“Nessun aiuto alle aziende in paradisi fiscali (pure Ue)”

L’idea è semplice, ma destinata ad aprire uno scontro furibondo: limitare gli aiuti pubblici per fronteggiare la crisi innescata dal Covid-19 solo alle imprese che hanno sede fiscale e legale in Italia. Nei giorni scorsi il Nens – centro studi fondato da Vincenzo Visco e Pier Luigi Bersani, oggi in Mdp-Articolo Uno, la sigla che federa le liste di sinistra – ha lanciato una petizione online (“No aiuti pubblici alle aziende con sede nei paradisi fiscali”). Il testo su change.org ha raggiunto le 2 mila firme, ma soprattutto si tradurrà in diversi emendamenti al Decreto Imprese in discussione alla Camera.

Francia e Danimarca hanno annunciato provvedimenti simili, ma con una differenza: secondo il Nens “il divieto deve riguardare società con sede all’estero e nei paradisi fiscali, compresi quelli esistenti nella stessa Unione europea, come l’Olanda, il Lussemburgo, l’Irlanda, Malta, Cipro”. Paesi che invece non compaiono nelle black list di Parigi e Copenaghen. Eppure è proprio all’interno dell’Unione europea che avviene la concorrenza fiscale più sleale, specie da parte degli Stati, come i Paesi Bassi, che più si oppongono a misure di solidarietà all’interno dell’Ue. Secondo una commissione di studio del Parlamento europeo, l’Italia perde il 19% delle entrate tributarie dalle imprese che spostano la propria sede nei Paesi a fiscalità agevolata, 7,5 miliardi di euro l’anno, di cui 6,5 all’interno dell’Unione. Lo studio Missingprofits degli economisti Thomas Tørsløv (Università di Copenaghen), Gabriel Zucman e Ludvig Wier (Berkeley) Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta da sole hanno sottratto all’Italia 5,6 miliardi di tasse sulle imprese (40 al resto dei Paesi Ue). Al confronto i paradisi fiscali extra-Ue attraggono briciole (meno di 1 miliardo). L’elenco dei nomi della meglio imprenditoria italiana che hanno portato aziende e holding all’estero è sterminato: da Fca (sede legale in Olanda e fiscale in Inghilterra) alla holding di famiglia degli Agnelli, Exor (Olanda), alla Tenaris dei Fratelli Rocca (holding in Lussemburgo) dalla Ferrero (Lussemburgo) alla Campari, che da poco ha deciso di trasferire le sede legale in Olanda insieme alla Mediaset post-riassetto. Solo nei Paesi Bassi sono stimate 15 mila società paravento.

Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato che porrà il tema dei paradisi fiscali nell’Unione europea. Una mossa che richiede tempi biblici. Si può però agire a valle. Il “decreto Imprese” è lo strumento ideale, visto che stanzia garanzie pubbliche per quasi 300 miliardi di prestiti. Limita gli aiuti alle aziende che “hanno sede in Italia”, ma in questo modo i soldi possono andare anche a società controllate da holding estere. È qui che si vuole agire e qualcosa si è già mosso. Un emendamento depositato dal deputato Stefano Fassina (LeU) prevede che debbano avere “la sede fiscale e legale in Italia”. L’idea potrebbe trovare consenso nella maggioranza giallorosa, a partire dal M5S. Tanto più che nella stesura del testo, i 5Stelle avevano cercato di inserire una norma che imponeva alle holding estere di trasferire la sede legale in Italia per tutta la durata del credito garantito e disporre un pegno a favore dello Stato sulle azioni delle controllate italiane beneficiarie. Norma che ha trovato il muro al ministero dell’Economia. Non è l’unico tema su cui si sono scatenate le lobby. Nelle prime bozze del testo, per dire, era fatto divieto esplicito di usare i prestiti garantiti per rifinanziare vecchi prestiti, per evitare che le banche sostituissero i fidi esistenti lasciando il cerino in mano allo Stato. La pressione del sistema bancario – raccontano fonti del Tesoro – è stata fortissima, e nella versione finale il divieto è sparito a favore di una formula tanto vaga da permettere una zona d’ombra. Tra gli emendamenti di Fassina ce n’è anche uno che ripristina il divieto esplicito. In Parlamento si vedranno le vere intenzioni.

No conte? Scegliete Tra macron e Trump

Dall’alto del mio divano non mi capacito e mi unisco alla protesta che dalle poltrone e sofà dello Stivale si leva, indignata, dopo le ultime comunicazioni di un premier (che nessuno ha eletto) e che esercita il suo mobbing nei momenti più divisivi: la sera tardi (quando caschiamo dal sonno), o alla mattina (quando non siamo ancora svegli), o al pomeriggio (pennica), fino all’ultima provocazione, nell’ora più sacra della cena.

