Sorpresa: Abbott batte Diasorin e farà i test gratis

Alla faccia della gara scritta “chiedendo requisiti che possono essere soddisfatti da una sola azienda, la DiaSorin”. Smentito chi pensava che la richiesta di “una specifica caratteristica” (la ricerca degli anticorpi neutralizzanti) nel bando avrebbe influenzato la commissione nella scelta del test a cui sottoporre 150 mila italiani: a sorpresa, la commessa nazionale per la ricerca degli anticorpi del coronavirus nel sangue va (come Il Fatto ha anticipato ieri sul sito internet) alla multinazionale americana Abbott e non al campione nazionale, la Diasorin. Doppia sorpresa: Abbott ha offerto i suoi 150 mila kit gratuitamente.

Una mossa promozionale intelligente e nemmeno troppo costosa. Ieri il commissario del governo per l’emergenza del Coronavirus Domenico Arcuri ha detto: “Il vincitore ha risposto con maggiore qualità e ha confermato tutti gli otto requisiti che contavano più del prezzo ma ha anche offerto i 150 mila test a titolo completamente gratuito”. Arcuri ha ringraziato Abbott senza nominarla e ha chiosato: “La scelta della trasparenza ci ha premiato due volte: abbiamo ottenuto la migliore offerta e siamo riusciti a non gravare sulle casse dello Stato”.

Il decreto aggiudica a Abbott “primo nella graduatoria di merito” sulla base dei requisiti: “Qualità dei prodotti; Semplicità e rapidità dei processi di analisi; tempestività della fornitura e il prezzo”. Solo due offerte sono state ritenute “ammissibili” e Abbott ha vinto ai punti su Diasorin, a prescindere dal prezzo.

Il governo giallo-rosa prende quindi una strada diversa dalla Regione Lombardia. Il governatore leghista Attilio Fontana ha mostrato con dichiarazioni e fatti concludenti la predilezione per Diasorin.

La Spa piemontese quotata in borsa con stabilimenti sparsi per il mondo ha firmato il 20 marzo scorso un contratto con il Policlinico pubblico San Matteo di Pavia proprio per sviluppare il test sierologico e anche per testare un tampone rapido. Il contratto, svelato dal Fatto, prevede royalties per il Policlinico dell’1 per cento sui kit venduti.

Il 23 aprile scorso i laboratori pubblici lombardi hanno cominciato a eseguire migliaia di test ai cittadini con i test della società piemontese acquistati con procedura di urgenza, quindi senza una gara.

La divergenza è quindi di metodo e merito: il commissario a Roma fa una gara e ottiene gratis 150 mila test (fornitura estensibile ad altri 150 mila test) mentre la Lombardia compra senza gara direttamente da Diasorin un quantitativo molto superiore di test, si dice 500 mila. Il contratto in questione non è stato ancora pubblicato sul sito della centrale acquisti della Regione Lombardia, Aria, che però nel frattempo, il 20 aprile, ha pubblicato una manifestazione di interesse per comprare altri due milioni di test. In questo caso il prezzo stimato è di 8 milioni di euro quindi circa 4 euro a test. Aria potrebbe comprare anche dai concorrenti di Diasorin per usare anche le macchine delle altre marche che processano i test concorrenti, macchine già presenti nei laboratori pubblici. Anche le macchine della Abbott sono presenti in Lombardia come nel resto d’Italia ma difficilmente la multinazionale americana entrerà in questa partita.

Le offerte per Aria scadevano il 24 aprile alle 12 e Abbott non risulta avere ottenuto il marchio CE, richiesto dal bando lombardo ma non da quello del commissario Arcuri.

La vittoria della Abbott è stata una sorpresa anche per questo. Solo il 15 aprile Abbott ha lanciato il suo test sierologico per la ricerca degli anticorpi IgG ma nel comunicato si chiariva che il prodotto non aveva ancora il marchio CE.

Diasorin ha comunicato di avere terminato i suoi studi con il Policlinico San Matteo il 7 aprile, ha ottenuto il marchio CE il 17 aprile e ieri la società di Saluggia ha annunciato “di aver ricevuto l’Emergency Use Authorization (Eua) dalla Food and Drug Administration americana per il test Liaison” e inoltre di “aver ricevuto finanziamenti volti a rendere il test disponibile sul territorio statunitense dalla Barda, l’ente federale del Dipartimento americano per la salute”.

Proprio ieri la doccia fredda in casa. L’oggetto della fornitura, secondo il bando del commissario Arcuri era un Kit “del tipo Clia e/o Elisa, per la rilevazione di IgG specifiche (anticorpi neutralizzanti per SARS- CoV– 2)”.

La parola “neutralizzanti” sembrava riferirsi secondo molti operatori del settore, proprio ai test Diasorin, gli unici che vantavano la capacità di trovare, tra tutti gli anticorpi, quelli in grado di uccidere il virus. Invece i tecnici della Commissione hanno ritenuto più importanti altri requisiti.

Il bando del commissario Arcuri non prevedeva il marchio CE come requisito necessario e si accontentava anche della “validazione dei test da parte di laboratori qualificati”. Quando un test non ha ricevuto il marchio CE-IVD si può adottare solo per uso di ricerca (Ruo) ma i laboratori che usano un test di questo tipo devono comunicarlo ai pazienti insieme al referto. Ma da qui al 4 maggio la Abbott potrebbe ottenere il marchio CE e quindi potrebbe non essercene bisogno.

 

“Mascherine a prezzo bloccato”. L’ennesima promessa di Arcuri

Lombardia, Veneto e Friuli le avevano rese necessarie per uscire di casa o per andare al supermercato quando ancora erano introvabili. In Toscana, invece, l’obbligo è scattato solo dopo che l’ultima di quelle promesse (8,5 milioni) è arrivata ai residenti, ma invece di 5 giorni sono servite due settimane a raggiungere lo scopo. Oggi, dopo mesi di penuria e speculazioni, finalmente il problema pare risolto. “Siamo pronti a distribuire tutte le mascherine che serviranno per gestire la Fase 2”, ha detto ieri il commissario straordinario Domenico Arcuri. E presto, ha promesso, anche il loro costo sarà quello giusto: oggi una comune chirurgica prodotta in Cina, che prima dell’emergenza all’ingrosso era venduta a pochi centesimi, arriva sul bancale della farmacia tra gli 1,50 e i 2 euro. Al pezzo. “Nelle prossime ore, fisseremo il prezzo massimo al quale potranno essere vendute – ha detto Arcuri –. Lo faremo sia con riferimento al prezzo che all’aliquota fiscale connessa allo stesso”. Tradotto: l’Iva sul prodotto che oggi è al 22% passerà al 4%, il che farà scendere il costo al pubblico. Che probabilmente si attesterà tra i 90 cent e un euro.

