“The Donald è un esperto: ma di imbrogli”

Nessuno meglio del premio Pulitzer David Cay Johnston conosce la dinastia Trump, in particolare The Donald, che segue in veste di giornalista investigativo da ben 32 anni. La sua biografia (pubblicata per la prima volta nel 2016 ) dell’attuale presidente, The Making of Donald Trump è stata tradotta in decine di Paesi.

Trump ha lasciato tutti sgomenti quando ha suggerito agli americani di farsi addirittura iniezioni di disinfettanti. Come giudica la sua gestione dell’emergenza sanitaria?

Le affermazioni idiote, non scientifiche e molto pericolose di Donald Trump sulle cure per debellare il nuovo Coronavirus illustrano ciò che ho cercato di far capire ai miei connazionali in questi ultimi cinque anni.

Cioè?

Che Trump è seriamente malato di mente, oltre a essere un imbroglione, un uomo disonesto. Non sa praticamente nulla di nulla, è rozzo e incolto nonostante affermi di essere il più grande esperto di molti argomenti. In realtà è solo il più esperto tra gli imbroglioni. Se non fosse per il fatto che detiene la carica più importante del mondo, le sue folli affermazioni per obbligare i medici a usare un medicinale antimalarico sarebbero da commentare con una risata.

Invece ?

Sono una tragedia perché c’è chi lo ascolta.

Ma come è possibile che Trump riesca sempre a farla franca ?

È abile nel prendere in giro la gente. Inoltre se ci fate caso Trump condisce i suoi commenti con tanti giri di parole in modo da poter in seguito rivendicare qualsiasi posizione e negare ciò che aveva appena affermato. Dopo aver sciorinato le sue assurde affermazioni infatti chiosa sempre con “potrebbe essere” o “per quanto ne so” o “lo stiamo verificando”.

Perché a suo avviso Trump vuole dire la sua anche in ambito sanitario?

Le follie di Trump alle 5, trasmesse ogni giorno a livello nazionale dimostrano che non capisce la scienza, non capisce le pratiche centenarie di salute pubblica per prevenire la diffusione di agenti patogeni e ignora i buoni consigli quando interferiscono con l’ immagine che ha di se stesso, cioè come il più grande leader nella storia del mondo. The Donald si considera un dio o, almeno, un semi dio. Molti americani che lo hanno votato e lo rivoteranno si comportano come dei seguaci, fedeli del culto trumpiano. Del resto lui stesso segue, come Bolsonaro, lo stile dei tele-evangelisti, tanto da sentirsi uno di loro. Sono truffatori senza scrupoli che hanno commercializzato la dottrina cristiana e l’hanno stravolta al punto da mettere la ricchezza personale al primo posto tra le virtù designate da Gesù.

Perché è potuto accadere che una persona squilibrata sia diventato presidente della più potente democrazia sul pianeta nel Terzo millenio ?

C’è un vecchio detto americano che può spiegarlo: i poveri sono pazzi, i ricchi eccentrici. Ma Trump non è eccentrico, è un malato di mente nonché una persona cattiva e priva di etica che ammira i dittatori omicidi, chiunque abbia ricchezza e potere e che gli dica ciò che vuole sentire.

Ultima arriva Parigi: pochi test e troppa burocrazia uccidono

I numeri dell’Ocse non lasciano dubbi: il Covid-19 ha colto la Francia impreparata anche sui tamponi. Li riportava ieri Le Monde: al 15 aprile la Francia ha realizzato solo 5,1 test per mille abitanti, tre volte meno della media dei paesi dell’Ocse. Sono poco più della metà di quelli realizzati negli Usa (9,3 per 1.000). Per l’Ocse, la Francia si piazza tra Turchia (5,3 per 1.000) e Cile (4,8 per 1.000). Ma il confronto più amaro è con la Germania (17 test per 1.000).

Sin dall’inizio dell’epidemia, il discorso del governo sui tamponi è stato il seguente: vanno testate solo le persone con sintomi gravi e chi è entrato in contatto con persone infette. Quando il 16 marzo c’è stato l’appello dell’Oms “Test test test”, la Francia realizzava ancora tra 5mila e 8mila tamponi al giorno. Il 21, Olivier Véran, ministro della Salute, ha dunque assicurato che la “capacità di testing” sarebbe stata potenziata. Ma il ritardo accumulato è stato notevole.

Ieri il direttore della Sanità, Jérôme Salomon, era fiero di annunciare che adesso la Francia realizza 40mila test al giorno, circa 280mila dunque a settimana, ma sempre meno di quello che si fa da molto tempo in Germania.

L’obiettivo è di raggiungere i 500mila test a settimana ma solo una volta che la Francia sarà uscita dal lockdown, dopo l’11 maggio, e solo su chi ha sintomi o che è stato a contatto con un malato.

