Tutti in posa per Klimt e Raffaello: reinterpretare i quadri è un’arte

Diceva Anton Cechov dell’amata Madre Russia: “La nostra famigerata psicologia, il nostro dostoevskismo sono figli della pigrizia. Non abbiamo voglia di lavorare, e inventiamo panzane”. Ah, i russi, un popolo con il teatro e la fantasia nel sangue. Oltre alla vodka.

L’ultima che si sono inventati – usando per palcoscenico le mura di casa e per l’allestimento le cianfrusaglie di casa – è la messa in scena di quadri e sculture famosi: buffi tableau vivant, parodie sciocche e ridicole dell’arte degli Antichi Maestri, un fenomeno diventato subito virale. Secondo il New York Times questi “russi annoiati” dalla quarantena, e perciò creativi, hanno già raccolto sulla propria pagina Facebook oltre 540 mila follower nel mondo: il progetto, creato da un manager moscovita, si chiama proprio Izoizolyacia, crasi tra le parole russe “arti visive” e “isolamento”.

Da Hopper a Raffaello, da Kandinskij a Gauguin, i novelli interpreti delle opere hanno ribaltato l’appartamento pur di trovare il costume di scena adatto: tendaggi scarlatti sfoggiati a mo’ di corpetti; mutande azzurre in testa in omaggio alla Ragazza con l’orecchino di perla (chi non aveva le perle ha indossato le palline di Natale); coperchi di padelle – chiaramente dell’Ikea – usati come volante dell’auto; fusciacche di domopack alluminio per impreziosire soprabiti; mascherine Ffp2 al posto di quelle veneziane; panciere sotto al tutù; pesi agguantati come mazzolin di fiori; scatole di McDonald’s a far da portagioie; pistole ad acqua per la rivoluzione, d’altronde è La Libertà (dalla plastica) che guida il popolo oggi.

Anche alcuni musei – come il Getty di Los Angeles e il Rijksmuseum di Amsterdam – stanno sollecitando i propri follower a mandare foto di opere rifatte in casa, e i gruppi social si moltiplicano, ad esempio l’account Instagram “Tussen Kunst & Quarantaine” con quasi 250 mila seguaci. Certo, la fattura degli scatti non è propriamente artistica, eppure ricorda quell’arte burlona, a metà tra la festa in maschera e il gioco infantile, volgarmente chiamata “teatro”.

Caro amico, non ti scrivo più: le lettere uccise da un emoji

“Mio caro Brown, scrivere una lettera è per me la cosa più difficile del mondo. Lo stomaco continua a farmi male, e sto ancora peggio se apro un libro – e tuttavia sto meglio di quando ero in quarantena”. Inizia così la lettera che John Keats scrisse nel novembre del 1820 da Roma all’amico Charles Brown. La sua ultima, perché il poeta inglese morì pochi mesi dopo stroncato dalla tubercolosi.

La corrispondenza epistolare è un tessuto letterario che ci rende tutti scrittori. A metà strada tra il diario e certi romanzi dell’Ottocento pubblicati a puntate, è un genere che prevede un solo lettore, che ci legge nel tempo. Dalla prima cartolina spedita da Rimini con “saluti e baci” all’ultima lettera mandata alla compagna di classe della quale eravamo innamorati, abbiamo sempre utilizzato la scrittura epistolare per esprimere emozioni. Come Moro che ha narrato la sua prigionia nell’appartamento di via Montalcini, Pertini che ha respinto la grazia implorata dalla madre e Pavese che ha scritto la sua sconfitta contro il male di vivere all’amata Pierina. In cosa si sono trasformate le lettere? Nelle email? Nei messaggi pieni di abbreviazioni o nei lunghi status su Facebook?

Partiti politici sono nati attraverso lettere e imperi sono caduti per colpa di un messaggio mal interpretato. Napoleone, nel marzo del 1816 scrisse a Emmanuel de Las Cases: “Sono le due di notte, ho dormito abbastanza e passerò il resto della notte a dibattere con voi”. Esiliato a Sant’Elena, ragionava sulle sorti della Francia con il suo destinatario, mentre noi, altrettanto insonni e chiusi in casa, messaggiamo per combattere l’ansia. L’utilizzo di Whatsapp nell’era Covid-19 si è assestato su una media di 55 minuti al giorno e l’app Houseparty – che poco c’entra con la scrittura, ma racconta il nostro bisogno di comunicare – ha avuto una crescita dell’8000% da marzo a oggi.

Che fine hanno fatto allora le lettere nella loro forma cartacea e che conseguenze questo ha avuto su di noi? Di sicuro sono cambiate la grammatica e la misura delle parole. È cambiata la nostra capacità di interrogarci su sentimenti ed eventi, travolti dalla bulimia comunicativa. È cambiato il senso dell’attesa, che ci permetteva di distillare una comunicazione, alla lettera di compiere il suo viaggio, al destinatario di riflettere e replicare a tono, e alla risposta di tornare a noi con i sentimenti e le emozioni del nostro interlocutore. Non parlo della lunghezza di ciò che scriviamo, quanto del peso – sempre più leggero – dei nostri pensieri e del valore che gli attribuiamo. Scriviamo e inviamo con un click, e di conseguenza non siamo più abituati a elaborare quello che pensiamo, un po’ come facciamo agli all-you-can-eat, dove ordiniamo il cibo senza stare a guardare troppo alla qualità. Tanto il correttore automatico aggiusta i nostri sbagli e in caso di errore possiamo sempre dare la colpa alla fretta oppure far finta di niente. Minimizziamo il danno, cancellando l’unico scopo per cui la scrittura è stata inventata: rimanere il più a lungo possibile. A scuola ci hanno fatto una testa così con verba volant, sed scripta manent, eppure mandare a memoria la più citata delle locuzioni latine non è stato sufficiente. Il nostro modo di scrivere è diventato volatile e il nostro linguaggio impermanente, come i media che lo veicolano. La nostra soglia di attenzione non si spinge oltre i sessanta secondi e il nostro vocabolario si è ristretto a 200 parole. Abbiamo perso quasi del tutto la capacità di analizzare un testo al di là della sua dimensione funzionale. Filtriamo qualsiasi cosa sia scritta sotto le parole in grassetto del titolo, come se stessimo presagendo un’immane tragedia e non volessimo sprecare quello che ci resta da vivere in cose inutili. E allora cosa rimane delle lettere? Pacchetti di buste avvolte in un nastrino e vendute a dieci centesimi l’una ai mercatini delle pulci.