Bene. Federfarma, il sindacato dei farmacisti, lo chiedeva da tempo. E anche i sindaci plaudono: “Siamo contenti”, ha commentato il presidente dell’Anci Antonio Decaro, perché “è una misura non più rinviabile”. Speriamo, però, sia la volta buona. Perché Arcuri ne parla da tempo. Nominato il 17 marzo, l’ex presidente della Fondazione Mps scopre il problema il 7 aprile. “Una chirurgica non può essere rivenduta a 10 volte il costo, questa è una speculazione insopportabile”, tuonava quel giorno. Ma la questione era fuori controllo da settimane: il 12 marzo una farmacia di Milano aveva fatto pagare 60 euro due Ffp3 e i casi si moltiplicavano in tutta Italia. L’11 aprile “stiamo ragionando sul prezzo giusto – spiegava il commissario – e se questo non debba essere predeterminato”. Il 18 si ragionava ancora: “Metteremo in campo prestissimo uno strumento contro la speculazione”. Ma ancora il 23 Arcuri confidava “che in qualche giorno il problema non ci sarà più”. Ieri, poi, l’ultimo annuncio. Certo, il provvedimento non dipende solo dal commissario: trattandosi di materia fiscale, serve una legge dello Stato. Due le ipotesi: le misure, si ragiona dalla struttura, potrebbero essere inseriti nel dl Aprile. Sarebbe la soluzione più veloce: passato in Consiglio dei ministri, il testo sarebbe in vigore. L’altra possibilità è metterle nel dl Liquidità, ma servirebbe un emendamento.

Oggi i dispositivi ci sono (“ne sono stati distribuiti 138 milioni” e “le Regioni ne hanno 47 milioni nei loro magazzini”) perché è stato siglato un accordo con due imprese italiane per realizzare 51 macchinari che ne produrranno tra 400 e 800 mila al giorno e che lo Stato acquisterà. “Arriveremo presto a produrne almeno 25 milioni al giorno”. L’intesa c’è, manca la firma sul contratto ma l’uomo di Invitalia è sicuro: le “distribuiremo anche alla Pubblica amministrazione, ai trasporti pubblici, alle forze dell’ordine e alle Rsa, siano essere pubbliche, poche, o private, molte,”.

A parte l’uso dell’indicativo futuro, le certezze in vista per la Fase 2 sono poche. Il 4 maggio partiranno i test sierologici a livello nazionale su un campione di 150 mila persone. “Abbiamo concluso la gara, 4 giorni prima del tempo e solo 9 dopo la richiesta del governo”. Sono 72 le aziende che hanno partecipato e quella scelta, la Abbott, offre la “migliore soluzione oggi esistente sul mercato” perché “per chi lo ha prodotto garantisce il risultato al 95%”. Quando però, proprio ieri l’Oms ha pubblicato un documento che conferma come “non ci siano ancora prove scientifiche che le persone che sono guarite dal Covid-19 abbiano anticorpi che proteggono da una seconda infezione” e “non ci sono abbastanza evidenze sull’efficacia dell’immunità data dagli anticorpi per garantire l’accuratezza di un ‘passaporto di immunità’”.

I dati comunicati dalla Protezione civile, intanto, segnano un nuovo allentamento della pressione. Il numero dei contagiati totali – compresi morti e guariti – è di 195.351 (+2.357), con un incremento in 24 ore dell’1,22%, il più basso dall’inizio dell’emergenza, risultato di oltre 65 mila tamponi. Dei 105.847 malati attuali (in calo per il sesto giorno di fila, di 680 unità), 21.533 sono ricoverati (-535) e 82.212 sono in isolamento a casa, per la prima volta in calo (-74). Resta però alto il numero delle vittime: 420. Respira la Lombardia, che dal 6 aprile non registrava così pochi nuovi casi: 713, dato ancora più incoraggiante perché ottenuto con ben 12.642 tamponi. Anche il capoluogo va meglio: i nuovi positivi nell’area metropolitana sono 219, per un totale di 17.909, di cui 80 a Milano: venerdì l’aumento era stato di 412, di cui 246 in città.

Operazione governissimo: Stampubblica inguaia Zinga

C’era una volta “abbiamo una banca”, l’intercettazione di Piero Fassino con Giovanni Consorte: il segretario dei Ds che si informava con l’amministratore delegato di Unipol sullo stato della trattativa per l’acquisizione di Bnl. Era uno dei primi peccati originali della sinistra, un colpo mortale alla “diversità” degli eredi di Berlinguer. Oggi non c’è un’intercettazione, ma uno sfogo privato che si può tradurre così: “Non abbiamo più un giornale”.

Pd preoccupato. La cacciata di Carlo Verdelli da Repubblica è questione di politica e potere. Per il quotidiano è una svolta nei valori e nella sostanza. Né è una prova la profonda preoccupazione del fondatore Eugenio Scalfari, raccontata ieri da Carlo Tecce sul Fatto Quotidiano. L’avvento della famiglia Agnelli-Elkann porta con sé la fine dell’idea stessa con cui è cresciuta Repubblica: un giornale-partito che però al tempo stesso aveva un legame speciale con un partito-partito, ovviamente il Pd. Il segretario Nicola Zingaretti nei suoi colloqui privati se ne è già lamentato: considera l’epurazione di Verdelli e la nomina alla direzione del giornale di Maurizio Molinari un’operazione di destra. E più precisamente un’operazione per indebolire il governo in carica e lavorare alle condizioni di un nuovo status quo: la tanto chiacchierata “unità nazionale”. Una soluzione che nel retrobottega politico e giornalistico di questo periodo conduce sempre allo stesso nome: Mario Draghi.

