Ma per avere un quadro epidemiologico ci vuole la data di prelievo dei tamponi

Lo sapevo, sarebbe stato opportuno attendere e le verità sarebbero venute a galla. Mentre giornalisti ed esperti o presunti tali si sono agitati, hanno criticato, minacciato, non ho ribattuto e ho lavorato e studiato, attendendo. Ecco la prima verità che mi dà ragione. Il numero dei positivi è alterato sempre, che si parli di pazienti o di popolazione in toto. I dati reali degli esami eseguiti sono meno allarmanti, quello della popolazione lo è di più.

È un concetto difficile da comprendere, ma è quello che accade. I positivi enunciati giornalmente sono molti più dei reali soggetti Sars-CoV2 perché ogni soggetto positivo ripete il tampone da due a cinque volte. Finalmente, dopo quasi due mesi dall’inizio dell’epidemia, il Dipartimento della Protezione civile ha iniziato a pubblicare anche il dato delle persone testate per il Coronavirus e non solo quello dei tamponi eseguiti. Chiederei un altro sforzo: pubblicarli per data di prelievo. Questo ci permetterebbe di avere un quadro epidemiologico reale che, al momento, non abbiamo.

I risultati che ci vengono forniti non solo sono quelli raccolti 8-10 giorni prima, ma si riferiscono al momento della loro “processazione” in laboratorio, non al momento del prelievo. A volte un tampone attende anche due o tre giorni prima di essere esaminato. L’altro dato non reale è quello che si riferisce ai positivi nella popolazione. Sappiamo che molte persone sono contagiate, ma asintomatiche o paucisintomatiche (pochi sintomi similinfluenzali) e stanno a casa senza fare il tampone, sfuggendo, perciò al conteggio complessivo. Oggi infatti si stima che non vengano individuati dal 40 al 60 per cento dei positivi. E questo è un problema molto serio, perché questi soggetti si trasformano in mine vaganti, veicoli inconsapevoli del virus. Basta aspettare, e altre verità verranno fuori. Il tempo è galantuomo e oggi, in epoca Covid, di galantuomini si sente un gran bisogno.

 

Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Blitz della Digos nella casa del “nemico” storico di Matteo

Dopo la denuncia per stalking da parte di Matteo Renzi, giovedì mattina la casa del suo “accusatore”, Alessandro Maiorano, è stata perquisita dagli uomini della Digos su mandato della Procura di Firenze. L’ex presidente del Consiglio nelle scorse settimane aveva presentato l’ennesimo esposto ai pm fiorentini contro l’ex usciere della Provincia di Firenze, non più con l’accusa di diffamazione, ma di stalking: gli ultimi post e le mail inviate da Maiorano alla posta istituzionale del Senato avrebbero causato in Renzi un “grave stato d’ansia” e di “paura” per sé e per i suoi familiari e quindi ha deciso di denunciare Maiorano.

Giovedì, su mandato del procuratore aggiunto Luca Tescaroli, la Digos di Firenze ha sequestrato chiavette Usb, documenti informatici e cartacei nella sua casa di Prato. Sempre su richiesta del pm, il gip di Firenze Antonella Zatini ha disposto il sequestro preventivo delle pagine Facebook e Twitter dove Maiorano lanciava i suoi strali contro Renzi. Nella maggior parte dei casi post e video con accuse gravi (come false fatture o presunti giri di escort) ma anche email offensive alla sua casella di posta. Maiorano, 59 anni, è molto conosciuto a Firenze per le sue invettive contro l’ex premier che lo ha querelato diverse volte: al momento è accusato di diffamazione nel processo per le spese di Renzi da presidente della Provincia. Maiorano spiega di aver mandato lettere offensive all’ex premier come risposta agli “insulti” da parte di esponenti di Italia Viva sulla sua pagina Facebook: “Non sono per niente preoccupato, anzi sono divertito – dice al Fatto Maiorano – dov’è lo stalking se faccio video su Facebook?”. Il suo avvocato Carlo Taormina ha annunciato una contro querela per calunnia nei confronti di Renzi.

Lottizzazione selvaggia a Mps. Nel cda pure il suo fornitore

La notte del 21 novembre 1986 il governo Craxi celebrò una porcheria destinata a passare proverbialmente alla storia come la “notte delle nomine”, in cui furono lottizzate 108 poltrone di vertice di 60 banche (allora erano quasi tutte pubbliche). Umiliando il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, i partitocrati imposero alla presidenza della Cariplo un parlamentare dc, Roberto Mazzotta. Ora viene il sospetto che lunedì scorso, nella concitata notte delle nomine in miniatura – allora si scontrarono Ciampi e Giuliano Amato, oggi i frontmen sono Riccardo Fraccaro e Roberto Gualtieri – sia stato battuto ogni record di irresponsabilità. E che gli stessi cacciatori di teste, profumatamente retribuiti per far finta di vagliare i curriculum, si siano adattati al clima da “un, due, tre, casino!” in cui sono state partorite le liste.