Il nostro modo di pensare si è arrotolato attorno al paradigma della brevità. Le scene dei film sono brevi. I dialoghi sono brevi. Le inquadrature sono brevi. E i testi delle canzoni? Se sono più strutturati di strofa-ritornello-strofa significa che sei Niccolò Fabi o Carmen Consoli. Ci siamo illusi che la velocità ci avrebbe liberati dalla prolissità per entrare nel magico mondo della comunicazione digitale. Invece ci ha incatenato al “non ho tempo” o, per usare le parole più raffinate di Blaise Pascal: “Se ho scritto questa lettera così lunga, è stato perché non ho avuto tempo per farla più breve”.

“Con Fidel, Faber e Maradona: il mio rock è fuori dai canoni”

I dubbi e le domande gli assillano sempre la mente, e al contrario di quanto cantava ironicamente nel 1980 (“Io di risposte non ne ho. Io faccio solo rock’n’ roll”), Edoardo Bennato è pieno di risposte, non di certezze, ma di esperienze on the road, di parametri maturati sul campo, sulla pelle; di sintesi e incontri, e i suoi occhi hanno convogliato nella mente lezioni di vita “già da quando a 12 anni sono partito con i miei due fratelli per il Sudamerica”.

Da allora ha girato il mondo, conosciuto personaggi e protagonisti di inni e ideologie come Salvador Allende e Fidel Castro; suonato e bevuto con Fabrizo De André, condiviso emozioni con Maradona, sfatato il tabù dei concerti negli stadi e come sostengono alcuni suoi colleghi (da Vasco a Jovanotti e Alex Britti), ha incarnato per primo il ruolo della rockstar.

Venerdì sarà tra i protagonisti del concerto del Primo Maggio e ha appena inciso un brano (bellissimo) insieme a suo fratello Eugenio, La realtà non può essere questa; per loro la “Rete che diventa una prigione. La realtà è tutta l’illusione”, cantano.

Drastico.

Noi giochiamo con le parole, e dobbiamo sollecitare la poesia, non siamo ai trattati di sociologia; (ci pensa) la verità è che siamo anche avvantaggiati: partire a dodici anni per il Sudamerica è stata una grande fortuna.

Nata, come?

Suonavamo nei circoli cittadini, e lì ci vide un celebre armatore che ci regalò un viaggio in America: a 12 anni mi si è spalancata la realtà, aperti gli orizzonti; mi ritrovai pure ospite alla televisione venezuelana; vidi il mondo con i miei occhi, un mondo non filtrato dai libri, dai giornali o dalla televisione.

E…

È cambiata ogni prospettiva; grazie alla musica sono stato in Cile nel 1971, 1972 e 1973, ho rappresentato l’Italia al Festival di Vina del Mar, ho conosciuto Salvador Allende, una persona degna di assoluto rispetto, e lì ho visto la situazione politica peggiorare.

Com’era Allende?

Uno serio, attento, preparato, dotato di umanità e schiacciato nelle beghe politiche internazionali di allora. Mi colpì soprattutto la sua umiltà.

Allende ha segnato generazioni.

Come pure Fidel Castro, conosciuto grazie a un viaggio a Cuba con Gianni Minà: ho suonato per lui, poi sono tornato un’altra decina di volte.

Ha viaggiato molto.

È fondamentale, mi fa sentire e mi rende libero di vedere e capire, perché da sempre rifuggo le lotte tra Guelfi e Ghibellini, voglio restare al di sopra delle parti e ironizzare su tutto, compreso me stesso: Cantautore è un brano dedicato a me, al mio ruolo presunto, quello che gli altri mi hanno affibbiato.

Qual è il suo?

Di provocare, di creare poesie e buone vibrazioni; anche in questo momento surreale.

Prima lezione imparata nel viaggio a 12 anni.

Siamo partiti da Napoli in nave, poi tappa a Genova, Nizza, Barcellona, Stretto di Gibilterra, Canarie e infine l’America; al ritorno la stiva era piena di emigranti ammassati, persone di Guadalupa o Martinica che sbarcavano a Nizza per fermarsi in Francia o raggiungere l’Inghilterra; l’immagine di quella stiva mi torna utile anche oggi.

Jovanotti, Vasco, Britti, Finardi, Pelù e altri la considerano un maestro.

Sono contento, ma preferisco sempre il ruolo di alunno.

Chi è stato il suo maestro?

Woody Guthrie, uno che da giovane lavorava e cantava canzoni di protesta nei campi di cotone del sud degli Stati Uniti; però rifuggo dalla retorica, dal buonismo e dai luoghi comuni e nell’ultimo album, Pronti a salpare, parlo della necessità di noi privilegiati di capire che il benessere futuro non potrà prescindere dalla soluzione dei problemi del Terzo mondo.

Qui l’accuseranno di buonismo.

No, ribalto il discorso: è utilitarismo. E non mi faccio imbrigliare da certi stereotipi.

Chi e quante volte hanno provato a imbrigliarla?

Da subito, già dalla prima ora sono stato costretto a mostrarmi un pazzaglione: dopo aver pubblicato Non farti cadere le braccia, il direttore della Ricordi mi disse: “Hai una voce sgraziata e sgradevole, per questo i responsabili della Rai hanno deciso di non trasmettere i tuoi brani, quindi abbi pazienza e togliti dai piedi. Continua con l’università”.

E lei?

Giocai l’ultima carta: in Inghilterra mi ero costruito un tamburello a pedale, e un marchingegno per suonare l’armonica insieme alla chitarra in stile Bob Dylan; così scrissi delle canzoni punk, Salviamo il salvabile, Ma che bella città o Uno buono e mi misi a cantare in mezzo alla strada, davanti alla Rai: arrivarono i giornalisti e mi mandarono subito al festival di Civitanova Marche; (ride) Uno buono era uno sfottò dedicato all’allora presidente Leone, poi c’era un altro pezzo per il Papa (pausa).

A cosa pensa?