Spaccare la Lega. Lavorare per un rimescolamento politico attorno a Draghi significa provare a parlare a un mondo moderato che ora è debole. E quindi tentare un’operazione che in questo momento pare immaginifica e improbabile: spaccare la Lega. Soffiare sulle differenze chiare che esistono tra il Carroccio pragmatico di Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia da quello chiacchierone e infantile di Matteo Salvini.

Il governatore veneto è l’unico nel Carroccio che potrebbe uscire dalla devastazione del Coronavirus con un’immagine rafforzata e la reputazione di credibile uomo di governo. Mentre non è un mistero che l’alchimia tra Giorgetti e il suo segretario sia ai minimi storici: non c’è alcuna visione condivisa nella strategia scelta da Salvini in questo periodo di crisi. Il numero due leghista è nella sua villa di Cazzago, silente: la sua voce in pubblico non si sente da parecchio.

Certo, poi ci sono questioni più concrete che sconsigliano voli pindarici: che genere di contributo potrebbe dare materialmente Giorgetti a questa operazione di palazzo, è realistico pensare a un gruppo di parlamentari eretici del Carroccio che lasciano il Capitano sulla via del governissimo? Ora no. Ma le linee di frattura nella Lega esistono e vanno seguite con attenzione.

Prime parole famose. La sensazione che Stampubblica possa diventare la casa di carta del governissimo è incoraggiata dalle prime parole dei suoi nuovi direttori. E pure dalla prima pagina di Repubblica del 25 aprile: il titolo centrale con cui esordisce Molinari non è sulla Liberazione ma sul (post) Coronavirus: “La rivoluzione dei trasporti. Viaggi a numero chiuso”. La linea politica del nuovo corso, leggendo in filigrana, sembra anticipata in un passaggio dell’editoriale dello stesso Molinari: “Le democrazie hanno bisogno di veder nascere dalle rovine della pandemia una nuova generazione di leader”. Il direttore appena incaricato inizia parlando di ricambio. L’editoriale di Massimo Giannini, che ha raccolto l’eredità di Molinari alla Stampa, è ancora più esplicitamente anti-Conte: “Chiediamo al governo di indicarci un exit-strategy dalla chiusura totale che asfissia 6 milioni di famiglie (…) Gli altri l’hanno già fatto. Non dico la solita Germania (…), dico Spagna e Portogallo, colpiti dal Covid in condizioni non migliori delle nostre e tuttavia capaci di venirne fuori prima”. Giannini poi cita esplicitamente il convitato di pietra di qualsiasi ragionamento sul post-Conte: “Serviranno ‘strumenti eccezionali per tempi eccezionali’, come dice Mario Draghi”.

E ancora sulla nuova Stampa di Giannini ieri è stata pubblicata un’intervista di Luigi Di Maio che funziona da perfetto complemento di questo venticello destabilizzante. Specie nel titolo: “Dall’Europa soldi subito e in tempi certi. E sul Mes dobbiamo essere pragmatici”. Ecco il Mes, il grande Babau dei giallorosa, la vera crepa nel governo.

Tant’è che nel pomeriggio proprio il titolo viene contestato ferocemente da Augusto Rubei, il portavoce di Di Maio: “Con grande stupore mi sono trovato a constatare che nel suo titolo La Stampa ha travisato totalmente le parole del ministro, strumentalizzandole”.

Il giornale di Cdb. Infine, sempre nel giorno in cui Stampubblica inaugura il suo nuovo corso, arrivano le parole dell’ex proprietario. Carlo De Benedetti, l’uomo che ha venduto Gedi agli Agnelli, racconta al Fogliodi avere voglia di fondare un nuovo giornale. “Penso che John Elkann voglia modificare la natura di Repubblica. Lo portano più a destra. Credo sia in animo uno snaturamento sostanziale del filone culturale che è stato all’origine del giornale fondato da Eugenio Scalfari”. Cdb ha già nostalgia di un quotidiano di centrosinistra. Potrebbe colmare quel vuoto lamentato in privato da Zingaretti (e in pubblico da Gianni Cuperlo, che ha definito la sinistra italiana “orfana” di una testata). De Benedetti è più che aperto all’ipotesi: “Ci sto pensando seriamente. E ricevo messaggi incoraggianti (…), penso ci siano buoni ragioni politiche, culturali e persino un grande spazio editoriale per un nuovo quotidiano”. Con il vecchio stampo della Repubblica di Scalfari, Ezio Mauro e Verdelli.

Mattarella solitario all’Altare, per Conte i versi di De Gregori

L’immagine simbolo della Festa della Liberazione ricorda per potenza e maestosità quella del 27 marzo scorso, quando Papa Francesco – da solo e sotto la pioggia di Piazza San Pietro – concesse l’indulgenza plenaria. E così ieri la consueta cerimonia all’Altare della Patria è diventata un’altra fotografia che resterà nella storia del Paese: Sergio Mattarella scende le scale senza nessuno intorno, con la mascherina sul volto e perfetta geometria scenica da far assomigliare la foto a un quadro.

Il 25 aprile inizia così e prosegue con le celebrazioni di politici e società civile. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte cita Francesco De Gregori e la sua Viva l’Italia, selezionando versi qua e là: “Viva l’Italia / L’Italia liberata / L’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura / Viva l’Italia, l’Italia che non ha paura / L’Italia con gli occhi aperti nella notte triste / Viva l’Italia / L’Italia che resiste”. Vistoil periodo, probabile che De Gregori non abbia nulla da obiettare, lui che in passato si vide presa in prestito la sua musica tra gli altri da Bettino Craxi (senza gradire particolarmente) e da Walter Veltroni, con cui ebbe alti e bassi.

Ma di omaggi all’Italia sono pieni i social. A Parma gli specializzandi del reparto Covid girano un video in ospedale sulle note di Bella Ciao, a Napoli, Milano, Roma, Torino si suona il canto dei partigiani dai balconi con chitarre e violini.

Neanche quest’anno però la Liberazione mette tutti d’accordo. Il centrodestra aspetta mezza giornata, poi un mini-corteo antifascista a Roma dà l’occasione per sfogarsi: “Niente funerali, messe e matrimoni – scrive Matteo Salvini – ma con la bandiera rossa tutta è possibile”. E così Maurizio Gasparri (FI) che chiede “l’arresto” per i manifestanti e Giorgia Meloni (FdI) che parla di “incredulità e lo sdegno”. Con Alessandra Mussolini che va oltre: “Prevale l’egoismo dei partigiani che se ne fregano del prossimo, come sempre”.