All’unisono insorgono industriali, vescovi, maturandi, orfani e vedovi di Draghi, congiunti non consanguinei, amanti ritrovati e perduti, anziani e badanti, bagnini, macchinisti, fuochisti, facchini, affini, collaterali, uomini di fatica. Baccaglia contro Conte la ministra italoviva Bellanova (stai bonina, l’ammansisce il sempre responsabile Renzi “che i conti li faremo alla fine”), mentre nell’arenile di Giletti si agitano, ma tu guarda, forconi e marce su Roma. Allora mettiamola così, se il compromesso tra riapertura graduale e virus che cova sotto la cenere fa tanto schifo, se il popolo dei sopracciò invoca decisioni nette e irrevocabili e basta scienziati pappamolla, si può sempre scegliere tra tre opzioni. Cura Donald Trump: una bella endovena di varechina e oplà il coronavirus (alimentato dalla solita propaganda liberal) non c’è più. Governo Lotito: “Mi chiamano Lotito lo scienziato, ai cosiddetti esperti ho spiegato la natura del virus, ho studiato medicina e pedagogia, a un medico ho detto che andava bene per fare il professore di chitarra e mandolino” (Repubblica). Infine (purtroppo seriamente) c’è la soluzione Macron: che contro il parere degli scienziati annuncia la fine quasi totale del lockdown e la riapertura delle scuole. Una scelta indubbiamente di polso, ma tutta giocata sulla pelle dei francesi. Del resto la roulette non l’hanno inventata loro?

Cara donna Giorgia, se Guccini istiga all’odio voi che fate?

Si fa fatica a star dietro a Giorgia Meloni, perché ultimamente è sempre fuori pista. I sondaggi la premiano, dunque ha ragione lei nell’intuire che al suo elettorato piacciono le esagerazioni a caso, ma è quasi commovente quel suo voler rivaleggiare il suo camerata di banco Salvini. La Meloni sarà la nuova leader della destra, perché è la più scaltra del (suo) lotto e per la propensione renziana del cazzaro verde al masochismo, dunque occorrerà abituarsi ad analizzarne ogni mossa. Donna Giorgia ha ragione nel sottolineare come, spesso, la sinistra scomodi il sessismo solo quando a essere anche solo criticata è una donna di sinistra; se a ricevere bombe a mano travestite da articoli è la Meloni, quella stessa sinistra tende a fregarsene. Purtroppo per lei, la Meloni tende ad attirarsi da sola le critiche. Per esempio per le parole usate nel rispondere alla Bella ciao di Guccini: “Cosa intende esattamente Francesco Guccini quando dice che con Meloni, Salvini, Berlusconi faranno la ‘resistenza come hanno fatto i partigiani’? Che dovrebbero farci i processi sommari, appenderci a testa in giù, rasarci i capelli ed esporci alla pubblica gogna? Cosa intende quando dice ‘oh partigiano portali via’? Dove dovrebbero portarci questi partigiani? Al confino, in galera, dove? Questa si chiama istigazione all’odio, cari compagni. Ma noi non ci faremo intimorire, mai. Dovete batterci nelle urne, se ne siete capaci”.

Detto che definire Guccini “istigatore all’odio” è come dire che Senaldi istiga all’intelligenza o Povia alla musica, la reazione piccato-frignona di Donna Giorgia tradisce anzitutto il fastidio della destra nel riconoscere che quasi sempre la cultura risieda a sinistra. Rassegnatevi, camerati: al di là di quel che resta di Littorio “Ginger Ale” Feltri (che Meloni e Salvini nel 2015 volevano al Quirinale) o della versione destrorsa della Murgia (Mary Jo Maglie), non avete quasi nulla. Commuove poi che la Meloni, leader di quel partito lì e alleata con quell’altro lì, definisca Guccini “istigatore d’odio”. A istigarlo è lui o magari Meluzzi, da tempo fan della Meloni e ospite della sua festa di Atreju con quell’altro noto democratico di Steve Bannon, che ebbe il coraggio di dire alla famiglia Cucchi di chiedere scusa (lei, mica chi gli aveva trucidato il figlio e il fratello)? A istigare odio è Guccini o chi ha definito Conte “criminale” (Meloni), chi ha zimbellato una sardina dislessica (Salvini), chi diffonde il falso su Mes e svuotacarceri (entrambi), chi ha partecipato a quel consesso oscurantista del Congresso di Verona (entrambi), chi usa certi toni (entrambi, e pure i loro luogotenenti), chi espone alla gogna social nomadi e migranti (entrambi), chi ha definito Carola Rackete “zecca” (Salvini) e chi citofona ai tunisini (Salvini)? C’è poi un aspetto chiave: nella sua rilettura di Bella ciao, Guccini non cita la Meloni, ma “i fasci della Meloni”. A Donna Giorgia sarebbe bastato rispondere così: “Non c’entro nulla coi fasci perché il fascismo mi fa schifo”. Ma non può dirlo, forse perché non lo pensa e di sicuro perché non le converrebbe. Poiché poi la sua conoscenza della storia pare assai zoppicante, le ricordiamo quel che nel ’72 Enrico Berlinguer disse a un fascistone del MSI, tal Mario Pucci, che scriveva in un quotidiano ieri come oggi brutto e inutile: “Voi siete stati coraggiosi soltanto quando stavate dietro la protezione delle SS, allora siete stati coraggiosi, nel massacro dei giovani, dei partigiani. Quando vi siete trovati di fronte voi fascisti repubblicani i partigiani, siete sempre scappati”. Eia eia alalà.