Che allora la censura era meno forte di oggi; oggi non potrei affrontare brani del genere.

Lei a un talent?

Mi avrebbero cacciato subito; comunque hanno sempre cercato di piegare il rock ai desideri dei potenti, ma il rock è libero anche rispetto alla musica leggera.

Quanto le è costata questa correttezza?

Chi vuol criticare lo fa a prescindere; nel 1973 ho partecipato ad alcune manifestazioni di Lotta Continua, o di Avanguardia, eppure mi arrivavano comunque le accuse da sinistra.

In quegli anni le proteste toccavano il palco.

Nel 1978 esistevano gli autoriduttori: queste persone si presentavano ai concerti, e se non gli permettevi di entrare gratis, spaccavano tutto; in quel periodo dovevamo difenderci e fortunatamente ero coperto dagli amici del cortile.

Cioè?

Avevo annusato l’aria e non mi circondavo da addetti ai lavori, da manager o discografici; avevo gli amici del cortile di Napoli, quasi tutti figli di operai e impiegati dell’Italsider di Bagnoli: un cortile cosmopolita, con famiglie di Piombino, delle Marche, del Veneto, e in quel contesto non accumulavamo frustrazioni tra Nord e Sud, ma vivevamo in una situazione smaliziata, senza atteggiamenti campanilistici.

Insomma…

Andavo in giro con loro: il ragazzo del piano di sotto, Aldo Foglia, da manager, mio fratello Eugenio come consigliere, l’altro fratello Giorgio era il tecnico del suono, Franco De Lucia della scala G il road manager.

Team su misura.

Imponevamo il costo dei biglietti a 1.000 lire quando c’era chi ne pretendeva 10.000; tutto questo piaceva molto a Fabrizio De André: l’ho sempre amato e stimato, anche lui non andava d’accordo con il mondo della musica e in Sardegna siamo stati parecchi giorni insieme.

L’immagine che ha dentro di De André…

Fabrizio lo ricordo seduto con nella mano sinistra un bicchiere di whisky e nella destra la sigaretta; poi ogni tanto posava il whisky e si accendeva un’altra sigaretta. E andava avanti così; era fortissimo, e si divertiva a stare con la nostra banda.

Giocavate a pallone?

(Scoppia a ridere) In questi giorni mi sto esercitando sul balcone con un pallone un po’ sgonfio: così tengo allenate le gambe, sono pur sempre un frontman.

19 luglio 1980: lei ha riempito San Siro.

In quell’anno abbiamo suonato in 15 stadi, un giorno sì e uno no…

Ha aperto un fronte.

In effetti il primo concerto è del 1978 al San Paolo di Napoli, un live arrivato dopo uno stop di parecchi anni, a causa degli incidenti del 1971 al Vigorelli di Milano.

Comunque lei ha rilanciato i live…

Ed ero preoccupato solo dei problemi tecnici, non mi convinceva la potenza del suono, tanto da dover minacciare i miei amici del cortile: o migliorate, o niente San Siro; alla fine chiamarono David Zard (celeberrimo organizzatore) che ci prestò l’attrezzatura adatta.

Pappalardo la ricorda alla fine dei Sessanta negli studi della “Numero Uno” di Battisti e Mogol.

Lucio spesso mi riportava a casa con il suo Duetto (spider Alfa Romeo) color rosso, e quando sconsolato gli manifestavo le mie preoccupazioni, spesso mi ripeteva: “Aoh, nun te preoccupa’, arriverà il tuo momento”. E a differenza della vulgata comune, era simpatico, con lui si stava bene.

Cos’è per lei Napoli?

Un accumulatore costante di energia e creatività; mi sento cittadino del mondo, ma soprattutto napoletano.

È amico di Maradona.

Sempre conosciuto grazie a Gianni (Minà) che è un giornalista integro moralmente, affidabile.

E…

Diego è animalesco, istintivo, capisce subito se il suo interlocutore è serio, e non si fida quasi di nessuno; poi è un uomo vulnerabile ma ha sempre mantenuto un sentimento forte nei confronti dei più deboli, dei diseredati: una volta al ristorante, prima di andare via, pretese di salutare i lavoratori della cucina, e a tutti loro consegnò delle banconote in mano. Una cifra assurda.

Lei e Diego parlavate la stessa lingua…

Sì, aveva solo il problema della dipendenza dalla droga, che per fortuna non mi ha mai toccato.

Mai?

Non fumo neanche le sigarette e non per moralismo.

Neanche uno spinello?

Purtroppo no, e offro pubblica ammenda: a 15 anni ho provato una sigaretta, non mi piaceva e un tizio mi spiegò: “Non ti preoccupare, ti ci abitui”; pensai: “Sto in un mondo di scemi, mi devo abituare a qualcosa di sgradevole?”.

Negli anni Settanta le droghe erano comuni.

Io giocavo a pallone; sono i luoghi comuni a pretendere e prescrivere l’uso di additivi per chi suona rock.

I suoi additivi?

Sono il calcio, lo sport e la femminilità. Sulla femminilità sono vulnerabile.

Cosa la seduce in una donna?

Il cervello, cosa trasmettono gli occhi.

E qui è stato diplomatico. Oltre?

Vita stretta e fianchi larghi.

Torniamo a Maradona.

Diego a Napoli era talmente osannato da non poter uscire ed è normale diventare schiavi di certe realtà; la stessa situazione è capitata a Elvis Presley, prigioniero del suo mito.

Le sue canzoni e quelle di Battisti sono da generazione protagoniste dei falò…

Ci sono anche i miei amici De Gregori, Zucchero, Britti e Jovanotti; (ci pensa) ecco, Lorenzo non è un moralista però neanche lui fuma, anzi si sveglia prima di me, e in quanto a sregolatezza è fuori dagli schemi soliti del rock.

Chi è dentro?

Be’, Vasco; una volta eravamo a Rimini, a un certo punto mi domanda: “Come fai a giocare a pallone, a correre tanto, a mantenere questo ritmo”. E io: “Guagliò, è così”, ma non sapevo cosa aggiungere; dopo poco scendiamo dalla macchina e vedo una bottiglia di Jack Daniels nella portiera.

Perfetto.

Ma a lui cosa vuoi dire? È talmente simpatico.

Alcol?

