Addio Giulietto, il “complottista” ben informato

Giulietto Chiesa era una di quelle persone che mi sembrava di conoscere da sempre, anche se soltanto da poco avevamo incominciato a lavorare insieme ad un ambizioso progetto di Politica, con la P maiuscola. Giulietto guidava infatti un gruppo di raffinatissimi intellettuali critici chiamato “Centro di Gravità” che, insieme al nostro “Comitato Rodotà” e a un nutrito gruppo di altre organizzazioni di diversissima ispirazione politica, sta lavorando alla costruzione di una infrastuttura permanente, capace di funzionare come una sorta di rete di salvezza nazionale per le generazioni future ed i beni comuni.

Fra i temi a lui più cari, in questo lavoro di tessitura Politica, che nelle ultime settimane si è intensificato non poco, c’è quello sulla libertà di stampa, oggi quanto mai vittimizzata da censura su internet ed oligopoli. Giulietto, da giornalista di razza, considerava il rispetto dell’ Art.21 Cost. prodromico ad ogni trasformazione radicale del presente. Per questo cinque anni fa aveva fondato Pandora Tv, cui dedicava molto del suo tempo e delle sue energie. Nulla meno di un cambiamento paradigmatico interessava a Giulietto, che restava prima di tutto un materialista dialettico, dotato come pochi altri degli strumenti culturali per interpretare in modo critico l’esperienza del mondo ex sovietico e cinese. Un’esperienza, quella del “socialismo realizzato”, cui mai aveva fatto sconti, ma che aveva sempre rispettato profondamente, sfuggendo tanto dall’ incondizionata adesione quanto dall’orientalismo degli stereotipo dominanti. Giulietto era giunto a Mosca nel 1980, come corrispondente dell’Unità, e vi si era trattenuto a lungo. Aveva conosciuto il burocratismo di Breshnev, la Perestroyka di Gorbachev, il neoliberismo violento di Eltsin e Gaidar (letto come un golpe di origine statunitense) e la ristrutturazione di Putin. In Russia era rispettatissimo, tanto dal potere quanto dall’ opposizione, ed i suoi libri erano tradotti e conosciuti. In una lunga conversazione telefonica di qualche giorno fa ho avuto il privilegio di goderne a fondo l’acutezza geopolitica e la completa assenza di quegli stereoptipi occidentalisti che intossicano le analisi dei nostri principali mass media. Avevamo condiviso la critica severa di Gorbachev e Obama, ultimi epigoni, mutatis mutandis, dei due modelli che si confrontarono nella Guerra Fredda. Entrambi interpreti ipocriti e impotenti dell’inevitabile crollo, puntualmente avvenuto, del socialismo realizzato e del costituzionalismo liberale. Mi aveva dato una lezione sull’attuale “spettacolo integrato”, per dirla con Gui Debord, in cui la Cina si trova naturalmente in una posizione di vantaggio geopolitico avendo raggiunto, gradualmente e senza sbalzi, il modello politico del controllo totale. Il coronavirus sta cambiato l’egemonia planetaria. Per Giulietto in queste condizioni i rischi reali sono generati dai sussulti guerrafondai del modello atlantista, il cui principale interprete non è Donald Trump ma il Partito democratico dell’establishment. Insieme abbiamo scerzato sul complottismo, di cui sovente Giulietto era accusato. In realtà lo stato del mondo, nell’era della post-verità, è tale per cui anche soltanto una descrizione pluralista della realtà, ossia una che consideri davvero tutte le sfaccettature di ciò che appare, sembra un complotto.

Giulietto era in possesso di tali e tante informazioni di prima mano sul mondo ed era dotato di una tale velocità nel collegarle l’una con l’altra, che la sua intelligenza vivissima vedeva nessi che la cacofonia dominante occulta. Quando è un megacomputer di Google a funzionare così, analizzando rapidamente big data che non possono essere per loro natura “provati”, perché la complessità non conosce nessi causali lineari, si esaltano le meraviglie del mondo smart e dell’intelligenza artificiale. Quando a funzionare così è il cervello di un uomo eccezionalmente colto, libero, sinceramente preoccupato per le sorti del mondo, indomito nella sua volontà rivoluzionaria, si parla di complottismo.

Addio Giulietto ci accorgeremo presto tutti di quanto lungimirante fosse questo tuo “complottismo”.

Fate uscire anche noi anziani. No alle discriminazioni

Circa un mese fa un arzillo ottuagenario di Milano si era spostato insieme alla sua compagna parecchio più giovane nella sua seconda casa nella Riviera di Ponente, ad Albissola o a Varazze, non ricordo con precisione, luoghi che conosco molto bene perché da giovane, da buon milanese, per le vacanze andavo in Liguria (i ricchi preferivano la Versilia) e che se passa il provvedimento discriminatorio nei confronti degli anziani non vedrò più. I due furono denunciati dai vicini e rispediti a casa. È vero che avevano violato la legge, ma questa delazione è comunque un brutto segnale: l’Italia è diventata l’untore d’Europa, i lombardi e i piemontesi, tanto più se anziani, sono gli untori degli untori. Siamo alla colonna infame di manzoniana memoria. Comunque il male è già stato fatto anche se il provvedimento discriminatorio non venisse preso. Responsabilità grave del governo è di non aver respinto subito queste voci che circolavano da tempo, per cui ormai si è creata una tale suggestione nella popolazione per la quale lombardi e piemontesi, anziani o anche non, verranno respinti dai luoghi di vacanza, dai loro alberghi, dai residence, dagli stabilimenti balneari, con un qualche pretesto (numero chiuso, per esempio).

Ho già cercato di chiarire sul Fatto (“Tutti fuori salvo noi più anziani”, 18.4) perché un provvedimento discriminatorio nei confronti degli anziani, oltre ad essere del tutto insensato perché noi anziani moriamo più facilmente dei giovani per il Corona ma, a parità di condizioni, non siamo più infettivi di qualsiasi altro cittadino, è razzista, anticostituzionale e lede quello che è il principio fondante di una Democrazia liberale, vale a dire l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (art.3 Cost.). Inoltre, e non è poco, tenere reclusi gli anziani per molto tempo equivale a un assassinio mascherato. Se c’è qualcuno che ha bisogno di fare moto è l’anziano. Se dopo il 4 maggio verrà dato un parziale “liberi tutti” tranne che agli anziani, i vecchi rimarranno soli in città, perché gli altri se ne saranno andati, e la solitudine, come ci dicono le ricerche mediche, uccide più del fumo. Il direttore generale della Sanità francese, Jérôme Salomon, ha ricordato che l’episodio del grande caldo del 2003 uccise, solo in Francia, 19.500 persone. Ed estati caldissime, a mia memoria, ci sono state in Italia nel 1982 e nel 1985. Provate a rimanere a Milano, anche in un’estate normale, e poi mi saprete dire. Quello che si sta per consumare sugli anziani, se il provvedimento discriminatorio passerà in un modo o nell’altro, è un autentico genocidio o, per usare le parole più flautate di papa Francesco, “un’eutanasia nascosta”.

