Dap, mail in ritardo Ma Zagaria sarebbe uscito ugualmente

Sul caso degli arresti domiciliari al boss del clan dei casalesi, Pasquale Zagaria, c’è una relazione interna al Dipartimento affari penitenziari (Dap), per respingere l’accusa del giudice di Sorveglianza di Sassari, che ha scarcerato il camorrista, di non avere avuto dal Dap nessuna risposta su dove potesse essere trasferito il detenuto. Certo, il Dap diretto da Francesco Basentini si comporta in maniera burocratica di fronte a un caso che coinvolge un boss di quel calibro. Ma è anche vero che il giudice Riccardo De Vito, per garantire esami diagnostici a Zagaria, che non poteva effettuare a Sassari perché l’ospedale è Covid, lo manda nella casa della moglie nel bresciano, zona rossa proprio per il Covid-19. E, fatto ancor più importante, se si visiona il suo provvedimento, emerge chiaramente che i domiciliari li ha concessi a prescindere dall’asserito silenzio del Dap.

A leggere le otto pagine del provvedimento, il giudice è proprio contrario all’ipotesi di trasferimento di Zagaria in un altro carcere a prescindere dal comportamento del Dap che, scrive lui, non gli ha mai risposto. “Pasquale Zagaria – scrive – oltre a trovarsi di fronte all’impossibilità di ricevere le indifferibili cure per la sua patologia, si trova anche esposto al rischio di contrarre la patologia Sars-Cov-2 in forme gravi (circostanza che ha anche impedito in maniera assoluta ogni ipotesi di ricovero negli ospedali)” . E quindi, benché Zagaria sia al 41-bis, cioè in una cella singola, “potrebbe essere esposto a contagio in tutti i casi di contatto con personale della polizia penitenziaria e degli staff civili che ogni giorno entrano ed escono dal carcere”. Per giustificare i domiciliari a un detenuto malato e – sostiene – con più rischi di altri di essere contagiato, si rifà, tra l’altro, anche al giudizio della Corte d’appello di Napoli sulla presunta “non pericolosità” di Zagaria. E veniamo al Dap. Secondo quanto risulta al Fatto, non è vero che non risponde al giudice, ma è vero che si rivolge direttamente al Tribunale di Sorveglianza solo il 23 aprile, giorno della concessione dei domiciliari. Prima del 23 il Dap, però, prova a trovare un carcere alternativo a quello di Sassari da proporre al giudice, a cui spetta sempre la decisione. Il 14 aprile il Dap, sollecitato dal Tribunale di Sorveglianza l’11 aprile, chiede alla direzione del carcere di Sassari una relazione sulla situazione sanitaria di Zagaria, il 15 arriva la relazione in cui si spiega che gli accertamenti diagnostici e una cura di cui ha bisogno il boss non sono più possibili nell’ospedale di Sassari “perché destinato esclusivamente a emergenza Covid-19”. Attenzione, si spiega anche che Zagaria, operato mesi prima di tumore, non è grave, le sue condizioni sono “discrete e stabili”. Quindi il Dap pensa di poterlo trasferire in una cella singola nel carcere di Cagliari, in modo che possa andare nell’ospedale locale. Il 22 aprile lo stesso Dap, con una email urgente alla direzione sanitaria competente in Sardegna, chiede se l’ipotesi Cagliari sia fattibile. Il 23 aprile il Dap riceve un no, non solo su Cagliari, ma sull’intera Sardegna. Lo stesso 23 aprile il Dap, mettendo a conoscenza con una email urgente anche il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, scrive alla direzione del carcere sassarese affinché contatti immediatamente gli ospedali Belcolle di Viterbo o il Pertini di Roma, che hanno reparti di medicina protetta, per capire se ci sia lì un posto. Il giorno di quella email del Dap, inoltrata anche al Tribunale di Sorveglianza di Sassari, è quello in cui vengono concessi i domiciliari a Zagaria fino al 22 settembre. Email arrivata troppo tardi? Email ignorata? Pure questo aspetto sarà oggetto dell’inchiesta degli ispettori di Via Arenula attivati dal ministro Alfonso Bonafede.

Come si sa, Zagaria non è l’unico boss che è stato scarcerato in questo periodo di coronavirus, a casa pure il capomafia di Palermo Francesco Bonura, altri boss campani e della ’ndrangheta. Si è in attesa della decisione su Raffaele Cutolo. Diversi avvocati hanno presentato istanza dopo una circolare interna del Dap che chiedeva il monitoraggio delle condizioni di salute dei boss ultrasettantenni in questo periodo. Non è certo quella circolare ad aver indotto i giudici di Sorveglianza a scarcerare i boss. E neppure la norma Bonafede nel decreto Cura Italia, che esclude domiciliari “semplificati” per mafiosi e detenuti pericolosi fino al 30 giugno. Ma ora, per evitare pericolose strumentalizzazioni, il ministro Bonafede sta ultimando un provvedimento ad hoc per evitare altre scarcerazioni del genere. Se si fa in tempo, sarà riversato nel Decreto Aprile, così come la proroga della legge sulle intercettazioni, che altrimenti dovrebbe entrare in vigore il 1º maggio.

“Non ricoverate gli over 75” I pm puntano la Lombardia

Da chi dipendeva la salvezza e la cura di centinaia di anziani nelle Rsa lombarde? Molte cartelle cliniche, analizzate in queste ore dalla Procura di Milano, portano la dicitura: “Non possibile trasporto in ospedale”. Da chi è dipesa la mancata ospedalizzazione? Ciascun medico ha disposto gli invii in pronto soccorso secondo scienza e coscienza? O hanno prevalso inedite disposizioni impartite dai direttori sanitari? O peggio: il destino degli ultra75enni è stato deciso dalla linea politica della giunta guidata da Attilio Fontana? La risposta non è chiara né univoca. Ed è già un dato drammatico di per sé.