Qualcosa con gli amici; ma preferisco bere la mia centrifuga di melograno (e descrive la ricetta): almeno tre al giorno.

Alla faccia della colite.

Sono drogato di agrumi.

Si sente un sopravvissuto?

Tutti lo siamo; ma oggi avverto solo responsabilità verso mia figlia, mentre quando sono stato cacciato dalla Ricordi ero paradossalmente più leggero nell’affrontare la battaglia.

In questi anni, umanamente chi l’ha colpita?

Bob Dylan: l’ho incontrato più volte e lui è veramente il rock controcorrente e contro se stesso.

Perché?

Quando vai contro tutti, alla fine non sostieni più i tuoi interessi, hai chiunque contro e lui è da sempre oggetto di critiche; per questo ha maturato un atteggiamento diffidente sia nei confronti delle masse che verso gli addetti ai lavori.

Dylan dal vivo è impegnativo…

Adesso sì; per lui è come una forma di vendetta verso le persone: non concede nulla e quando sale sul palco lo fa con l’atteggiamento del “oggi decido io, non voi” (sospira). Lui è un punto di riferimento.

Chi altro lo è?

Potrei ascoltare John Lee Hooker 24 ore al giorno e senza stancarmi.

E di italiani?

A parte gli amici che ho citato? Nel mio cuore c’è Luigi Tenco: ha scritto capolavori come Lontano lontano e Io sono uno. Dovrebbe essere un riferimento per tutti noi, stesso giudizio lo do rispetto a Fabrizio De André.

De André spesso viene accusato di plagio.

Ognuno ha i suoi capi d’accusa da parte dei giornalisti.

Lei di cosa viene tacciato?

Di essere un qualunquista; di essere uno che non fa mai capire da che parte sta.

È scaramantico?

Non so se è scaramanzia, ma parecchi anni fa ho fatto un voto alla Madonna dell’Arco, un santuario napoletano: ci vado in pellegrinaggio ogni anno; ah, poi giro con un cornetto rosso e in tasca ho due monetine da dieci lire, come cantavo in Campi Flegrei “venti lire soltanto”; (ci pensa ancora) ne ho un’altra: salgo sul palco solo dal lato sinistro.

A Sanremo non è mai andato.

Il Festival è il circo rutilante della musica leggera, un incontro di impresari e manager dove la musica viene commercializzata; l’unica volta che ho calcato le assi di quel teatro è stato da ospite, e non è un caso se ho cantato Ciao amore ciao di Tenco.

Chi è lei?

Un pazzo squilibrato.

(Canta Bennato in “Sono solo canzonette”: “E nei sogni di bambino la chitarra era una spada. E chi non ci credeva era un pirata; e la voglia di cantare, e la voglia di volare forse mi è venuta proprio allora; forse è stata una pazzia però è l’unica maniera di dire sempre quello che mi va”).

 

Nicola Caracciolo, la tenacia di vincere le battaglie perse

Forse c’è anche qualcosa di simbolico in questo sapere della morte di Nicola Caracciolo nella mattina del 25 aprile, il giorno così disputato (da chi vorrebbe ripudiarlo) che ricorda e celebra la Liberazione italiana. Nicola, quando era un giovane uomo, e faceva il giornalista in America, era considerato liberal, kennediano e, molto presto, si è schierato per i diritti civili e per le marce rischiose e tenaci di Martin Luther King.

Rischio e tenacia sono due parole che vanno bene per parlare di Nicola, specialmente quando, inviato in Algeria, ha rischiato la fucilazione (fino a essere messo al muro dal generale Massu) per avere raccontato sulla stampa internazionale, i metodi di rastrellamento e di tortura di quella Francia che veniva da Vichy e che il generale De Gaulle ha poi presto strappato dal potere.

Nicola Caracciolo, figlio del principe Filippo Caracciolo di Castagneto, duca di Melito, fratello di Marella Agnelli e di Carlo, poi editore con Scalfari de L’Espresso, (fondato da Adriano Olivetti) ha scelto subito due cose: “le cause perse” (come diceva il fratello Carlo scherzando) e il giornalismo. Nonostante lo scherzo, Nicola, uomo dal temperamento mite e dalla impeccabile correttezza imparata a casa e mai abbandonata) è stato un uomo tenace che ha vinto tutto. Non vittorie personali o affermazioni di cui vantarsi. Ha vinto per gli altri. Per esempio, una volta coinvolto nella battaglia senza esclusione di colpi, che voleva la installazione di una centrale nucleare a Montalto di Castro con un grado altissimo di pericolo, la Maremma non ha abbandonato quella battaglia anche quando sembrava perduta. Gli abitanti o i figli degli abitanti del posto ricordano ancora il giovane Caracciolo che si sdraiava di traverso sull’Aurelia insieme a tanti altri dimostranti, appena iniziavano i lavori e, nonostante i tentativi dei politici e dei carabinieri, non ha ceduto fino a quando il pericoloso progetto è stato ritirato.

Era imbarazzante, per chi doveva affrontarlo, la sua gentilezza fatta non di formalità e di buone maniere piuttosto di un vero rispetto per gli altri. Ma quando adottava una causa, e ne dava le ragioni, credeva nell’ascolto attento degli altri ma non contava mai né sul compromesso né sull’argomentare abile. L’autostrada che avrebbe dovuto cementificare l’Aurelia, secondo il parere di molti entusiasti, è stata fermata dalla stessa tenacia di un uomo mite che nella sua vita ha preso posizione appena ne era convinto (di solito insieme alla gran maggioranza dei cittadini locali) e non la cambiava più senza però dar luogo a una sola mancanza di attenzione per gli altri.

Molta della sua forza (che non dimostrava nella sua figura composta ed elegante) si deve a Rossella Sleiter personaggio notevole della sua vita e madre di Filippo, il giovane erede della casa, morto troppo presto, quando aveva già sposato Raimonda e aveva già due bambine. E si deve anche a Marella, figlia di Nicola e di Judith Trenholme, che è sposata al pittore Sandro Chia ed è madre di due figlie adolescenti, ha sempre voluto avere una casa vicino al padre.

Ma Nicola Caracciolo, l’ecologista gentiluomo, è stato anche, nella seconda parte della sua vita giornalistica, importante autore di documentari storici (dai giorni del fascismo al potere alle vicende italiane della Shoah, al crollo del regime) che hanno portato riconoscimenti alla Rai.