Saremmo in una tirannia fuor di controllo. È bene a questo punto ricordare che esiste un dibattito iniziato da Seneca (De beneficiis) proseguito da Plutarco (Vita di Publio Valerio Publicola) e continuato per tutto il Medioevo centrato sulla domanda: è lecito uccidere il Tiranno? La risposta è stata che è lecito. Luigi XVI fu ghigliottinato sul presupposto di questa liceità, il rumeno Ceaucescu, che pur non era stato implicato a livello di governo nella Seconda guerra mondiale, fu fucilato solo perché ritenuto un tiranno. Sono due esempi dei tantissimi che si potrebbero fare.

Non si allarmi il lettore del Fatto, non abbiamo alcuna intenzione di ricorrere alla violenza, anche se avremmo delle buone ragioni vista la violenza che si vuole usare contro di noi (“a brigante, brigante e mezzo” diceva Sandro Pertini). Si sta creando un forte movimento di opposizione, stimolato proprio, credo, almeno all’inizio, dal mio articolo. Lo dicono le decine di lettere arrivate alla mia mail personale, oltre a quelle ricevute dal Fatto. Anche la Cgil ha preso posizione in questo senso. E ora si sono svegliati pure, un po’ in ritardo a mio avviso, gli illustrissimi Giorgio Agamben, Carlo Ginzburg, Ginevra Bompiani che hanno intenzione di inviare un appello al capo dello Stato, al premier, ad alcuni ministri nel quale si poggia l’accento sul fatto che la limitazione potrebbe colpire “una fascia di persone ancora attive, in buona salute e in grado di dare ulteriori preziosi apporti alla nostra società”. Sia ben chiaro che non è proprio il caso di creare una nuova discriminazione dentro la discriminazione, di salvaguardare gli anziani purché “attivi o in buona salute”, di decidere se “vecchio è bello” o è invece una condizione penosa e in molti casi terribile (vedi il mio articolo sul Fatto del 24 aprile “Ora noi anziani vogliamo vivere di più per dispetto”). La discriminazione è intollerabile, incivile, illegittima per tutti, in sé e per sé, qualsiasi siano le condizioni fisiche. Punto.

I pensionati in Italia sono 16 milioni. Se facciamo gruppo possiamo reagire. C’è fra coloro che mi hanno mandato mail di protesta chi propone una class action sulla cui efficacia avrei molti dubbi. C’è invece chi propone un’azione ai limiti della legalità, e anche oltre, sempre non violenta alla maniera dei Radicali di un tempo: se un gruppo cospicuo di questi pensionati si rifiutasse di pagare le tasse questa parodia di Democrazia collasserebbe. Verrebbero colpiti i primi, per i quali si potrebbe organizzare un fondo, ma certamente lo Stato non potrebbe perseguire qualche milione di persone.

Infine le generazioni di anziani che si vorrebbero ora far fuori con l’ipocrita pretesto che lo si fa per il loro bene, sono quelle che, con l’aiuto certo del Piano Marshall, pagato però col prezzo della sudditanza agli americani, hanno contribuito a ricostruire l’Italia: operai, impiegati, artigiani, ma anche medi e piccoli imprenditori, uomini politici e persino intellettuali. Poi, intorno al 1960, rimesso in sesto il Paese e permesso l’inizio del boom economico, l’abbiamo consegnato a una Democrazia che non era più tale ma si era trasformata in partitocrazia (ho ricordato più volte il coraggioso, ma inutile, discorso alle Camere del presidente del Senato, Cesare Merzagora, indipendente, contro questa deformazione) per cui i partiti sono andati via via impadronendosi dello Stato e anche di ampi settori del privato, con i risultati che, Corona o non Corona, oggi sono sotto gli occhi di tutti. E adesso che siamo, per forza di cose, nella maggioranza dei casi indeboliti e stanchi, ci danno il benservito.

Pericolo “patenti false”

I test sierologici non servono a dare una “patente di immunità” o un “certificato di privo di rischio” che consentirebbe alle persone di viaggiare o di tornare al lavoro presupponendo che siano protette dalla reinfezione. L’Oms mette in guardia sul significato che alcuni governi stanno dando ai test sierologici. Al momento non ci sono prove che le persone che sono guarite da Covid e hanno anticorpi siano protette da una seconda infezione. La maggior parte degli studi mostra che le persone che hanno avuto un’infezione o la malattia provocata da SarsCov2 hanno anticorpi contro il virus. Tuttavia, alcune di queste persone hanno livelli molto bassi di anticorpi neutralizzanti (quelli che proteggono da una nuova infezione) nel sangue. L’Oms ribadisce: nessuno studio ha valutato se la presenza di anticorpi conferisca l’immunità alla successiva infezione da questo virus nell’uomo. A cosa serve allora questa corsa al test sierologico? Per come si sta conducendo l’indagine, a poco o nulla. L’unica chance che abbiamo è che, se il test è positivo per le IgM (anticorpi che compaiono durante l’infezione), abbiamo certezza che ci sia un’infezione in atto. Le IgG (che compiono a infezione guarita e, di solito, sono protettivi) oggi non hanno significato se non per sapere che l’individuo, in passato, ha avuto contatto con il virus. Pertanto solo i test che individuano le IgM possono essere utili: per far restare a casa; permettono di individuare gli asintomatici potenzialmente contagiosi. Ma la sicurezza di intercettare i positivi è limitata, perché le IgM compaiono due-tre giorni dopo aver contratto l’infezione.

“Il dopo? Vorrei celebrare il rito entrando in casa della gente”

“Ricordo quando andai da padre Alex Zanotelli nella baraccopoli di Korogocho, vicino a Nairobi. Durante la settimana non c’erano sempre celebrazioni in chiesa. Si andava nelle baracche, a trovare la gente, e si celebrava lì. La domenica c’era la grande messa dove ognuno portava la propria esperienza quotidiana. Ecco, io sogno che dopo il trauma del virus, le nostre celebrazioni diventino anche così, che ognuno porti le proprie fatiche, i pensieri, le gioie. Insomma, la vita”.

Don Gianni Grondona è parroco nel Ponente operaio di Genova. Ed è guida spirituale della Comunità di San Benedetto, l’erede di don Andrea Gallo.

Padre, lei spera che il virus spinga la Chiesa e i fedeli a rinnovarsi? Pensa anche a novità nel rito?

Più che al rito penso a una partecipazione nuova. Per i fedeli e i sacerdoti. Noi preti abbiamo celebrato da soli, perché la messa è in persona Christi ed è in nome del popolo. Ma abbiamo bisogno di un’assemblea. È l’essenza. E spero per chi le aveva vissute come abitudine, la fede e la messa tornino a essere una scelta.

Non teme che, finita la quarantena, le chiese si ritrovino vuote?

Temo la paura del contagio. Tra i banchi si ritrovavano soprattutto anziani e bambini, le persone più indifese di fronte all’epidemia.