Nel solo Pio Albergo Trivulzio, dall’inizio dell’epidemia, si contano circa 200 decessi. Per molti di loro non sapremo mai se si sia trattato di Covid-19: per gran parte delle vittime non sono stati disposti i tamponi.

La Procura di Milano, con l’ausilio della Guardia di Finanza, sta indagando per omicidio colposo e anche ieri è ha acquisito documenti in Regione e nelle Ats lombarde. Gli inquirenti stanno verificando le motivazioni che hanno portato alle mancate ospedalizzazioni.

C’è un fatto certo: la delibera regionale 3108 del 30 marzo stabiliva che per gli ospiti delle Rsa in “età avanzata (maggiori di 75 anni) e presenza di situazione di precedente fragilità, nonché presenza di più comorbilità, è opportuno che le cure vengano prestate presso la stessa struttura, per evitare ulteriori rischi di peggioramento dovuti al trasporto e all’attesa in Pronto soccorso”. Insomma, è opportuno, secondo la giunta Fontana, che gli over 75 siano curati nella rsa. Eppure il 30 marzo, sebbene la situazione resti difficile, i posti in terapia intensiva, stando alle parole dell’assessore regionale Giulio Gallera, sono aumentati del 140 per cento. Non solo. Per il giorno successivo è prevista l’inaugurazione dell’ospedale in Fiera, quello che avrebbe dovuto avere 200 nuovi posti letto in più, il presunto fiore all’occhiello della gestione lombarda. Evidentemente, per gli ultra75enni, tutto ciò non basta: si curino nelle Rsa.

La procura sta vagliando l’eventuale responsabilità politica in questa vicenda. Ma c’è di più.

Il Fatto ha rivelato domenica il contenuto di una email interna al Trivulzio: “Cari colleghi – scrive il direttore del dipartimento Pierluigi Rossi – purtroppo riceviamo notizie sempre più preoccupanti sullo stato al collasso dei principali PS. Per questo, oltre alle raccomandazioni della mia mail di ieri, è necessario che prima dell’invio in PS di un nostro paziente, il medico inviante si accerti, contattando il medico del PS, se vi sono possibilità concrete di ulteriori cure per il paziente. Abbiamo avuto notizie di soggetti morti in ambulanza o in astanteria. Paradossalmente allo stato le nostre cure risultano essere migliori e più dignitose rispetto a quelle del PS stante il fatto che i nostri quasi mai vengono messi in ventilazione assistita. Vi prego di prendere come disposizione vincolante il contatto telefonico del nostro medico con quello del PS”.

In sostanza si cambia prassi. Una email dal contenuto in gran parte sovrapponibile alla delibera regionale. C’è però un dettaglio curioso: è del giorno prima, il 29 marzo. Come mai il Trivulzio è addirittura in anticipo rispetto alle decisioni della Giunta? Rossi è stato forse consigliato dalla Regione? O la “disposizione vincolante” è solo frutto delle sue personali riflessioni. Il Fatto ha provato a chiederglielo. Ma non ha avuto risposta.

Il Trivulzio ieri ha deciso di offrire un chiarimento con il seguente comunicato: “La valutazione clinica è sempre avvenuta secondo i principi di scienza e coscienza e mai sulla base di generiche indicazioni burocratiche. Pur avendo preso atto della delibera regionale 3018 del 30 marzo 2020, i medici del Trivulzio non hanno mai smesso di inviare in Pronto Soccorso anche pazienti di età superiore ai 75 anni che presentavano condizioni idonee al trasferimento.”

Tra le righe si legge poi il riferimento alla email pubblicata dal Fatto: “Tenendo conto dei rischi aggiuntivi legati ai tempi di attesa e al sovraffollamento degli ospedali, i pazienti sono stati sempre inviati in tutti quei casi in cui questo significava offrire loro una possibilità in più di trattamento e cura”.

A questo punto però i conti non tornano. Se è vero quel che dice il Trivulzio, continuando a inviare pazienti al pronto soccorso, ha disatteso l’invito della Regione Lombardia. Ma allora – posto che in ogni caso spettava al medico, e non alla politica valutare l’invio di un paziente in ospedale – diventa traballante la tesi che la giunta sostiene nella delibera del 30 marzo, invitando a fare il contrario. Non solo.

Il dottor Rossi il 29 marzo scrive ai suoi colleghi che molti anziani muoiono in ambulanza o in astanteria. Ma a questo punto non si capisce perché mai gli invii siano continuati in larga misura.

Che siano proseguiti, lo dimostra un’altra email che il Fatto può pubblicare in esclusiva: “Cari colleghi”, scrive Rossi il 3 aprile, “vi comunico che risulta che alcuni medici vostri collaboratori inviano in PS i nostri pazienti senza aver prima contattato un medico del PS per appurare se vi sono le condizioni sufficienti per sperare che l’invio stesso generi un valore aggiunto positivo per il malato. Diversamente, si rischia di non ottenere benefici dall’invio stesso (…)”. Sono gli stessi invii sbandierati ieri dal Trivulzio per smarcarsi dalla Regione?

Gara dei test sierologici: Abbott e la consulenza (2016) alla commissaria

La gara nazionale per i test sierologici è stata aggiudicata alla Abbott. Il bando del Commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri, prevedeva che la commissione fosse composta di cinque membri votanti, due dei quali esperti designati del Comitato Tecnico Scientifico: Pierangelo Clerici, presidente dei microbiologi italiani, e Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del Laboratorio di virologia dell’Inmi Lazzaro Spallanzani di Roma.