Solo così si spiega – ma è solo un esempio tra i tanti – la designazione per il cda del Monte dei Paschi di Siena di Marco Bassilichi, 54 anni, imprenditore fiorentino di solida tradizione familiare, con riconosciuta competenza nel settore bancario e un difetto stranamente sfuggito ai tenutari del suk: è uno dei principali fornitori della banca che l’azionista, il ministro dell’Economia Gualtieri, ha chiamato ad amministrare.

Lunedì allo scoccare della mezzanotte, i partiti di maggioranza hanno concordato col Tesoro le liste per i cda di Eni, Enel, Poste e Leonardo, a tempo quasi scaduto, e approvato una bozza per quella di Mps, da depositare invece giovedì. In due giorni lo schema ha retto, soltanto un nome è saltato: fuori l’ingegnere Salvatore Manzi, che fu indicato dal governo Renzi nel consiglio di sorveglianza di StMicroelectronics, una società mista italo-francese, dentro Marco Bassilichi, accolto negli elenchi da Pd e 5S senza fare troppe domande perché quella seggiola spettava a Iv, cioè a Matteo Renzi in persona.

Sia chiaro, la potenza della famiglia Bassilichi precede il renzismo e gli sopravvive. L’azienda prospera dagli anni 60, grazie all’iniziativa di Giovan Gualberto Bassilichi. Quando Renzi si affaccia alla ribalta della politica toscana, Leonardo e Marco Bassilichi, figli del fondatore, hanno in mano mezzo sistema bancario toscano e non solo. Il Monte dei Paschi è il loro feudo principale, forniscono tutto, i bancomat, i computer, la manutenzione dei sistemi, il trasporto valori. Sono loro a prendere Renzi sotto la loro ala protettiva e non viceversa. Finanziano la Fondazione Open e mal gliene incoglie: finiscono perquisiti (non indagati) nell’inchiesta dello scorso novembre condotta tra gli altri da Antonino Nastasi, uno dei magistrati che a Siena aveva bombardato il sistema di potere di Giuseppe Mussari.

All’onnipotente presidente, dalemiano prima e tremontiano poi, i Bassilichi sono così legati da vedersi attribuire un potere enorme su tutta Siena. Il gruppo Bassilichi vola. Poi Mussari cade, travolto dallo scandalo dei derivati, e la nuova gestione (Fabrizio Viola e Alessandro Profumo) taglia le unghie ai regi fornitori. Non fino in fondo però: gli affidano l’esternalizzazione di 1.100 persone per attività cosiddetti back office, i Bassilichi costituiscono appositamente la Fruendo, azienda con Accenture socio di minoranza al 40 per cento. Anche qui le cose vanno male: i lavoratori esternalizzati fanno causa in massa grazie a un pool di avvocati tra i quali si distingue Luigi De Mossi, futuro sindaco di Siena con il centrodestra. E vincono, cosicché oggi 450 di loro vengono riassunti dal Monte mentre gli affari di Fruendo languiscono. Sul punto il nuovo cda eredita un casino galattico. Nel frattempo Accenture è passata al 90 per cento di Fruendo, lasciando ai Bassilichi (con Marco che ha lasciato la presidenza solo a fine febbraio scorso) il 10 per cento delle azioni attraverso la B222 srl.

Ma il vero punto nevralgico della vicenda si chiama Abs Technologies. Nel 2017 i Bassilichi mollano tutto a Nexi, colosso dei servizi bancari, mantenendo però un piede nella scatola Ausilia nella quale finiscono alcuni pezzi dell’impero, tra cui Abs Technologies, di cui Leonardo Bassilichi è presidente. A fine febbraio, cioè due mesi fa, proprio mentre entrava nel vivo la partita delle nomine, Abs Technologies esce da Ausilia e finisce sotto Base Digitale, una holding di cui Leonardo e Marco Bassilichi hanno personalmente il 25 per cento del capitale ciascuno.

Nell’ultimo bilancio depositato, quello del 2018, Abs Technologies dichiara di aver “svolto attivita di fornitura, gestione e manutenzione di impianti di sicurezza per il Gruppo Monte dei Paschi di Siena su circa 1.500 filiali”, ottenendo da questo cliente principale 14 dei 21 milioni di fatturato dell’anno, due terzi pari pari.

Fermo restando che Marco Bassilichi per la sua storia di imprenditore sa di banca e, soprattutto, di Mps molto più di Guido Bastianini – designato come amministratore delegato a guidare una banca in profonda difficoltà; e fermo restando che il conflitto di interessi esiste a prescindere dalla moralità del portatore, resta ferma anche una domanda: ma al ministero dell’Economia, quando il politicante di turno fa arrivare il pizzino con il nome del lottizzato, non c’è uno che vada a vedere chi è quel signore?