Senza Nicola, l’ambientalista che vince, lo storico che rivela, ma soprattutto l’amico di una vita, la solitudine, in tempo di solitudine, diventa ancora più grande.

A zonzo nella risata, un’arte tra la violenza e il sacro

“Dillo con parole tue…” Voi avete parole vostre? Io uso quelle che usano tutti. La prossima volta che vi dicono di dirlo con parole vostre, dite: “Niq flut blarney cwando flooo!” – George Carlin

 

Da troppo tempo, in Italia, si parla e si scrive di comicità un po’ a vanvera. Tutti ridono, quindi tutti pensano di poter parlare di comicità, compresi quei critici televisivi che per anni ti hanno accusato di essere volgare, senza mai accorgersi delle tue citazioni di satirici celeberrimi. S’impancano a giudici, in altri termini, con la stessa autorevolezza di chi volesse discettare di calcio senza sapere nulla di Ronaldo. Nel giornalismo sportivo sarebbe ridicolo, e inammissibile. Mi sembra giunto il momento di fondare il discorso del comico su basi più solide. Approfittiamo dunque della pace europea attuale, finché dura, e andiamo a zonzo, come se il presente non esistesse.

Cos’è la comicità. La comicità, ovvero la prassi divertente, è innanzitutto un’arte. Richiede competenza specifica, inclinazione naturale, talento e passione; e ha un aspetto gratuito e imprevedibile, simile alla gestazione e alla nascita. La sua gioia è quella del gioco.

Intesa come famiglia di concetti affini, la comicità è l’insieme di tutti i fenomeni divertenti. Comprende, fra l’altro, la qualità di essere divertente (“è un libro comico”), l’abilità di far ridere (“è un pessimo comico”), e la sensazione di essere divertito (“mi ha fatto pisciare!”).

Qualcuno ha detto che la comicità può essere imparata, ma non insegnata. In questo paradosso c’è del vero: non impari a far ridere da un libro di ricette. Esistono regole, ovviamente, e i comici le osservano; osservarle, tuttavia, non ti rende un comico.

La comicità ha potenzialità così numerose da impedirne l’esaurimento descrittivo. È possibile, però, imparare le tecniche perfezionate dai comici nel corso dei secoli. Vedremo come fare comicità, come analizzarla, qual è la sua funzione sociale; e il suo rapporto con le scienze, le leggi e le arti.

Dov’è la comicità? La comicità partecipa di un qualcosa che fa la differenza, e che è difficile dire. Tutti gli elementi del processo comunicativo riassunti dallo schema di Jakobson (mittente, contesto, messaggio, canale, codice, destinatario) possono essere luogo di una ambiguità che è favorevole all’effetto divertente. Questo equivale a dire che la comicità sta nel rapporto fra un elemento e il suo contesto; ma né questa ambiguità, né la perturbazione comunicativa cui può dare origine, pur necessari, sono sufficienti a creare l’effetto comico.

Il modo della comicità. I fenomeni divertenti (sia della partitura che dell’esecuzione) richiedono, per verificarsi, un requisito pragmatico: il modo comico. Il repertorio di tecniche, verbali e non verbali, con cui un comico fa ridere il pubblico, e che ritroviamo pressoché identiche nelle diverse socio-culture, non funziona, infatti, se manca il modo comico. Togli questo, e un comico smette di essere divertente; può addirittura irritare, come capita al pedante che insiste con i pun.

Il modo comico è rivelato dalle teorie dell’antropologo René Girard (2006), che ha studiato il legame fra la violenza, il sacro e il comico. La sua ipotesi non può avere verifica sperimentale, ma ha un grande potere esplicativo; ed è entusiasmante, perché la conoscenza del segreto che è all’origine del modo comico porta a una consapevolezza più acuta della prassi divertente, e a una maggiore efficacia dell’arte.

Svelato il mistero, si capisce perché la comicità è l’esperienza di un desiderio, di un dovere, e di un’allegria; qualcosa “da donare agli altri con gioia per aiutarli ad attraversare questa vita impossibile” (Garry Shandling). Qui, comicità e filosofia morale s’incontrano, entrambe pedagogia del “togliere la maschera non solo agli uomini, ma anche alle cose, per restituire a esse il loro vero aspetto” (Seneca, Lettere a Lucilio).

Alcuni ne sono grati al buffone, altri non esitano a fargli canagliate, perché si invidia chi è luminoso.

Violenza e sacro. Il comportamento umano è motivato dal desiderio emulativo (Girard, 1961). Emuliamo chi stimiamo, chi ci affascina; desideriamo essere lui. Se il nostro modello ha un oggetto che non possiamo avere, diventa nostro rivale. La rivalità genera odio, e l’odio porta alla violenza. Quando il desiderio dell’oggetto coinvolge più persone, il conflitto si estende. Nessuna società, però, può sopravvivere al caos della violenza generalizzata. Perciò, se il rivale non può essere eliminato, il clan sfoga la sua violenza su una vittima sacrificale, ilcapro espiatorio. L’uccisione/espulsione della vittima sacrificale riporta la concordia rendendo la violenza unanime: la comunità ne ricava una catarsi rigeneratrice. La vittima, indicata come colpevole del caos, ha portato con il suo sacrificio una nuova pace, rendendo benigna la violenza: la vittima è prodigiosa, è sacra.

Rito, mito, leggi, tabù. Il rito ripete il sacrificio arcaico, per tenere lontano un pericolo (il caos della violenza, o quello dei disastri naturali, espressione dell’ira degli dei che verrà placata con l’offerta della vittima sacrificale). Il mito narra il sacrificio arcaico. Leggi e tabù proibiscono di accedere agli oggetti di desiderio che, riaccendendo le rivalità nel clan, o l’ira della divinità, porterebbero di nuovo al caos. Riti, miti e tabù sono un sapere sulla violenza; servono a tenerla lontana; e sono una traccia, presente in ogni cultura, del sacrificio arcaico. Il grande segreto, sepolto nelle sabbie del tempo, è che l’ordine del mondo è fondato sull’omicidio. Il sacro è la violenza (Girard, 1972).