Per il Commissario Arcuri, il test Abbott sarebbe ‘migliore’ dell’unico altro finalista ammesso, Diasorin, a prescindere dal prezzo offerto, gratuito per Abbott. Forte di questo indubitabile colpo di immagine (costato poco) Abbott, ha annunciato di essere pronta a vendere (non regalare come era ovvio) ben 4 milioni di test pronti per il mercato italiano già a fine maggio.

Prima di essere selezionato come commissario, Clerici aveva rilasciato interviste in cui sembrava dare peso alla distinzione tra anticorpi neutralizzanti e non, che era il plus vantato da Diasorin, non da Abbott. Poi questa distinzione non sarebbe stata considerata molto in gara.

Il Fatto nei giorni scorsi ha svelato i rapporti tra Diasorin e il Policlinico San Matteo dove il prof Fausto Baldanti ha ideato il test sconfitto. Ora approfondiamo i rapporti Abbott-Spallanzani.

Nella “Dichiarazione pubblica di interessi” firmata il 26 luglio 2019 dalla dottoressa Capobianchi e destinata all’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali si dichiara un’attività di consulenza per Abbott ‘privata’ su un prodotto di ‘diagnosi virologica’.

Poi nella sezione dedicata alle ricerche il modulo chiede di dichiarare ‘Negli ultimi 3 anni e-o in quello in corso ho ricevuto direttamente e-o per il tramite dell’ente nel quale opero (Inmi Spallanzani, Ndr) fondi di ricerca sotto forma di contratti di sovvenzione (…) ricerche commissionate o borse di studio/ricerca da parte di sponsor-aziende” ecc….

Qui la dottoressa Capobianchi indica Ricerche commissionate” da: “Hologic, Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno” per “Validazione kit diasgnostico, studio di siero-prevalenza”.

“Negli ultimi tre anni la Abbott srl – spiega la multinazionale americana -non ha avuto rapporti di consulenza con la dottoressa Capobianchi. L’ultimo risale al 2016 e ha avuto una remunerazione di 1.200 lordi”.

Un laboratorio di virologia come quello diretto da Capobianchi allo Spallanzani compra sia da Abbott che da Diasorin. Per esempio a fine marzo su richiesta della dottoressa Capobianchi sono stati comprati per 150 mila euro ben 6 mila tamponi rapidi Diasorin. Poche settimane prima, il 20 febbraio scorso la dottoressa Capobianchi, direttore del laboratorio di virologia dello Spallanzani, ha chiesto il rinnovo della fornitura di un sistema diagnostico per l’HIV della RTI Abbott-Hologic Srl. L’affidamento biennale da 1 milione e 240 mila euro era stato disposto a febbraio 2018 per 24 mesi ma era rinnovabile per altri 12 mesi.

La seconda sezione della predetta dichiarazione della dottoressa all’Agenzia Regionale è dedicata agli ‘interessi di carattere finanziario’. Qui la dottoressa oltre ai 1.200 euro suddetti ‘percepiti direttamente’, per attività da marzo 2016 a marzo 2017, dichiara anche altri tre importi più importanti: 73.117 per attività da aprile 2015 a giugno 2017; 250 mila euro da ottobre 2016 a ottobre 2017 e 60 mila euro per attività da ottobre 2018 a ottobre 2019.

Attenzione però. Questi non sono stati da lei percepiti e sono indicati sotto la dicitura “per il tramite e-o dall’ente-organizzazione in cui si opera”. Abbott spiega: “Sono estranei ad Abbott S.r.l”. Quanto al rinnovo dell’affidamento da parte dello Spallanzani “era già disciplinato e previsto nel Decreto del Commissario 21/11/2017 che ha autorizzato la fornitura per un periodo di 36 mesi”.

La dottoressa Capobianchi spiega “ le cifre ‘importanti’ fanno parte dei finanziamenti per studi clinici e attività di ricerca che l’INMI regolarmente riceve, sia da enti pubblici che da società private come tutti gli IRCCS, e non di persone fisiche, le quali collaborano ovviamente agli studi nell’ambito della propria attività istituzionale”.

Quanto alle consulenze, “sono comunicate e riguardano il triennio 2016-2019, precedentemente ai tre anni previsti dalla normativa sul conflitto di interessi”.

La “finta” guerra di Arcuri per le mascherine a 50 cent

La speranza è che l’azzardo di Domenico Arcuri riesca: ossia che basti reggere “una finta guerra” con i produttori di mascherine per convincerli ad abbassare i prezzi di vendita. Che a oggi sono ben oltre i 50 centesimi che ha indicato come tetto massimo nella sua ordinanza dell’altro giorno. “Lasciate fare a me”, ha detto il commissario per l’emergenza coronavirus nel corso del consueto incontro mattutino con le Regioni che lo informavano di un andazzo molto diverso: fino a venerdì scorso i contratti che avevano siglato non erano inferiori ai 65 centesimi a pezzo, più Iva.