Bonafede: “Bisogna coinvolgere l’Antimafia”

Non si placano le polemiche sulle scarcerazioni per motivi di salute in epoca di coronavirus di boss legati alle mafie e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, annuncia che “d’accordo con il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra”, è pronto a “intervenire”, con proposte che verranno inserite nel prossimo decreto legge”. Tra le novità a cui si sta lavorando, il Guardasigilli ritiene che meriti “maggior approfondimento quella di coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo nelle decisioni relative a istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia”.

L’intervento di Bonafede, affidato a facebook, viene il giorno dopo le polemiche per la scarcerazione di Pasquale Zagaria, detto “Bin Laden” e per le decisioni contrastanti sulla questione dei domiciliari ai detenuti, compresi quelli al 41-bis, il carcere duro.

“La lotta alle mafie – ha detto con chiarezza Bonafede – è una cosa seria. Parlarne in maniera superficiale, gettare un tema così importante nella caciara quotidiana, mentire ai cittadini dicendo che c’è una legge (o addirittura una circolare) di questo governo che impone ai giudici di scarcerare i mafiosi, è gravissimo”.

“Le decisioni sulle scarcerazioni per motivi di salute – ha ricordato il ministro – vengono adottate in piena autonomia e indipendenza dalla magistratura. Lo sanno tutti… o forse no, a giudicare da qualche video in Rete. A ogni modo, ho avviato tutti gli accertamenti interni ed esterni, anche presso l’ispettorato, sulle varie scarcerazioni. Ma questo non basta. D’accordo col Presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, siamo pronti a intervenire a livello normativo. Alcune delle proposte verranno inserite nel prossimo decreto legge”, continua Bonafede.

“Tra queste proposte, merita maggiore approfondimento quella che mira a coinvolgere la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e le Direzioni Distrettuali Antimafia e Antiterrorismo in tutte le decisioni relative ad istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia (ieri sera abbiamo emanato una circolare che va in questa direzione). Come al solito, nessuna chiacchiera: soltanto leggi scritte nero su bianco”, conclude il ministro.

Sul tema scarcerazioni è intervenuto anche il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci, alla luce dei casi Bonura, Iannazzo, Sansone e, per ultimo, Zagaria: “Esistono ragioni di sicurezza, di ordine pubblico e di buon senso per dire no al rientro di alcuni detenuti pericolosi nei luoghi dove vivevano e dove hanno commesso gravi reati. Ecco perché certe decisioni lasciano sbigottiti. E l’incredulità che provano alcuni magistrati, da sempre in prima linea, è la stessa che sta provando la gente comune. Se proprio si rende necessario assegnare agli arresti domiciliari personaggi mafiosi di spessore, allo scopo di decongestionare le carceri in questo periodo di epidemia, si prendano assolutamente in considerazione soluzioni diverse”.

“Scarcerare i boss significa dimenticare cos’è Cosa Nostra”

“Corriamo il rischio di una bancarotta per l’effettività del sistema penale.” Sebastiano Ardita, membro togato del Csm, commenta così le recenti scarcerazioni, anche di mafiosi del calibro di Pasquale “bin laden” Zagaria, dovute – almeno secondo le motivazioni di alcuni Tribunali di sorveglianza – all’emergenza Covid-19.

Dottor Ardita, le scarcerazioni causa coronavirus sono una buona scelta?

Per essere una buona scelta, si sarebbe dovuto provare con uno studio, statistico ed epidemiologico, che in carcere ci fosse un rischio maggiore per la vita dei detenuti. Ad oggi questa prova non c’è, ma c’è l’indizio opposto. Sono morte per coronavirus 26.383 persone libere e solo una persona detenuta che, peraltro, ha contratto il virus mentre era in ospedale e non in carcere. E siccome pare che siano usciti finora circa 6.000 detenuti, senza la prova della necessità di queste scarcerazioni, sono andate in fumo fatica, costi e credibilità della giustizia.

A essere scarcerati sono anche i mafiosi. Ma non erano esclusi?

I mafiosi erano esclusi – almeno sulla carta – rispetto alla detenzione domiciliare concessa dal “cura Italia”, ma grazie a quella iniziativa hanno beneficiato di un “effetto domino” nei procedimenti per incompatibilità col regime carcerario, che si basano su altri presupposti.

Quali?

Il nesso di causalità, indimostrato, tra carcere e contagio del virus ha trovato spazio in un provvedimento del governo ed è stato semplice trasferire questo concetto in una circolare del Dap che lo ha fatto proprio lanciando l’allarme sui nessi tra patologie pregresse e infezione (ma senza la prova che il carcere la favorisca). Infine si è ritrovato il tutto nei provvedimenti della magistratura di sorveglianza che ha ripreso per i mafiosi le medesime preoccupazioni espresse dal Governo. E così i mafiosi sono stati scarcerati con provvedimenti che – tra le altre motivazioni – contengono anche il riferimento al pericolo di contrarre in carcere il virus.

