita una fonte in Cina esperta di questioni nordcoreane secondo la quale Kim si sarebbe auto-isolato dopo che uno degli uomini della sua scorta ha temuto di aver contratto il virus. Secondo la fonte del giornale, Kim non avrebbe partecipato agli eventi in agenda “perché c’era un problema con il Comando della Guardia Suprema incaricata della sicurezza del leader nordcoreano”. Nel suo articolo il giornale sudcoreano cita anche un funzionario cinese che ribadisce: “Kim è vivo e sta bene.”

 

Israele
Servizi e tracciamento contagi: senza legge Knesset non si può

Contrordine: il servizio di sicurezza interno Shin Bet non può continuare a tracciare i cellulari delle persone positive al coronavirus in mancanza di una legge della Knesset (Parlamento). Lo ha stabilito la Corte Suprema che ha consentito al governo di prolungare l’attività degli 007 a patto, però, che cominci subito l’iter legislativo. La Corte ha anche stabilito che la legge deve consentire ai giornalisti di proteggere le loro fonti impedendo che i dati dei loro cellulari siano consegnati allo Shin Bet. La decisione della Corte è scaturita dalla petizione di un’organizzazione dei diritti civili che ha denunciato questa forma di attività usata per arginare il virus finora utilizzata solo nei casi di antiterrorismo. Il numero dei casi positivi intanto ieri è giunto a 15.466, i morti sono 202. Fra i ricoverati in ospedale, 129 sono in condizioni gravi. Domenica si prevede la riapertura degli asili nido e delle scuole per bambini dal primo al terzo grado. Ultima verifica, prima della decisione finale, venerdì. Fronte politico: i laburisti appoggeranno il governo da Benyamin Netanyhu (destra) alleato del centrista Benny Gantz: i due hanno concordato una carica di premier a rotazione.

Chi decide a paga dei manager pubblici? Che cosa ci insegna lo strano caso Grieco

Nel 2015, primo anno pieno da presidente dell’Enel, Patrizia Grieco fu retribuita con 145 mila euro. Non tanto per una manager nata nella mitica Italtel di Marisa Belisario e rimastaci poi 26 anni, perché i manager italiani schifano solo il posto fisso degli operai. L’anno scorso lo stipendio della Grieco è stato di 666 mila euro. In quattro anni la signora ha visto crescere il suo stipendio del 360 per cento, e sarebbe bello che chi ne porta la responsabilità, cioè i ministri dell’Economia pro tempore, ci dicessero se era giusto il primo o l’ultimo.

Nello stesso periodo un normale lavoratore italiano, baciandosi i gomiti per non essere rimasto disoccupato, se li bacia anche se ha visto il suo reddito crescere del 3,6 per cento. Intanto l’amministratore delegato dell’Enel Francesco Starace è passato da 1,5 milioni del 2015 ai 5 milioni e 486 mila del 2019 (più 270 per cento), esattamente pari a 15 mila euro al giorno. Tutte le sere Starace torna a casa con in tasca 15 mila euro in più. Mentre la dottoressa Grieco si è adattata a percepire ogni giorno solo 1.800 euro lordi, quanto prende un insegnante, però in un mese.

Direte voi, questi saranno bravi. Sicuramente. Però nel 2015 l’Enel ha realizzato profitti per 2,19 miliardi, nel 2019 per 2,17. Insomma, non un grande progresso, ma sono tanti soldi. Perché dunque non dare a Starace non 5 ma 50 milioni? Chissà qual è il parametro. Quello che sicuramente ha poco senso è l’aumento, l’idea che i due manager siano vertiginosamente migliorati. Chi sono gli azionisti che hanno deciso l’impennata stipendiale dei due valorosi manager? L’azionista di controllo che scelse Starace e Grieco nel 2014 fu Pier Carlo Padoan (su ordine di Matteo Renzi), e sua è la responsabilità politica di quelle retribuzioni.

Ma qui casca l’asino. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha combinato il pasticcio che sputtana tutti quanti. Nell’immondo suk in cui, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro, ha spartito le poltrone manageriali pubbliche, ha fatto fuori la Grieco. Nelle regole del suk (ufficialmente chiamato “istituzioni”) quella poltrona spettava all’amico di un amico di Fraccaro. Così la manager è stata dirottata al Monte dei Paschi di Siena, altra società quotata in Borsa e controllata dal Tesoro, la cui presidenza spetta al Pd perché l’amministratore delegato è un amico dei pentastellati (ma non è lottizzazione, è solo un amico…). Siccome a una così brava un posto va trovato Gualtieri ha fatto fuori Stefania Bariatti, nominata da Padoan e meno brava, o con meno amici.

E qui il dramma si esprime in euro. A Siena gli stipendi sono stati limitati da Bruxelles quando fu approvato l’aiuto di Stato con cui Padoan – dopo aver tenuto bordone per mesi ai ghe pensi mi di Renzi – ha salvato la banca coi miliardi dello Stato. Sì, c’è voluta l’odiata Europa per vietare a Padoan di regalare ai manager i soldi dei contribuenti-azionisti. Così a Bariatti ha dato 110 mila euro all’anno contro i 486 mila presi dal suo predecessore Alessandro Falciai per presiedere una banca nel guano fino alle orecchie. Notate bene: lo stipendio della presidenza di Mps ha fatto la stessa strada di quello dell’Enel, ma al contrario, meno 340 per cento. E adesso i 110 mila euro se li deve far bastare la dottoressa Grieco.