“Ora ci penso io che il mercato lo conosco”, li ha rassicurati Arcuri prima di andare davanti alle telecamere per annunciare di avere già in tasca o quasi una fornitura da 600 milioni di mascherine a 38 centesimi che le farmacie potranno rivendere al pubblico a 50 rientrando così delle spese per quelle nel frattempo acquistate a prezzi più alti. Ma alla riunione di ieri mattina si è capito che addomesticare il mercato non sarà facile. E non solo perché il prezzo calmierato fa a cazzotti con i contratti che le Regioni hanno già sottoscritto o che stanno per firmare ai prezzi, ancora alti, che si trovano in giro. E che li espone finanziariamente: i contratti che sforano il prezzo massimo non saranno rimborsati dal commissario. “A questo punto noi sospendiamo gli acquisti e le mascherine ce le fornite voi”, ha provato a dire qualcuno ad Arcuri aggiungendo: “Le aziende italiane che si sono riconvertite alla produzione di mascherine ce le offrono a un prezzo che oscilla tra 0,65 e 0,70 centesimi. E ora sono sul piede di guerra”. Il prezzo massimo di 50 centesimi, per dirla con la Federazione Moda di Cna “non rispecchia i costi di produzione comunicati a governo e commissario”. Insomma gli accordi non erano questi e ora si rischia di affondare la filiera del Made in Italy per favorire gli acquisti dalla Cina e altri Paesi dove diritti del lavoro e rispetto dell’ambiente sono un disturbo.

Eppure Arcuri si dice sicuro che le aziende che conosce lui sono molto più ragionevoli: “I contratti che avete firmato rinegoziateli al ribasso: da qui a tre giorni il mercato si adeguerà come succede da duemila anni, al di là di tutte le menate che vi stanno raccontando quelli che si vogliono arricchire su questa tragedia. L’imperativo è: resistere, resistere, resistere senza cedere di un solo centimetro. Il mercato è una cosa bella perché si allinea, il problema è chi molla prima e non dobbiamo mollare”. E se non dovesse funzionare? “Semmai vi aiuto io con qualche fornitore che conosco”, ha detto Arcuri. Che ha parlato anche di una terza opzione: “Ho già in testa di contattare le aziende italiane a cui verrà fatta un’offerta di questo genere: acquisteremo tutto quello che produce a patto che accettate di produrlo a un prezzo più basso”. Insomma à la guerre comme à la guerre.

Maturità, aumentano i crediti. E per l’estate “scuole aperte”

L’esame di maturità si arricchisce di un altro tassello per valorizzare, nelle intenzioni della ministra Lucia Azzolina, il percorso scolastico più che la prova in sé: i crediti formativi accumulati nel corso degli anni in base alla media dei voti non varranno più, nel conteggio del voto finale, 40 punti (60 invece i punti per le prove) ma di più, 50 secondo le ipotesi circolate ieri ma non confermate. Nei giorni scorsi, i 480mila studenti che affronteranno la maturità erano divisi tra chi chiedeva un esame più normale possibile e chi, data l’eccezionalità del momento e gli squilibri nell’accesso alla didattica a distanza, chiedeva che fosse annullato. La decisione è ormai presa: il 17 giugno si parte con gli esami di maturità che prevederanno un colloquio orale su tutte le materie di fronte a una commissione di 6 docenti interni e un presidente esterno.

Scartata l’ipotesi di tenere l’esame in via telematica, gli studenti andranno in classe, saranno esaminati in presenza e le scuole si organizzeranno per assicurare il giusto distanziamento sociale (quindi di sicuro piccoli gruppi per volta) e per prendere tutte le precauzioni necessarie, parte delle quali ancora in fase di definizione. “Siamo convinti di poter garantire gli esami in sicurezza, il comitato tecnico-scientifico ci ha dato il via libera – ha detto la ministra Azzolina –. In queste settimane il governo non ha mai smesso di pensare alla scuola e non lo farà mai”. Non si valuterà l’alternanza scuola lavoro, anche se potrà essere oggetto di discussione l’esperienza degli anni precedenti a questo, e viene meno l’obbligatorietà della prova Invalsi per l’ammissione (seppur già non aveva peso per quanto riguarda il punteggio). Per gli altri studenti, tutto resta come previsto dall’ultimo decreto: per l’esame di terza media si ricorrerà alla tesina mentre a settembre i primi a tornare in classe saranno gli alunni che avranno avuto insufficienze, per poterle recuperare.

Si lavora intanto sulle riaperture di settembre: al ministero proseguono i tavoli di confronto della task force, si analizzano le dinamiche di rientro possibile anche per fasce d’età. Ma un punto cardine è l’edilizia scolastica. In pratica, se gli studenti dovranno essere più distanziati, ci sarà bisogno di spazi adeguati. Ieri sono ripartiti i cantieri dell’edilizia scolastica che erano già stati avviati e poi fermati per l’emergenza. L’Osservatorio per l’edilizia scolastica dovrebbe, poi, rimodulare i lavori già appaltati sulle base delle nuove disposizioni e delle nuove necessità. I prossimi interventi, invece, andranno verso quella che viene definita “edilizia leggera” (leggi: meno spesa e maggiore velocità di realizzazione) per rinnovare o costruire nuovi spazi. A disposizione delle Regioni ci sono 320 milioni di euro dopo i 510 assegnati a marzo (gli enti locali possono inviare le richieste per i finanziamenti fino al 29 maggio).

Resta il nodo delle scuole chiuse, “una ferita per tutti” come detto ieri dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un videomessaggio agli studenti per presentare Maestri frutto della collaborazione tra Rai e ministero dell’Istruzione. Mentre si definisce la copertura precisa per i contributi a sostegno dei genitori che dovranno tornare al lavoro e mentre il premier Conte annuncia l’avvio di un “Piano nazionale Infanzia” per la Fase 2, al ministero c’è la proposta – che già oggi, da quanto si apprende, potrebbe essere presentata dalla Azzolina durante l’incontro tra la ministra della Famiglia Bonetti e agli enti locali – di mettere a disposizione eventuali spazi esterni (idonei) delle scuole per iniziative a supporto delle famiglie, come i campi estivi, sulle quali per il momento il Comitato Tecnico Scientifico si è detto contrario e per le quali però il governo sembra intenzionato a trovare soluzioni e proposte che possano andar bene anche agli scienziati. Il piano elaborato finora dagli esperti prevede la pubblicazione di due avvisi pubblici (“Educhiamo” e “Giochiamo”), lo stanziamento di 35 milioni e il coinvolgimento del Servizio civile.