Da mesi si celebra in streaming. Tutto è diventato virtuale…

Non ho fatto messe sui social. Ce ne sono già tante. E poi è come guardare una partita in tv: è diverso da giocare davvero. Però dovremo conservare alcune cose buone. Ogni giorno mando su Facebook e su Whatsapp una riflessione sulle letture. Questo tipo di contatto, di ritorno alla meditazione sulla parola di Dio deve restare.

In questi mesi potevate celebrare i sacramenti?

Matrimoni e battesimi, solo con sposi e battezzati, con testimoni e padrini.

Potrebbe essere un ritorno all’essenza dei sacramenti?

Sì. Ma alla fine molti hanno deciso di rinviare. È bello che i sacramenti siano anche occasione per riunire le persone che ami, ma c’è il rischio che diventino solo motivo per fare festa.

La vostra opera è pastorale, ma anche di carità. Siete riusciti a restare vicini a chi aveva bisogno?

Abbiamo cercato di fornire un sostegno spirituale e materiale – pacchi di alimenti e buoni da spendere nei supermercati – a chi stentava ad andare avanti.

Parola e cibo…

Sì. Abbiamo tenuto aperto il nostro Centro d’ascolto anche se le parole arrivavano soprattutto via telefono.

Chi cercava aiuto?

Disocuppati, gente che magari ha dei debiti e allora noi li indirizziamo ai centri anti-usura. Italiani e immigrati. Abbiamo avuto badanti che hanno perso da un giorno all’altro il posto perché gli anziani non si fidavano a far entrare nessuno in casa per il virus. O magari… perché erano morti.

Alla vostra porta in questi giorni bussa gente che ha fame?

Ci sono persone e famiglie che hanno bisogno dei pacchi che distribuiamo. Di una confezione di pasta, una bottiglia d’olio, un paio di scatolette. Voi come la chiamate?

La Chiesa si rivolta ai tempi del Covid

“I vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. La Cei attacca il governo. Un comunicato duro arrivato ieri sera dopo che erano trapelate le misure adottate dall’esecutivo per la fase 2: apertura sui funerali, anche se con un numero limitato di persone. Ma ancora uno stop per le messe. E la Conferenza Episcopale Italiana ha diffuso un comunicato che piega l’asse di collaborazione tra Chiesa e Stato che aveva segnato i due mesi di lockdown. Poi a tarda sera Palazzo Chigi annuncia che “nei prossimi giorni si studierà un protocollo per consentire ai fedeli di partecipare alle messe in condizioni di sicurezza”.

Del resto i vescovi da giorni mostravano impazienza. Da una parte ci sono le pressioni dei cattolici di destra anti-Bergoglio. Dall’altra la difficoltà di praticare i propri riti di fronte all’emergenza sanitaria che richiede isolamento. Alla fine l’argine si è rotto.
La Comunione. Il segno di pace. La Chiesa vive anche di contatto fisico. Lo dice l’origine del nome: ecclesia, assemblea. E lo diceva Gesù: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Ma, dopo duemila anni, nel giro di poche settimane la Chiesa si è trovata senza assemblea. E nei prossimi mesi dovrà riscoprire i propri riti e i sacramenti in un mondo che cerca di ritrovarsi senza contagiarsi. Cambieranno la messa, le comunioni, i matrimoni e i funerali. Chissà come sopravviveranno il catechismo e l’oratorio. “Nella nostra Diocesi sono morti 25 sacerdoti (in Italia oltre 100, ndr). La Chiesa è in prima linea accanto alla gente”, racconta monsignor Giulio Dellavite, segretario generale della Diocesi di Bergamo. Nella fraternità dove vive ben due preti sono stati portati via dal virus: “Non siamo nemmeno riusciti a salutarli”. Eppure con un’energia che gli viene dalla fede e dall’animo lombardo, Dellavite mantiene la speranza: “Sento che la malattia ha portato a una ricerca di spiritualità”. E cita Domenico Modugno: “La lontananza è come il vento, spegne i fuochi piccoli, ma accende quelli grandi. Chi veniva in chiesa per abitudine non verrà più. Ma la difficoltà ha aiutato chi era convinto”.

 

Reinventare la messa

Padre Achille, 78 anni, regge una piccola parrocchia tra Piemonte e Lombardia. Dall’altare le sue mani grandi, che ricordavano il passato missionario, mimavano le parole del Vangelo. Lo sguardo cercava sempre i fedeli. A fine febbraio quella compagnia gli è venuta meno dopo cinquant’anni. Eppure in pochi giorni si è reinventato: ogni pomeriggio dice messa sui social. La sua voce, proprio come tra le navate, trova quella dei fedeli che leggono le preghiere. Padre Achille ha imparato a raggiungerli con i suoi occhi penetranti sullo schermo del cellulare. Sono migliaia i sacerdoti che oggi usano i social. Come don Francesco Marruncheddu di Campanedda (Sassari), convertito a Zoom, lo stesso strumento utilizzato dai professori. I giovani della parrocchia poi si incontrano su Facebook e Instagram. A Genova Maria Gabutto, 50 anni, madre di tre figli, in questo weekend ha aperto virtualmente casa sua a un ritiro spirituale seguendo gli esercizi del cappuccino Ignacio Larranaga. Un’ora di meditazione condivisa con fedeli sparsi per il mondo: “Da anni non sentivo queste parole entrare nelle nostre case, nei salotti dove si guarda la tv o si gioca alla Playstation”. Calogero Marino, vescovo di Savona, ne è convinto: “Ci sono novità che dovremo salvare. Grazie a internet abbiamo riscoperto la casa come luogo della fede domestica”.

 