E pensare che ieri la prima pagina più calorosa nei confronti della Liberazione era quella di Avvenire (“25 aprile: resistere resistere resistere”), non certo un quotidiano a cui la destra potrebbe imputare il filo-comunismo.

App e “contatti”: cosa devi fare se incontri qualcuno infettato?

“C’è un’app praticamente per tutto”, diceva uno dei primi slogan della Apple, profetizzando il gaio totalitarismo a cui la casa di Cupertino avrebbe sottoposto vite e sinapsi di tutti, con la nostra più soddisfatta acquiescenza. “Per trovare un taxi, c’è una applicazione. Per raddrizzare una mensola, c’è una applicazione. C’è un’app per tutto”. Apple ha brevettato lo slogan, può usarlo solo lei. Ci voleva una pandemia per rivelare come questo claim commerciale fosse, più che la trovata reclamistica di una multinazionale, un paradigma culturale pervasivo e incontrovertibile.

Della app Immuni, che sarà sviluppata per il contact tracing dei contagi da coronavirus, Il Fatto ha analizzato e spiegato nei giorni scorsi i possibili problemi di privacy. Ora vorremmo aprire una questione di metodologia, che si riversa anche sulla dimensione civile della nostra vita quotidiana nella cosiddetta Fase 2.

Intanto, il funzionamento: la app scaricata volontariamente dalla popolazione avviserà i sani, con una notifica sui loro smartphone, dell’avvenuto contatto con un contagiato, sfruttando il dato dell’aggancio tra cellulari via bluetooth. I sani, allora, come il gatto di Schrödinger che è contemporaneamente vivo e morto finché non si apre la scatola, si metteranno in isolamento volontario per evitare di contagiare gli altri, in attesa di vedere se svilupperanno i sintomi.

È chiaro che non verremo allertati in tempo reale ogni volta che incrociamo un portatore del virus (contrariamente a quanto detto da Di Maio, che ipotizza una sorta di Minority report del contagio); il virus non sviluppa radiazioni elettromagnetiche, e l’app non è un radar, simile a quello di certe app per incontri di disponibilità sessuale. L’avviso avviene solo ex post. Dunque, di tutte le persone riscontrate positive verranno tracciati retroattivamente i contatti, e questi contatti, identificati in forma anonima, verranno avvisati. Ma cosa vuol dire “contatto”? Di quanto e quale contatto si parla? Stretto o lasco? Occasionale o continuato? Risalente a quanti giorni o ore prima della comparsa di sintomi del contatto zero? È ovvio che più aumentano i giorni osservati, più aumentano le persone da contattare.

Ad ogni modo: le persone che sono venute in contatto in un dato lasso di tempo col positivo accertato, riceveranno una notifica di allerta sul cellulare. A questo punto non è chiaro cosa succede: la persona che riceve il messaggio dovrà recarsi in un centro Covid per essere testata? E se il positivo ha incontrato nella settimana precedente 50, 100, 200 persone, a tutte verrà fatto il tampone? Proviamo a moltiplicare questo dato per i 3-4mila nuovi contagi giornalieri attuali: abbiamo tamponi sufficienti? A quanto ne sappiamo, no. È il motivo per cui invece dell’indagine epidemiologica si è deciso di usare una app.

Va da sé che se non si fanno tamponi, se non possono essere processati, se non c’è abbastanza personale per refertarli, l’app è inutile. Avremo una legione di sospetti positivi in isolamento, e non è detto che tutti dispongano di seconda casa o dépendance. Ma ammettiamo che tutti vengano testati: se il tampone di un contatto è negativo, lo si lascia andare accertandolo sano? Abbiamo capito che il tampone è una fotografia dell’esistente, una specie di i-Ching del contagio; un negativo attuale potrebbe positivizzarsi l’indomani, o dopo ancora. Questo vuol dire che andrà ri-testato più volte nei giorni successivi: e come facciamo se non ci sono abbastanza tamponi?

Si dirà: questo è il metodo adottato in Corea del Sud, dove hanno azzerato i contagi; è vero, ma la Corea del Sud è ferma a 10mila casi, noi siamo a 200mila e gli esperti dicono che i contagiati reali possono essere 10 volte tanto.

Non occorre una fervida fantasia per assumere la probabilità, anzi la certezza, che chiunque abbia una vita normale potrebbe ricevere più notifiche a settimana, perché il suo cellulare si è agganciato più volte con quelli di positivi. Una persona che si sia già isolata per 14 giorni potrebbe ricevere una nuova notifica pochi giorni dopo aver rimesso il naso fuori. E così via per i mesi successivi. Forse, la burocrazia neutralizzerà il carattere smart della app: i medici di famiglia possono dare giorni di malattia per “isolamento cautelativo”, ma solo in presenza di tampone positivo. E se il tampone non viene fatto oppure è negativo, quale motivo è previsto per giustificare la malattia di un sano? Quanti mesi può restare a casa un cittadino che prende mezzi pubblici, va al lavoro, al supermercato, al cinema, al ristorante, entrando continuamente dentro nuvole di possibili contagi? Sono previsti ammortizzatori sociali per questa cassa integrazione civile forzata? Se non si fa luce su questi aspetti, la Fase 2 può essere più onerosa della Fase 1.

Insomma, c’è un’app per tutto. Ma se l’analogico non funziona, il digitale è patogeno e inservibile.

Questo sì, questo no: le regole per il mare, i cantieri, le industrie

Aveva promesso di chiudere entro oggi, ma ci sono ancora troppi tasselli da definire. Domani, al più martedì, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annuncerà in conferenza stampa contorni e dettagli del nuovo Dpcm con cui avviare la fase 2 del lockdown, la serrata per il coronavirus. In giornata è prevista la riunione della cabina di regia, quella che vede (metaforicamente) seduti al tavolo Conte e i ministri con rappresentanti delle Regioni e dei Comuni. Ma tra oggi e domani il premier dovrà fare un punto anche con i capidelegazioni dei partiti. E trovare una quadra tra le varie parti non sarà semplicissimo. Anche perché c’è da frenare la voglia di molte Regioni di riaprire il più possibile, a cui continua a fare argine per primo il ministro della Salute, Roberto Speranza, il più preoccupato dalle possibili conseguenze di un allentamento eccessivo. Mentre dall’altra parte c’è la spinta delle imprese e di alcuni ministri per riaprire il prima possibile almeno alcune filiere produttive. Ma il premier vuole parlare al Paese solo quando avrà tutto il quadro completo. Perché ora non si può sbagliare.