Allegato 10, un Monòpoli in cui c’è solo la prigione

Gli esperti, si sa, sono esperti: se vengono dal privato, poi, hanno il gusto delle spiegazioni grafiche e dell’efficientismo. Questo breve preambolo serve a introdurre l’allegato 10 al Dpcm (decreto del presidente del Consiglio) che ha dato più o meno il via alla “fase 2”: queste due paginette sono l’unico contributo originale della “task force” guidata dal manager ex Vodafone Vittorio Colao – che ne ha fortemente sponsorizzato (da Londra) l’inserimento – aggregato alle nuove norme e si presenta come una sorta di gioco dell’oca della clausura, ma – pur essendo di due pagine – non è un innocente divertimento.

Il paradosso, a parte certe espressioni un po’ ingenue da “Ceo economy” che fanno a pugni col diritto pubblico, la sua applicazione renderebbe quasi impossibile passare alla “fase 2” il 4 maggio: anche se nessuno a Palazzo Chigi pare preoccuparsene, quel testo stabilisce obblighi specifici che saranno eventualmente esigibili anche in tribunale (ad esempio da un lavoratore costretto a tornare in ufficio/fabbrica) e preoccupa non poco le Regioni.

La portata dell’allegato 10 è vasta anche per il luogo specifico del Dpcm in cui è citato: l’articolo 2 comma 11, dove si spiega cioè cosa serve per riaprire “in condizioni di sicurezza” le attività produttive e quando si può tornare indietro al lockdown. In sostanza le Regioni seguono giornalmente l’andamento dell’epidemia da Covid-19 e comunicano i dati al governo e ai suoi molti supporti tecnici: se si sta fuori dai parametri si ripassa alla fase 1. E come si decide? “Secondo i principi per il monitoraggio del rischio sanitario di cui all’allegato 10 e secondo i criteri stabiliti dal ministro della Salute entro 5 giorni”. Insomma, l’allegato 10 è nel cuore del processo di riapertura .

E qui iniziano i problemi. Nel “diagramma di flusso” dell’epidemia si stabilisce ad esempio che tra i pre-requisiti per passare alla “fase 2” ci sono “abilità di testare tempestivamente tutti i casi sospetti” e “possibilità di garantire adeguate risorse per contact tracing, isolamento e quarantena”. Entrambe le previsioni sono attualmente non rispettate praticamente da tutte le Regioni. Come direbbe l’allegato 10: “Tornare/mantenere la Fase 1”. Questo a non dire della fase 3 o “transizione avanzata”, legata ad “accesso diffuso a trattamenti e/o vaccino”.

Quanto ai criteri per il monitoraggio, si sostiene preliminarmente che bisogna “valutare se sono presenti gli standard minimi di qualità della sorveglianza epidemiologica nella Regione”: una cosa che non esiste se non in natura, di certo tra le previsioni normative.

Dallo schema che segue, peraltro, nella fase 1 – cioè già oggi – le Regioni dovrebbero possedere e comunicare quattro serie di dati non banali. A titolo di esempio: “Numero di casi notificati per mese in cui è riportato il comune di domicilio o residenza / totale di casi notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo”; “Numero di casi sintomatici notificati per mese in cui è indicata la data di inizio sintomi / totale di casi sintomatici notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo”. Teoricamente chi è sotto al “60%” nel rapporto tra le coppie di dati citati deve “Rimanere/Tornare alla Fase 1”.

Giova ripeterlo: non è un’indicazione di massima, ma una norma che obbliga le pubbliche amministrazioni. Anche così e con una dinamica in discesa dei contagi e un indice di trasmissione del virus inferiore a 1 – cose, tra le altre, previste dal monitoraggio – resta che ogni regione deve avere la capacità di “testare tempestivamente tutti i casi sospetti” e avere in piedi un sistema – con adeguate risorse – di contact tracing. E se non c’è? “Tornare/rimanere in Fase 1”. Ad oggi è come un Monopòli in cui ci sono solo carte “vai in prigione”. La speranza di tutti, ora, è che ci mette una pezza Speranza coi criteri per i controlli sanitari che il ministero della Salute è delegato a indicare entro questa settimana.

Conte alla Cei: “In chiesa si rischia, cambio regole”

La sintesi del giorno dopo la fa un ministro di peso: “Avremmo dovuto dare retta alla Lamorgese, perché ha capito tutto prima di noi”. Tradotto, la maggioranza avrebbe dovuto ascoltare il ministro dell’Interno e prevedere già nel dpcm di ieri sulla fase 2 la ripresa delle messe, con le cautele del caso. E invece nulla, “domenica sera Conte non ha dato neppure un orizzonte temporale sul punto” morde una fonte di governo. Così ecco il comunicato di fuoco della Cei a conferenza appena conclusa, e la pezza di palazzo Chigi pochi minuti dopo: “Nei prossimi giorni si studierà un protocollo che consenta ai fedeli di partecipare alle celebrazioni”. Ieri Conte ha telefonato al presidente dei vescovi, Gualtiero Bassetti, e poi ha fatto ammenda: “Dispiace per il comprensibile rammarico della Cei, contiamo di definire un protocollo di sicurezza in collaborazione con i vescovi”.