Nuove regole per i fedeli

Le diocesi si stanno preparando per la fase 2 e quelle successive. A Milano, che con 5,5 milioni di fedeli è tra le diocesi più grandi del mondo, è stata avviata una consultazione online: “Invitiamo le comunità cristiane e i fedeli ad avanzare idee e buone prassi su diversi ambiti ecclesiali: dal riavvio delle celebrazioni con il popolo alla riapertura degli oratori, fino all’azione caritativa”. La Diocesi raccoglierà i suggerimenti e li condividerà con il prefetto. Perché, come spiega monsignor Bruno Marinoni, Moderator Curiae dell’Arcidiocesi, “immaginiamo che questa fase sarà lunga”. Il difficile arriva adesso. Dopo le soluzioni improvvisate con internet ora si dovrà cercare il modo per tornare a essere assemblea. Salvaguardando la salute (molti fedeli sono anziani). La Diocesi di Roma, racconta Repubblica, è stata una delle prime a scrivere una lettera per preparare i sacerdoti a riprendere una vita di comunità: “Non si tornerà subito ai raduni”, ha spiegato il vescovo ausiliare Gianpiero Palmieri, “È ragionevole immaginare che dovrà avvenire con prudenza e gradualità non solo nelle chiese, ma anche nelle basiliche e nei conventi”.
Ma in concreto cosa succederà? Molte diocesi hanno rinviato attività e sacramenti. A Novara don Fausto Cossalter, vicario generale, ha scritto ai sacerdoti invitandoli a riprogrammare per settembre cresime e prime comunioni. Ma ci sono altri sacramenti per cui è più difficile aspettare; come i matrimoni, che già sono in calo. Complice l’emergenza sanitaria si va forse verso un ritorno all’essenza della cerimonia: “Restano possibili i matrimoni, anche se è necessario attendere le indicazioni del governo per capire se potranno intervenire i fedeli. Alle celebrazioni attualmente sono previsti solo gli sposi e i testimoni”, sono le istruzioni della Diocesi di Vicenza. Tornare ad “abitare la Chiesa”, è il messaggio che la Conferenza Episcopale Italiana aveva mandato al governo attraverso le parole del sottosegretario Ivan Maffeis: “Con tutta l’attenzione richiesta dall’emergenza dobbiamo tornare ad abitare la Chiesa, il Paese ne ha un bisogno, c’è una domanda enorme e rispondere significa dare un contributo alla coesione sociale”. Ma, quando il Governo darà il via libera, saranno messe diverse: “La Cei – spiega il vescovo Marino – sta facendo un po’ di pressione per tornare a celebrare, ma in sicurezza. Penso a volontari all’ingresso delle chiese che garantiscono il distanziamento. Ci saranno uno o due fedeli per banco, le sedie dovranno essere lontane, avremo porte diverse per entrata e uscita. Sarà necessario sanificare le chiese”. E cambierà il rito: “Niente segno di pace”, perché intanto era facoltativo e la pace in fondo è dentro di te e “niente concelebrazioni dove c’è scambio del calice”. Anche la comunione dovrà essere distribuita in modo diverso. Il bisogno più grande, però, oggi è quello di celebrare i funerali. Non solo per le 25mila vittime del virus: “Non è umanamente sopportabile impedire le celebrazioni dei funerali alle tantissime famiglie colpite da un lutto”, aveva detto all’Avvenire la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. È lo stesso pensiero di Dellavite: “È terribile dire addio senza un congedo. Qui a Bergamo abbiamo visto tante persone andare al cimitero da sole. Se morivano di virus, i parenti erano in quarantena”. Ancora Marino: “La Chiesa accompagna i momenti di passaggio della vita: la nascita, la crescita, il matrimonio e il congedo. Non possiamo lasciar soli i fedeli nella morte”.

 

La lotta a Bergoglio

La Chiesa di Francesco ha chiesto di lasciare aperte le chiese. Ma finora aveva accettato le decisioni del Governo. Qui si era aperta la lotta della destra cattolica contro Bergoglio, accusato di essersi piegato all’autorità civile. I casi di sacerdoti che continuano a celebrare nonostante i divieti – e le istruzioni delle gerarchie – si trovano ogni domenica sulle pagine di cronaca. Il primo caso è stato quello di San Francesco a Cerveteri. E subito i siti conservatori hanno tuonato contro le autorità: “La polizia irrompe in chiesa ed interrompe la Santa Messa dall’altare. Cronache dalla Cina comunista? No, siamo in Italia”, ha scritto La nuova bussola quotidiana, sito che dà voce al cattolicesimo più conservatore. Domenica scorsa è toccato a un sacerdote di Gallignano (Cremona). I carabinieri hanno multato lui e i fedeli. Ma il prete non ha fatto marcia indietro e, nonostante la ‘scomunica’ della Curia, ha annunciato ricorsi. Dai banchi della parrocchia il caso è rimbalzato sui giornali. Il vero bersaglio degli attacchi forse non erano le forze dell’ordine, ma Bergoglio. Dellavite, però, non ha dubbi: “Il sacerdote deve essere un cittadino modello che rispetta il bene comune”.

 

Un passaggio epocale

Come sopravviverà la Chiesa al virus? “Non sono banalmente ottimista”, conclude Marino, “Ma il futuro è nelle nostre mani. Sento tanta attesa di una dimensione spirituale. Lo dice anche un salmo: ‘L’uomo nella prosperità non comprende’. Oggi noi siamo in difficoltà e dobbiamo capire in cosa crediamo”.

Mascherine e rifiuti sanitari. Cortocircuito da epidemia

Mascherine, guanti in lattice e tamponi faringei sono i rifiuti più pericolosi dell’era Covid. Scarti sanitari e urbani che stanno mettendo sotto stress le aziende di smaltimento e i loro operatori, non abituati a gestire materiali tanto infettivi. “Molti dei 90 mila operatori impiegati nella raccolta dei rifiuti urbani lamentano l’assenza di dispositivi di protezione individuale, ormai dall’inizio dell’emergenza sanitaria” spiega Andrea Fluttero, presidente Unicircular (unione imprese economia circolare). “Pensavamo di poter usufruire di un canale prioritario visto il nostro lavoro no stop, invece ad oggi la situazione delle mascherine è ancora a macchia di leopardo e relegata in termini di ricerca e acquisto ai nostri uffici e alle disponibilità sul libero mercato”.

Per chi è positivo o in quarantena, infatti, smaltire i propri rifiuti è fin troppo semplice: nonostante l’impossibilità di mappare ad oggi tutti i portatori asintomatici, il contagiato o presunto tale non deve fare altro che buttare tutto in un unico sacchetto, da chiudere a sua volta dentro altre due buste, e poi gettarlo nel bidone condominiale. Come specifica lo stesso Istituto Superiore di Sanità (Iss) nelle sue linee di indirizzo ad interim per la gestione dei rifiuti, il coronavirus può rimanere attaccato a questi rifiuti “per un intervallo temporale che va da pochi minuti a un massimo di 9 giorni”. Solo a Roma gli operatori dei rifiuti contagiati sarebbero una ventina, due i morti in Italia, ma sono cifre sicuramente in difetto. I rifiuti urbani contaminati sono stati dalle stesse autorità sanitarie declassati al livello di spazzatura “indifferenziata”. In quanto sarebbe troppo complicato gestire il percorso che comprende separazione, raccolta e smaltimento.

Una scelta contestata da tante aziende di categorie, che criticano la flessibilità delle norme in un momento dove l’attenzione per la raccolta dei rifiuti può essere decisamente un argomento secondario. E di fatto, proprio da questa libertà di gestione, in tutta Italia, per strada, nei parcheggi, nei parchi e persino in mare, sono stati gettati guanti usa e getta e mascherine potenzialmente contaminati.

Per capirci: in media in Lombardia, nella regione più colpita dal virus, ogni cittadino produce più di 9 chili settimanali di rifiuti, sui quali oggi, molte volte senza guanti, mettono le mani molti operatori della nettezza urbana, esponendosi così alla minaccia del contagio.

“Un rischio inaudito per i lavoratori in forze, che si aggiunge a quello delle gestione dei rifiuti sanitari” racconta Alberto Zolezzi, parlamentare del M5S e componente della commissione Ambiente. “In questo momento si stima che tali rifiuti siano cresciuti del 300% e che per 2 mesi se ne potrebbero generare circa 80 mila tonnellate in più”.