Il governo e il ministro hanno responsabilità?

Ce l’hanno nella misura in cui hanno risposto alle rivolte dei detenuti con una legge svuotacarceri. Ciò ha contribuito a sbilanciare fortemente il rapporto tra prevenzione penitenziaria e diritti individuali fino a far ritenere prevalente un rischio indimostrato per la salute individuale rispetto ad un danno certo per la prevenzione antimafia derivante dalla uscita di boss.

Quindi non sono solo scelte dei Giudici di sorveglianza?

Sono scelte di bilanciamento tra beni costituzionali – la salute del singolo e il pericolo della mafia – che risentono di un criterio di valutazione che il giudice trae anche dalla coscienza sociale. A ventotto anni dalle stragi, nella nostra società e nelle istituzioni la sensibilità rispetto al fenomeno mafioso è letteralmente crollata.

Come rispondere a chi sostiene che avere riserva su queste scarcerazioni sia volere la pena di morte?

Delle due l’una: o è stata applicata fino a qualche mese fa e non ce ne siamo accorti o forse prima lo Stato era più attento nel salvaguardare la vita dei cittadini che, anche loro, rischiano di essere condannati a morte.

È possibile coniugare umanità ed essere convinti che purtroppo 41-bis è necessario?

L’umanità dell’esperienza penitenziaria non può essere messa in discussione, ma finchè esiste Cosa nostra è necessario il 41bis. Solo che la nuova linea di Cosa nostra, quella della distensione nata dopo le stragi dall’alleanza tra Provenzano e Santapaola, rende invisibili i fenomeni e porta già a casa alcuni risultati. A parte Bonura, a Catania è stato scarcerato il boss Ciccio La Rocca, che è ottantenne, malato e capo di una famiglia mafiosa esattamente come lo è Nitto Santapaola, ma è solo meno famoso. Tragga lei le conclusioni.

Molise, ai privati il 95% del fatturato per stare chiusi

La passione sfrenata del Molise per la sanità privata non conosce ostacoli, soprattutto se c’è di mezzo una pandemia. Così, anche se da 13 anni la Regione è sottoposta al piano di rientro sanitario con un deficit che sfiora i 60 milioni di euro, con la scusa del Covid-19 è stata prevista una strada preferenziale per le strutture convenzionate private. Pur non essendo state impegnate in questa fase dell’emergenza, riceveranno comunque il 95% del fatturato che gli è stato riconosciuto per i mesi di gennaio e febbraio a prescindere dalle prestazioni contro il 70% previsto dal decreto legge nazionale che invece prevede il pagamento dei soli servizi erogati. Pronte a fare cassa sono il Gemelli di Campobasso e la Neuromed di Aldo Patriciello, l’eurodeputato forzista ras della Sanità del Sud. Una storia che vale la pena di essere ricostruita. Dall’inizio dell’emergenza, in Molise su 303mila abitanti sono state contagiate 292 persone e ne sono morte 21. Attualmente ci sono 198 positivi, di cui 13 ricoverati, ma uno solo in terapia intensiva nell’ospedale Cardarelli di Campobasso, hub regionale per il Covid-19.

La Regione ha già potenziato le strutture pubbliche con la riapertura di alcuni reparti dedicati all’interno degli ex ospedali di Larino e di Venafro. E per non farsi mancare nulla, lo scorso 8 aprile il commissario della Sanità ad acta ha firmato anche un decreto che ha stabilito, con effetto retroattivo dal 9 marzo, di erogare ingenti fondi alle strutture sanitarie private accreditate, senza alcuna prestazione certa in contropartita, mancando i pazienti Covid. “La remunerazione delle strutture è stata determinata solo in ragione della loro disponibilità nella fase emergenziale, assicurando la sostenibilità dei costi organizzativi e gestionali”, denuncia l’avvocato Pietro Colucci. A svettare in questo decreto c’è infatti una clausola “Covid” che consente a Neuromed e Gemelli Molise di ricevere i soldi dietro la prestazione di una semplice fattura. Anche nella normale gestione, le strutture non rendono conto delle proprie spese all’Azienda sanitaria ma sempre alla Regione, il cui vicepresidente della giunta è Vincenzo Cotugno, cognato di Patriciello. Del resto per il governatore del Molise, il forzista Donato Toma, “non esiste pubblico e privato, ma un’unica sanità molisana”.

“Facendo due conti, se in condizioni normali a Neuromed – uno del cluster molisani – spettano 24,8 milioni di euro l’anno per l’assistenza ospedaliera, nel primo bimestre 2020 gli verranno riconosciuti circa 4 milioni di euro a fronte di nessuna prestazione erogata o, meglio, per il solo fatto di aver dato la disponibilità ad affrontare l’emergenza”, denuncia il consigliere regionale M5S Andrea Greco. “Il paradosso – aggiunge l’avvocato Massimo Romano – è che dei 24,8 milioni l’80% è riservato a pazienti di fuori Regione con la conseguenza che dovrà essere il Molise a pagarli e non le Regioni di provenienza”. Numeri poco più alti per il Gemelli che percepirà 5 milioni, ma la quota delle prestazioni regionali è superiore.

