Ecco Toyota Yaris Cross. L’ibrido con due marce in più

“Quello che non c’è, non si rompe”: è una delle frasi attribuite al patriarca dell’industria Henry Ford. Che però non l’ha mai detta. Il senso è che varrebbe la pena, in fondo, fare auto semplici, e pensare a venderle. Piuttosto, lui discuteva di come il vero progresso fosse quando l’innovazione arriva alla portata di tutti, magari al costo di un lavoro lungo decenni e dell’ironia della concorrenza.

È successo a Toyota con l’anteprima mondiale sul web della nuova Toyota Yaris Cross, sport utility compatta che dall’estate 2021 si andrà a posizionare direttamente nella fascia più richiesta del mercato, offrendo però una motorizzazione ibrida di 4ª generazione. Per il marchio giapponese è venuto il momento, quello di portare a frutto in solitudine gli investimenti su quella motorizzazione ibrida che non è certo nata semplice, ma ormai è raffinata al punto da esser diventata la soluzione inevitabile. E anche imbarazzante, per i competitors.

Toyota prevede di produrre più di 150.000 Yaris Cross all’anno per l’Europa nello stabilimento di Valenciennes in Francia, lo stesso dove nasce la nuova Yaris a cinque porte, a conferma di un progetto dalle dimensioni imponenti, studiato nei dettagli. A partire da quelli estetici, con una vettura lunga 4.180 mm dal design personalissimo che enfatizza il senso di energia e di raffinatezza. Accompagnate però da una cattiveria tecnologica disarmante. Yaris Cross utilizza infatti lo stesso sistema ibrido già adottato da nuova Yaris, ovvero un powertrain con il 3 cilindri benzina da 1.490 cc per una potenza totale di 116 Cv, ma soprattuto ripensato nei fondamentali, con un motore elettrico istantaneo nel trasmettere spinta. Yaris Cross sarà poi disponibile anche con trazione integrale intelligente AWD-i, ovvero un sistema elettrico che trasferisce la coppia motrice verso l’asse posteriore quando serve più accelerazione o maggiore stabilità sul bagnato, su sabbia o neve. Il tutto con emissioni di CO2 che perfino nella versione a 4 ruote motrici saranno inferiori a 100 gr/km. Numeri che equivalgono a ritrovarsi senza concorrenza diretta, eccezion fatta per Renault Captur E-Tech ibrida Plug-in, destinata ad occupare però una fascia di prezzo ben superiore.

D’altro canto, l’offensiva vera del gruppo Psa tra gli sport utility compatti, con il lancio di molti modelli tra cui Peugeot 2008 o la prossima Opel Mokka di cui parliamo in questa pagina, punta alle motorizzazioni tradizionali affiancate da quelle 100% elettriche, lasciando al Full Hybrid di Toyota Yaris Cross uno spazio potenzialmente enorme. E a molti il tempo di rileggere il vero Henry Ford, sui rischi dell’innovazione che manca. “Quello che non c’è, si rompe”.

Navigare necesse est: ma anche no

Rido. Guardo I nuovi mostri e rido. Il film racconta la storia dei crudi vizi dell’italiano medio, raccontata egregiamente da Monicelli, Scola e Risi. L’episodio che mi diverte di più è quello di Sordi, l’aristocratico snob che va in giro con una Rolls Royce. Il grande Alberto dice questa storica battuta: “Quando feci il navigatore solitario… mamma mi diceva sempre, non mi rompere i coglioni, sei uno smidollato, un’imbriacone. Allora mi sono incazzato e ho detto basta! Mi compro una barca, faccio il giro del mondo, e navigo da solo. E così compii questa impresa. Feci il navigatore solitario. Giorno e notte, fra cielo e mare, mare e cielo, in questa natura, padrone del mondo. Solo, nell’intensità del mare, in assoluta meditazione. A contatto con la tua natura più pura, ed è allora che capisci… quanto sei stronzo… a compiere queste imprese, che non servono a un cazzo!”. Invece, gli antichi romani dicevano che navigare necesse est, navigare è necessario, ma bisogna vedere a che tipo di navigazione si riferivano: trasportare merci, scoprire nuovi mondi, persino armare flotte invincibili per avere il dominio del mare, ma uno che parte da solo, su una barchetta sponsorizzatissima per vedere cosa si prova a stare mesi in assoluta solitudine, francamente come impresa mi lascia un po’ perplessa. Sarà che ormai tutti siamo abituati alla socialità, alla tv che a volte fa programmi insopportabili, però è una presenza utile, ti fa compagnia, invece da solo cosa fai? A cosa pensi? Puoi ripassare la storia della tua vita, fare anche un bel bilancio, ma questo ripasso dopo qualche giorno finisce. E allora che fai? Io so già che il massimo che potrebbe venirmi in mente dopo mesi e mesi di isolamento in pieno oceano sarebbe: certo il mare è bello, però anche la montagna…