Attualmente proprio i rifiuti ospedalieri etichettati Covid vengono stipati in container all’esterno delle strutture mediche, dove sostano per circa 4-5 giorni prima di essere caricati e trasportati all’inceneritore. Un procedimento che ‘in tempi di pace’ non avrebbe montato nessun timore, ma che adesso, visto il suddetto tempo di permanenza del virus sulla superficie, potrebbe esporre i dipendenti sanitari all’infezione. In ottemperanza anche delle quantità coinvolte: durante l’emergenza un paziente ricoverato produce in media circa 2,5 chilogrammi al giorno di rifiuti ospedalieri altamente nocivi, contro il solo chilo prodotto in tempi normali. Una quantità rilevante di materiale contaminante che, sia sul fronte ospedaliero sia su quello urbano, non può essere smaltita se non tramite le società che si spartiscono il mercato italiano. Il che porta alla luce un’altra criticità: cioè la mancanza di impianti di smaltimento ad hoc. “Alcune aree del nostro Paese stanno conferendo in discarica anche i flussi dei rifiuti urbani provenienti da nuclei domestici con soggetti malati o in quarantena”, dice Chicco Testa, presidente Fise Assoambiente. “In Italia servono impianti di gestione dei rifiuti con capacità e dimensioni adeguate alla domanda: servono impianti di recupero capaci non solo di sostenere il flusso della raccolta differenziata di rifiuti, ma anche di sopportare fasi di crisi”.

Il rischio collasso del sistema, quindi, è dietro l’angolo. Perché a pesare sulla mole straordinaria di rifiuti sono anche i blocchi ai confini, scattati con l’emergenza perchè le aziende estere pensano ai rifiuti di casa loro. La spazzatura ospedaliera e quella urbana contaminata che l’Italia non può più spedire all’estero, andrà quindi a congestionare i pochi impianti nazionali. Il rischio che si corre? Secondo il Conai, il consorzio nazionale imballaggi, la saturazione degli impianti e la sospensione del ritiro dei rifiuti urbani. Oltre al fatto che, visti gli effetti ambientali, non si potrà continuare a bruciali per sempre.

In realtà, però, un’alternativa alle classica gestione dei rifiuti a carico degli ospedali ci sarebbe. È tutta italiana e risiede in provincia di Rimini: la Newster System srl, azienda leader nel mondo nel settore della sterilizzazione dei rifiuti ospedalieri. Riconosciuta dalle autorità sanitaria internazionali, la Newster System è presente in 50 paesi – tranne l’Italia, dove nel pubblico non ci sono neanche gare di appalto che prevedono l’applicazione della sterilizzazione – e detiene il brevetto per un macchinario in grado di sterilizzare i rifiuti direttamente in ogni singolo ospedale. “Il rifiuto si asciuga, viene sminuzzato e reso sterile. Ogni ciclo di lavorazione produce un vantaggio su due livelli: il prodotto può essere stoccato in siti, evitando così il trasporto tramite camion e salvaguardando la salute degli operatori che devono maneggiare i rifiuti; e quello monetario, in quanto cambiando il codice del rifiuto da pericoloso a non pericoloso, anziché costare 1.700 euro a tonnellata ne verrebbe a costare solo 500”, conclude Andrea Bascucci, amministratore dell’azienda.

Covid, dopo tanti errori Firenze diventi una casa

Durante la celebrazione di un matrimonio fiorentino del 1976, il sacerdote (che era David Maria Turoldo) disse agli sposi (che erano il figlio del presidente del Tribunale dei Minori Giampaolo Meucci, amicissimo di don Milani, e la figlia di Raffaello Torricelli, allievo di Calamandrei e membro delle giunte di Giorgio La Pira): “Fate una casa, non un appartamento”. Cioè: non appartatevi, non pensate di salvarvi da soli. Costruite una casa: aperta, accogliente, condivisa. Ecco, se Firenze oggi vuole davvero voltare pagina e ricominciare, deve tornare a pensare se stessa come una casa comune, non come un appartamento da noleggiare. Non sarebbe una svolta da poco: si tratta di invertire un’involuzione che dura da oltre un secolo, e che negli ultimi tre decenni ha accelerato fino a diventare, negli anni del renzismo, una precipitosa corsa verso l’abisso.

Fino a due mesi fa, una simile prospettiva apparteneva solo a una piccola minoranza di associazioni, comitati, cittadini, consapevoli, intellettuali. I poteri (investitori stranieri, bottegai, albergatori, massoneria, Curia…) che hanno interesse a conservare lo status quo professavano il più spinto negazionismo: ogni documentata denuncia dello spopolamento della città storica veniva respinta come il vezzo di radical chic fuori dal mondo. Ora, invece, lo svuotamento immediato dei oltre 10.000 appartamenti votati agli affitti brevi, i quasi 50 milioni spariti dalle casse comunali a causa del crollo della tassa di soggiorno (ed è solo l’inizio) e la prospettiva di un lunghissimo blocco del turismo torrenziale pre-Covid hanno aperto improvvisamente gli occhi ai padroni di Firenze.

Preso dalla infelicissima metafora del ‘siamo in guerra’, Nardella (che ancora non ha peraltro aggiunto un euro comunale agli aiuti del governo) si è detto pronto ad imbracciare un “bazooka urbanistico”: poiché “non possiamo scommettere più sul solo turismo – ha detto –: voglio un pool di esperti anche internazionali che ci aiuti a ripensare un nuovo Rinascimento della città su altre basi”. È la stessa ‘sindrome Colao’ che ha colpito il presidente del Consiglio: la commissione di esperti come salvezza di una politica che non sa più cosa pensare della polis.

Invece, Nardella potrebbe ascoltare tutti coloro che da anni dicono la verità: cominciando da un prete di quella periferia che è tutto il contrario della cartolina della Firenze del lusso: Alessandro Santoro, guida e servitore della Comunità delle Piagge. Per ridare a Firenze un’anima ci vuole qualcuno che tenga insieme una visione diversa della città (e la Comunità delle Piagge ha, per esempio, appena ripubblicato Gli zingari e il Rinascimento di Antonio Tabucchi: manifesto di un’altra Firenze) e la pratica quotidiana di quell’anima. E in queste settimane in cui i poveri sono ancora più poveri, don Santoro è il coordinatore, l’ispiratore, il simbolo dell’impegno per chi non ce la fa: le famiglie che non hanno nulla, le donne del carcere di Sollicciano, i rom senza acqua né luce.

Per dimostrare che questa volontà di conversione non è solo lo strumentale frutto della necessità, e dunque che non evaporerà come lacrime di coccodrillo quando milioni di turisti torneranno ad essere vomitati da pullman e aerei, bisogna tenere insieme questione urbanistica e questione sociale. Cominciando subito, perché la Firenze del futuro prende forma nelle scelte fatte per fronteggiare l’emergenza: saremo dopo quel che scegliamo di essere ora.