A dare i numeri in questa storia ci ha pensato anche l’Associazione ospedalità privata (Aiop) secondo cui le accuse di disparità rispetto alla norma sono false, perché “basta fare un paio di addizioni e sottrazioni corrette per capire che il 95% del 95% dei rimborsi per ricoveri è minore del 70% dei rimborsi dovuti per tutte le prestazioni”. Una replica poco chiara come le rendicontazioni.

Angelucci in guerra per le sue cliniche piene di contagiati

Il primo piano del reparto lungodegenza era completamente vuoto. Al piano terra, invece, c’erano sia i pazienti “Covid”, sia quelli “No Covid”. Non solo. “Mancata separazione dei reparti fra degenti Covid e No Covid”, “assenza di percorsi assistenziali e di servizio differenti”, “assenza di personale assistenziale dedicato” ai pazienti di ciascuna categoria. In altre parole: erano tutti mischiati. Perfino gli operatori sanitari dovevano continuare a cambiarsi senza distinzione di destinazione. In sole due pagine di relazione – datata 19 aprile – il dirigente della Asl Roma 6, Fabio Canini descrive la gravissima situazione presente all’interno della Rsa (residenza sanitaria assistenziale per anziani) San Raffaele Rocca di Papa, provincia di Roma. Qui, pochi giorni prima, i sanitari della Regione Lazio avevano rilevato la presenza di ben 138 persone positive e 5 decessi. Ieri il conto è arrivato a 161 positivi e, secondo la Procura di Velletri – che indaga sulla vicenda – addirittura 30 morti. I pm stanno acquisendo le dichiarazioni e le denunce dei parenti, che raccontano come i loro genitori siano stati “lasciati soli col virus”.

Quella dei Castelli Romani, però, è solo una delle 13 strutture (di cui 7 Rsa) gestite nel Lazio dalla San Raffaele Spa, che fa riferimento al gruppo Tosinvest, di proprietà di Antonio Angelucci, re delle cliniche nel centro-sud e deputato di Forza Italia, da anni il più ricco di Montecitorio. Almeno in altre due di queste è esploso l’allarme Covid, raggiungendo – secondo gli ultimi dati forniti dalla Regione Lazio – quota 214 positivi e 17 decessi. L’ultimo caso è quello di Monte Compatri, minuscolo paesino a est della Capitale. Qui il sindaco leghista, Fabio D’Acuti, ha agito ancora prima della Asl, ordinando il 18 aprile, alla notizia del primo decesso sospetto, la chiusura della struttura locale. Il conto a oggi è di 31 positivi (di cui 9 operatori sanitari) e dei 3 decessi avvenuti nella clinica, che è anche centro di riabilitazione psichiatrica. Il primo caso, invece, aveva riguardato a inizio mese la Rsa di Cassino, in provincia di Frosinone, dove secondo il San Raffaele ci sono 37 pazienti positivi (di cui 3 deceduti) e 14 operatori infetti.

“Abbiamo ottemperato tempestivamente alle richieste avanzate dalla Regione”, fanno sapere dal San Raffaele, che ha inviato “centinaia di pagine” anche alle Asl e ai carabinieri del Nas.

Il caso giudiziario si intreccia con la politica. Angelucci è l’editore dei quotidiani Libero e Il Tempo. Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, è anche il segretario del Pd. E le prossime ore saranno decisive in vista della diffida della Regione Lazio, che scade domani. Il San Raffaele, che già ottiene, ogni anno, rimborsi di accreditamento dalla Regione Lazio per quasi 1 miliardo per i servizi erogati dalle sue cliniche convenzionate, punta a trasformare le Rsa colpite dalla pandemia in “strutture Covid”, ottenendo un surplus sui rimborsi. Già a marzo, si parlava della proposta di far diventare l’ex clinica di Velletri un “covid hospital”, ipotesi a cui si sarebbe opposto l’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato. Già da inizio aprile il gruppo aveva chiesto di autorizzare il laboratorio dell’Irccs San Raffaele Pisana a effettuare i tamponi, che la Regione rimborsa 20 euro l’uno (45 euro i test sierologici).

Negli ultimi 10 giorni, Libero ha attaccato Zingaretti, rilanciando le parole del suo omologo, Attilio Fontana, che paragonava la situazione delle Rsa della Lombardia a quella del Lazio. Il Tempo invece ha dato ampio spazio alla vicenda delle 7,5 milioni di mascherine ordinate a una piccola società di Frascati e mai giunte a destinazione che imbarazza la giunta Zingaretti. Da un paio di giorni le notizie sono sparite dalle prime pagine. Cosa accadrà? Fonti del Pd raccontavano di un incontro previsto per la giornata di domani fra il governatore-segretario e Angelucci, circostanza “categoricamente smentita” dal gruppo San Raffaele.