Per i tamponi, in Francia, è andata un po’ come per le mascherine: un’inchiesta di Mediapart ha rivelato di recente come la Francia, ritrovandosi a metà gennaio con uno stock limitato di mascherine, ha preferito dire che non era utile portarle. Ora che le importa a miliardi e che ha ricominciato a produrne, promette mascherine per tutti dal 4 maggio. Che dire dei test? Ieri il titolo di Le Monde era: “Test: i motivi del fiasco francese”. Eccoli: “Difficoltà di approvvigionamento, esitazioni del governo, corporativismo e lungaggini amministrative – ha scritto Le Monde – hanno fatto perdere settimane preziose”.

Già il 20 marzo, lo stesso Jean-François Delfraissy, presidente del Comitato scientifico che affianca il governo, aveva dovuto ammettere: “Potremmo ricorrere al testing di massa, come fanno i coreani, solo all’uscita dal confinamento. Ora non è possibile perché ci mancano dei prodotti che arrivano dalla Cina o dagli Stati Uniti”. La Francia si è trovata a corto di “kit” per i test, di reagenti e di tamponi (prodotti in particolare in Italia). Il governo ha dunque creato un’“unità” ad hoc con la missione di colmare la carenza: “Ma arrivando tardi sul mercato, è più difficile trovare tutti gli elementi di cui si ha bisogno”, ha detto a Le Monde Lionel Barrand, presidente del Sindacato dei giovani biologi. E poi c’è la questione dei laboratori. Fino ai primi di aprile i test potevano essere realizzati solo negli ospedali e nei laboratori privati di analisi. Con il decreto del 5 aprile sono stati infine autorizzati anche i laboratori pubblici veterinari e della ricerca, che lo chiedevano da settimane.

“Fino alla settimana scorsa solo due dei 49 laboratori veterinari avevano firmato una convenzione con un istituto sanitario”, ha detto a Le Monde Aurèlie Valognes, presidente dell’Adilva (l’Associazione dei laboratori veterinari pubblici d’analisi). Al 20 aprile, ne erano 17. Non va meglio per i laboratori di ricerca: solo cinque su 50 circa sarebbero operativi nell’emergenza Covid. Da ultimo bollettino, il virus ha ucciso in Francia 22.245 persone e ne ha contagiate almeno 122.577.

Con una mortalità di +91%, rispetto allo stesso periodo del 2019, per la regione di Parigi (dati Insee).

Disinfettante e altre trovate. I rimedi del “dottor” Trump

Nuove ricette anti-coronavirus dal ‘dottor’ Donald Trump: luce solare – che, almeno, non fa male – raggi ultravioletti o disinfettante iniettato in corpo per ‘uccidere’ il contagio. I consigli rilanciano le polemiche per la superficialità con cui il magnate presidente dispensa indicazioni mediche: c’è chi li giudica “irresponsabili e pericolosi”, perché potrebbero indurre qualcuno a provare a iniettarsi in proprio il disinfettante, e magari proprio la candeggina citata da Trump, “per pulirsi i polmoni”. L’ennesima sortita arriva quando non s’è ancora spenta l’eco dell’insistenza sull’efficacia, contro il virus, dell’idrossiclorochina, un anti-malarico, associata all’azitromicina, un antibiotico; il mix può risultare tossico. Ma è solo l’ennesima, probabilmente non l’ultima, delle ‘perle’ di Trump nell’emergenza coronavirus. Il fermento sui ‘consigli per la salute’ presidenziali segna una giornata in cui il numero dei decessi negli Usa supera i 50 mila e quello dei contagi va oltre gli 870 mila, secondo i dati della Johns Hopkins University.

La Casa Bianca scarica, ovviamente, la colpa sui media: il problema non è che il presidente lo dica, ma che i media lo riportino “irresponsabilmente fuori contesto”. “Trump ha ripetutamente detto che gli americani devono consultare un medico prima di intraprendere un trattamento anti-coronavirus”, recita una nota della portavoce Kayleigh McEnany. E ieri nello studio ovale Trump ha rigirato la frittata: “Il mio era solo sarcasmo”. Ma l’elenco dei medici che, spontaneamente sui social o intervistati in tv, deprecano la faciloneria, e la dabbenaggine, del presidente è praticamente infinito. “Ingerire detergenti lo fa chi vuole suicidarsi”, osserva ironico Vin Gupta, analista medico della Nbc. E l’ente che presiede ai farmaci negli Usa avverte che l’idrossiclorochina può “avere effetti collaterali gravi”, fra cui “seri problemi di aritmia cardiaca”, nei pazienti affetti dal virus, al di fuori delle sperimentazioni cliniche. Con il passare dei giorni, aumentano gli americani stufi di come Trump sta gestendo l’emergenza, ma pure delusi dall’assenza di contro-strategia da parte di Joe Biden, il rivale democratico. Che ipotizza che Trump voglia rinviare le elezioni, temendo di perderle. L’antologia delle castronerie – spesso, vere e proprie falsità – di Trump sul coronavirus, messa insieme con l’ausilio della Bbc, non tiene conto delle polemiche con altri Paesi, la Cina e l’Iran, e neppure di quelle con l’Organizzazione mondiale della Sanità, l’Oms; e neppure dei contrasti, talora aperti, con i suoi specialisti. Proprio ieri, il virologo Anthony Fauci diceva che gli Stati Uniti sono indietro sui test e Trump ribatteva: “Non sono d’accordo… Siamo quelli che ne fanno di più”. Ma ecco una raccolta delle indicazioni del presidente.