E siccome tutti i problemi di Firenze ruotano intorno alla casa e all’abitare, il Comune dovrebbe usare le norme del Cura Italia che consentono di requisire immobili per far restare a casa chi casa non ha, e per ospitare i contagiati. Tutto lascia purtroppo immaginare altre ondate di epidemia: bisogna attrezzarsi subito, per esempio requisendo gli Student Hotel e una parte degli appartamenti di Airbnb, cominciando da quelli che appartengono a multinazionali travestite da singoli cittadini. Una misura estrema? Per dare un tetto agli sfrattati lo fece nel 1953 Giorgio La Pira: non esattamente un comunista.

E poi ancora lo spazio, quello pubblico stavolta. Rinunciare all’ampliamento dell’aeroporto, pura chimera dell’overtourism: salvando ambiente e qualità della vita dei residenti. Smettere di alienare immobili pubblici (e nemmeno impegnarli per far cassa, come Nardella annuncia ora, contraddittoriamente): e convincere i grandi ricchi privati (come i Lowenstein che hanno preso il complesso di San Giorgio alla Costa, quello da raggiungere con la teleferica che passerebbe da Boboli…) a destinare a residenza popolare, e non al turismo, gli spazi già pubblici di straordinario pregio che hanno comprato. Invece del bazooka, basterebbe fare una radicale revisione del regolamento urbanistico (il cui aggiornamento è stato invece appena rinviato sine die) che fissi regole, e orienti i servizi a favore delle fasce più deboli dei residenti, e un’altrettanto radicale inversione della narrazione di Firenze: non più città del lusso, ma della solidarietà. E poi un segno: subito la moschea in centro, per una nuova stagione di felice meticciato culturale.

C’è, insomma, un modo immediato e concreto per dimostrare che si è capito davvero, che si vuol cambiare davvero: smettere di pensare Firenze come un appartamento, e cominciare a costruirla come una casa. Subito: ora.

“Così il virus ha infettato la comunicazione politica”

Della crisi da covid-19 ci ricorderemo gli aperitivi sui Navigli di Beppe Sala e Nicola Zingaretti per far “ripartire Milano”, le lamentele del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per i parrucchieri chiusi (“Eh, Giovanni, non vado dal barbiere neanch’io”) fino alle intemerate social di Matteo Salvini vestito da medico per “riaprire tutto”, “chiudere tutto” e poi “riaprire un po’”. Per non parlare dei capi di governo europei che, in piena crisi sanitaria, sono stati sottoposti a una sovraesposizione a mezzo social senza precedenti per annunciare lockdown (Giuseppe Conte), accusare la Cina di aver prodotto il covid-19 in laboratorio (Donald Trump) e aggiornare il popolo sul proprio stato di salute (Boris Johnson). “La comunicazione è diventata la Ragion di Stato della politica” scrive Christian Salmon, scrittore francese e inventore dello storytelling applicato alla politica, nel suo ultimo libro uscito a febbraio per Laterza. Il titolo è tutto un programma: “Fake, come la politica ha divorato sè stessa”.

Signor Salmon, in Italia l’emergenza covid ha fatto emergere la figura del premier che si è dimostrato decisionista, ma con uno stile istituzionale. Come valuta la sua comunicazione?

Conte in questa crisi mi ricorda un po’ il signor Smith del film di Frank Capra (“Mr. Smith va a Washington”, il protagonista diventa senatore e batte i politicanti della capitale, ndr): è una figura che non fa parte del mondo politico, è poco conosciuta all’estero e ha trovato le parole giuste di fronte alla crisi. Le sue parole, la sua narrazione sono state percepite come empatiche e responsabili. Mi ha colpito molto una frase del 6 marzo, su Facebook agli italiani: ‘Teniamoci a distanza oggi per abbracciarci più calorosamente domani’. Non è molto, ma ha l’effetto di un balsamo: la formula arriva nelle case degli italiani. Sono parole semplici, compassionevoli, emotive, destinate a una popolazione traumatizzata.

Perché ha un consenso così alto?

Sia per la sua comunicazione rassicurante sia per l’effetto rally around the flag (stringersi intorno alla bandiera, ndr) a beneficio dei presidenti. In momenti di crisi, il popolo sostiene chi governa. Ma non è così dappertutto. Gli esempi di Trump negli Usa o di E Macron in Francia dimostrano che questo effetto non funziona ovunque.

Perché?

Nelle nostre società iper connesse, la bandiera conta meno della lingua e della narrazione. Soprattutto quella dei governanti che hanno sottovalutato il covid-19: il virus ha imposto la sua storia al mondo, mentre l’autorità dei sovrani è traballante. In pochi hanno ancora fiducia in loro.

È una questione di comunicazione.

Sì, l’epidemia non è solo una crisi sanitaria: ha colpito anche il linguaggio aumentando il discredito nei confronti della politica. L’inflazione del discorso pubblico ha lo stesso effetto dell’inflazione monetaria: sgretola la fiducia nel linguaggio. E così aumenta la sfiducia dell’opinione pubblica sulle questioni politiche, economiche e sanitarie.

In Italia, Salvini ha alzato i toni attaccando il governo ma sta calando nei consensi. Perché?

Da quando Salvini ha deciso di far cadere il governo con il M5S si è capito cos’era veramente: un politico assetato di potere. La sua comunicazione sui social, grazie alla “Bestia”, si riduce a dividere ogni giorno i suoi obiettivi tra amici e nemici. Da una parte ci sono gli italiani, dall’altra gli stranieri, i portatori di virus e i le Ong. Ma l’epidemia ha spazzato via questa retorica: i portatori del virus erano gli italiani del Nord che rischiavano di diffonderlo in tutto il Paese e in Europa. Il covid-19 ha fatto perdere ogni significato alla sua narrazione basata sull’odio.

Anche Matteo Renzi sta cercando di entrare nell’agenda politica ma senza successo: ha un misero 2% nei sondaggi. Il suo storytelling è in crisi?

Sì, ma le cause alla radice della sfiducia nei confronti di Renzi sono più antiche e profonde. Come mi disse una volta Pippo Civati, l’ex premier ha costruito il suo potere cavalcando la contrapposizione ‘amico/nemico’. Non solo: il backgorund culturale di Renzi è in linea con Berlusconi, anche lui ossessionato dalla narrazione e dal modo in cui l’Italia è stata raccontata. Semplifica tutto. Non crede nel dibattito parlamentare, né nel confronto. Ma Renzi ha incontrato un ostacolo.

Quale?

A lui si può applicare quello che ha detto alla Cnn Paul Begala, uno degli artefici della vittoria di Bill Clinton, parlando della gestione della pandemia da parte di Trump: ‘Il Titanic ha avuto un problema con un iceberg e non con la comunicazione’.

L’Unione Europea rischia di andare in frantumi per la crisi economica. Come vede il suo futuro?

La globalizzazione e la costruzione dell’Ue hanno trasferito la sovranità degli Stati: da una parte, il potere ce l’hanno dei volti anonimi (Bruxelles, Wall Street e le multinazionali), dall’altro gli Stati nazionali corrono a vuoto, ridotti ad obbedire. L’epidemia ha evidenziato il fallimento della Ue: nel momento del bisogno, l’Europa ha lasciato i popoli abbandonati a sé stessi.