Sbrocca Brugnaro, sindaco imprenditore: “I morti? Un bluff. È ora di riaprire tutto”

Ci mancavano quelli di Forza Nuova, che nel giorno della Liberazione hanno portato a San Marco manichini con maschera e guanti. Protestavano contro la “dittatura sanitaria” e chiedevano (proprio loro) il ripristino delle libertà costituzionali calpestate da chi ha deciso che il coronavirus si sconfigge restando in casa. Ma se il blitz rientra nello stile del movimento fascista, il caos istituzionale lo ha provocato nientedimeno che il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, che ha impugnato il dubbio come un manganello e adombrato una forma di negazionismo della pandemia. Un po’ in dialetto, un po’ in italiano, ha sbroccato su Facebook: “Bisogna fare chiarezza sul numero delle vittime e confrontarle con quelle dell’anno scorso. Magari è un bluff. Io sono stanco e qualcosa non torna sul numero dei morti”. Al riguardo indica i 37 decessi in più nell’Area Metropolitana, rispetto al 2019: 2.940 contro 2.903. Come dire che la realtà sarebbe diversa dalla verità ufficiale.

L’affermazione è dettata dall’ansia dell’imprenditore che vorrebbe la riapertura immediata delle attività. Ma anche dall’amministratore locale che vede tutto deciso da governo e Regione Veneto. “Questa cosa sta prendendo un aspetto kafkiano – ha detto – le ordinanze prima chiudono tutto e poi aprono a singhiozzo. Che si apra tutto, con la prudenza del caso, ma che si apra. Adesso c’è gente che prega di aprire e intanto muore di fame. La malattia è stata contenuta? Cominciamo a parlare dei vivi perché la gente no ghea vanta più e rischia di morire di fame”. Tradotto, non ne può più. E anche lui sembra non sopportare più le ordinanze dall’alto, come l’ultima che il governatore Luca Zaia ha firmato alla vigilia del 25 aprile.

“Ae tre verze i cimiteri? (Alle tre aprono i cimiteri, ndr) Vado mi a verzer coe ciave? (Vado io ad aprire con la chiave? ndr). Nelle disposizioni è tutto a costo dei Comuni e vogliamo essere almeno informati prima, non da comunicati stampa”. La gente era in coda all’ingresso dei camposanti quando lui non ne sapeva nulla. Ma non le ha risparmiate nemmeno a Roma. “A chiacchiere il governo non lo batte nessuno. Chiediamo disposizioni sanitarie univoche. Questo è compito del governo, che ha 17 cabine di regia. Su scuole e asili bisogna sapere come organizzarsi”. Le attività imprenditoriali? “Ora basta. Non si può tenere chiuso tutto per sempre. Altrimenti sarà un disastro. Abbiamo un turismo internazionale e la gente non tornerà per mesi. Qui ci sono migliaia di persone che hanno perso completamente i redditi”.

Probabilmente non si aspettava una attacco del genere da centrodestra, ma il governatore Luca Zaia, sentendo l’eco delle proteste, ha detto: “Non si dica che qui c’è qualcuno di irresponsabile che firma ordinanze alla carlona: lo spartiacque è il decreto del premier del 4 aprile che scioglie la chiusura totale”. Già, perché l’apertura alla vigilia del 25 Aprile, che ha concesso ai veneti di andare a comperare gelati e pasticcini, di coltivare l’orto (anche in un altro Comune) e di portare un fiore al cimitero, ha posto l’interrogativo se non si stia correndo troppo verso il liberi tutti.

“Sì ci hanno impedito di portare gli anziani nelle strutture adatte”

“Mia madre era lì dentro, chiusa nella casa di riposo. In un giorno sono morte 11 persone. E lei era ancora negativa. Ma il personale era esausto e molti erano malati, i tamponi non arrivavano. Abbiamo dovuto cercare noi tute, mascherine e guanti. A un certo punto ho chiesto di andarci io là dentro, come volontario. Non me l’hanno consentito. Non hanno lasciato che portassimo via i nostri vecchi, in una struttura attrezzata. Alla fine, il 26 marzo, mia madre se n’è andata”. Parla Antonio Lovato. Sua madre Albertina, 88 anni, era ospite della Rsa Maria Gasparini a Villa Bartolomea (Verona). Qui il virus ha fatto un massacro: “Su 68 ospiti abbiamo avuto 36 morti. E abbiamo ancora 14 persone ricoverate”, racconta Federico Rettondini, membro del cda dell’Ipab. Non ha timore di parlare: “Sono state prese tutte le misure di sicurezza previste a quanto ci risulta. Ma il punto è che la dirigenza è stata lasciata sola: abbiamo chiesto medici e infermieri, ma non è arrivato nessuno a parte due volontari della Croce Rossa. Abbiamo dovuto reclutare noi un medico”.