La domanda per Gualtieri sorge spontanea: se Grieco accetta di presiedere la banca nella scomodissima (per lei milanese) Siena per 110 mila euro all’anno, perché gliene avete dato 666 mila euro per occupare la comoda poltrona Enel? E al nuovo presidente Enel in quota 5 Stelle quanto lo pagherete?

In questi tempi calamitosi, in cui si parla di sussidi di 600 euro a professionisti perché portino a casa un pezzo di pane per i loro figli, il caso Grieco fa tornare d’attualità il sospetto che gli stipendi dei manager (non solo pubblici), nonostante le giungle di foglie di fico (cacciatori di teste, esperti, comitati, confronti internazionali etc.), siano decisi nella migliore delle ipotesi dai dadi, nella peggiore da chi li deve incassare.

 

Prestiti garantiti, trafila troppo lunga Ma 1 su 10 fallirà

Il tentativo del governo di immettere ossigeno nel sistema produttivo per coprire la voragine aperta dal lockdown nelle casse già traballanti delle imprese si sta esaurendo nel collo di bottiglia della burocrazia. Ma se anche questa “potenza di fuoco” fa ancora fatica ad arrivare a partite Iva, imprenditori e commercianti, il meccanismo rappresenta già un rischio insolvenza molto elevato per lo Stato: le insolvenze sui 450 miliardi di euro di garanzie pubbliche attivate dai decreti del governo “potrebbero anche superare quelli del biennio 2012-2013, quando si avvicinarono al 10%”. Un allarme che arriva dal capo del servizio struttura economico della Banca d’Italia, Fabrizio Balassone, nella sua audizione alla Camera sul dl Liquidità. Secondo Bankitalia, la cessione di garanzie pubbliche è sì uno strumento adatto alla situazione, ma resta “una scelta politica quella di raggiungere la più ampia platea di imprese con tempi più rapidi che potrà appesantire i conti dello Stato con conseguenze non desiderabili”. E che si acuiranno nei prossimi anni: i prestiti ammessi a garanzia possono infatti avere una durata di 6 anni. Una mancanza di equilibrio tra politica e finanza che Via Nazionale ha rilevato anche in un’altra limitante decisione: non dare garanzie alle imprese già in crisi prima dell’emergenza e che, di fatto, ha lasciato fuori dai prestiti garantiti da Sace una buona parte di aziende. Ma “allargare la platea anche a loro esporrebbe il bilancio pubblico a rischi, anzi quasi certezze”, ha spiegato Balassone per il quale “va conciliata la rapidità d’azione con quelle di controllo e di legalità”. E dopo la denuncia del Fatto sull’imposizione di alcune banche di chiedere agli imprenditori di rinegoziare vecchi fidi grazie alla garanzia pubblica, Bankitalia è stata netta: “La concessione non va ridotta, deve esserci al limite un accordo tra le parti”.

Insomma, serve agire e in fretta. Bankitalia, in direzione di una simile richiesta avanzata dall’Associazione bancaria italiana (Abi), ha suggerito di snellire la procedura dei prestiti fino a 25mila euro “utilizzando l’autocertificazione”. Poi ci sono i 30 miliardi riservati ai prestiti bancari per partite Iva e Pmi con garanzia statale al 100%. Sono cifre importanti. Il problema principale restano i tempi di erogazione di una ciambella di salvataggio a chi annaspa. L’Abi aveva improvvidamente assicurato in un primo momento l’erogazione dei prestiti in 24 ore. Tuttavia l’esiguità delle risorse umane da mettere in campo, confrontata con il volume del numero delle domande suggerisce tempi ben più lunghi, come confermano gli istituti bancari. La normativa non prevede erogazioni a pioggia ma richiede l’applicazione di poche ma precise griglie, come il tetto massimo del prestito concesso che non può superare il 25% del fatturato. Inoltre la pratica istruita non riceve il via libera fino a che la banca non ottiene il consenso del Fondo di garanzia, questo per essere sicuri che gli stanziamenti della copertura dello Stato non siano già stati impegnati e esauriti. Le istruttorie vanno lavorate “a mano” e si aggiungono alle decine di migliaia di sospensioni del mutuo che ogni istituto ha ricevuto in questi giorni.

Dal 17 marzo al 26 aprile, ha riferito il Fondo di Garanzia per le Pmi, sono arrivate 31.000 domande dalle imprese per l’equivalente di richieste di crediti garantiti pari a 3,4 miliardi di euro, di cui 13.500 domande riguardano operazioni fino a 25.000 euro. Anche se negli ultimi giorni c’è stata una decisa accelerazione, con 2.000 domande al giorno, si tratta di numeri ancora troppo bassi per un Paese in cui si deve far ripartire la capacità delle imprese di fare investimenti. Audita in commissione, la federazione dei bancari (Fabi) ha suggerito di affiancare alle garanzie statali anche finanziamenti a fondo perduto almeno per le ditte individuali oltre che per le piccole e medie imprese. Fabi si è anche detta d’accordo alla proposta Abi “di introdurre uno scudo penale sugli amministratori delegati delle banche, relativo a ipotesi di concorso in bancarotta o abusiva concessione di credito”. Anche se questa richiesta per qualche gruppo bancario si è trasformata in un freno alle erogazioni. Una potenza di fuoco più debole.