Niente messe, la Cei protesta ma è sollevata

La Cei è entrata in rotta di collisione col governo, accusato di intenzioni liberticide nei confronti del culto religioso. La durissima nota che i vescovi hanno pubblicato è probabilmente l’esito di una trattativa finita male che in ogni caso porta i vescovi ad allineare le loro posizioni con quelle della destra. I cattoconservatori plaudono all’iniziativa e Salvini e i suoi possono finalmente stappare lo champagne per aver trovato, in tempi così difficili, un compagno di viaggio tanto autorevole.

I motivi che hanno spinto i vescovi italiani a imbroccare questa direzione a me sembrano piuttosto evidenti. La prolungata quarantena ha spinto una parte consistente del clero italiano semplicemente a smobilitare e ad acquattarsi nelle canoniche, abbandonando la custodia del gregge in attesa di tempi migliori. Un’altra parte del clero ha invece trasferito l’attività liturgica sulla Rete, con celebrazioni in diretta Facebook o su YouTube. Per la Cei, il rischio in questo caso è non solo che una porzione del popolo di Dio si abitui a usufruire delle messe nel comfort domestico e nei momenti della giornata più graditi disertando in futuro la partecipazione in presenza, ma anche che si scateni, tra preti, una vera e propria concorrenza selvaggia, cioè che molti fedeli scoprano che la messa online di quel tal sacerdote residente a centinaia di chilometri da casa loro è molto più godibile e ben celebrata di quella del loro parroco che usa i social in modo stanco e ripetitivo. La competizione è stata resa ancora più feroce dalla quotidiana celebrazione eucaristica televisiva del pontefice e da quelle, meno frequenti, dei vescovi. La conseguenza ultima di tutto ciò potrebbe consistere in un poderoso rimescolamento dei gusti e delle preferenze dei fedeli dal quale molti pastori, rivelatisi troppo inattivi o incapaci, uscirebbero letteralmente massacrati. A tutto questo si aggiunge la decisione presa da una pattuglia di autorevoli teologi, laici e presbiteri di incoraggiare la diffusione, almeno in questo tempo, di una “spiritualità domestica” nella quale l’eucaristia è sostituita dalla lettura e dalla meditazione sulle Scritture. Per questi e altri motivi la quarantena è per la Chiesa un evento molto pericoloso. Malgrado ciò, la richiesta di riprendere le funzioni religiose è, in larga misura, un bluff. Perché vi si possa tornare a celebrare le messe infatti, le chiese dovrebbero divenire dei luoghi sicuri dal punto di vista sanitario e questo ha dei costi organizzativi e finanziari che la Chiesa non mi sembra in grado di affrontare. Ci sarebbe bisogno di addetti che rilevano la temperatura di chi entra in chiesa, così come sarebbe necessario sanificare di continuo i locali. Le presenze dovrebbero essere contingentate ricorrendo inevitabilmente a criteri molto discutibili, come il sorteggio o la prenotazione (casomai online). Sarebbe inoltre indispensabile, per consentire una partecipazione ampia, moltiplicare le celebrazioni, costringendo ogni prete a celebrare quattro o cinque messe al giorno. Per questo io penso che tutto sommato la Cei sia soddisfatta della decisione governativa e che la sua opposizione serva solo a rassicurare simbolicamente la parte più conservatrice del popolo cattolico. Anche la minaccia, contenuta implicitamente nelle ultime righe del comunicato, di sospendere le attività caritative a vantaggio dei poveri se non verrà cancellato il divieto di celebrare le messe, mi sembra altamente implausibile. La Caritas continuerà ad aiutare i bisognosi e anche il resto proseguirà come prima in attesa che vengano compiute nuove valutazioni. L’unico rammarico è forse, per tanti cattolici, quello per la grossa occasione che la Chiesa italiana ha perduto di lanciare un messaggio spirituale davvero universale e di mostrarsi così maggiormente vicina alle sofferenze e ai sentimenti di tanti che ai propri interessi di categoria o alle aspettative di quella parte dei suoi fedelissimi che mette l’eucaristia davanti a tutto, anche alla vita stessa.