 

Chi abita al mare o in riva a un fiume da ieri ha un motivo in più per ritenersi fortunato. Perché sul sito della presidenza del Consiglio è stato chiarito che tra le attività motorie consentite in prossimità del proprio domicilio non ci sono solo la corsetta o la passeggiatina per portare a spasso il cane o per assicurare il diritto all’ora d’aria ai bimbi. Ma anche farsi una nuotata, ancorché da soli e mantenendo la distanza di un metro da altri che abbiano avuto la stessa idea. Questo perché le rive e le coste, a meno di specifici divieti più stringenti imposti su base locale, non sono considerate luoghi chiusi al pubblico come lo sono ancora parchi, aree verdi urbane, e anche gli stabilimenti balneari, in cui permane il blocco all’ingresso e la circolazione.
Ma c’è ancora molto da definire sulle modalità della Fase 2 dell’emergenza Coronavirus, quella che dal 4 maggio segnerà la fine della quarantena più stretta in cui sono consentite solo le uscite strettamente necessarie e debitamente autocertificate, come fare la spesa, comprare il giornale o andare al lavoro nelle aziende funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività essenziali o di rilevanza strategica per l’economia nazionale. E non sono poche se si pensa che al 24 aprile sono state 192.443 le imprese che hanno comunicato alle prefetture italiane di aver mantenuto aperti i battenti nonostante il lockdown: il 23% di queste comunicazioni riguardano imprese della Lombardia, seguite da quelle del Veneto (16,4%) e dell’Emilia-Romagna (16,4%). Ora sta a Conte stabilire non solo cosa potranno fare i cittadini e cosa no a partire dal prossimo 4 maggio (l’allentamento della morsa dovrebbe consentire le visite a parenti e amici, ma sempre con tutte le cautele del caso). Ma anche quali altre attività produttive potranno riprendere, già in settimana. Di certo il ministro della Cultura Franceschini ha già annunciato per il 18 maggio la riapertura dei musei. Nel corso del vertice di venerdì tra il governo e i capi delegazione dei partiti di maggioranza si è convenuto sulla necessità di consentire da subito la possibilità per i parenti più stretti di partecipare ai funerali delle vittime del Covid-19, ma anche sulla opportunità di presentare agli italiani una serie di date ravvicinate a cui legare la graduale ripresa che è “sperimentale”, come ha chiarito anche la task force presieduta da Vittorio Colao.
Il manager ha indicato nella manifattura, nelle costruzioni e nei servizi i primi tre settori che potrebbero ripartire in base al rischio di esposizione al contagio come peraltro già evidenziato nel documento tecnico dell’Inail sulle classi di rischio e di aggregazione sociale. Non a caso è stato siglato un protocollo specifico tra il ministero delle Infrastrutture e gli enti locali sul via libera alla riapertura dei cantieri che intervengono sull’assetto idrogeologico, sull’edilizia scolastica, l’edilizia carceraria e l’edilizia residenziale pubblica anche prima del 4 maggio, sempre ovviamente che possano essere garantite le condizioni di sicurezza.

 

No

Certo, i numeri raccontano che il virus fa un po’ meno paura. Ma le limitazioni e i divieti rimarranno molti e rilevanti, perché così predica il comitato tecnico scientifico, con parole a cui è molto sensibile innanzitutto il premier Conte, ma che restano la bussola anche per molti ministri di peso. Ovviamente per quello alla Salute Roberto Speranza, che anche in queste ore ha spiegato che le riaperture dal 27 aprile potranno essere solo minime. Ma anche per il Guardasigilli e capodelegazione dei Cinque Stelle, Alfonso Bonafede, che lo ha ribadito nell’ultima riunione di governo sulla ripartenza, venerdì scorso: “Per adesso non possiamo consentire gli spostamenti da una regione all’altra, è la base da cui non possiamo prescindere”.
E su questo sono tutti d’accordo: il divieto di lasciare la propria regione rimarrà anche dopo il 4 maggio fino a data da destinarsi, fatte salve le eccezioni già ammesse ora per chi si sposta per motivi lavorativi o per altre ragioni di assoluta necessità. Mentre per la riapertura di bar e ristoranti bisognerà ancora attendere, almeno fino al 17 maggio. Soprattutto, rimarrà il divieto per feste o celebrazioni, nelle case ma anche all’aperto. Perché molti focolai sono nati e rischiano di riformarsi proprio da occasioni conviviali. Il quadro, confermava ieri sera una fonte di governo, è ancora da definire in molti passaggi: “Venerdì ci siamo alzati dal tavolo con tante ipotesi ancora da sciogliere”. E tra i punti più critici c’è quello delle dotazione delle mascherine, centrale innanzitutto per le imprese. Perché, ragionava ieri un esponente di governo, “come facciamo a consentire alle aziende di ripartire, magari già da questa settimana, se non siamo certi che abbiano le mascherine sufficienti?”. In un’azienda dove si fanno turni da otto ore con il personale a stretto contatto, è la riflessione, servirebbero almeno due mascherine al giorno per ciascun dipendente. Ma non è detto che se ne possano avere a disposizione per tutti. “E poi quanto costerebbe a una impresa medio-piccola?” è l’altro nodo, niente affatto secondario.
Non a caso nel protocollo per il contenimento del Covid sottoscritto da governo, imprese e sindacati appare una formula molto larga: “L’adozione delle mascherine è evidentemente legata alla disponibilità in commercio delle stesse”. Ma dovranno comunque essere garantite se sarà obbligatorio “il lavoro interpersonale a distanza inferiore al metro”. Ma il tema del reperimento e dei costi delle protezioni rimane una delle principali spine della fase 2.
Un altro punto importante ancora da sciogliere è quello della riorganizzazione dei trasporti pubblici, perché i tempi per mettere in pratica tutte le prescrizioni contenute nel piano elaborato dal ministero delle Infrastrutture (oltre che le indicazioni dell’Inail) sono davvero strettissimi. Anche per questo lo smart working resta la prima opzione: la seconda è l’utilizzo di mezzi privati, bici, scooter e trasporti aziendali.