La festa (il carnevale) è una parodia del caos della crisi, una trasgressione giocosa dei divieti. A essa fa seguito l’anti-festa (la quaresima), un periodo dove i divieti si fanno austeri, in preparazione del rito (la pasqua di uccisione e divinizzazione).

Comicità e sacro. Il mito è il resoconto metaforico della vicenda sacrificale. La comicità, come il carnevale, eufemizza il mito: un comico interpreta la parte della vittima rituale, e accetta per gioco di subire la violenza della comunità, che si manifesta come risata di esclusione. Si ride di lui, lo si mette alla berlina. La trama di ogni commedia è: “Il caos è colpa del comico, ma grazie a lui la comunità ritrova l’armonia”. La comicità, come i rituali dionisiaci da cui origina, mette in scena il caos pericoloso, e lo risolve (Girard, 2006).

(1. Continua)

A casa fra capricci, compiti e chiacchiere al balcone… E al lavoro a sedare le liti

Visto che dobbiamo “restare a casa”, chi vuole condividere la sua vita in quarantena può farlo sulle pagine del Fatto. Mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto e raccontateci cosa fate, come riempite le giornate; quali film, libri e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

 

Maestra ai figli e cucino: dopo aprirò un ristorante

Vivo a Modena insieme ai miei figli di 11 e 7 anni. Lavoro come impiegata in un supermercato quindi la quarantena la vivo a metà in quanto esco per lavorare (e per fortuna).

Le nostre giornate trascorrono tra giochi, capricci per i compiti, chiacchierate in balcone, litigi tra fratelli, tv, tablet e telefoni, chiamate al call center Inps nella speranza di prendere la linea e nella speranza che trovi qualcuno che sappia aiutarti, ecc… Si perché dopo il lavoro sono fresca come una rosa di solito e mi diverto a consultare la lunga lista settimanale di compiti, le classroom, mail, chat di classe e chi più ne ha più ne metta!

In tutto questo devo pensare alla casa, fare la spesa, cucinare. Si perché un altro aspetto da non trascurare è la cucina (che adoro) che in questo periodo è aperta circa 14 ore al giorno (sto valutando se aprire un ristorante!): si perché a stare in casa non si fa altro che mangiare e poi pensare a cosa mangiare dopo e così via… Sono una mamma single ma mi do’ da fare cercando di non fare mancare nulla ai bambini e adesso che sono a casa da scuola il mio lavoro è raddoppiato: la noia non è contemplata, noi genitori facciamo anche da maestri, oltre a cercare di essere una brava mamma, una casalinga e lavoratrice (ne uscirò distrutta e andrà tutto bene un c…. almeno per i miei nervi). Sono stanca, non ho mai avuto riposo, nessuna tregua, vado a lavorare e la situazione è pesante, la gente in alcune circostanze sa dare il peggio o il meglio di sé e come ci si può immaginare il mondo è pieno di geni e la maggioranza sono sicuramente quelli che danno il peggio, sediamo un paio di risse al giorno per la fila o le mascherine (che bei momenti); ci troviamo nella condizione di dover gestire la nostra ansia e anche quella degli altri, il che non è così semplice.

Quando tutto questo finirà (spero presto) mi auguro che nella testa di alcune persone qualcosa cambi, ad esempio il rispetto di alcune categorie di lavoratori, finora lasciati in secondo piano, quasi come se il nostro fosse un lavoro marginale; ecco, nella sfiga di questa pandemia forse alcuni ruoli da domani troveranno un po’ più di rispetto… è ciò che m’auguro.

Carla Candy

Desideri al citofono: “Mare, star da solo, i bimbi che corrono…”

Dal 4 maggio c’è la “fase-2”. Inviateci i vostri desideri, i vostri sogni, le vostre idee su quale sarà il primo appuntamento di quel lunedì. (segreteria@ilfattoquotidiano.it).

Rispondono al citofono con un “chi è?” carico di ansia, di stupore, con sottinteso un punto interrogativo foriero di sventura. Poi alla domanda “cosa farà il 4 maggio?” l’angoscia spesso non si dissolve, si amplifica e per due motivi: in parte vivono la scelta come fosse definitiva, o comunque decisiva per se stessi; in parte perché la paura resiste, è tra le pieghe dell’umore, e “non potrà sparire all’improvviso”, spiega un signore alla finestra mentre lava i vetri. “I vetri sono diventati un passatempo”.

Domenico, 41 anni. “Una lunga passeggiata senza senso”.

Elsa, 92 anni. (Sta per rispondere, all’improvviso il silenzio. E poi…) “Sti zozzoni”. Chi? “Non sente?”. Cosa? “Uno ha messo Faccetta nera. Sto zozzone”. (Di nuovo silenzio) “Comunque ho voglia di stare insieme alla mia famiglia”.

Bernardo, 45 anni. “Voglio pranzare al mare e mangiare una cofana (tradotto: un’ampia quantità) di spaghetti con le vongole…” (da dentro casa si sente un urlo, è la moglie) “Ti ho già spiegato che nun se po’!” Poi lo scandisce. “N-u-n se pooooo’”.

Emma, 51. “Io resto a casa”. Ha paura? “No, sono sfondata di stanchezza: stare appresso a questi mi ha uccisa”. Quanti siete? “Due figli e mio marito: tre maschi sempre tra le scatole non è umano”.

Giulia, 48 anni. “Cappuccino e cornetto al bar” (pausa) “Ma si può?”

Anonimo. “Ma chi sei?” Un giornalista. “Ma che voi, stavo a dormì”. Scusi.

Pasquale, 63 anni. “Mare, mare e ancora mare. Ho bisogno di mare, di pesca e di stare lontano da tutto questo casino”. Quale casino? “Mia moglie perennemente al telefono”.

Bruna, 55 anni. “Vedere il Pantheon. Ho solo paura di non ritrovare gli artisti da strada che di solito si esibivano”.

Renato, 61 anni. “Non lo so”. Nessun desiderio? “Quelli li avrei pure (il tono è malizioso)”. Ma? “Ammetto: me la faccio sotto”. Cioé? “Ho paura, mica il virus scompare così, e poi mi sembrano tutti matti”. Chi? “Ma non lo vede quanta gente c’è già per strada?”.