La pandemia viene spesso paragonata alla guerra. Condivide questa metafora?

No, una crisi sanitaria non è una guerra, ma la retorica guerrafondaia serve a mascherare l’impreparazione dei governi: lo smantellamento della sanità pubblica, l’esaurimento del personale e la mancanza di attrezzature. I governi ‘riarmano’ i medici chiamandoli eroi e sono disposti a dare loro una medaglia al valore in caso di morte. Ma è solo ipocrisia.

Insomma, potremmo dire che il coronavirus ha “infettato” anche il linguaggio.

Proprio così, ha portato all’uso di metafore sbagliate, negazioni che non hanno ingannato nessuno e una retorica caduta nel vuoto dei Parlamenti nazionali. Non c’è solo il linguaggio della catastrofe ma anche la catastrofe del linguaggio.

Il virus è propaganda: ecco la task force cinese anti-Usa

Il virus è letale, il virus è cinese, il virus è americano. Anche nei mesi più neri dell’era Covid-19 a Pechino, a Mosca, a Washington non hanno mai dimenticato una cosa: il virus è propaganda. Dei nove ufficiali che la Cina ha designato per la task force contro l’emergenza della pandemia svettano non solo esperti del settore sanitario ed economico: tra i potenti membri dell’apparato scelti dal Politburo comunista c’è anche il capo del dipartimento propaganda, il ministro Huang Kunming.

Se la fase uno per il Dragone è stata arginare l’epidemia, la seconda è iniziata all’insegna della narrazione: il Paese untore è stato anche quello che per primo ha domato il virus e ha aiutato il resto del mondo a farlo, inviando esperti ed attrezzature all’estero, sempre seguiti dalle telecamere di Pechino. Sanificato il territorio della Repubblica popolare dall’infezione, la Cina procede a ripulire anche l’immagine dello Stato che ne ha fatto da incubatrice, ricorrendo ai sui nuovi alfieri della propaganda: diplomatici, ambasciatori, membri del partito, non più taciturni ed invisibili.

In gergo gli esperti hanno cominciato a chiamarli “guerrieri lupo”, un battesimo che trae origine da un film di produzione cinese dal titolo Wolf Warriors, dove, una scena di combattimento dopo l’altra, jamesbondeschi soldati cinesi vincono contro un commando americano. I politici “guerrieri lupo” di Pechino dall’inizio del contagio hanno abbandonato il loro tradizionale silenzio per imprecare violentemente contro chi accusa il loro Paese. La guerra delle parole è cominciata e i soldati non sono più anonimi troll: la battaglia si è trasferita sugli account ufficiali delle autorità. “Non saremo un agnello sacrificale davanti alle vostre offese”. La sotterranea guerra delle narrazioni tra Stati sul Covid-19 è emersa dirompente in superficie quando, il 24 febbraio scorso, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Lijian Zhao, ha tuonato contro il Wall Street Journal e il titolo di un suo editoriale: “La Cina è il vero malato dell’Asia”. Se il quotidiano americano “proseguirà per questa strada, ci saranno conseguenze” ha minacciato Zhao. Hua Chunying, altra portavoce dello stesso dipartimento, ha risposto alle accuse di propaganda mosse a Pechino in arrivo da Washington a fine di marzo. La controparte femminile di Zhao ha ribattuto direttamente a Mike Pompeo: in Cina non c’è tempo per fare disinformazione, solo per lottare contro il virus, le autorità statunitensi dovrebbero fare lo stesso sul suolo a stelle e strisce dove dilaga la malattia.

In Africa, Europa, America è dove la nuova generazione di politici e diplomatici cinesi, – autori magistrali di commenti che subito diventano virali su Facebook e Twitter -, scaglia attacchi verbalmente violenti appena la Cina viene tacciata di cattiva politica, errori o censura. In Thailandia, Sri Lanka, fino in Francia: i diplomatici cinesi a Parigi sono stati richiamati dopo aver asserito che il governo Macron lasciava morire gli anziani nelle case di cura. Dopo aver riferito di “attacchi razziali”, l’ambasciata di Pechino è stata rimproverata anche dal governo in Zimbabwe. Con sciami di follower e a colpi di bot, l’ambasciata cinese di Berlino si è scagliata invece contro il giornale tedesco Bild da cui ha preteso le scuse dopo una copertina ritenuta offensiva dalle autorità patrie.

“Alcuni social media condividono notizie stupefacenti: il Coronavirus è un’arma biologica degli Usa”. “Il virus è stato scoperto in Cina, ma non è detto che sia nato qui”. Non ci sono prove scientifiche che la Cina sia “il paziente zero”. Nel gioco delle colpe, a fare eco e cassa di risonanza alle dichiarazioni ripetute sui social dai diplomatici, ci sono serbatoi di microfoni e telecamere del mastodonte mediatico del governo di Pechino, i cui canali da mesi mostrano immagini di eroici sacrifici dei camici bianchi, di medici dell’esercito in azione in ospedali fortezza, costruiti a tempo di record. Alla Cgtv, China Global Television Network, perfino una battuta dell’ignaro comico americano Trevor Noah, tagliata e cucinata nel modo giusto, è diventata un plauso per le autorità cinesi.

La propaganda cinese sta evolvendo sull’impronta di quella russa ed è al test della sua effettiva capacità di narrazione proprio durante la pandemia. Ma se il virus è nuovo, la strategia per narrarlo non lo è. Intervistato dal Cpj, Comitato protezione giornalisti, che chiedeva di reporter arrestati, ammutoliti o scomparsi nella Repubblica popolare dall’inizio dell’emergenza, Guo Liang, Accademia cinese delle Scienze sociali, ha spiegato: “Mao Zedong ha detto che per avere il potere c’è bisogno di due cose: il fucile e la penna. Il partito comunista ha il fucile, internet oggi è la penna”.

Polonia, “Stop all’aborto” con la scusa del covid-19

Neanche in piena emergenza sanitaria i polacchi possono abbassare la guardia contro gli attacchi dei fondamentalisti cattolici che minano la democrazia, questa volta tentando di bandire l’insegnamento dell’educazione sessuale e di spazzare via i già magri diritti delle donne all’aborto. Il 15 aprile, il partito conservatore nazionalista al potere, Diritto e Giustizia (PiS), ha presentato alla Dieta (la camera bassa del Parlamento polacco) due disegni di legge ispirati a due petizioni popolari, “Stop alla pedofilia” e “Stop all’aborto”. Un annuncio preoccupante che ha colto tutti di sorpresa: il governo avrebbe dunque approfittato delle misure di contenimento imposte dall’epidemia di Covid-19, che vietano tutti gli assembramenti di più di due persone in Polonia, per realizzare il vecchio progetto della frangia più integralista della Chiesa, fallito qualche anno fa? Solo la mobilitazione senza precedenti delle donne del famoso “Lunedì nero”, il 3 ottobre 2016, scese in strada su modello delle donne islandesi nel 1975, aveva potuto far arretrare il governo sul progetto di divieto totale d’aborto. Questa volta le attiviste polacche hanno brandito i loro slogan alle finestre e ai balconi: “Fate la guerra al virus, non alle donne”, “Portiamo la mascherina ma non stiamo in silenzio”. Sono anche andate a protestare in strada nel centro di Varsavia rispettando le distanze di sicurezza, suonando il clacson chiuse dentro le loro auto, inondando i social con i loro video.