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Viaggio ai confini della fede: il mistero d’amore e castigo

Quando l’argomento è Dio, s’inizia dividendo i credenti dai non credenti. Nel caso di Ginevra Bompiani, autrice de L’altra metà di Dio (Feltrinelli, 2019) accuratissima esplorazione dei vari modi di credere e delle molteplici rappresentazioni di Dio, la distinzione non serve. Bompiani presta attenzione a Dio come a una presenza inesorabile. Si muove con agilità, colta e fantasiosa, fra un Dio e l’altro. Scavalca barriere di culture, secoli e scritture assolute: così la sua ricognizione non è né interrotta (dallo scetticismo) né presa per l’unica vera dal simpatizzare per una fede.

Non so se Ginevra Bompiani abbia letto il Diario di Diodi Franco Ferrucci (edito da Bompiani negli anni 80), approccio radicalmente diverso, ma simile solo nella tenace osservazione di Dio intento a creare. Certo la Bompiani è profondamente originale in 2 aspetti decisivi. Il primo è che non accetta confini storici o culturali nel seguire le tracce di Dio: può essere Indù, evangelico, ortodosso, cattolico, senza rifiutare riferimenti a Dio nella versione “pagana”. Il secondo è che non cerca la voce di Dio, sapendo di non avere documenti adatti per ottenerla; ma ne cerca e confronta le opere, nelle varie epoche, versioni, credenze ed evidenze.

Ginevra Bompiani lavora al suo progetto come se rendesse conto di un’inchiesta condotta con cura in luoghi e tempi diversi, che però non patiscono la regola del prima e del dopo, né quella di una scala diversa di valori e di opportunità. Nel suo mondo non religioso, Dio occupa tutto lo spazio. Non tutto è comprensibile, non tutto è sensato, non tutto è buono, ma Dio (sia pure discutibile e discusso), ne è sempre l’autore. Bompiani nota una fenditura, nelle infinite opere di Dio in tutte le versione e – se così si può dire – “incarnazioni”, nelle quali si manifesta al creato di cui è l’autore. Sia chiaro che un solo Dio è il tema della grande inchiesta di Ginevra Bompiani (e non importa quali panni culturali, sacrali, di costumi locali e di religioni diverse sta vestendosi ). I punti di partenza sono due: Dio è buono e misericordioso. Dio è inesorabile e non concede misericordia perché non può scombinare i piani che lui stesso ha tracciato. Dio punitivo interessa molto all’autrice, e presto il lettore capisce che questo è il centro del lavoro.

Non Dio in quanto punizione: ma Dio, che pure è unico (ormai lo sappiamo, al di là delle tante diverse prove nei secoli) conserva sempre due volti; amore e perdono da una parte, punizione perpetua dall’altra. Poiché Dio è mistero, eccolo: come può Dio amare e punire le stesse persone (o lo stesso segmento di storia o di popolo) senza spezzare l’infinita potenza, immaginazione, creatività, inventiva senza limiti, l’originalità totale con cui ha creato tutto? Ginevra Bompiani, in L’altra metà di Dio, non frena la sua ricerca appassionata sul territorio largo delle culture accessibili. Piuttosto accetta che ci sia una “metà di Dio” (l’una o l’altra) con cui dobbiamo confrontarci. Non a Nostra scelta.

