L’idea è semplice, ma destinata ad aprire uno scontro furibondo: limitare gli aiuti pubblici per fronteggiare la crisi innescata dal Covid-19 solo alle imprese che hanno sede fiscale e legale in Italia. Nei giorni scorsi il Nens – centro studi fondato da Vincenzo Visco e Pier Luigi Bersani, oggi in Mdp-Articolo Uno, la sigla che federa le liste di sinistra – ha lanciato una petizione online (“No aiuti pubblici alle aziende con sede nei paradisi fiscali”). Il testo su change.org ha raggiunto le 2 mila firme, ma soprattutto si tradurrà in diversi emendamenti al Decreto Imprese in discussione alla Camera.
Francia e Danimarca hanno annunciato provvedimenti simili, ma con una differenza: secondo il Nens “il divieto deve riguardare società con sede all’estero e nei paradisi fiscali, compresi quelli esistenti nella stessa Unione europea, come l’Olanda, il Lussemburgo, l’Irlanda, Malta, Cipro”. Paesi che invece non compaiono nelle black list di Parigi e Copenaghen. Eppure è proprio all’interno dell’Unione europea che avviene la concorrenza fiscale più sleale, specie da parte degli Stati, come i Paesi Bassi, che più si oppongono a misure di solidarietà all’interno dell’Ue. Secondo una commissione di studio del Parlamento europeo, l’Italia perde il 19% delle entrate tributarie dalle imprese che spostano la propria sede nei Paesi a fiscalità agevolata, 7,5 miliardi di euro l’anno, di cui 6,5 all’interno dell’Unione. Lo studio Missingprofits degli economisti Thomas Tørsløv (Università di Copenaghen), Gabriel Zucman e Ludvig Wier (Berkeley) Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta da sole hanno sottratto all’Italia 5,6 miliardi di tasse sulle imprese (40 al resto dei Paesi Ue). Al confronto i paradisi fiscali extra-Ue attraggono briciole (meno di 1 miliardo). L’elenco dei nomi della meglio imprenditoria italiana che hanno portato aziende e holding all’estero è sterminato: da Fca (sede legale in Olanda e fiscale in Inghilterra) alla holding di famiglia degli Agnelli, Exor (Olanda), alla Tenaris dei Fratelli Rocca (holding in Lussemburgo) dalla Ferrero (Lussemburgo) alla Campari, che da poco ha deciso di trasferire le sede legale in Olanda insieme alla Mediaset post-riassetto. Solo nei Paesi Bassi sono stimate 15 mila società paravento.
Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato che porrà il tema dei paradisi fiscali nell’Unione europea. Una mossa che richiede tempi biblici. Si può però agire a valle. Il “decreto Imprese” è lo strumento ideale, visto che stanzia garanzie pubbliche per quasi 300 miliardi di prestiti. Limita gli aiuti alle aziende che “hanno sede in Italia”, ma in questo modo i soldi possono andare anche a società controllate da holding estere. È qui che si vuole agire e qualcosa si è già mosso. Un emendamento depositato dal deputato Stefano Fassina (LeU) prevede che debbano avere “la sede fiscale e legale in Italia”. L’idea potrebbe trovare consenso nella maggioranza giallorosa, a partire dal M5S. Tanto più che nella stesura del testo, i 5Stelle avevano cercato di inserire una norma che imponeva alle holding estere di trasferire la sede legale in Italia per tutta la durata del credito garantito e disporre un pegno a favore dello Stato sulle azioni delle controllate italiane beneficiarie. Norma che ha trovato il muro al ministero dell’Economia. Non è l’unico tema su cui si sono scatenate le lobby. Nelle prime bozze del testo, per dire, era fatto divieto esplicito di usare i prestiti garantiti per rifinanziare vecchi prestiti, per evitare che le banche sostituissero i fidi esistenti lasciando il cerino in mano allo Stato. La pressione del sistema bancario – raccontano fonti del Tesoro – è stata fortissima, e nella versione finale il divieto è sparito a favore di una formula tanto vaga da permettere una zona d’ombra. Tra gli emendamenti di Fassina ce n’è anche uno che ripristina il divieto esplicito. In Parlamento si vedranno le vere intenzioni.