Incassese mica tanto

Noi, come i lettori ben sanno, siamo fervidi ammiratori del professor Sabino Cassese da Atripalda (Avellino), giudice costituzionale emerito ed ex tantissime altre cose. E ci rallegra vederlo apparire nelle tv (ultimamente collegato da casa con le cuffiette da teenager per evitare il contagio che prende di mira soprattutto i suoi coetanei), sempre arzillo e combattivo alla veneranda età di 85 anni, sempre teso al bene comune. Inteso, si capisce, come il bene suo e del suo cenacolo di allievi, che negli anni ha sparso dappertutto nella PA con la pervasività della mucillagine. Ai tempi belli dell’Italia e di Cassese, non c’era governo che, per ministri, viceministri, sottosegretari, capi di gabinetto, direttori generali, capuffici legislativi, comitati di saggi e saggetti, non attingesse a piene mani dal pescoso laghetto denominato, sulle carte topografiche, “Allievidicassese”. Una volta era per la trota Giulio Napolitano (incidentalmente figlio di Re Giorgio), una per la tinca Bernardo Giorgio Mattarella (casualmente figlio del più illustre Sergio), un’altra per la triglia Giacinto della Cananea (nominato nell’aprile 2018 dal povero Di Maio, via Colle, “saggio” per la ricerca di compatibilità fra i programmi di M5S e Pd e giunto invece alla terrificante conclusione che i programmi più compatibili erano quelli di Pd e Lega).

Il record di allievidicassese si raggiunse nei tre governi di larghe intese – Monti, Letta e Innominabile – usciti dal cilindro di Re Giorgio e del suo tigellino Sabino, che ha sempre avuto una predilezione per il ministero della PA (già Funzione pubblica, poi Semplificazione burocratica): prima ne fu titolare nel governo Ciampi (1993-’94), poi lo controllò con gli allievidicassese che facevano da balie asciutte ai ministri pro tempore, ultima l’ineffabile Madia. Il che rende umoristiche le sue filippiche contro la burocrazia che asfissia l’Italia per colpa di Conte, visto che lui e la sua progenie hanno avuto 30 anni per disboscarla. Ma ciò che più lo inquieta, ultimamente, è il “golpe di Conte” che, fra decreti legge e dpcm, avrebbe calpestato e “dimenticato la Costituzione”. Un’accusa gravissima anche per il presidente della Repubblica che i dpcm ha concordato e i decreti ha firmato. Ma anche esilarante, visto che quattro anni fa il Cassese disprezzava la Carta al punto da volerla stravolgere, da uomo-sandwich della scombiccherata controriforma renziana, scritta a quattro piedi da Boschi&Verdini. Dopodiché propose di commissariare la sindaca Raggi con un non meglio precisato “gestore” perché non l’aveva scelta lui, ma il lurido popolo romano.

Attaccò i giallo-verdi perché osavano nominare chi pareva a loro e non a lui, o perché insidiavano il dogma dell’infallibilità di Bankitalia in base al bizzarro concetto di una “democrazia ridotta a elezioni” (anziché a lezioni: le sue). E si batteva come un leone, dopo il crollo del ponte Morandi, in difesa di Autostrade Spa che gli aveva garantito un bel posto in Cda con allegati 700mila euro. Ma nessuno, nelle copiose ospitate televisive e nelle quotidiane interviste qua e là, osa mai rammentargli i suoi trascorsi. Anzi, gli intervistatori lo trattano come l’oracolo di Delfi: mani giunte, sguardo estatico e boccuccia a cul di gallina. Ieri, per dire, l’anziano stalker pontificava sul Giornale contro il premier e il governo che, non essendo allievidicassese, sono “improvvisati” e “procedono per continui aggiustamenti”. A chi obiettasse che così fan tutti i governi del mondo, Cassese risponderebbe che lui è molto meglio di Conte e Mattarella: sa tutto, sul virus e sul da farsi. Il Genio di Atripalda non gradisce neppure che Conte parli agli italiani, come del resto tutti i capi di governo del mondo. All’inizio della pandemia, disse in tv che avrebbe preferito “far parlare il ministro della Salute”. Ma Conte, incurante, perseverò. E ora l’Emerito Irpino gli rimprovera di “usare strumenti sbagliati” (tipo la voce e il microfono) e soprattutto di non essere “la cancelliera tedesca” (che inopinatamente parla ai tedeschi pur non essendo il ministro della Salute), candidandosi anche a nuovo Casalino. Già che c’è, si crede pure il Csm e dà una lezione alle Procure che osano indagare sui morti ammazzati nelle Rsa: guai a “tornare alla Repubblica giudiziaria, all’Etat de justice che si sostituisce all’Etat de droit, su cui lo storico francese Jacques Krynen ha scritto tre importanti volumi”, dunque i pm prendano buona nota. Quanto ai politici, dovrebbero avere “idee, progetti, menti. Ma non ne vedo in giro”, a parte se stesso, si capisce.

A leggere parole così sconsolate e a vederlo così imbronciato e malmostoso, come il vecchietto dei western che sputacchia per terra bestemmiando mentre raccoglie nelle casse di legno i cadaveri della sfida all’Ok Corral, noi fan restiamo un po’ male. Il buonumore è fondamentale per gli anticorpi, soprattutto a un’età a rischio come la sua. Quindi Conte faccia qualcosa per restituire il sorriso all’emerito stalker. Trovi un posticino a lui o a un suo allievo in una delle sue numerose task force, o magari nella prossima. Basta poco per farlo contento. Appena si accomoda in poltrona, si ammansisce subito: non disturba, non sporca, dove lo metti sta.

“Suonavo nelle case dei fan, ora canto con Patty Smith”

Ci aveva lavorato per più di un anno, alla preparazione del tour internazionale.

Qual era la prima data, caro Giovanni Caccamo?

Il 9 aprile. A Wuhan.

E invece.

C’è un ideogramma giapponese per la parola “crisi”. Due disegni: uno rappresenta il “pericolo”, l’altro l’“opportunità”.