Un tentativo di tamponare la più evidente delle grane nate dal dpcm. Tanto è vero che dal Nazareno lo dicono dritto: “Il premier avrebbe dovuto avvertire la Cei, spettava a lui. Non doveva far scoppiare il caso”. A sottolineare il punto sono i ministri dem. Con Lorenzo Guerini, che ora vuole un tavolo sul tema. Perché ha colpito, l’ira dei vescovi. Per certi versi inattesa, visto che al premier la Chiesa aveva sempre mostrato sostegno, soprattutto nella sua seconda esperienza a Chigi con i giallorosa. Eppure la Cei è scattata: “I vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto”. Parole frutto anche della delusione, visto che per giorni la Lamorgese aveva lavorato con i vescovi a un protocollo di sicurezza per le messe, fin nel dettaglio: dal divieto di scambiare il segno di pace e di bagnare le mani nelle acquesantiere, fino a precauzioni per l’eucarestia (l’ostia andrebbe toccata solo con i guanti e deposta su un vassoio per essere assunta dai fedeli) e a limiti per l’afflusso, con un addetto alla sicurezza in ogni chiesa. Al tavolo di domenica, il ministro dell’Interno ha rilanciato le misure, insistendo “molto” come raccontano i presenti. E a sostegno si è spesa anche Elena Bonetti, il ministro per la Famiglia di Italia Viva.

Ma Conte ha detto no: “Purtroppo dal comitato scientifico ci dicono che ci sarebbero troppi rischi”. E ieri anche in ambienti di governo del M5S soffiavano giudizi pesanti: “Il premier ascolta troppo Speranza e Boccia”. Cioè i due ministri più severi sulle riaperture. Ma ora si correrà ai ripari. Da qui a pochi giorni potrebbero essere ammesse almeno le messe all’aperto. Mentre il via libera al protocollo della Lamorgese potrebbe arrivare attorno al 18 maggio, così da verificare nel frattempo l’andamento dei contagi. Del resto rumoreggiano anche i rappresentanti di altre confessioni, dagli evangelici ai musulmani. E misure analoghe arriveranno anche per loro. Ma le messe non sono state l’unico punto di dissenso. A Dario Franceschini, capo delegazione dem e schierato sul fronte “rigorista”, i ministri Pd hanno consegnato posizioni non tutte allineate. Guerini aveva fatto presente che sarebbe stato meglio riaprire prima il commercio. Mentre il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri ha condiviso il protocollo imprese presentato dalla task force di Colao. Tra le osservazioni fatte arrivare al capo delegazione c’era quella di scegliere le aree giochi dei parchi, dove si possono garantire distanze aperte. E poi di definire in senso ampio i “congiunti” che si potranno andare a trovare.

A muovere aperte critiche è stato il ministro dell’Agricoltura, la renziana Teresa Bellanova, che ha insistito per ragionare per filiere e non per codici Ateco e per differenziare le aree a seconda dell’andamento del contagio. Da notare Andrea Marcucci, capogruppo dem in Senato, critico con le scelte del governo, e pronto ad attaccare il ministro della Scuola, Azzolina, invitandola a rivedere le regole del concorso per l’ingresso dei precari.

Il sostegno a Conte, dicono dal Pd a vari livelli, non è in discussione. Sembra tanto un’excusatio non petita, visto che in genere l’affermazione va di pari passo con valutazioni tipo “il governo si regge con le spille”. Ma per ora si va avanti: non c’è un piano B. Prossimo scoglio, il fu decreto aprile (ormai maggio), dove ci sono da distribuire un po’ di soldi. La temperatura all’inizio della fase 2 è alta. Ed è destinata a salire.

Fabbriche piene, almeno 5 milioni di nuovo in attività

Una riapertura non piccola quella del 4 maggio. Il “commissario” Vittorio Colao stima in 4,5 milioni i lavoratori che torneranno in attività “per i soli settori manifatturiero, delle costruzioni e dei servizi a supporto dell’impresa”. Scorrendo uno per uno i codici Ateco che il governo ha allegato al nuovo Dpcm 26 aprile (e che fissano il numero degli addetti al 2017), i numeri sono più alti. Almeno rispetto agli stessi codici Ateco e ai permessi che erano stati concessi lo scorso 23 marzo (poi ritoccati con un supplemento di trattativa con i sindacati che lamentavano un’eccessiva presenza al lavoro).

Allora erano rimasti al lavoro circa 9 milioni di lavoratori mentre oggi sarebbero circa 14.6 milioni. Si tratta, quindi, di un aumento di circa 5,6 milioni di addetti, dipendenti e indipendenti considerando tutti i settori per i quali viene concessa l’autorizzazione. Che in realtà sono tutti tranne la ristorazione, gli alberghi e l’importante settore del commercio al dettaglio che, con il codice Ateco 47 conta quasi 2 milioni di addetti complessivi.

In campo entrano comparti rilevanti della produzione manifatturiera e anche tutto il sistema di servizi alle imprese e di distribuzione. Le Costruzioni infatti contano circa 770 mila addetti che potranno tornare al lavoro, la maggior parte nelle Costruzioni specializzate e circa 300 mila addetti nella Costruzione di edifici. E poi la Metallurgia: tra Costruzione di macchinari, Autoveicoli e Mezzi di trasporto anche qui ci sono 700 mila nuovi addetti considerando che una parte non è mai rimasta a casa.

Il settore del Commercio all’ingrosso contribuirà per un’altra grande fetta. Con più di 1,5 milioni di addetti, il 4 maggio ne torneranno al lavoro quasi 900 mila, visto che gli altri erano stati già derogati con i vecchi Dpcm. Ingresso massiccio del settore Immobiliare, 300 mila addetti e poi l’Attività di ricerca, selezione e fornitura di personale (notare come a figure del lavoro si associ una categoria merceologica come “fornitura”), cioè le Agenzie di lavoro temporaneo o interinale che contano 340 mila addetti.