Grandi condanne e grandi assoluzioni ma il giudice può essere solo di sinistra

L’unica destra accettata è quella che piace a sinistra. Mara Carfagna che porta i diritti civili ai ricchi invece che garanzie sociali ai borgatari, quindi Silvio Berlusconi che tiene da conto Giuseppe Conte e, infine, Papa Francesco: il titolare del marchio “Dio, Patria e Famiglia” che rinfresca la ragione sociale della ditta in chiave Cirinnà, nel senso di Monica. Nessuno dei tre, sia Carfagna, sia Berlusconi che Bergoglio – manco a dirlo – mai vorrebbe essere collocato a destra e fatto è che destra-destra ha cattiva stampa: è coatta, abita la pancia degli italiani, ed è ancora una volta quella “alle vongole”; giusto quella della formula di Mario Pannunzio – lo scriveva su Il Mondo, correva l’anno 1952 – marchiata nella condizione di minorità antropologica.

La lingua del potere che è quella della sinistra – quella degli italiani di serie A, che è quella delle istituzioni oltretutto – è l’unico codice incaricato di ammannire le legittimazioni per così fare del sistema “Paese”, nell’interezza della sua struttura burocratica-amministrativa, un vero e proprio regime di psico-polizia. Un unico tazebao la cui voce del padrone è il mainstream che decreta la reputazione di tale e di talaltro ben oltre il perimetro della discussione pubblica. Il dettato, interviene direttamente sul sentimento e sulla percezione di uomini e fatti, e gli esempi – ma la discussione è davvero logora – non mancano.

Vittorio Feltri ha la scorta da vent’anni ma questa sua condizione di pericolo non determina nessuna narrazione epica, anzi. Adesso che s’è venuto a sapere di certo qualcuno si premurerà presso il ministro Lamorgese per chiederne la revoca. La sua aura, infatti, è quella del ceffo cui censurare le “incaute ospitate” presso le apposite autorità morali. Al di là dei discorsi sui meridionali – sull’eccesso di pop che il direttore di Libero è capace di generare – nessuno si accorge di un dettaglio rivelatore: in occasione dei 96 anni di Eugenio Scalfari, sul suo giornale impossibile da esibire tra i benpensanti, Feltri scrive un così magnifico ritratto del fondatore de La Repubblica da costringerci tutti a un perché. Perché mai, a parti invertite, un fatto così cavalleresco e sincero, da sinistra a destra non potrà mai esserci?

Quando muore Giovannino Guareschi, l’autore di Don Camillo, l’Unità scrive una breve: “È morto lo scrittore che non era mai nato”. Il Secolo d’Italia – il quotidiano della destra nazionale – in morte di Palmiro Togliatti pubblica un articolo di compiuta eleganza: “Questo requiem per Togliatti è venuto giù come ci veniva; come conveniva all’uomo e alla nostra stessa dignità”. La destra, urge ripeterlo, segue l’insegnamento di Leo Longanesi: “Irresistibilmente attratti dalle idee altrui.”

La sinistra, al contrario, si compiace di sé al punto di voler conformare a se stessa la propria negazione. A immagine e somiglianza dell’Italia, ce n’è solo una di destra: “Una destra che piacerebbe a Montanelli”, dice Aldo Cazzullo, editorialista de Il Corriere della Sera, in un’intervista a Pietro Senaldi di Libero. Ed è, questa della variabile “Montanelli”, il suggello. Apre la strada a quella maggioranza silenziosa da sempre senza voce e senza rappresentanza politica, avvia il sentire del ceto medio in un altrove tutto di destra-destra, senza più complessi di sudditanza perché, sia detto una volta per tutte, non c’è paragone tra Il Mondo di Pannunzio e Il Borghese di Longanesi. Non c’è mai stato paragone.

Lo sterminio degli anziani. Parola ai geriatri: “Il contagio è un ‘gerocidio’ di massa”

Cara Selvaggia, fieri di essere tra i Paesi più longevi al mondo, di avere la classe di anziani tra le migliori e più performanti in assoluto, all’improvviso ci svegliamo in una realtà in cui tutto ciò che abbiamo costruito è totalmente sovvertito, annullato, cancellato e l’anziano è tornato ad essere “il vecchio” affetto da gravi patologie pre-esistenti, in realtà tutte patologie che nella nostra popolazione abbiamo imparato a gestire e curare efficacemente senza ridurre drasticamente l’aspettativa di vita.