29 febbraio – “Noi abbiamo preso le azioni più aggressive contro il coronavirus, più aggressive di quelle fatte da ogni altro Stato”. Quando il magnate lo dice, la Cina e pure l’Italia hanno già imposto quarantene più rigide di quelle mai adottate negli Usa e l’Ue ha limitato i movimenti transnazionali in modo più severo.

Il 5 marzo – “Penso che il tasso di mortalità del coronavisur fornito dall’Oms, il 3,4%, è davvero falso… Personalmente, penso che il numero sia al di sotto dell’1%”. Attualmente, negli Usa il rapporto tra deceduti e ammalati è vicino al 6%: ma nessuno dei due dati è certo ed entrambi sono probabilmente sotto-stimati.

Il 7 marzo – “Molto presto, avremo un vaccino”. Il vaccino non c’è ancora e, per quanto la comunità scientifica vi lavori in modo serrato, è previsione diffusa che non ci sarà fino alla metà dell’anno prossimo.

Il 9 marzo – “L’anno scorso, 37 mila americani sono morti di influenza. Non si fermò nulla, la vita e l’economia vanno avanti… Pensateci”. Vero è che decine di migliaia di americani muoiono d’influenza ogni anno: la cifra una volta tanto, è accurata. Ma per l’influenza ci sono cure e vaccini, che non ci sono per il coronavirus, il cui tasso di mortalità è molto superiore a quello dell’influenza, dell’ordine dello 0,1%.

Il 25 marzo – “Gli Stati Uniti hanno fatto di gran lunga più test di qualsiasi altro Paese”. Il che era vero in termini assoluti, perché gli Usa avevano appena superato la Corea del Sud, ma non era vero pro capite: gli Stati Uniti avevano testato un cittadino su 780, la Corea uno ogni 150.

“Mastervirus”: gli scienziati sono i nuovi mostri televisivi

La comunità scientifica, la comunità scientifica… Se lo dice la comunità scientifica, bacio le mani. Prima dell’emergenza Coronavirus, ci avrei creduto. Ora meno, ogni giorno un po’ meno, da quando in televisione gli scienziati hanno detronizzato gli chef. I primi tempi erano misurati, cauti, magari sparavano qualche cazzata, ma nessuno se ne accorgeva. Poi le cose sono cambiate.

La tv fa male, chiama sempre gli stessi, fa le stesse domande, infetta la vanità e trasforma il più insospettabile dei clinici in un aspirante Vip. Borioni, Tarro, Ricciardi, Pregliasco fanno la ruota come Cracco, litigano tra loro come Morgan e Bugo, sono pronti per condurre Mastervirus, La Prova del Tampone e 4 Laboratori. Almeno dessero certezze. Invece seminano opinioni, tu quoque. È un’influenza come le altre, no, un’influenza diversa dalle altre, macché, è una peste come le altre… Si resta positivi per 14 giorni, anzi 21, anzi 40, anzi 55, anzi 70 (cinquina!)… Distanza minima un metro, anzi due (ambo)… Le mascherine sono dannose, guai a chi le mette, be’ se proprio si vuole, forse è meglio indossarle, guai a non metterle, chi è sorpreso senza sarà deferito alla Corte dell’Aja… Tutti a casa fino a maggio, anzi, fino a giugno, io arriverei alla fine dell’anno, la sicurezza vera arriverà con il nuovo secolo… Il vaccino dopodomani, anzi no, pensandoci bene, mai.