Virus, la democrazia fa meglio dei regimi

Un’analisi comparata seria esige che il problema sia posto in maniera limpida. Sono i regimi non democratici superiori alle democrazie nell’affrontare/risolvere le emergenze? In base a quali criteri? Poi, è indispensabile esplicitare criteri e modalità dell’asserita superiorità di quale gruppo di regimi: tempi, strumenti, esiti. Sento ripetere ossessivamente, al limite del fastidio che Cina (totalitaria) e Singapore (autoritario) hanno affrontato e risolto l’aggressione del Covid-19 meglio delle democrazie, per esempio, degli Usa e, se vogliamo, dell’Italia.

Prima di procedere ricordiamo che il virus fece la sua comparsa in Cina e la sua esistenza fu segnalata con qualche settimana di ritardo. Coerentemente con una delle caratteristiche cruciali per i regimi totalitari, i detentori del potere politico soppressero l’informazione. L’assenza di mezzi d’informazione liberi e indipendenti consentì l’operazione di occultamento del problema per alcune, forse cruciali, settimane. Una volta costretti ad accettare e a rivelare l’esistenza del virus, le autorità cinesi avrebbero risposto in maniera più efficiente delle autorità dei paesi democratici. Il loro lockdown, “scontato” un deplorevole ritardo iniziale, ma non dovremmo “contarlo”?, ha limitato il numero dei contagi e delle vittime e risolto il problema.

È possibile accettare senza riserve i dati che vengono forniti dalle autorità cinesi e considerarli veritieri? La risposta è “non possiamo esserne certi” poiché dall’interno della stessa Cina filtrano dati delle vittime quattro volte superiori a quelli ufficiali. Per qualche settimana iniziale, è sembrato che il regime autoritario di Singapore (5 milioni e 535 mila abitanti, circa la metà di quelli della Lombardia), avendo immediatamente messo in atto il suo lockdown, fosse riuscito a prevenire con successo il diffondersi del virus. Dati successivi suggeriscono di no. Qui interviene la comparazione. Il lockdown è stato “imposto” anche da due democrazie asiatiche: la Corea del Sud, che era stata gravemente colpita, e Taiwan. In entrambi i casi, i dati disponibili e accertabili confermano che contagi e vittime sono di gran lunga proporzionalmente inferiori a quelli di Cina e Singapore. Pertanto, poiché stiamo paragonando Paesi molto più omogenei fra loro di quanto sono i sistemi politici asiatici rispetto alle democrazie occidentali, potremmo chiudere qui affermando alto e forte che in Asia le democrazie si sono dimostrate più efficienti dei regimi non-democratici. Non per questo possiamo automaticamente e conseguentemente assolvere tutte le democrazie occidentali per le modalità con le quali hanno affrontato il Coronavirus.

La critica prevalente è che nelle democrazie i lockdown sono stati decisi con ritardo. Lascio ad altri definire il “ritardo”, rispetto a che cosa? Chiedo, invece, se il ritardo dipenda da qualche insuperabile inconveniente insito nelle caratteristiche costitutive della democrazia oppure dipenda da ciascun regime democratico realmente esistente, da ciascun assetto istituzionale, dalle specifiche autorità attualmente in carica. La tesi prevalente sembra essere che i regimi non-democratici decidono molto rapidamente. Invece, le democrazie sono lente farraginose confuse. Per di più sono anche obbligate a tenere conto dei rispettivi Parlamenti. A questo punto, però, i critici delle democrazie non possono, come direbbero gli inglesi, have their cake and eat it, vale a dire piangere le amare sorti dei Parlamenti al tempo stesso che imputano i ritardi e le incertezze delle risposte democratiche proprio alle procedure parlamentari.

In maniera sostanzialmente simile, non è accettabile gridare alla perdita dei diritti dei cittadini, a partire da quello alla libera circolazione, e plaudire alla perentorietà dei lockdown imposti dalle autorità cinesi e di Singapore (ma anche coreane e taiwanesi). È possibile sostenere che i lockdown non democratici “funzionano” meglio poiché quelle popolazioni sono, da un lato, assuefatte al controllo poliziesco dei loro movimenti, dall’altro, conoscono la probabilità di una repressione indiscriminata di loro comportamenti eventualmente devianti.