Ci ritroviamo inermi e disarmati ad assistere inaspettatamente al “gerocidio” più rapido e subdolo che la nostra storia di paese evoluto ricordi. Decenni di educazione professionale e sociale per promuovere il valore dell’età biologica rispetto a quella anagrafica, l’età sociale come indice fondamentale della qualità di vita e del livello di efficienza. Noi geriatri, con pazienza, perseveranza e dedizione, abbiamo educato una classe medica al passo con i tempi, sempre attiva, aggiornata e formata per gestire al meglio le patologie croniche che l’individuo matura durante la propria vita e si trova ad affrontare nella longevità.

Tanto da far entrare nel senso comune l‘idea che la senescenza non è il declino inesorabile, fisico e mentale. Può essere invece un’evoluzione attiva del tempo che avanza, pur mitigata dal divenire del corpo, effettuando lo scollamento tra età anagrafica ed età biologica. Abbiamo favorito un vero e proprio ringiovanimento delle classi di età, così come le avevamo pensate e vissute solo un ventennio fa. Per questo oggi ci troviamo disarmati e dilaniati di fronte alla brutalità di una patologia acuta, che porta a fare i conti con l’età anagrafica e col sacrificio silenzioso di migliaia di ultra settantenni.

Fino a un paio di mesi fa, gli anziani erano considerati il nostro migliore successo terapeutico, come quantità e qualità di vita attesa; il patrimonio nazionale più gratificante. Oggi viviamo un evento catastrofico: all’improvviso, conta il dato anagrafico, anche solo in termini di accesso alle cure. Ci rendiamo conto che i nostri padri e le nostre madri, i nostri colleghi, maestri e compagni, i nostri pazienti, sono diventati i più esposti e sacrificabili. Quella parte di popolazione che i giovan, inizialmente, hanno faticato a tutelare e custodire, in nome della rinuncia al proprio stile di vita. Si sta attuando un “gerocidio” drammatico, indesiderato, silenzioso. Noi geriatri abbiamo imparato a curare fino a che si può, ad operare, fino a che si può, a trattare fino a che si può: perciò, nella nostra coscienza deontologica, la pandemia lascerà un solco profondo e insanabile.

Oggi noi geriatri ci ritroviamo a sovvertire le nostre indicazioni e a suggerire “cautelatevi, proteggetevi, isolatevi”. Perché il dato anagrafico trasforma rapidamente il soggetto geriatrico in un “vecchio” con gravi comorbidità; ed il vecchio, oggi, muore. Muore perché il sistema di tutela delle fragilità, che avevamo costruito, è in una condizione di crisi mai vista: così eccezionale che l’unico scopo è la tutela della vita, intesa come patrimonio di anni da vivere che un individuo possiede. Il dato anagrafico, oggi, è “la fragilità” per eccellenza. Con il taglio delle spese sanitarie, si è ridotta sempre più l’assistenza per acuti al paziente anziano; mentre i servizi per gestire le cronicità sono stati potenziati. Come se il “vecchio” non chiedesse assistenza specifica nelle fasi più mordenti della patologia, ma soltanto una gestione delle malattie pregresse. Così, le nostre geriatrie sono diventate luoghi di smistamento più che centri di cura ultraspecialistica.

Siamo la nazione con l’8% di mortalità, che messo a paragone con lo 0,8% della Germania e con i suoi 28.000 posti di terapia intensiva, fa capire come i tagli alla spesa sanitaria abbiano agevolato la devastazione che si dispiega sotto i nostri occhi, quotidianamente. Oggi che l’Italia conta i morti come su un campo di battaglia, è giusto rivolgere un pensiero a chi, per l’80%, rappresenta quella fascia di età che ha pagato con la propria vita il diffondersi dell’epidemia.