I più onesti (quasi tutti di sesso femminile) ammettono che certezze ce ne sono pochissime. Ma allora perché siete sempre in tv? E come si concilia tanta vaghezza cognitiva con un simile rigore nei divieti? Pronta a spaccare il virus in quattro quando si tratta di proibire, curiosamente su altri temi la comunità scientifica tace. Per esempio, sul nesso tra contagio e smog. Come giudica la trasformazione in una mission impossible andare in tram, facendo schizzare l’inquinamento? Come valuta un manager che a 58 anni vuol tenere sottochiave chi ha due anni più di lui? Chef del Mastervirus, illuminateci. Altrimenti uno rivaluta il biscotto della fortuna.

Ultime frasi di un nonno nel vuoto dei politici

Era difficile leggere, e ascoltare, l’ultima lettera di quell’anziano che, giovedì sera, Enrico Mentana ci ha mostrato nel Tg La7. La testimonianza struggente di una persona tra le centinaia che si sono spente, sole e senza una mano da stringere, in quelle fabbriche dell’indifferenza sgarbata e dell’assenza colpevole chiamate Rsa. Non tutte certo, ma in un numero più che sufficiente a sollevare uno scandalo umanitario. Quella lettera è anche un documento politico. Dal momento che la politica, soprattutto in tempi come questi, dovrebbe rappresentare la realtà concreta della vita. E della morte. Con i problemi che ci hanno azzannato alla gola. E con le possibili soluzioni. Tra le tante cose racchiuse nello scritto che quel padre e quel nonno ha consegnato alla sola infermiera capace di un sorriso c’è questa frase: “Ero soltanto un numero, siamo soltanto dei numeri”.

Ho subito pensato ai numeri dei bollettini della Protezione civile, quelli che quando capita che i quasi cinquecento morti giornalieri diventino quattrocento ci trasmettono come un sollievo: be’, cento di meno, stiamo migliorando. È una reazione istintiva, umana, comprensibile, terribile dopo la montagna che ci è caduta addosso. Ma è anche l’ennesimo segno della nostra sottomissione alla dittatura arida delle cifre. Così all’ora del tg, ci troviamo imbambolati tra i duemila miliardi dell’Ue e i centonovantamila contagiati. Poi, l’altra sera, la lettera di quel signore ci ha risvegliati di colpo dall’anestesia delle emozioni, un penthotal forse indispensabile in questa assurda quarantena che non finisce mai. E abbiamo scoperto che un numero, “soltanto un numero”, aveva una voce e una storia da raccontarci. Una famiglia che non avrebbe più rivisto, dei nipotini con cui non avrebbe più giocato, condannato a estinguersi tra uno sgarbo e una cattiva parola dentro una “prigione dorata”. Che c’entra la politica, mi direte? Già, cosa c’entra?

Mail box

 

Propongo una medaglia al valore ai medici deceduti

Perché il Fatto non si fa interprete presso la Presidenza della Repubblica per proporre una medaglia al valore civile a tutti i medici e altro personale sanitario soccombenti al Coronavirus?
Alberto d’Anna

Ottima idea!
M. Trav.

 

Ma Bagnai “ci è” o “ci fa”? Non so cosa sia meglio, però

Da circa due anni ho scoperto il Fatto e non mi perdo un numero… Vorrei rivolgervi mille domande, ma mi limito all’ultimo dubbio: il cosiddetto “senatore della Repubblica”, tale Bagnai, “ci è” oppure “ci fa” (mi riferisco al suo intervento in Senato in replica al presidente del Consiglio)? Perché se “ci fa”, forse mi rassegno più facilmente: si tratta di prendere atto, purtroppo, di uno squallore politico e morale dilagante. Ma se “ci è”, allora è l’ennesima conferma del principio di Pino Aprile: “Gli intelligenti hanno conquistato il mondo, gli imbecilli ci vivono alla grande”.
Giancarlo Faraglia

Caro Giancarlo, Bagnai era un economista, non sempre condivisibile, ma certamente brillante. Poi si è intruppato con Salvini ed è diventato quel che abbiamo visto. Direi che “ci fa”.
M. Trav.

 

Complimenti per la vostra inchiesta sui test sierologici

Voglio complimentarmi per l’inchiesta sui test sierologici. Serve un occhio critico su governo, Regioni e istituzioni sanitarie, nonché sulla gestione della prevenzione e protezione dei cittadini dal Covid. Per oggi e in futuro.
Davide Bozza

 

Noi infermieri “eroi” premiati con 3 euro

Sono una dei presunti eroi del momento. Faccio l’infermiera a Rovigo e non sono in un reparto Covid, ma a stretto contatto con i pazienti: nella mia “azienda”, la tanto decantata gratitudine verso il personale è stata premiata in busta paga con 3,84 euro al giorno, per un totale di 69 euro al mese. Una presa in giro. Verificate invece i ben più cospicui premi che i vari dirigenti (sanitari, amministrativi, tecnici) hanno ricevuto a ottobre…
Elena

 