Villa Bartolomea è il caso più clamoroso. Il punto è un altro: la gestione dell’emergenza virus nelle Rsa del Veneto. E il numero dei morti. “Secondo i dati ufficiali”, racconta il parlamentare Diego Zardini (Pd), “fino a metà aprile sono morte nelle Rsa della nostra regione sono morte 375 per il Covid 19. Ma stando ai report dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) da febbraio nelle case di riposo venete sono morte 1.093 persone. Siamo lontani dai 3.045 decessi della Lombardia, ma va molto peggio che in Piemonte (684) ed Emilia Romagna (520). Il dubbio è che una parte dei deceduti senza tampone o senza sintomi siano morti per coronavirus”. I numeri impressionano: in Veneto le Rsa ospitano 17mila persone. In poco più di due mesi ne è morto oltre il 6%.

Luca Zaia, governatore del Veneto, finora lodato per la gestione dell’emergenza, rassicura: “Solo il 26% delle 330 Rsa ha avuto contagi”. L’assessore alla Sanità Manuela Lanzarin (il cronista l’ha interpellata senza ottenere risposta) contesta i dati Iss e assicura che nelle Rsa venete i contagiati sono stati 2.154 (6,4%) tra gli ospiti e 1.003 (3,2%) tra gli operatori. Una guerra di numeri che poi, però, sono vite. “Io non mi fido dei numeri di Zaia. La Regione dice che le strutture sarebbero 330, mentre l’Iss parla di 520”, sostiene Alessia Rotta, parlamentare Pd. Aggiunge: “Non si può dire che sia andata bene perché la situazione è meno disastrosa che in Lombardia. La Regione Veneto si è dimenticata dei vecchi e dei medici di base. Fino a fine marzo le linee guida per essere ammessi in una casa di riposo prevedevano solo un triage telefonico!”. Anche Zardini accusa: “In alcune strutture gli ospiti sono stati trasferiti nei Covid Center e poi riportati nelle Rsa, rischiando di diffondere il contagio”.

Da tutto il Veneto, soprattutto Verona, arrivano denunce e testimonianze di parenti: “Nella struttura di Pescantina (Verona) su poco più di 80 ospiti ben 66 sono risultati positivi. E non si è preso nessuno provvedimento straordinario”, accusa il parente di un ospite. A Mezzane (Verona) altro allarme: su 2.504 abitanti ben 84 contagiati, ma 70 erano residenti della casa di riposo. A Sommacampagna (Verona) oltre cento parenti di ospiti della casa di riposo Campostrini hanno scritto una lettera accorata al direttore regionale della Sanità, Domenico Mantoan: “In due settimane ci sono stati 14 decessi su 70 ospiti presenti. Tra gli ospiti rimasti 40 sono positivi. La metà degli operatori sono in quarantena”. A Zevio (Verona) i tamponi effettuati sabato erano tutti negativi, mentre lunedì ecco spuntare 6 positivi. A Castel d’Azzano (Verona) i parenti scrivono appelli pieni d’angoscia: 6 morti e 19 contagiati su 71 persone tra i dipendenti. A Lazise (ancora Verona) 8 decessi e 7 persone ricoverate su 25 ospiti. Ancora: riportano le cronache che a Fiesso d’Artico (Venezia) 85 ospiti positivi, mentre alla Residenza Venezia di Marghera (Venezia) 87 contagiati su 115 ospiti.

Indagano le Procure di mezzo Veneto. Quella di Rovigo ha aperto un fascicolo sulla Scarmignan di Merlara: dall’inizio della pandemia sono morti in 28. Siamo a due passi da Villa Bartolomea: “A Merlara il contagio è cominciato prima”, ricorda Lovato, “per questo avevamo chiesto tamponi e presidi. Per troppo tempo non è arrivato niente”. Nessuno parla di malaffare, ma di errori sì. Di scelte politiche anche: “Il Veneto è la regione con il più grosso vuoto normativo in materia di case di riposo. Ognuno agisce come vuole”, sostiene Zardini. E a Villa Bartolomea, racconta Rettondini, “dal 9 aprile molti ospiti aspettano il secondo tampone”. Lovato mastica amaro: “Non voglio buttare la croce addosso a nessuno, i sanitari hanno fatto il possibile, ma la dirigenza è stata lasciata sola. Ci sono state carenze a livello di Asl e Regione. Non riesco ad ascoltare quando bilanci trionfalistici, non si può dire che tutto è andato bene. Mia mamma e altre 35 persone sono morte”.

“I malati restino al Trivulzio. Meglio qui che in ospedale”

Il 29 marzo è un giorno importante nel Pio Albergo Trivulzio. I pazienti non lo sanno, ne sono ignari anche i loro familiari, ma da quel momento in poi, in caso di difficoltà, non è più scontato che siano indirizzati verso un pronto soccorso. Lo dimostra un documento che Il Fatto può pubblicare in esclusiva.