Un agente virale nuovo, venuto da Oriente, ha colto di sorpresa e falcidiato mentre ci si trovava seduti tranquillamente al bar, senza aver mai messo piede fuori del proprio luogo di vita, mentre si ricevevano le visite di parenti e amici, in quei pochi momenti quotidiani di agognata socialità, mentre si veniva assistiti nelle strutture scelte come luogo di ritiro negli anni della solitudine e della fragilità; mentre ci si intratteneva in piccoli momenti quotidiani di chiacchiere e condivisione. Un pensiero di cordoglio e di dolore va ai migliaia di loro, che rapidamente e drammaticamente sono venuti a mancare, senza onore né gloria, nel periodo più triste del nostro Paese e nell’assordante silenzio delle stragi improvvise e inaspettate.

Per noi geriatri italiani, è questo più che mai, un profondo momento di lutto e riflessione.

Dott.ssa Adriana Servello, geriatra – Prof. Evaristo Ettorre, geriatra
Dipartimento di Scienza Cliniche Internistiche, Anestesiologiche e Cardiovascolari Università di Roma, Sapienza. Centro Disturbi Cognitivi e Demenze Policlinico Umberto I – Roma

 

Grazie per aver scritto questa lettera così bella e così umana.

 

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Politica, preghiera ed emo-crazia: le domande del cardinale Zuppi

Che cos’è la preghiera? Nel cuore dei fedeli, ma non solo, la domanda è risuonata chissà quante volte in queste sette lunghe settimane di lockdown senza messe, celebrazioni e riti.

Un giorno il cardinale Martini rispose così a un uomo che gli chiedeva come pregare: “Io prego in modo molto semplice. Presento a Dio tutto ciò che mi viene in mente, tutto ciò che devo fare, che mi crea preoccupazioni, anche le cose piacevoli e soprattutto le persone a cui penso. Gli parlo in modo normale, per nulla devoto. Nella preghiera sento che qualcuno mi sostiene e mi supporta, anche quando vedo molti problemi, come le debolezze della Chiesa. Quando prego, vedo la luce”. L’episodio è ricordato dal cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, nell’ebook gratuito Non siamo soli. Credere al tempo del Covid-19 (Emi, Editrice Missionaria Italiana, www.emi.it). Il volumetto, meno di 40 pagine, raccoglie le meditazioni del cardinale nella preghiera serale del Rosario in varie chiese di Bologna tra marzo e aprile.

Già parroco di Trastevere a Roma e assistente spirituale della Comunità di Sant’Egidio, l’arcivescovo coglie due punti maturati in questo solitario tempo pandemico. Il primo forma un’altra domanda, una volta superata l’emergenza: “Saremo persone diverse oppure, appena passa la tempesta, riprendiamo gli atteggiamenti di sempre, l’individualismo, le furbizie, le convenienze personali, la corruzione, le inedie o il banale mettere sottoterra i talenti invece di ‘trafficarli’?”. Dalla fede alla vita quotidiana, che donne e uomini saremo? Non solo. Riusciremo a liberarci dalle istanze fuggevoli, dai bisogni istantanei della nostra vita precedente?

Qui il cardinale cita la “emo-crazia”, che investe anche la politica. È un altro passaggio da leggere: “Gli uomini cercano la felicità anche nel moltiplicare le emozioni, con distributori di emozioni come le infinite possibilità di internet. Questa, che alcuni chiamano emo-crazia, ci trascina in passioni superficiali, coinvolgenti ma senza sforzo, (…), che non scendono nel profondo della nostra vita e non diventano vita vera. (…) Si impongono (…) anche sulla politica che a volte le genera e le subisce”.