L’ecatombe nelle Rsa ricorda una strage di Stato

Carissimi del Fatto, ho apprezzato moltissimo due articoli: quello sulla situazione dei malati di cancro e il contributo di Massimo Fini. Mettersi in contatto con i medici di famiglia è una scommessa e altrettanto lo è per i medici di famiglia mettersi in contatto con le Asl… Qui nel Lazio sono state annullate tutte le prenotazioni di visite ed esami che magari avevano richiesto un’attesa di 4, 6, 8 mesi nelle strutture sia pubbliche sia private . Ma veniamo al “nodo” anziani: se nella gestione di inattesa pandemia possiamo parlare di inadeguatezza ed errori, in questo caso penso non sia esagerato parlare di strage di Stato.
Maria Cristina Fazzi

 

Arbasino/1: “Isotta avrebbe dovuto rimandare la critica”

Leggendo l’articolo di Paolo Isotta su Arbasino ho condiviso alcuni suoi giudizi che in passato avevo istintivamente fatto miei. Essendo un semplice lettore mi sono detto: magari sono io che non capisco un fine intellettuale, critico ed editorialista di uno dei maggiori quotidiani italiani… Ascoltando e leggendo i suoi necrologi mi appare che ha comunque rappresentato un pezzo importante della cultura italiana della seconda metà del Novecento. Alla fine l’articolo di Isotta mi è sembrato inopportuno per il rispetto che si deve ai defunti e ai loro cari, almeno nel breve periodo. Forse sarebbe stato opportuno lasciare passare qualche mese, e un articolo così avrebbe avuto il giusto peso per un dibattito approfondito su Arbasino.
Marco Francia

 

Arbasino/2: “Ma Colombo non ha colto l’ironia”

Caro Direttore, leggo la replica di Furio Colombo al notevolissimo e molto gustoso Isotta su Arbasino. Mi sembra che le censure di Colombo si riducano a una sola: i presunti “legittimo risentimento”, “misterioso rancore” e “gli insulti” sarebbero vilmemte rivolti a un morto, per di più “appena morto”. Va da sé che il morto non potesse replicare alle critiche. Suppongo peraltro che – nella sua affilatissima recensione postuma – Isotta avesse a mente anche il contesto di “scrittori, lettori e amici” che hanno cantato le lodi del defunto in occasione della sua scomparsa, stima, almeno in parte, dovuta “al rapporto personale”. Il che mi autorizza a pensare che Isotta non ne abbia scritto prima per non polemizzare con la falange di estimatori che ne presidiavano militarmente la reputazione, oltre che con l’interessato. In breve, è possibile che Isotta abbia solo sbagliato i “tempi comici”.
Patrizia Cozzolino

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione all’articolo “Scandalo Rsa, quanti malati han trasferito?”, pubblicato ieri sul Fatto, si rettifica che, diversamente da quanto riportato, la Residenza Anni Azzurri San Sisto di Bergamo non ha mai dato disponibilità ad accogliere pazienti positivi al Covid-19 né ne ha mai ricoverati.

La Direzione della Residenza Anni Azzurri San Sisto Bergamo

Prendiamo atto della precisazione. Ma rileviamo che a nostra precisa domanda su quanti pazienti Covid avesse accettato, la struttura ha replicato che non voleva rispondere.
Na. R.

Attacchi hacker. Il silenzio è complice: prendere parola (pure con un blog) è libertà

Gentile redazione, siamo un blog appena nato di ragazzi che scrivono di politica e mafia. Ad appena quaranta follower su Instagram abbiamo ricevuto il nostro primo attacco hacker, per fortuna sventato, per aver pubblicato post inerenti la criminalità organizzata. Volevamo chiedere ai giornalisti del Fatto se ne vale davvero la pena e se avete qualche consiglio da darci. Grazie in anticipo.
M. M.

 

Cari amici, innanzitutto vorrei dirvi che qui al “Fatto” siamo contenti che esistano ancora ragazzi che s’interessano alla politica (visto il cattivo spettacolo che la politica troppo spesso offre) e che s’impegnano a riflettere e ragionare sulla vita collettiva e sul peso della criminalità organizzata nella nostra società (temi impegnativi e non facili da affrontare).

È sorprendente che il vostro blog, neonato, abbia già subito un attacco hacker. Verificate bene le caratteristiche dell’attacco e, se verificate che sia stato qualcosa di più che una ragazzata o uno scherzo di cattivo gusto, ricorrete alla polizia postale: una vostra segnalazione potrà permettere ai suoi specialisti di indagare su che cosa è successo e su chi si è intromesso nel vostro blog. Sono troppi gli scemi che usano il web come fosse una prateria senza regole dove far trionfare la legge del più forte (e del più idiota, e del più violento, e del più vile, protetto dietro l’anonimato).