Da ultimo, come valutare gli esiti della presunta efficienza dei regimi non-democratici rispetto a quelli democratici? Il macabro conto delle vittime, se le cifre proposte dai regimi non-democratici fossero attendibili, sarebbe un criterio da utilizzare. Per i tempi, secondo criterio, dovremmo attendere la conclusione della pandemia. Il terzo criterio richiede una difficile riflessione preliminare: quanta libertà i cittadini democratici sono disposti a sacrificare per ridurre il rischio del contagio e della morte (loro e, come si dice, dei loro cari)? Ma, il fatto stesso che i cittadini democratici hanno la libertà di scelta non è già un indicatore della preferibilità dei regimi democratici rispetto a quelli non-democratici?

Mail Box

 

Grazie al “Fatto Quotidiano” per l’integrità delle idee

Caro direttore, il tuo scambio con Padellaro di sabato rende in poche parole il senso del vostro giornale. Sono fiera di essere abbonata a un giornale che mi consente di leggerlo senza domandarmi se dietro a un articolo si nasconda un fine secondario, o se una notizia non viene data per scelta del giornalista o del suo editore. Ed è per questo che apprezzo tutte le vostre firme, da quelle più vicine al mio pensiero, a quelle distanti. Quello che cerchiamo noi lettori del Fatto è l’integrità delle idee; a prescindere da quali esse siano.

Valentina Felici

 

Io licenziata dopo aver denunciato la poca sicurezza

Ero dipendente di Autogrill Italia Spa, addetta all’area di servizio. A febbraio ero in malattia con bronchite asmatica e sospetta polmonite. Dovendo rientrare al lavoro il 15 marzo, ho chiesto delucidazioni sulle misure adottate dall’azienda contro Covid-19. Il responsabile della sicurezza mi disse che aveva richiesto al direttore lumi sulle mascherine, ma che ancora nulla si sapeva. Anche il sindacato faceva presenti all’azienda le gravi problematiche riguardanti la tutela della salute dei lavoratori. Visto il perdurare del silenzio dell’azienda, ho scritto sul sito della trasmissione Pomeriggio 5 che ero una dipendente di Autogrill e che nel momento di alta criticità i lavoratori operavano in una situazione di non sicurezza. Questo post è stato condiviso da altri su Facebook. Per tutta risposta, il 17 marzo appena giunta sul posto di lavoro mi è stata comunicata la sospensione e poi il licenziamento.

Una ex lavoratrice

 

DIRITTO DI REPLICA

Rispetto ai dati nazionali dell’Iss, che rileva il 44% dei contagi al Covid-19 provenire dalle Rsa, nel territorio scaligero questa percentuale si attesta sul 17%, anche grazie al monitoraggio dell’Ulss 9 di Verona nelle oltre 70 strutture residenziali per anziani del territorio. L’azienda ha messo in campo 22 Medici coordinatori sanitari distrettuali a supporto di ciascuna struttura e un team di specialisti. Sono stati effettuati test a circa 11 mila tra anziani e operatori per poter orientare le strutture sull’adozione delle misure previste dai protocolli sanitari circa l’isolamento, il distanziamento sociale e i percorsi di accesso, che sono stati bloccati e riservati solo al personale di servizio. Fin da subito sono state divulgate alle direzioni tutte le raccomandazioni diffuse dal ministero della Salute, dall’Iss e dalla Regione Veneto. In merito alla Casa di riposo di Villa Bartolomea, citata nell’articolo di domenica, il medico coordinatore e le altre figure sanitarie hanno prestato una documentata collaborazione rispetto ai bisogni che emergevano. Quanto al Centro servizi Campostrini, anch’esso citato, si è dato un supporto specialistico con sopralluoghi del medico della struttura. Rispetto allo screening di dipendenti e ospiti, l’Ulss 9 ha fatto quanto richiesto, in collaborazione con le strutture e nel rispetto delle indicazioni degli organi competenti. Pur non ricoprendo il ruolo di datore di lavoro, l’Ulss 9 ha fornito alle strutture 147 mila mascherine chirurgiche, oltre 26 mila mascherine Ffp2, oltre mille mascherine Ffp3, circa 2.500 camici idrorepellenti e 50 cuffie, oltre 2 mila calzari e copriscarpe, oltre 500 occhiali/visiere. Sono stati messi a disposizione delle strutture 82 operatori, 63 operatori sociosanitari e 19 infermieri, oltre a decine di operatori delle agenzie interinali e del terzo settore. Non si può certo affermare che tali strutture siano state lasciate sole dato che, pur nella loro autonomia gestionale, hanno sempre ricevuto dalla rete istituzionale un convinto sostegno.