Altro che sanità pubblica: presto inizierà la guerra per gli spiccioli

Non mi piacciono gli attacchi a quel tizio (non lo nomino per non fargli pubblicità) che in un talk tv ha definito esseri inferiori i meridionali. È rincoglionito. È ubriaco. Ha problemi di incontinenza, non solo verbale. No, signori miei, il tizio in questione è lucidissimo e si assume il ruolo (ben pagato) di guastatore di quell’esercito di politici, commentatori a gettone, giornalisti senza molti scrupoli, al servizio dei poteri che si stanno attrezzando per il mitico “Dopo”. Il tizio spiana il terreno al darvinismo territoriale nel momento in cui si tratterà di distribuire tra Nord e Sud i pochi soldi da investire per la ripresa. In più si fa portatore degli interessi dei suoi editori potentissimi ras della sanità privata. Voi pensate che dopo bisognerà ricostruire un servizio sanitario nazionale e pubblico? State freschi, i padroni della salute si sono portati avanti col lavoro. Quindi non buttiamola sempre in barzelletta, altrimenti ci fotteranno. La campagna di divisione tra Nord e Sud è già iniziata e ha obiettivi precisi, al suo servizio anche “penne” raffinate e meno volgari. Prendete Aldo Cazzullo, scrittore ed editorialista del Corsera, che auspica (libero di farlo) un governo Draghi, perché l’economista sarebbe l’unico in grado di garantire all’Europa che i soldi dati all’Italia non finirebbero nelle mani dei forestali della Magna Grecia. E Beppe Severgnini che parla dell’invidia del Sud contro la Lombardia, uguale a quella degli studenti ciucci contro i primi della classe. Che pena, ancora con questa storia dei forestali calabresi. Che grandissima delusione. Il virus spacca il Paese ancora di più (forse per sempre) e due intellettuali precipitano nella melma di battute che neppure nel peggiore circolo della Lega. Per quanto riguarda il Sud, è vero, siamo figli della Magna Grecia, parenti stretti di quell’Enea che si caricò il padre Anchise sulle spalle e camminò verso altre e difficili mete.

Viva la resistenza al “virus nazista”: impugnamo tutti libri e streaming

Caro Fierro, qui tento l’elogio del contenimento o lockdown che dir si voglia: spero continui sino ai primi bollori dell’estate. Sto come un pascià, infatti. Piglio il sole sul balcone, all’ultimo piano di una casa d’inizio Novecento: respiro a pieni polmoni, poiché l’aria di Milano, quassù, è ormai più che accettabile. Una coppia di merli fischietta ogni pomeriggio sulle tegole accanto. Ascolto musica senza dar fastidio agli altri, con esoteriche cuffie austriache: la solitudine delle note prime. Secondo Platone, la cura giusta per l’anima. Ho gusti eclettici. Tra poco metto la Sinfonia numero 1 in do maggiore (opera 21) di Beethoven, diretta da Riccardo Muti. Poi passerò ai Rolling Stones: mi sparerò un Satisfaction dei tempi in cui si stava stretti come acciughe a ballarla e avevamo i capelli come Mick Jagger. Leggo moltissimo, mai così prima d’ora. Un libro al giorno toglie il Covid di torno, tra saggi sul fascismo e rievocazioni della Resistenza: ho celebrato il XXV Aprile col surrogato virtuale, online. In fondo la nostra che altro è se non una resistenza cocciuta al nazivirus? Leggo come un dannato: recupero il tempo perduto, per dirla alla Proust. Saggi, romanzi. Quando sono sazio, passo ai film e alle serie tv che ormai sono meravigliose. Avevo già Sky e Netflix, mi sono abbonato a Infinity, Disney, Prime Amazon. Un delirio di novità. Confesso, inoltre, che ho provato a scrivere. Scrittore confinato, scrittore liberato. Un’esperienza feconda, l’ispirazione al tempo del coronavirus, dicono. Mi ha dissuaso la concorrenza: sono annunciati milioni di diari e di poemi della reclusione, struggenti racconti dedicati alla generazione degli anziani spazzata via dalla scelleratezza degli amministratori lombardi, persino ingegnosi romanzi gialli, delicate storie d’amore sbocciato da una mascherina all’altra. Zarathustra osannava la gioia dell’incertezza elogiandone lo spirito d’avventura e il coraggio dell’impossibile. Belle parole. Più facili a dirsi che a vivere. Perché il lockdown quotidiano è una mistificazione. Un’illusione. Una finzione.

Alla fiera del calcio, gara all’ultimo cent

Avete presente la canzone di Angelo Branduardi datata 1976, quella che comincia dicendo: “Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino mio padre comprò” e poi si dipana a mo’ di filastrocca con l’arrivo del gatto che mangia il topo, del cane che morde il gatto, del bastone che picchia il cane, del fuoco che brucia il bastone, dell’acqua che spegne il fuoco e ancora e ancora senza che mai all’orizzonte s’intraveda una fine?