Se poi l’hacker fosse non solo uno scemo, ma anche qualcuno collegato con interessi criminali, allora sarebbe ancor più interessante capire chi è e che cosa lo ha disturbato dei vostri interventi. Ma questi consigli proviamo a darveli al buio: sarebbe utile sapere dove vivete, di che cosa avete scritto, che piedi avete (magari involontariamente) pestato. Scriveteci di nuovo, dateci più informazioni sul vostro lavoro e sarà più facile per noi essere meno generici e forse più utili al vostro impegno.

La domanda che ponete, infine, è: “Ne vale la pena?”. Se la sono posta, prima di voi, tanti giornalisti, magistrati, poliziotti, cittadini. Sì, ne vale la pena. Perché siamo la maggioranza pulita e non possiamo tollerare che la nostra dignità e i nostri diritti siano calpestati da una piccola minoranza violenta e criminale. Il silenzio è complice. Prendere parola – magari con un blog – è libertà. Continuate dunque il vostro impegno, raccontate quello che vi è successo, coinvolgete la polizia postale e raddoppiate l’entusiasmo per raccontare quello che vedete e per ragionare su ciò che accade dove vivete. Scriveteci, raccontateci chi siete, dove siete e come procede la vostra avventura.
Gianni Barbacetto

Sanità, comitati di controllo e fuori i partiti

La legislazione sanitaria della Lombardia deriva, seppure in modo parossistico, da quella statale. A quest’ultima va peraltro imputata la causa prima delle difficoltà nell’attuale emergenza. Si inizia così a prospettare una parziale centralizzazione per superare l’intralcio di una ventina di sistemi coesistenti e non integrati.

Il ritorno delle attribuzioni allo Stato non è, tuttavia, decisivo se permane, per il resto, la disciplina di cui al d. lgs. n. 502/1992. Quella normativa: ha aziendalizzato l’organizzazione sanitaria e conferito poteri assoluti ai direttori generali, espressione diretta della partitocrazia regionale; ha eliminato ogni forma di controllo sugli atti di quella dirigenza; è contraddittoria perché dichiara strumento ordinario di azione delle Asl il diritto privato, mentre l’attività più importante, cioè la contrattualistica, è soggetta al diritto pubblico (codice appalti) sicché il residuale ricorso al diritto privato giustifica solo l’esercizio tendenzialmente arbitrario di potestà organizzative interne; ha consentito l’aumento a dismisura delle esternalizzazioni dei servizi, più costose e meno remunerative per gli operatori sottopagati; ha favorito chiusure a catena di ospedali e strutture sanitarie per asseriti obblighi di bilancio spesso in grave contrasto con primarie esigenze della popolazione; ha riversato eccessive risorse nel settore convenzionato, sottraendole alla sanità pubblica; ha parcellizzato la gestione a svantaggio di modelli capaci di offrire le migliori prestazioni sul territorio nazionale, violando il principio di omogeneità dei livelli essenziali di assistenza (ora parametro costituzionale); ha generato conflitti e controversie.

Questo bel regalo agli italiani risale alla legislazione degli anni 90, una specie di ballo excelsior di riforme fondate su provincialismo ideologico, arroganza e mancanza di vera strategia. L’errore funesto è l’eliminazione dei controlli, perseguita eludendo e svuotando, prima della loro abrogazione nel 2001, precisi canoni costituzionali. Si è cioè scelto di passare da un ordinamento ispirato al criterio checks and balances, proprio delle democrazie, al Führerprinzip espressione di assolutismo amministrativo. Ciò significa assenza di controlli giuridici e perfino democratici, prima assicurati attraverso i comitati di gestione che rispecchiavano i rapporti tra i partiti nelle realtà locali, garantendo conoscenza e controllo della cittadinanza interessata.

L’intero potere resta nelle mani di un soggetto di esclusiva designazione politica, libero di usarne per scienza personale o secondo i dettami dei suoi patroni in regione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: minore assistenza, strutture ridotte e spesso troppo distanti da raggiungere nelle urgenze, tempi lunghi se non biblici per qualsiasi prestazione, compressione del diritto di manifestazione del pensiero per i dipendenti di Asl e ospedali, indifferenza rispetto al problema enorme della medicina territoriale, dequotazione dei cittadini a utenti, svilimento del ruolo medico anche con stipendi vergognosi.