Ufficio Stampa Ulss 9 Verona

 

La ricostruzione della Ulss cozza con le testimonianze raccolte tra dirigenti delle Rsa e parenti degli ospiti. Hanno riferito la mancanza di mascherine e il ritardo nei tamponi. Per non dire, a Villa Bartolomea, della disperata richiesta di medici e infermieri.

Ma. Fr.

 

In un articolo sul Fatto sabato, intitolato “Le nostre 10 domande sullo scandalo Rsa” con sottotitolo “Lombardia: i pazienti ex Covid continuano a essere trasferiti oggi”, chiedo una precisazione rispetto al senso complessivo della mia risposta a domanda telefonica di una vostra giornalista. Infatti mentre io ho precisato, ed è correttamente riportato, che non abbiamo mai avuto né ordini né pressioni per ricevere pazienti Covid nelle strutture da noi amministrate, nella premessa si legge però che “è l’Ats che chiama tutti i giorni”. In realtà. come poi è detto, vi è una piattaforma digitale della Regione che contiene ogni dato dei pazienti in dimissione dagli ospedali che possono essere accolti. E ancora ho specificato di come siano le strutture a inviare un report alle Ats contenente ogni notizia utile compresa quella relativa alle possibilità di ingresso. Poiché è questo il percorso che documentalmente risulta ed è quotidianamente tracciato, non si capisce perché da Ats qualcuno dovrebbe chiamare tutti i giorni. Cosa mai accaduta e che risulterebbe del tutto inutile considerando che le informazioni sono contenute in documenti ufficialmente richiesti e inviati. Ritenendo questa precisazione rilevante, anche per definire il contesto in cui insistono i rapporti tra Strutture e Ats, si chiede formale correzione delle mie dichiarazioni che risulterebbero, altrimenti, tracciare un quadro segnatamente diverso di detti rapporti.

Maurizio Niutta, Dir. Asp Pavia

 

Prendo atto della precisazione anche se non sposta nulla rispetto a quanto abbiamo scritto.

Na. R.

C’è chi fa il valzer (delle poltrone) e chi naviga come i corsari in mare aperto

Gentili Padellaro e Travaglio, sembrava un tempo sospeso e d’attesa questo, ma ecco un’accelerazione improvvisa investirci un po’ tutti. Dalla solidarietà a Verdelli – già “scomodo” in Rai – si è passati alla sua sostituzione con una mossa incrociata Stampa-Repubblica: Giannini promosso a Torino, Molinari convogliato a Roma in meno di 24 ore. Così oggi proprio non potevo perdermi l’editoriale dei “nuovi”, incuriosita anche dalle vostre lettere in prima pagina. Il racconto da parte sua, Padellaro, del desiderio fin dall’inizio di carriera di dirigere un quotidiano, presentendo già l’insostenibilità di aziendalismi, holding e misteriosi meandri. Il timone doveva essere agile e snello come per un brigantino. Invece lei, Travaglio, quei mari li poteva solcare soltanto con un “vascello corsaro”, la bussola sì, la Costituzione, ma poi mare aperto, nuovi traguardi, nuovi porti. E qui è tempo di omaggi, lei a Montanelli e alla sua lezione di indipendenza; Giannini, nel suo primo editoriale, all’Avvocato, nella condivisione di trovarsi tra persone perbene. E dal mattino si vede il buongiorno. Auguri comunque all’ex direttore di Radio Capital, che mi piaceva ascoltare. Quanto a Molinari, nel primo editoriale su Repubblica, tra globalizzazione, disuguaglianze, populismo, conclude auspicando “leader capaci”. Un programma politico come un ritorno… al futuro? Un’altra cosa mi ha colpito: lo scambio di apprezzamenti del Fatto ad Augias e da parte del giornalista ad Accordi & Disaccordi. Infine una mia considerazione sul felice mix tra voi, direttore ed ex direttore: l’esperienza e professionalità di lungo corso di una personalità riflessiva e insieme intuitiva e appassionata da una parte; l’inesauribilità e lucidità di analisi e di satira dall’altra, alla base della nascita e del successo del Fatto, attorno al quale si sono saldate molteplici “personalità” e una generazione di giovani e capaci giornalisti. Insomma staremo tutti a guardare l’evolversi della situazione non solo nell’ambito dell’informazione, ma anche dell’annunciatissima ripresa, che speriamo assuma i contorni più seri e responsabili possibili, soprattutto realistici. Un cordiale saluto e complimenti per il vostro sodalizio così fruttuoso e senza disaccordi, anzi complice e sornione.