La proposta di legge prevedeva di sopprimere l’accesso legale all’aborto in caso di “alta probabilità di malformazione grave e irreversibile del feto o per malattia incurabile che lo metta in pericolo di vita”. Un diritto che è alla base della maggior parte degli aborti praticati legalmente in Polonia, il 98% nel 2018, secondo il media di sinistra OKO.Press. Se la legge fosse stata adottata, le donne in Polonia avrebbero potuto continuare ad abortire solo per due motivi: in caso di stupro o incesto o se la vita della madre è a rischio. Il progetto di legge avrebbe inoltre introdotto il divieto di praticare gli esami prenatali finalizzati a individuare eventuali patologie del feto. Per trasformare la petizione in legge era necessario il pieno sostegno del PiS, che governa la Polonia dal 2015 e ha vinto di nuovo lo scorso ottobre. Però il partito del discreto ma potente Jaroslaw Kaczynski, semplice deputato ma di fatto leader del paese, non è all’origine del testo e non aveva interesse a farlo adottare. Il testo è stato promosso dall’organizzazione ultraconservatrice Ordo Iuris e sostenuto dalla deputata Kaja Godek, candidata dell’alleanza di estrema destra Konfederacja alle elezioni europee del 2019, lei stessa madre di un bambino con la sindrome di Down.

Diviso tra la Chiesa, che preme a favore del testo, e l’opinione pubblica, essenzialmente ostile a rompere il “compromesso” del 1993, che è già uno dei testi più restrittivi in materia di aborto dell’Unione Europea, il PiS ha preferito temporeggiare. Se per il momento il progetto è stato dunque riposto in un cassetto del Parlamento, di cui il PiS ha del resto il controllo, il progetto un giorno verrà ritirato fuori, in un modo o nell’altro.

In una risoluzione adottata il 17 aprile, il Parlamento Ue ha condannato il progetto di legge e in particolare il tentativo “di criminalizzare ulteriormente l’aborto, di stigmatizzare le persone portatrici del virus Hiv e di ostacolare l’accesso dei giovani all’educazione sessuale in Polonia”. Un altro disegno di legge chiamato impropriamente “Stop alla pedofilia” proponeva infatti di vietare l’insegnamento dell’educazione sessuale e di condannare con il carcere, fino a 5 anni, chiunque risulti colpevole di “diffusione pubblica e approvazione delle relazioni sessuali di un minore” e persino, nel caso di un insegnante o di un medico, di “qualsiasi altra attività sessuale”.

Ora che la minaccia è stata sventata, almeno per il momento, gli oppositori di Diritti e Giustizia devono combattere su un altro fronte: il PiS intende mantenere le elezioni presidenziali previste per il 10 e 24 maggio, e non intende cedere neanche di fronte all’epidemia di Covid-19. La Polonia ha registrato finora circa 10 mila malati di Covid-19 e 400 morti. Il picco dell’epidemia non è stato ancora raggiunto. L’Unione europea, l’Ocse e persino la Commissione elettorale nazionale della Polonia hanno criticato a gradi diversi la decisione del PiS, osservando che la situazione attuale, legata all’emergenza sanitaria, non avrebbe permesso la tenuta di uno scrutinio democratico ed equo. Tutti i partiti dell’opposizione stanno tentando in ogni modo di mettere i bastoni tra le ruote del PiS, che però riesce sempre a tirarsi d’impaccio ricorrendo a decreti e emendamenti dell’ultimo minuto.

Il partito al potere ha interesse che il voto non venga rinviato: le conseguenze sanitarie ed economiche dell’epidemia sono destinate a crescere e è evidente che giocheranno contro il PiS. L’opposizione respinge anche l’ultima proposta del PiS di organizzare il voto per corrispondenza: troppi ostacoli legali vi si oppongono, viene spiegato. Inoltre il candidato del PiS, che non è altri che l’attuale presidente Andrej Duda, in prima linea nella lotta contro l’epidemia, può contare oggi su una forte esposizione mediatica, mentre i suoi avversari, tenuti a rispettare le misure di contenimento, si ritrovano nella totale impossibilità di fare campagna. La sua principale avversaria, Malgorzata Kidawa-Blonska, candidata per Piattaforma Civica (KO), ha proposto di boicottare le elezioni che sarebbero “un atto quasi criminale”. Il partito, approfittando di un’alleanza congiunturale con un partner del PiS, crede ancora di poter far dichiarare lo stato di emergenza che costringerebbe il governo a posticipare le elezioni di un anno. La vicenda non è ancora chiusa. Il dissidente Adam Michnik ha esortato l’opposizione a non rendersi complice del progetto del potere che mira a “screditarla e a renderla corresponsabile di elezioni fraudolente”. In una lettera aperta pubblicata il 20 aprile sulla Gazeta Wyborcza, giornale che lui stesso ha fondato, il giornalista ha dichiarato: “Lo spettro di due pandemie pesa sulla Polonia. Uno avvelena i nostri polmoni, l’altro avvelena i nostri cuori e le nostre menti. Queste due forze vogliono trasformare la repubblica polacca in una dittatura con un partito unico, un’unica autorità e un unico capo, in cui l’individuo viene ridotto a proprietà dello Stato”.

Kaczynski concepisce la questione in un altro modo. “La nostra politica mira a cambiare l’ordine post-comunista in Polonia e quanti continuano a trarre vantaggi da questo sistema lottano per mantenere la loro influenza”, ha detto Kaczynski al settimanale di estrema destra Gazeta Polska in occasione del decimo anniversario dell’incidente di Smolensk in cui morì anche suo fratello gemello, Lech, allora presidente della Repubblica. Il PiS, benché lo stesso Lech Kaczynsk vi avesse partecipato, considera gli Accordi della Tavola rotonda del 1989 tra l’opposizione del movimento Solidarnosc e il potere comunista come un tradimento delle élite, di cui Adam Michnik sarebbe la reincarnazione. “L’opposizione è incapace di accettare le conseguenze dei risultati delle urne”, ha affermato il leader della destra. Nell’attesa dell’eventuale scrutinio, la situazione senza precedenti dovuta all’epidemia indebolisce ancora di più la democrazia polacca. “Con tutti i decreti speciali che sono passati, non esistono più i meccanismi democratici che possano garantire lo stato di diritto in Polonia”, ha affermato Szymon Osowski, presidente della Ong Watchdog Polska, alla Gazeta Wyborcza. “Se due anni fa mi avessero detto che si sarebbe installato un regime di questo tipo, avrei risposto che era impossibile. O che mi parlavano di una dittatura”.

(traduzione Luana De Micco)