Un dirigente medico di secondo livello con turni massacranti di 12 ore, gravato di pesantissime responsabilità, ha una retribuzione quasi dimezzata rispetto a quella di un commesso del Senato, mentre i direttori generali viaggiano su altissimi stipendi oltre agli ovvi (e non) fringe benefits… Per rimettere in piedi il sistema è indispensabile restaurare i controlli giuridici e democratici. I comitati regionali di controllo, di composizione mista Stato-Regioni, avevano dato buona prova. Sarebbe saggio riprendere quella esperienza: operavano celermente e con senso delle istituzioni, attenti a non farsi coinvolgere in attività non sicure sotto il profilo della responsabilità. Il ritorno dei comitati di controllo, unito a quello delle rappresentanze democratiche territoriali, determinerebbe un migliore rapporto anche con gli enti di riferimento, siano essi lo Stato o la regione.

Isolare gli anziani è incostituzionale

Potrà il Vescovo di Roma raggiungere la sua cattedrale (San Giovanni in Laterano), passando necessariamente in territorio italiano? Dipende. Se, come emerge da un’intervista su Repubblica del ministro Boccia, dovesse esser vietato agli ultrasettantenni uscire di casa, e se tal misura si applicherà anche ai cittadini stranieri, niente da fare per papa Francesco: confinato. Difficoltà in vista anche per il Presidente Mattarella, che dovrà rinunciare, che so, a portare una corona all’Altare della Patria il 2 giugno pur di non infrangere una qualche neo-norma. Non c’è su questo tema, a quel che pare, nessuna bozza di legge o di decreto, ma tutti ne parlano. Si apprestano intanto raccolte di firme fra ultra-settantenni in gran forma, che rivendicano (giustamente) la propria libertà di movimento. Sull’argomento hanno scritto il giurista Vladimiro Zagrebelsky sulla Stampa del 14 aprile e il sociologo Antonio Schizzerotto sul Corriere del Trentino del 16 aprile, e vi ha dedicato una trasmissione radiofonica Tutta la città ne parla (fra gli altri, il geriatra Alberto Cestèr e Sabino Cassese). E non è finita, non finirà certo qui.

Due o tre cose da dire in merito forse ci sarebbero. Primo: la Costituzione (art. 16) non dice solo che “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale”. Aggiunge che qualsiasi limitazione, anche “per motivi di sanità” può esser fatta solo “in via generale”, e dunque non può colpire una fascia di età, un’inclinazione sessuale, una religione, un’etnia d’origine. Secondo: quel che conta per evitare la diffusione del contagio è la morbilità, non l’età. Un ventenne con gravi patologie è più a rischio di un settantenne in perfetta salute. Secondo l’Istituto superiore di sanità, l’84 per cento dei decessi da Covid-19 riguarda persone con almeno due patologie croniche, e solo il 4 per cento non aveva cronicità pregresse note. Perché isolare gli anziani e non i diabetici anche se diciottenni? Terzo: indossando le mascherine, come è ragionevole che facciano tutti (e non solo gli anziani), le possibilità di contagio si riducono sensibilmente. Se si imponessero limitazioni aggiuntive, anche se perfettamente sani, ai vecchi, o agli ebrei, o a quelli con gli occhi azzurri, equivarrebbe a bollarli come vettori del contagio, mentendo. O peggio ancora a considerarli una componente a perdere della società, con meno diritti degli altri. Quarto: evitare il contagio è importante, ma la “tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo” (art. 32 della Costituzione) ha altre componenti. Infatti i medici consigliano agli anziani lunghe passeggiate e altre attività (anche lavorative), che aiutano la salute del corpo e quella dell’anima. Quinto: sottrarre alla comunità le potenzialità di vita sociale e di competenze lavorative (non solo intellettuali) degli anziani sarebbe stolto; e chi avanzasse una tal proposta, anche se fosse un baldo trentenne, sarebbe (lui/lei sì) “da rinchiudere”.

Pur fra mille difficoltà (non ultimo il difficile rapporto con alcune regioni che hanno affrontato l’emergenza, come la Lombardia, in modo a dir poco inadeguato), il governo ha finora dato prova, complessivamente, di equilibrio e di saggezza. Un patrimonio che andrebbe sprecato in un attimo, se si adottassero misure insensate come questa. C’è di che ben sperare, giacché il presidente del Consiglio ha dato prova di buon senso accantonando la proposta di vietare il ritorno al lavoro degli over-60 il 4 maggio (preoccupante il calo della soglia di età: a quando le proposte di divieti agli over-50? Deprimente che qualcuno parli in proposito di “svecchiamento”, brutta copia della rottamazione di renziana memoria; singolare che si punti più sulla produttività che sulla qualità della vita, incluso il lavoro).