Così si è piazzato sul balcone di casa, e ha colto l’attimo.

Nei primi giorni, per allietare i vicini sparavo una playlist di classici italiani. Carrà, Battiato, Caselli, Cutugno. Mi piaceva vincere facile. Non azzardavo il mio repertorio.

La sua umiltà è stata ben ripagata. Domani ha un impegno prestigioso a Parigi. In via virtuale.

Mi incornicerò il poster. Sono stato invitato da Jesse, la figlia di Patti Smith, all’evento Pathway to Paris, che sarà trasmesso su Instagram alle 22 per celebrare la 50esima Giornata della Terra. Un Festival in diretta streaming, e sarò l’unico artista italiano.

In ottima compagnia. Nel cast, oltre alla famiglia Smith, ci saranno Michael Stipe, Johnny Depp, Flea dei Red Hot Chili Peppers, Ben Harper, Cat Power… Come è nata la proposta?

Avevo conosciuto Jesse Smith qui a Milano, una ragazza dall’anima antica come sua madre. Abbiamo scritto cose insieme, suonato in una jam. A questo mondo vi sono spiriti connessi per canali misteriosi, che si capiscono al primo sguardo. Jesse e Patti mi avevano parlato di questa iniziativa per la lotta ai cambiamenti climatici, e sono orgoglioso di esserci. Ho fatto tesoro di una frase di Papa Francesco: “Abbiamo avuto la supponenza di vivere da sani per decenni in un mondo malato”.

Cosa eseguirà?

La mia Eterno e Can’t take my eyes off you, di Frankie Valli. Che tutti abbiamo sempre considerato un pezzo festoso, da trenini, anche per la versione disco di Gloria Gaynor. Io voglio sottolinearne il significato originario, più sottile, come si capisce dal film di Eastwood, Jersey boys. Valli l’aveva scritta dopo la morte della figlia. C’era una radice malinconica nella sua ribellione al destino.

Se dovesse dialogare con qualcuno, nel cast stellare di Pathway to Paris?

Direi grazie a uno dei meno noti, Patrick Watson. Mi colpisce il contrasto tra ruvidezza e dolcezza nelle sue cose. Ma la mia gratitudine va a molti di quelli che ho incontrato nel mio cammino. Willem Defoe, Carmen Consoli, Bocelli, Battiato. Mi sento come un ricercatore di storie, un minatore a caccia di pensieri preziosi.

Battiato è stato il suo mentore. Lei andò ad appostarsi dietro un cespuglio sulla spiaggia dove Franco prendeva il sole, finché gli consegnò un cd con i demo.

E con mia sorpresa mi richiamò per parlarne. Ho un ricordo nitido di quei primi giorni della nostra amicizia. Mi diceva: “Non avere mai l’arroganza di pensare di essere tu il creatore della tue composizioni, l’artista è un tramite fra terra e cielo, deve avere l’umiltà di avere i piedi ben piantati sul terreno. Resta una persona semplice, perché quando la presunzione ti farà credere che potrai volare da solo, la tua arte non si solleverà”.

Negli anni ha continuato a frequentare Battiato. Chi lo vede di questi tempi lo definisce sereno nella casa di Milo, lontano dalle polemiche che hanno investito la sua famiglia.

Sì, ed è bello immaginarlo mentre dipinge i suoi amati quadri.

Lei, nel frattempo, sta scrivendo un album ambizioso.

Invocavo una pausa per documentarmi, è arrivata per cause di forza maggiore. Sarà un concept, incentrato sulle molteplici realtà della Parola.

Qualcuno ne usa spesso a sproposito. Che dice di Feltri?

Mi figuro la faccia che farebbe Terzani di fronte a certe enormità. Tiziano si produrrebbe in una cosmica risata: “Ecco un altro che non ha capito cos’è l’essenza della vita, e si intestardisce ad alimentare odio e divisioni.

È ottimista sul futuro della musica dal vivo?

Solo se ognuno farà la propria parte. Oggi tutti gli artisti si producono in dirette social 24 ore su 24, ma sono palliativi in vista di quella che non sarà una ripartenza, ma dovrà essere una rinascita. Individuale e sociale. La musica si riaccenderà solo se oggi tuteliamo i meno garantiti: chi ha incassato cospicui anticipi, i big e le agenzie, dovrebbe devolverli a chi monta i palchi o gestisce il suono.

Altrimenti si torna all’idea. Come quando lei fece un tour a inviti nelle case dei fan. Le occorrevano solo un piano e un letto.

Funzionò, tranne una volta. A Venezia. Il fidanzato della ragazza che mi aveva accolto era geloso di me. Fece di tutto per boicottarmi. Suonavo a piedi nudi. E lui: “Perché non ti rimetti scarpe e calzini e te ne vai a casa tua?”. Dopo la performance mi trasferii in albergo.

Gli Avatar non finiscono mai: 5 sequel fino al 2027

Se non tutto, cambiò molto. Sparigliò, incassò come nessun altro, irretì pubblico e cineasti, appagò la critica. Quasi tutta. Lo scomparso nume del Chicago Sun-Times Roger Ebert plaudì convinto, Steven Spielberg buttò lì che era “il più suggestivo e sorprendente film di fantascienza dai tempi di Star Wars”.

E da noi? “Molto, molto bello: e intelligente, divertente, commovente”, scrisse la compianta Lietta Tornabuoni, senza deporre le armi: “Certo, la tecnologia è andata più avanti del moralismo: le donne azzurre di Pandora portano tutte il reggipetto”. A rimorchio Natalia Aspesi: “Nel caso del fastoso e costoso film di Cameron è ovvio che solo i lunatici, i noiosi, i caratteriali, gli eremiti, gli anacoreti e pure l’abate Faria, non andranno a vederlo”, Mariuccia Ciotta con le quattro frecce: “Il successo del film dice la follia politico-esistenziale degli orfani di questa Terra, e il radicale e spasmodico desiderio di cambiare mondo, se il nostro non è più riformabile. Ansia di metamorfosi”.

Dieci anni e qualche mese più tardi, Avatar è una assenza presente. Non c’è ma si rivede, in attesa di andare a vedere: tempi, modi e numeri dei sequel sono cambiati più volte dei modelli di autocertificazione del lockdown. A oggi il poker è così servito: Avatar 2 arriverà in sala il 17 dicembre 2021, il 3 il 22 dicembre 2023, il 4 il 19 dicembre 2025, il 5 il 17 dicembre 2027, allorché il demiurgo James Cameron avrà compiuto 73 anni.