Nonostante le proteste di Confindustria o gli strali di Matteo Salvini – che ancora torna a gridare circa la necessità di “aprire, aprire tutto” – quello che il nuovo Dpcm consegna agli atti è una attività che riprenderà quasi del tutto. Complessivamente, considerando anche gli addetti esterni alle aziende, si tratta di almeno 15,5 milioni di lavoratori che potranno lavorare. Se poi lo faranno dipenderà dalle condizioni in cui si trovano oggi le aziende.

Ieri l’Inps ha pubblicato i dati sulle richieste di Cassa integrazione e Assegno ordinario. Ne viene fuori che 7,3 milioni di lavoratori hanno fatto richiesta (le aziende cioè l’hanno fatta per loro) di ammortizzatore sociale (4,74 milioni la Cassa e 2,069 l’Assegno). Di queste 4,711 milioni interventi sarebbero stati già pagati e 2,638 sono in corso di pagamento. Agli ammortizzatori vanno aggiunte poi circa 80 mila domande di Cassa in deroga inviate dalle Regioni all’Inps di cui solo 36.855 sono state autorizzate (e solo 4.120 pagate).

Questa quantità di lavoratori e lavoratrici difficilmente rientrerà al lavoro già il 4 maggio, anche se gli ammortizzatori dovrebbero essere stati completati per quella data (dipende dalla data di inizio). A loro, poi, vanno aggiunti coloro che rimarranno a casa in modalità “telelavoro”, che le poche stime disponibili, non particolarmente attendibili, indicano in 400 o 500 mila addetti.

A casa c’è anche gran parte del Pubblico impiego, a cominciare dalla Scuola con il suo milione scarso di addetti complessivi (considerando anche il lavoro precario). In ogni caso, la maggior parte dei lavoratori può dirsi in attività anche se la chiusura dei negozi e della ristorazione lascerà ancora la percezione di città vuote.

Giuseppe Conte, nella conferenza stampa di domenica scorsa, ha fatto esplicito riferimento al Protocollo firmato il 24 aprile (allegato 6 del Dpcm) con cui si definiscono le condizioni di sicurezza in azienda. A cominciare dal dovere di informare tutti i lavoratori. Il protocollo prevede poi la misurazione della temperatura, l’indicazione della “necessità” dei dispositivi di protezione individuale (mascherine), la sanificazione dei locali, la gestione degli spazi in comune, la sorveglianza sanitaria e il rinvio a un Comitato per l’applicazione e la verifica delle misure prese costituito da Rsu e rappresentanti della sicurezza. Ma non si prevedono sanzioni né ispezioni e complessivamente non si danno risposte ai lavoratori con figli visto che le scuole rimarranno chiuse.

Si torna al lavoro, ma il lavoro rischia di essere solo.

“Non basta il caldo, serve il controllo del territorio”

Gianni Rezza, direttore delle Malattie infettive dell’Iss, ripete che “la Fase 2 è più pericolosa della Fase 1, quando è tutto chiuso è più facile. Dal 4 maggio dovremo tenere la guardia alta”.

Non sarebbe stato meglio riaprire Regione per Regione, lasciando alla fine quelle più colpite?

Sono stato sempre favorevole a un provvedimento nazionale. È difficile una riapertura selettiva, gli indicatori utilizzabili sono diversi. Oggi Rt (il tasso di riproduzione del virus, ndr) non varia molto da Regione a Regione anche se in Lombardia, parte del Veneto, dell’Emilia e del Piemonte il numero di casi è più elevato. Ma i parametri sono anche altri e soprattutto la capacità di risposta del sistema sanitario sul territorio se ci sarà da contenere eventuali focolai. E comunque, restano le limitazioni alla mobilità da Regione a Regione.

Al Nord, con l’eccezione del Veneto, hanno funzionato male proprio i servizi sanitari territoriali. È cambiato qualcosa?

In Veneto è stato fatto un ottimo lavoro. La Lombardia, che ha un ottimo sistema ospedaliero, a livello territoriale è meno forte. Ma in Lombardia dal primo caso del 20 febbraio si sono trovati con un’epidemia che era matura: è questa la loro attenuante, sono stati colti di sorpresa. Ora spero che il territorio sia pronto o che si adegui in tempi brevi.

Lei ha detto che i casi notificati quotidianamente risalgono a 15-20 giorni prima. Se succede qualcosa siamo sicuri di accorgercene rapidamente?

I tempi di identificazione dei casi e di rintraccio dei contatti vanno ridotti. Bisogna mantenere le misure di distanziamento e rafforzare il territorio per identificare sul nascere qualsiasi focolaio. Quindi rafforzare i dipartimenti di prevenzione delle Asl.

Perché le scuole e le funzioni religiose sono più pericolose delle industrie?

Il Paese non regge senza attività produttive. E nelle attività industriali si possono adottare misure precise di distanziamento e protezione individuale. Sulle funzioni religiose, come per i cinema e i teatri, c’è la volontà di aprire, ma bisogna farlo gradualmente verificando, nel frattempo, la situazione epidemiologica.

Quanto aiuto vi aspettate dal caldo?

(Ride…) Non è il caldo in sé. In generale il caldo crea distanziamento sociale: chiudono le scuole, gli uffici, si va in vacanza, non si prendono i mezzi pubblici, non si va in luoghi chiusi e affollati e questo fa diminuire le malattie respiratorie. Dopo di che il caldo estremo può favorire l’essiccamento delle goccioline e magari il virus resiste un po’ meno nell’ambiente. Ma ci affidiamo ai nostri comportamenti, non al caldo.

Da 1 a 10 quanto è preoccupato?