Alle 9:49 sei medici della rsa milanese ricevono una email inoltrata dal dipartimento socio sanitario, diretto dal dottor Pierluigi Rossi. Viene indirizzata in copia anche alla direzione generale della rsa Milanese. Oggetto: “Invio dei pazienti in pronto soccorso”.

Siamo in piena pandemia e nel Pio Albergo Trivulzio, oggi sotto inchiesta giudiziaria come altre Rsa lombarde, si contano già una settantina di decessi. Rossi esordisce così: “Cari colleghi, purtroppo riceviamo notizie sempre più preoccupanti sullo stato al collasso dei principali PS. Per questo, oltre alle raccomandazioni della mia mail di ieri, è necessario che prima dell’invio in PS di un nostro paziente, il medico inviante si accerti, contattando il medico del PS, se vi sono possibilità concrete di ulteriori cure per il paziente. Abbiamo avuto notizie di soggetti morti in ambulanza o in astanteria”.

In sostanza, mentre prima i medici, dinanzi a una criticità, se lo ritenevano necessario, inviavano i loro pazienti in un pronto soccorso, dal 29 marzo la procedura cambia. La disposizione è chiara: è possibile soltanto se l’ospedale sarà disponibile a offrire le cure. Non è chiaro però sulla base di quale criterio: uno scambio di informazioni al telefono? Decisioni prese sulla parola? E se, per esempio, una crisi respiratoria precipita in poche ore, che si fa?

Ma torniamo a quel 29 marzo. È domenica e l’assessore regionale alla Sanità della Lombardia, Giulio Gallera, alle 18 circa, come di consueto, appare in tv per il bollettino della giornata. Tra i dati essenziali, di quelli che fanno tremare, cita il numero di posti letto disponibili in terapia intensiva. A fine febbraio erano circa 700. Si era giunti quasi alla saturazione, una situazione drammatica. Ma il 29 marzo Gallera dice che erano stati aumentati e infatti spiega che i ricoverati in terapia intensiva sono 1.328 su 1.600 posti disponibili. “Qualcosa”, dice, “che non ha nessun paragone in nessun altro sistema sanitario. Siamo al 135/140 per cento di posti letto in più”. Il 29 marzo quindi Gallera spiega ai cittadini lombardi che, sebbene l’emergenza perduri, almeno sul numero di letti disponibili in terapia intensiva, si può tirare un minimo sospiro di sollievo. Nelle stesse ore, il dottor Rossi, prosegue la sua email con le seguenti parole: “Paradossalmente allo stato le nostre cure risultano essere migliori e più dignitose rispetto a quelle del PS, stante il fatto che i nostri non vengono quasi mai messi in ventilazione assistita. Vi prego di prendere come disposizione vincolante il contatto telefonico del nostro medico con quello del PS. Sperando che questa drammatica situazione diventi presto un brutto ricordo, vi saluto”.

Rossi sostiene che al Pio Albergo “paradossalmente”, per un paziente, può andar meglio che al pronto soccorso. Avrà certamente le sue ragioni. L’abbiamo contattato con una email chiedendogli di spiegarcele. Ci ha risposto per lui l’ufficio stampa del Pio Albergo Trivulzio: “Siamo ancora in silenzio stampa”.

Ma torniamo alla disposizione vincolante del dottor Rossi: non sappiamo se tutti i medici l’abbiano rispettata. Ma possiamo mostrarvi il contenuto di uno scambio di email tra un dirigente medico e un suo collega. Il 4 aprile – 5 giorni dopo la disposizione vincolante di Rossi – un dirigente medico della rsa milanese scrive al suo collega: “Ciao, ti chiedo cortesemente, appena possibile, una relazione dettagliata sull’invio in PS dei due pazienti di Pio 3/4 che chiarisca anche se, prima dell’invio, siano stati presi contatti con i colleghi del PS, grazie”.

La risposta è lapidaria. Il medico non conferma e non nega di aver rispettato la procedura.

Scrive semplicemente: “Buongiorno, vi informo che i due ospiti inviati in PS, entrambi ricoverati, sono affetti da polmonite interstiziale Covid-19. Buona giornata.” Il vero paradosso del Trivulzio, a nostro avviso, è che un medico, per aver fatto il suo dovere, abbia dovuto fornire chiarimenti. Due giorni dopo, il 6 aprile, l’assessore Gallera nella conferenza stampa delle 18 dice che “il dato del Pio Albergo Trivulzio è confortante”. Sugli “eventuali” 70 decessi precisa che a marzo 2019 erano morte 53 persone e che “solo in 18 sono decedute per Covid. Che il Trivulzio abbia agito in modo oculato è dimostrato dalla relazione della direzione generale. Il numero di pazienti positivi è estremamente basso”. A oggi, i decessi nel Trivulzio, ammontano a circa 190.