Scrive a quattro mani con Shane Salerno, nel cast riconfermati Zoe Saldana, Sigourney Weaver e Sam Worthington, per Avatar 2 anche Kate Winslet e Vin Diesel. La storia di questo miracolo high tech, soft touch la ricordiamo: un ex marine paraplegico, Jake Sully (Worthington), va in missione sul pianeta Pandora per recuperare le risorse naturali che scarseggiano sulla Terra, tramite un avatar entra in contatto con gli indigeni Na’vi, alti tre metri, pelleblu, capelli rasta, piume, perline e code Usb, ne sposa la causa e combatte contro il colonnello Miles Quaritch.

Altro lo sappiamo: crasi mirabile di analogico e digitale, campione di performance e motion capture, utilizzatore finale di 3d in profondità di campo e non in aggetto, vinse solo tre Oscar (fotografia, effetti speciali e scenografia), battuto dal Davide The Hurt Locker dell’ex moglie di Cameron, Kathryn Bigelow.

Altro siamo venuti a saperlo, per esempio che a Matt Damon era stata offerta la parte di Jake Sully: “Anche un attore sconosciuto andrebbe bene, ma se accetti la parte ti darò il 10 per cento di…”. Cameron non concluse la frase, Damon si mangia ancora le mani.

Perché è vero che è entrato, seppur timidamente e forse non così stabilmente, nel nostro immaginario, che ha ispirato parodie pornografiche, Giornate della Terra e movimento #FridaysForFuture, ma soprattutto Avatar ha fatto sfaceli al box office: 2 miliardi 790 milioni e 439 mila dollari, bottino superato recentemente solo da Avengers: Endgame, 2 miliardi 797 milioni e 800 mila dollari. “Oel Ngati Kameie, I see you Marvel — Congratulations to ‘Avengers Endgame’ on becoming the new box-office king”, ha twittato Cameron, accompagnando un’immagine di Iron Man sul pianeta Pandora, e badate non è stato un passaggio di consegne, bensì una presa in carico.

Se la lavorazione in Nuova Zelanda, dove Weta Digital cura gli effetti visivi, è slittata sine die per il Covid-19 e nel mentre si cincischia a Los Angeles, la fine delle riprese del secondo e terzo capitolo era prevista in primavera. Tocca fare presto: la successione di Avatar è per i conti Disney più importante di quella di Fibonacci. Sì, Disney, perché nel 2019 ha assorbito la Fox che tenne a battesimo la saga.

Orfano di film di Avengers e Star Wars, il 2020 per la Casa di Topolino già non sarebbe stato eccezionale come l’anno scorso, ora gli effetti della pandemia rischiano di renderlo lapidario: senza cinema, parchi a tema, sport e crociere, l’azienda – ha calcolato il Nyt – perde 30 milioni al giorno. Non si tornerà al business as usual, ha detto Bob Iger, tornato a capo della multinazionale per cause di forza maggiore, e in questo futuro incerto Avatar non può fallire, anzi, deve suonare la carica. Per bocca di Jack Sully, l’originale ha condensato il programma delle miliardarie acquisizioni – LucasFilm, Marvel e Fox – dello studio: “Il più forte mangia il più debole, e nessuno muove un dito”, ora la progenie è chiamata a riscattare Disney dal Coronavirus: “Una vita finisce e – ancora Sully – un’altra comincia”. A Pandora?

@fpontiggia1

Moro si dimette e accusa Bolsonaro. “Punta solo ai dossier dei Servizi”

Ciò che non ha potuto l’opposizione, né il coronavirus, né le inchieste contro il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, ha potuto il suo uomo chiave, l’ormai ex ministro della Giustizia, Sergio Moro, che ieri ha rassegnato le dimissioni accusando il presidente di “ingerenze” per aver licenziato il capo della Polizia federale, Maurício Valeixo, da lui nominato. Un duro colpo per il governo con il Paese in balia del Covid-19 e i governatori in rivolta contro Bolsonaro per la gestione “alla Trump” della pandemia. Il presidente ha twittato: “Ristabilirò la verità sulle dimissioni del signor Valeixo e su quelle del signor Moro, mentre la Borsa è crollata del 7% e in molte città i manifestanti chiedono le dimissioni del presidente. Uomo simbolo della grande operazione anti-corruzione in Brasile, l’inchiesta Lava Jato, che ha portato in carcere metà della classe politica di tutti i colori, compreso l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, per questo diventato il ministro più popolare, in un discorso di 40 minuti, Moro non ha risparmiato l’ex militare. “Voleva sostituire il capo della polizia con qualcuno da poter chiamare per avere informazioni e dossier di intelligence”, ha detto l’ex procuratore, che era stato a sua volta accusato dal sito d’inchiesta The Intercept di aver calcato la mano sull’indagine contro Lula. Moro si riferiva ad Alexandre Ramagem, dato come sostituto di Valeixo, ora a capo dei servizi segreti brasiliani. “È un duello tra due non innocenti”, chiarisce uno degli editorialisti del giornale O Globo. Eppure l’ex Guardasigilli ne esce pulito: “Ho cercato una soluzione per evitare una crisi politica in piena pandemia”, ha spiegato Moro dalla sede del ministero di Giustizia, a Brasilia, in un discorso molto politico. L’ex procuratore ha rivendicato la lotta alla corruzione e alla violenza, a favore dello Stato di diritto e dell’autonomia delle istituzioni, ragioni per cui ha “accettato l’incarico”, ora messi “a rischio”. Le dimissioni di Moro, nel giorno in cui i morti per Covid nel Paese segnano il record: 3.000 decessi e 50mila contagi – dati che secondo gli esperti sarebbero fino a 12 volte inferiori a quelli reali – potrebbero essere il colpo finale al governo Bolsonaro già in crisi per l’allontanamento del ministro della Salute e il litigio con il titolare dell’Economia, Paulo Guedes. L’avvicendamento ai vertici della Polizia avviene a pochi giorni dall’apertura delle indagini sulle manifestazioni contro la democrazia, a cui ha partecipato Bolsonaro stesso.