(Effettivamente tra chi butta la spazzatura, chi porta a spasso il cane, qualcuno corre, un paio in bicicletta, altri che camminano e quattro adulti seduti su una panchina, con mascherina ben adagiata sul collo: non sono pochi ad aver anticipato il 4 maggio).

Paolo, 43 anni. “Un lungo giro in bicicletta. Ne ho acquistata una da casa, quelle finte, ma non ne posso più”.

Anonimo. “Che giornale è?” Il Fatto. Strane parole, poi silenzio.

Anna, 48 anni. “Uscire con il rossetto e senza mascherina”. Senza mascherina, difficile. “Allora un bagno a Porto Ercole”. Sempre difficile, è Toscana. “Ah, allora non so cosa rispondere”.

Maria, 69 anni. “Acquistare un paio di scarpe”.

Daniele, 45 anni. “Uscire con i miei figli e mia moglie (abbassa il tono della voce). Voglio vederli correre senza barriere”.

Anonimo. “Non compro niente”. Non vendo. “Dite tutti così, quelli della luce sono passati già quattro volte e ogni volta non vendevano niente”.

Daniela, 47 anni. “Devo andare dal dentista (pausa). Pensi che palle; e poi voglio vedere mia nonna, ha 97 anni”.

Giusy, 44 anni. “Andare in ferie, anche alle porte di Roma: il lavoro da casa è un massacro”.

Ernesto, 66 anni. “E ‘ndo voi che vado? Sono solo”. Almeno una passeggiata. “Boh, vediamo. Tanto la mia passeggiata era già la spesa, e all’alimentari ci sono sempre andato”.

Fabrizio, 54 anni. “Me sogno lo stadio”. È impossibile. “Lo so benissimo, però mi manca più di ogni altra cosa”.

Franco, 73 anni. “È da ieri che ne parlo con mia moglie”. E? “Io vorrei una passeggiata per Roma, lei non intende uscire”. Ha paura. “Non per lei, per me, dice che noi uomini siamo a rischio”.

Marco, 58 anni. “Andare al mare: mi porto una pagnottella (tradotto: panino), mi siedo su un muretto. E respiro”. Da solo? “No, con mia madre e mia nipote”.

Sabina, 32 anni. “Mi ha mandata in crisi”. Addirittura? “Un po’, forse, ho paura”. Della malattia? “No, di come sarà cambiata la nostra vita”.

Vivo, morto, X? Dalla Cina un team di medici per scoprire come sta Kim

La Cina ha inviato un team, tra cui ci sono alcuni medici, a Pyongyang per determinare le condizioni di salute del leader nordcoreano Kim Jong-un. Ma, pur essendo la missione in corso da giovedì, il mistero sulla sorte del giovane dittatore, dato per morto da alcuni sinologi e osservatori internazionali in seguito a un intervento chirurgico a cuore aperto, permane. La data di nascita certa del leader – pronipote del fondatore della autarchia comunista legata a doppio filo alla Cina – non è mai trapelata, ma dovrebbe aggirarsi intorno ai 35 anni. Le sue condizioni di salute non sarebbero però quelle di un giovane uomo sano. Fumatore incallito, da anni in sovrappeso, Kim Jong-un avrebbe finito per schiantare il proprio cuore con lo stress accumulato nel governare in modo paranoico il Paese più isolato al mondo dove chi dissente finisce nei lager ai lavori forzati assieme a parenti e amici. I negoziati altalenanti con Trump hanno aggiunto ulteriori tensioni all’interno della sua cerchia in cui vi è anche la sorella, Kim Yo-jong, unica donna che potrebbe succedergli. L’agenzia di stampa Reuters, che ha dato la notizia del team cinese, grazie a tre fonti interne e anonime di Pechino, non è stata in grado di determinare ciò che è emerso dalla visita. In Cina c’è un Dipartimento incaricato delle relazione tra la super potenza asiatica e la Corea del Nord. Né questo né il ministero degli Esteri hanno voluto rendere pubbliche le conclusioni della delegazione. Il Daily Nk, un sito con sede a Seoul, ha riferito all’inizio della settimana che Kim si stava riprendendo dall’intervento cardiovascolare del 12 aprile. Alcuni funzionari del governo sudcoreano e un funzionario cinese del Dipartimento di collegamento hanno però contestato le notizie circa l’esito negativo dell’operazione. La Corea del Sud ha intanto dichiarato di non aver rilevato segni di attività insolita nella Corea del Nord. Ha detto la sua anche il nemico-amico: il presidente degli Stati Uniti, Trump ha minimizzato le notizie secondo cui Kim sarebbe malato gravemente. “Penso che il rapporto non sia corretto”, rifiutando di dire se ci siano stati contatti con funzionari nordcoreani. Se Kim Jong-un sia davvero deceduto lo sapremo solo quando il regime avrà terminato la procedura per la successione che non si presenta facile perché il figlio maggiore di Kim ha solo 10 anni e un detto popolare sconsiglia di passare la staffetta a una donna, seppure della “famiglia divina”.

Il guru di BoJo infiltrato fra gli scienziati

Il Regno Unito supera la soglia dei 20mila morti. Quelli in ospedale sono già 20.319, quelli fuori secondo le stime un numero equivalente. E in un aprile già crudelissimo per il governo britannico arriva l’ultimo colpo: un’esclusiva del Guardian rivela come alla riunione del 23 maggio del Sage, il comitato scientifico di consulenza per le emergenze, hanno partecipato anche il consigliere speciale di Boris Johnson, Dominic Cummings, e il suo collaboratore Ben Warner.

Cummings è stato l’eminenza grigia della campagna Vote Leave e poi si è insediato a Downing Street, da cui ha condotto una guerra spietata agli odiati burocrati della pubblica amministrazione ed ha tentato di imporre la sua visione di un Regno Unito rifondato su innovazione, tecnologia, intelligenza artificiale e data mining. Ma è anche descritto come un anarchico elitario, con idee di estrema destra, una profonda insofferenza per i meccanismi della democrazia e un disprezzo ostentato verso i media. Quanto a Warner, è un data scientist, anche lui cruciale per la campagna Vote Leave, e fratello di Mark, il fondatore di Faculty, la società di intelligenza artificiale incaricata di rivoluzionare la logistica dell’Nhs il servizio sanitario pubblico. In partnership con Palantir, colosso Usa dell’artificial intelligence con clienti come Cia ed Fbi, di proprietà di Peter Thiel, miliardario americano repubblicano di simpatie libertarie e con l’ampio portafoglio aperto per Donald Trump. Intrecci opachi, in una gestione della crisi finora fallimentare e tutt’altro che trasparente. Che ci facevano Cummings e Warner, consulenti non eletti e ideologicamente molto vicini ai neo-con Usa, alla riunione di un comitato scientifico che si dichiara indipendente? E proprio nel giorno in cui il primo ministro Boris Johnson ha imposto il lockdown?