Alessandra Savini

 

Cara Alessandra, molti gli spunti della tua bella lettera, come nelle tante lettere che Marco e io abbiamo ricevuto dopo il nostro “dialogo” di sabato scorso. Mi piace dove scrivi di un “mix tra direttore ed ex direttore”, nel quale ciascuno cerca di mettere il meglio di sé, in un cordiale contrappunto di accordi & disaccordi. Anzi, meglio ancora se il duello delle idee genera vivacità e saliscendi dialettici perché i giornali di questo vivono. Non certo del conformismo noioso delle linee rette che non portano da nessuna parte.

Belli o brutti noi siamo rimasti quelli di dieci anni fa, con qualche capello bianco in più. Gli altri non so.

Antonio Padellaro

Lenin, allevatore di tigri: la versione di Bilderberg

Ora che la pandemia ha aperto gli occhi al mondo intero sulla pericolosità sociale delle dottrine economiche neo-liberiste (in sintesi: arricchiamo i ricchi, tutti gli altri s’arrangino), il gruppo Bilderberg, creato nel 1954 dalla Cia e dal MI6 per sostenere la strategia Usa-Nato contro l’Urss (il magistrato Ferdinando Imposimato, ex presidente della Corte di Cassazione, sosteneva che “il gruppo Bilderberg è uno dei responsabili della strategia della tensione e quindi anche delle stragi”, fin da Piazza Fontana, di concerto con la Cia, i servizi segreti italiani, Gladio, i gruppi neofascisti, la P2 e le logge massoniche Usa nelle basi Nato), l’ameno gruppo Bilderberg, dicevo, si è subito attivato per trovare un’alternativa egemonica. Quella su cui stavano puntando (il comunismo ipercapitalista cinese) aveva il grande vantaggio della dittatura e dello schiavismo, ma quei coglioni si sono fatti beccare a pastrocchiare con i virus e a mangiare pipistrelli, il che ha inorridito Lilli Gruber. Non restava che il comunismo sovietico. Il problema era la narrazione tossica che l’accompagna da un secolo (gulag, KGB, l’assassinio di Trotsky con una piccozza per mano dello zio di Christian De Sica, Ramon Mercader). Indetto un concorso di idee per uno storytelling rinnovato, che rendesse potabile l’impossibile, la scelta è caduta sulla proposta dei creativi della Scuola Holden, pilotati da Alessandro Baricco: da un loro brainstorming è nato il progetto di avvicinarsi alle masse contemporanee, inebetite da Netflix, con un linguaggio a loro comprensibile.

Il risultato è una nuova narrazione delle gesta di Lenin, di cui proponiamo in anteprima un’epitome. “Vladimir Ilic Uljanov, detto Lenin Exotic, un mitomane narcisista con una predilezione per lustrini, orecchini e parrucchini, andava sempre in giro con un revolver al fianco, aveva quattro mariti di almeno 20 anni più giovani e una sorta di giardino zoologico nella sua nativa Simbirsk, una ridente cittadina sul fiume Volga. Amava le tigri e le maltrattava come faceva con i suoi compagni di partito, tra cui spiccavano Vorovskij, una donna/uomo senza un braccio (sbranato da una tigre durante il II congresso del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, POSDR); Bogdanov, un veterano della rivoluzione, senza gambe; Lunacarskij, un ex marito, senza denti per colpa della vodka, che amava farsi intervistare da Vanity Fair a torso nudo per sfoggiare tatuaggi orrendi; e Bonc-Bruevic, un altro ex marito giovanissimo, che durante una burrascosa vacanza in Provenza si suicidò di fronte alla cinepresa con cui i fratelli Lumière stavano girando il cortometraggio L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (il colpo alla tempia fu cancellato per pietas in fase di montaggio). Dopo tre anni di prigionia in Siberia per il tentato omicidio di un’avversaria politica (Rosa Luxemburg, una donna di mezza età sovrappeso) e atti osceni su felini selvatici, Lenin Exotic diventò un allevatore e commerciante di tigri, che traumatizzava con la lettura dei suoi saggi rivoluzionari, per poi esibirle, così stordite, nel suo ‘giardino’, con ingresso a pagamento. Fra i suoi fan più sfegatati, Liberace e Michael Jackson”.