Ebbene, a distanza di 44 anni una nuova canzone rinverdisce il filone: è la tiritera “Alla fiera del pallone” lanciata dai reggenti del calcio (oggi farebbe fino dire stakeholder) che più o meno dice: “Alla fiera del pallone, per due soldi, i club non vollero più pagare i calciatori visto che le partite non si giocavano più; ma poi vennero le tv, che non vollero più pagare i club visto che le partite non si trasmettevano più; e poi vennero gli abbonati, che non vollero più pagare le tv visto che le partite non si vedevano più…”, e chissà che alla fine non arrivino anche oggi l’angelo della morte e il Signore a spezzare come allora l’infinita catena. Già. E tuttavia, se è vero che il campionato manca a tutti e che pur di vederlo ripartire gli italiani accetterebbero ogni cosa, dalle partite a porte chiuse ai playoff, dai campi neutri alle Final Eight, un modo per passare il tempo senza annoiarsi ci sarebbe: seguire, appunto, il campionato in corso tra i quattro club rimasti in gioco giunto ormai alle battute conclusive. La lotta è per conquistare il titolo di “Raccatta soldi 2019-20”. Chi la spunterà?

Calciatori. I presidenti vogliono tagliargli dai 2 ai 4 mesi di stipendio; e non si capisce il perchè visto che a marzo, dopo la sospensione decretata il giorno 9, li hanno fatti allenare a casa loro e visto che da maggio torneranno a farlo in campo. Balla il mese di aprile, quindi: ma se è vero che per concludere la stagione (se accadrà) occorrerà sforare nel mese di luglio (e di agosto per chi è in Champions o in Europa League), i calciatori saranno i soli a poter dire di avere lavorato come e forse più di prima. Senza contare i contagi che hanno colpito 15 di loro; molti di più, in realtà.

Club. Se da un lato i presidenti non vogliono pagare i giocatori, dall’altro vogliono essere pagati dalle tv: chiagne e fotte, direbbero a Napoli. Per la cronaca, le 124 partite che Sky, Dazn e Img (diritti estero) non trasmetteranno mai valgono da contratto 440 milioni. “Senza quei soldi è la fine”, piagnucolano i club, quegli stessi club che hanno accumulato debiti per 2,5 miliardi e che solo ai procuratori hanno pagato un anno fa 118 milioni.

TV. Sky, DAZN e Img invece non solo non vogliono pagare l’ultima rata bimensile dell’1 maggio, ma chiedono un robusto rimborso della rata di marzo-aprile, già onorata, visto che Il 9 marzo si è fermato tutto. Tra l’altro, anche ammesso che in estate si torni a giocare, con molte partite in contemporanea l’appeal per gli investitori pubblicitari sarà minimo.

Abbonati. Le tv non vogliono pagare i club per via delle partite non giocate? Strano perchè i soldi degli abbonati, i 15 euro per il pacchetto Sport e i 15 per il pacchetto Calcio, Sky li sta incassando senza battere ciglio a dispetto delle partite sparite. Giustizia vorrebbe che anche gli utenti venissero integralmente rimborsati. Per caso, qualcuno l’ha sentito dire?

L’emergenza in nove punti: ecco cosa deve fare l’Italia

La bolla mediatica sulla pandemia oscura alcuni elementi di fatto e le indicazioni banali che ne derivano. Provo ad elencarne alcuni, di cui il governo, ad oggi sostenuto dalla maggioranza degli italiani, potrebbe tenere conto.

Il primo. Come le guerre, la pandemia accentua le diseguaglianze. Il contagio e la mortalità del personale medico e paramedico, del volontariato, religioso e non, richiamano alla memoria i sottotenenti di complemento che per primi dovevano uscire dalle trincee. Primo dovere è quello di attrezzarli e salvaguardare loro diritti, come per coloro che forniscono servizi al pubblico. Per evitare una seconda pandemia economico-sociale, occorre sostenere i più deboli, indipendentemente dal loro status normativo, da rafforzare. I lavoratori stagionali dell’agricoltura, come quelli domestici, sono un esempio. Gli oneri economici, sia a livello europeo che italiano, dovranno essere reperiti in misura fortemente proporzionale al reddito e alla ricchezza di ciascuno, per non accentuare le ineguaglianze.