Diciamo sette. Sono molto preoccupato. Per natura sono pessimista e scaramantico, ma non perché la riapertura non si debba fare. Si sta facendo in tutti i Paesi europei, quindi è irrinunciabile.

Tamponi, test, Usca: Lombardia e Piemonte in ritardo sulla Fase 2

La “fase 2”, riaprire pian piano tutte le attività, è quella più pericolosa perché potrebbe preludere a nuovi focolai. Dunque, insieme alle “regole di distanziamento sociale”, è compito delle Regioni dotarsi di strumenti e pratiche che minimizzino il rischio di espansione del contagio. Per fare questo, servono tre cose: un’idea di come e quanto si sia diffuso il virus sul territorio (a questo dovrebbero servire i test epidemiologici a campione); individuare rapidamente i positivi testando i loro contatti (coi tamponi); potenziare la sanità territoriale anche attraverso le Usca (Unità Speciali di Continuità Assistenziale). C’è il legittimo sospetto che non tutte le Regioni siano pronte: se, però, chi ha pochissimi contagi può sperare in bene, un sano pessimismo dovrebbe essere applicato alle zone più colpite. Abbiamo dato un’occhiata aLombardia e Piemonte, le due Regioni che più preoccupano. E il sospetto resta legittimo.

LombardiaAd oggi nella Regione più colpita – dove ieri, per la prima volta dall’inizio dell’epidemia, è arrivato il premier Giuseppe Conte – sono stati fatti circa 340mila tamponi a una popolazione di oltre 10 milioni di abitanti: i casi positivi registrati sono stati finora oltre 73mila, anche se – com’è noto – il totale dei contagiati potrebbe essere decine di volte superiore. Il problema è: con quale criterio sono stati fatti i tamponi? La risposta è nessuno o, meglio, seguendo le esigenze “politiche” del momento: prima a caso, poi solo i sintomatici, poi il personale sanitario, ora le Rsa… Anche nei numeri la Lombardia è andata a rilento: è partita “lavorandone” 4-5mila al giorno, ora nei “feriali” arriva a 12mila circa (ma ieri 5mila). La sua capacità produttiva totale però, contando anche i laboratori privati non accreditati, supera i 20mila tamponi al giorno, quantità che potrebbe essere adeguata alla fase 2: consentirebbe di controllare 20 contatti per mille contagiati (la media attuale). Fontana & C. però non paiono muoversi in questa direzione: rispondono con lentezza ai laboratori che si offrono di collaborare, non requisiscono la capacità produttiva di quelli che invece si rifiutano. Alle mancanze sui tamponi si aggiunge la scomparsa della sanità territoriale avvenuta negli anni del Celeste Formigoni: basti dire che l’ultima riforma, datata 2015, prevedeva la creazione dei “Presidi socio sanitari territoriali” e in 5 anni ne sono stati attivati una dozzina. Anche sulle Usca il ritardo è assurdo: dovevano essere pronte a fine marzo, ma a oggi non coprono il 25% della popolazione. Quanto ai test epidemiologici saranno condotti senza alcun criterio statistico, coinvolgendo operatori sanitari, pazienti sintomatici in quarantena e forze dell’ordine. Una buona notizia c’è: il numero dei pazienti in terapia intensiva e negli ospedali cala parecchio.

Piemonte A Ovest del Ticino da diverse settimane l’allarme è altissimo. Da tre giorni è ufficialmente la seconda regione più colpita dopo la Lombardia. A preoccupare, oltre alla media del tasso di aumento del contagio quasi ogni giorno superiore a tutte le altre Regioni (anche se il +1,1% di ieri, meno della metà della media degli ultimi giorni, fa ben sperare), è il rapporto tra la popolazione e i positivi: 356 malati ogni 100 mila abitanti in Piemonte, 342 in Lombardia.

Ieri, sul Fatto Quotidiano, il virologo Giovanni Di Perri, direttore del reparto malattie infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia di Torino e consulente della Regione per la “fase 2”, ha detto senza mezzi termini che con questi numeri il Piemonte non può permettersi di riaprire. Abbiamo chiesto all’assessore regionale alla Sanità Luigi Genesio Icardi cosa ne pensasse e la risposta è stata: “Sì, sono d’accordo con il professore”. Quindi? Quindi si va avanti sperando che tra una settimana le cose vadano meglio. Intanto il piano regionale, dopo una fase iniziale gravemente deficitaria, è quello di procedere massicciamente con i tamponi (139.348 quelli fatti fino a ieri). Il Piemonte oggi è in grado di farne circa 6 mila al giorno (20 i laboratori disponibili), l’obiettivo è arrivare a 10 mila entro la prossima settimana. Ma il problema, fanno notare i medici, è che i tamponi sono fatti su una quota molto bassa di popolazione, visto che spesso su una sola persona ne vengono fatti 4-5.

La proposta dell’assessore Icardi per migliorare la “qualità” è agire in tandem con i test sierologici (la gara piemontese è stata vinta dalla Diasorin) “a campione”. In sostanza si individua un gruppo omogeneo e si fa il test del sangue per tutti. A chi presenti anche solo un anticorpo si fa il tampone. Un metodo di contenimento del contagio che, tuttavia, provoca più di un malumore tra i medici. Quanto alle Usca, Icardi afferma che la Regione Piemonte “in una settimana” ha reso operative 34 Usca in tutta la Regione. In effetti le Usca stanno partendo, ma per essere una ogni 50 mila abitanti (come da dpcm) dovrebbero essere 40 in più: “Le stiamo dotando di maggior personale” risponde Icardi, assessore di una Regione che ha avuto bisogno di consistenti soccorsi da altre regioni per carenza di personale.