Dall’inizio della crisi il mantra – e l’alibi – dell’esecutivo è stato “ci atteniamo al parere degli scienziati”. Ma quali scienziati e quale parere? Già da giorni politici ed esperti avevano messo in discussione la segretezza che protegge sia l’identità dei membri del Sage che le loro decisioni, mai rese pubbliche. Finora tanta mancanza di trasparenza era stata giustificata con la necessità di proteggere i membri del comitato da abusi e interferenze esterne. Ma la presenza di Cummings ora suggerisce che l’ingerenza ci sia stata eccome, e solleva un sospetto molto pesante: il governo ha agito davvero sulla base dei pareri scientifici o li ha piegati ai calcoli politici di Cummings? All’articolo un portavoce di Downing Street ha dovuto replicare che, sì, i due hanno partecipato alla riunione ma solo per comprendere meglio il dibattito scientifico sul coronavirus: Cummings ha fatto qualche domanda e offerto chiarimenti sui possibili “ostacoli a Whitehall”, sinonimo di pubblica amministrazione e ministeri.

Ma poi il portavoce ha alzato i toni: “La fiducia del pubblico nei media durante questa emergenza è crollata in parte a causa di storie ridicole come questa”. Nella più antica democrazia europea il governo attacca la stampa per aver dato una notizia vera.

“Bolsonaro ora rischia l’impeachment, al via almeno tre inchieste”

Nel 2009 Celso Amorim, è stato considerato da David Rothkopf – il Ceo di The Rothkopf Group e commentatore della rivista Foreign Policy – il migliore “chancelier” del mondo. Ministro degli Esteri (1993-1994) nel governo del presidente Itamar Franco e poi (2003 al 2010), con il presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Amorim ha coperto numerose cariche diplomatiche e politiche, anche come ministro della Difesa (2011-2014) nel governo della presidente Dilma Rousseff.

Amorim, che cosa ne pensa delle dimissioni del ministro della Giustizia, Sergio Moro?

In primo luogo vorrei fare una osservazione, nemmeno nell’America di Trump, le persone e l’establishment politico sono più interessate agli intrighi del governo che alla pandemia. È una cosa assurda. Il giornali e i canali Tv, parlano tutto il tempo di Moro, chiaro è importante farlo. In otto giorni abbiamo visto un presidente che ha sostituito due importanti ministri, quello della Salute e quello della Giustizia, oltre al direttore della Polizia Federale che è un organo centrale dello stato brasiliano. È un fatto ovviamente spaventoso, ma non voglio addentrarmi nelle cause, poiché sono più interessato alle ripercussioni di questi ultimi fatti. Le accuse di Moro nei confronti del presidente Bolsonaro sono gravissime e si suppone che lui abbia le prove su quello che ha affermato alla conferenza stampa di venerdì. Oltre ad essere un giudice è stato un investigatore nell’inchiesta Lava Jato. È essenziale sottolineare che le sue accuse segnano la prima crepa nelle forze che hanno appoggiato Bolsonaro. Sono forze che provengono dal mondo dell’inchiesta Lava Jato e dopo sono passate a sostenere Bolsonaro. Per la classe media, Moro è stato un idolo, un eroe, non lo è stato certamente Bolsonaro, un personaggio necessario per consolidare il colpo di stato contro il Partidos dos Trabalhadores e la sinistra. La crepa che si è aperta oggi probabilmente colpirà anche l’area militare, potrebbe essere divisa con l’uscita di Moro. I vertici investigativi sono preoccupati anche per questa interferenza nella Polizia Federale, la cui carica è coperta oggi da una persona dell’Abin, un organo d’investigazione d’altro tipo. Ma è un funzxionario legato direttamente a Bolsonaro, che ha a suo carico molte accuse. Contestazioni che colpiscono anche la sua famiglia, e giungeranno al Tribunale Supremo. In questo contesto ora abbiamo un direttore della Polizia Federale che ha apparentemente un legame con i Bolsonaro. È qualcosa di preoccupante non solo per me, i progressisti, ma anche per le forze politiche di centro, come quelle legate a Fernando Henrique Cardoso.

Ma il presidente chi vuole proteggere?

Non ci sono dubbi, la sua preoccupazione è quella di proteggere la famiglia. Non c’è nessuna altra ragione, dietro alla rimozione del direttore della Polizia Federale il presidente voleva un nome con cui ha un forte legame.

Non è il primo conflitto tra Moro e Bolsonaro, ma perché la rottura è avvenuta ora?

Non è legata a un fatto specifico. Bolsonaro voleva rimuovere l’ex direttore della Polizia federale che era legato a Moro. Credo che Moro abbia cercato di temporeggiare, di discutere suggerendo un altro nome, ma invano. C’è da dire che Moro ha ceduto molte volte e se lo avesse fatto anche ora, avrebbe perso credibilità e anche la Lava Jato sarebbe stata messa in discussione.

Vede la possibilità di un impeachment?

Dipenderà come andranno le cose la prossima settimana, ma c’è da dire che tutto sta mutando rapidamente in questi giorni. Sicuramente avremo due, tre inchieste esaminate dal Tribunale, una di queste sulla famiglia Bolsonaro, legata all’inchiesta sulle fake news diramate dal cosiddetto “Gabinetto dell’odio”. L’altra è legata all’atto promosso da Bolsonaro nei giorni scorsi in cui ha inneggiato al golpe militare. Ci sono anche altre questioni, come il fatto che il presidente non ha rivelato i risultati del test per il Covid-19. Non so se questo insieme di fatti sarà sufficiente, ma le dimissioni di Moro avranno forte impatto.