(1. Continua)

Né bugie né censura

Covid 19 non è solo un fenomeno infettivologico, ma – come ha affermato lo stesso direttore generale dell’Oms – un fenomeno infodemico, cioè una pandemia delle informazioni. A tuttoggi, dopo poco più di due mesi dall’esordio in Italia di Covid-19, non c’è programma televisivo, giornale online o cartaceo che non dedichi la maggior parte del suo tempo e spazio a questo tema. La conseguenza è che si sta diffondendo un fenomeno di “rigetto da overdose”. Da più parti si sente dire “quando cominciano a parlare di Coronavirus, cambio canale”. Questa condizione può avere conseguenze negative, perché rischia di creare una reazione di disinteresse, fino a motivare comportamenti non idonei alle misure di sicurezza ancora necessarie. Ma non è solo un’indigestione: è una vera intossicazione da notizie avariate. È ciò che descrive un interessante studio condotto da un gruppo di ricerca messicano, “Disinformazione di Covid-19 in Internet: studio di infodemiologia” (Journal of the American Medical Association), che dimostra come la disinformazione in Internet sia molto diffusa soprattutto per quanto riguarda il Covid-19. Nello studio, dei primi 110 siti analizzati criticamente, solo l’1,8% (n = 2) aveva il sigillo denominato HONcode (certificazione per le informazioni riguardanti la salute, che risponde a otto criteri internazionali definiti). Il 39,1% (n = 43) dei siti web non ha nessuna delle caratteristiche richieste e solo il 10,0% (11/110) risponde a quattro degli otto criteri di qualità richiesti. Se il lavoro è interessante e ci fa riflettere, è per me emblematica e angosciante la soluzione ipotizzata dagli autori per porre rimedio al fenomeno. Suggeriscono che, poiché l’uso di Internet comporta un rischio per la salute pubblica, i governi sviluppino strategie per regolare le informazioni sanitarie, senza però censurare la popolazione (sic!). Dalla padella alla brace. Affidare a qualcuno, seppur autorevole, il compito di selezionare le informazioni è un rischio ancor più grande della inevitabile diffusione di notizie false. La libertà di stampa, anche nel settore scientifico, non è un diritto negoziabile.

Presto, date uno scudetto al virologo Lotito

Due certezze in tempi di Coronavirus: il bollettino della Protezione civile e le dichiarazioni di Claudio Lotito. Il Covid toglie l’olfatto? Il presidente della Lazio sente profumo di scudetto. Si fa il conto tragico di casse funebri e cassintegrati? Lotito pensa al campionato: bisogna ripartire, ripartire, ripartire. Una preghiera: fermatelo. Se necessario, agite d’ufficio: il tricolore è suo, è loro, festeggino al Circo Massimo, a un metro di distanza. Ma la smetta con questo stillicidio.

Ieri Lotito ha lanciato una nuova proposta per assegnare il tricolore: “Una partita secca Lazio-Juve io l’accetterei. Non si possono fare i play-off con Inter e Atalanta che hanno 8 e 14 punti meno di noi. Oggi io sono a un punto dalla Juventus… Ma all’andata contro la Juve ho vinto 3-1 e anche in Supercoppa l’ho battuta 3-1”.

È una Lotiteide quotidiana. Un’opera corale, cantata insieme al direttore sportivo Igli Tare e al portavoce Arturo Diaconale. Uno spettacolo misero in questi tempi tragici. Qui riusciamo a citare soltanto alcuni brani:

“Mi chiamano Lotito il virologo, lo scienziato, alla Lazio ho una struttura eccellente. Ho tamponi e test sierologici. E ho fatto avere le mascherine anche a qualche altro presidente” (Lotito, 27 aprile)

“Mi duole che l’interruzione è arrivata nel momento in cui stavamo in una condizione particolare dal punto di vista fisico e mentale del gruppo. Questo purtroppo ci ha portato a un decadimento di carattere fisico, atletico e di concentrazione” (Lotito, 24 aprile)

“Cellino è un asino patentato, vuole fermare il campionato per evitare che il Brescia vada in serie B” (Diaconale, 13 aprile)

“La stagione deve essere portata a termine. Il campionato deve andare avanti per rispetto dei morti e di tutti i tifosi” (Tare, 31 marzo)

“Non sarà facile imbrogliare il nostro presidente da parte di ministri demagoghi e dirigenti irresponsabili. La paura è che il campionato in corso faccia la fine di quello interrotto dallo scoppio della Grande Guerra e che, come allora, l’interruzione diventi l’occasione per negare alla Lazio il riconoscimento di uno scudetto conquistato sul campo. Oltre al Coronavirus, adesso bisogna fronteggiare la sindrome da scudetto negato del 1915” (Diaconale, 9 marzo).