Post scriptum: per full disclosure, sarà bene esibire la mia carta d’identità, da cui risulta che sono anch’io colpevole del Crimine di Tarda Età. E allora perché non ho firmato l’appello messo su da alcuni illustri più-che-settantenni? Semplice: perché non credo di appartenere a una sottospecie o sub-segmento di cittadini che debba difendere i propri diritti in quanto diversi e separati da quelli di tutti gli altri. Avrei scritto esattamente le stesse cose se nel mirino ci fossero, poniamo, gli omosessuali (come poteva ben accadere quando esplose l’Aids) o, che so io, i buddhisti. La forza e la bellezza dell’art. 32 della Costituzione è proprio in questo: dice che la tutela della salute è diritto dell’individuo, ma subito aggiunge che è anche “interesse della collettività”, ed è solo in nome della collettività, e non dell’età mia o di chiunque altro, che ha senso parlarne. Se poi venisse davvero decretato che i “vecchi” devono esser messi in catene, allora brandirò il tricolore e uscirò per le strade in un esercizio quotidiano di disobbedienza civile. Con la mascherina, si capisce.

“La Repubblica” (targata Fiat) tradita e vilipesa

“Un prodotto pensato fin dall’inizio per svolgere un ruolo ‘pagante’ in termini d’indipendenza economica e, reciprocamente, un’indipendenza economica che ha reso possibile svolgere quel ruolo”

(da La sera andavamo in via Veneto di Eugenio Scalfari, Mondadori, 1986, pag. 280)

Fu un buon auspicio o magari un fausto presagio la scelta di piazza Indipendenza, a Roma, come prima sede della redazione di Repubblica 44 anni fa. Il quotidiano che Eugenio Scalfari fondò nel 1976, da lui stesso descritto nella citazione riportata qui sopra, aveva nel suo codice genetico il fascino di quella nobile parola, potendo vantare un “editore puro” – come allora usava dire – rispetto a quasi tutti i concorrenti che invece avevano alle spalle un “padrone”, con interessi più o meno rilevanti di carattere economico e finanziario. Un giornale indipendente, dunque, di nome e di fatto.

Con il passaggio definitivo di Repubblica nelle mani della Fiat, sancito dall’avvicendamento dell’ex direttore Carlo Verdelli con Maurizio Molinari, si può dire ormai che quella storia si conclude proprio in coincidenza con l’anniversario della Liberazione che, per la prima volta dal ’46, non sarà purtroppo una Festa nazionale per un Paese e un popolo colpiti dall’epidemia, in piena emergenza sanitaria ed economica. La prima “discontinuità” – come lui stesso volle definirla – fu introdotta da Carlo De Benedetti nel 1996 con la nomina di Ezio Mauro a direttore, il quale proveniva anche lui dalla Stampa di casa Agnelli. E poi, vent’anni più tardi, seguì quella di Mario Calabresi che aveva lo stesso marchio d’origine controllata.

Ma ora con la destituzione di Verdelli, decisa ufficialmente dopo appena 14 mesi di direzione nello stesso giorno in cui la Fiat di John Elkann ha acquisito il controllo del gruppo editoriale che comprende la Repubblica, L’Espresso e una costellazione di quotidiani locali, un ciclo si chiude definitivamente. Né il giornale di piazza Indipendenza né il glorioso settimanale di via Po saranno più gli stessi agli occhi dei loro lettori. Per quanti sforzi possano fare le redazioni, per quanto impegno possano continuare a spendere i giornalisti nel proprio lavoro, l’imprimatur di Torino marca in modo indelebile le rispettive testate.

Oltre che tradita, come appariva già quattro anni fa all’epoca della maxi-fusione, ora la Repubblica è stata sfregiata e vilipesa. Con la brutalità padronale del capitalismo familiare, un direttore sotto minaccia di morte da parte della nebulosa neofascista viene licenziato in tronco, mentre il Paese attraversa il periodo più cupo e incerto dal dopoguerra. E così un giornale che dalla metà degli anni Settanta aveva rappresentato un punto di riferimento per una comunità di uomini e di donne, una “struttura d’opinione” amava dire il suo fondatore, perde la propria indipendenza editoriale e politica, per essere affidato a un altro ex direttore della Stampa, considerato “atlantista”, sostenitore della destra israeliana, centrista in politica interna, con un curriculum in cui spicca il quotidiano Il Tempo che fu di Renato Angiolillo e di Gianni Letta.

È vero che bisogna far risalire tutto all’infausto ingresso di De Benedetti nel vecchio Gruppo L’Espresso. Ma fino a quando è durata la garanzia professionale di Scalfari e quella editoriale del “principe rosso” Carlo Caracciolo, la linea politica e culturale dei giornali è stata difesa e salvaguardata. Oggi si assiste invece con amarezza a una mutazione genetica che rinnega la storia della Repubblica e dell’Espresso. E compromette inevitabilmente la loro autonomia, con tutto il rispetto e la solidarietà per i colleghi che ancora vi lavorano.