Il secondo. Come ha affermato soltanto Chiara Appendino (Repubblica del 23 marzo): “La tenuta psicologica e sociale è messa a dura prova dal nostro isolamento. Penso a come possa vivere questa emergenza un nucleo famigliare di 4 persone costrette a vivere in 30 mq. Non è vero che siamo tutti eguali di fronte al coronavirus”. Come pure afferma la sindaca di Torino, il soffocamento attuale dell’economia diffusa sul territorio determina una riduzione immediata di consumi, non solo a spese del commercio, della ristorazione, della piccola imprenditoria e dell’artigianato, ma della parte più precaria dell’occupazione, specie giovanile. Riavviarla è prioritario, pur nell’osservanza di distanze e di altre regole prudenziali.

Il terzo. Gli assembramenti spontanei e forzati incrementano il pericolo di diffusione del Coronavirus. Per questo, la Germania riaprirà le scuole ai primi di maggio, mentre stadi, teatri ed altri luoghi d’incontro resteranno chiusi fino a settembre. Gli ospedali dovranno avere l’obiettivo ravvicinato, ma duraturo, di diversificare le cure antiepidemiche da quelle di altra origine (Cuneo docet), mentre occorre isolare le case di riposo da rischi di contagio. I luoghi di produzione, molti dei quali già operativi, costituiscono una componente importante dello sviluppo economico e di posti di lavoro. Condizioni minime sono il consenso dei dipendenti, distanze di sicurezza, disinfestazione e strutturazione dei locali sotto controllo indipendente dalla proprietà e dalla gestione delle aziende.

Il quarto. Salta agli occhi la forte differenziazione territoriale della mortalità e del contagio. È assurdo far valere le stesse regole in territori diversamente colpiti. La Lombardia non è assimilabile alla Sardegna o all’Umbria, appena sfiorati dalla pandemia. Fatte le debite eccezioni per singole zone rosse, è evidente la doppia necessità di difendere le regioni meno contaminate dall’accesso di portatori potenziali di virus, mentre sarebbe iniquo continuare ad assoggettarle a restrizioni invece indispensabili in quelle più colpite. La conseguenza che se ne può trarre non riguarda l’autonomia decisionale delle singole regioni perché proprio misure differenziate richiedono decisioni governative centralizzate, previa consultazione con le autorità locali.

Il sesto. Il rischio di contagio è proporzionale all’età, con un incremento esponenziale a partire dai settant’anni. Nello stesso tempo il confinamento a casa, mentre può essere necessario prolungarlo per gli anziani, determina sacrifici superiori per i più giovani e i loro genitori, meno a rischio: esclusione da una normale frequentazione scolastica, a cui ovviano in piccola parte i collegamenti da cui le famiglie meno abbienti sono escluse; la loro presenza a casa obbliga i genitori – soprattutto le madri – a rinunciare ai propri impegni di lavoro; infine, la loro salute complessiva richiede spazi di moto e di gioco di cui sono privati.

Il settimo. Regolamenti nazionali e locali, sono oltre 600. Troppo loquaci comitati di esperti manifestano una pluralità di voci che genera confusione. A sostegno dell’economia – siamo a 4 tipi di cassa integrazione e 9 categorie di bonus! – urge una semplificazione. L’azione del governo e il corretto funzionamento del Parlamento, anche allo scopo di ridurre all’essenziale le regole, rafforzerebbe la collaborazione dei cittadini.

L’ottavo. Il miglioramento delle condizioni ambientali, dovuto alla diminuzione attuale del traffico. Risultato che, nei limiti del possibile, dovrebbe essere salvaguardato, come anche l’avvio di una valorizzazione delle zone industriali in disuso.

Il nono. In un quadro europeo, sono ancora più evidenti le differenze territoriali, sia nella diffusione del contagio che nei mezzi per farvi fronte. Inoltre, la crescente privatizzazione della salute ha determinato un indebolimento nella prevenzione. Tuttavia, la gestione solidale delle risorse disponibili per far fronte alla pandemia e alle sue conseguenze economico-sociali costituisce una sfida ineludibile, destinata a lasciare un segno profondo sulla costruzione di un’Europa unita.