I trucchetti di Colao e le giravolte di Fred e Ginger su Youporn

Francamente, non sono un grande fan del CoVid-19. Non c’è modo di farmi piacere una pandemia. Mi dispiace sempre molto per quelli che si ammalano; ma, come mi ripeto spesso in questi giorni di quarantena, guardando film di Fred Astaire su YouPorn (i suoi filmini privati con Ginger Rogers; e sapete una cosa? È proprio vero quello che diceva Ginger: la più brava era lei, perché faceva tutto quello che faceva Fred, e per di più all’indietro e coi tacchi alti, la schiena madida di sperma), molti di quelli che si sono ammalati sapevano a cosa andavano incontro: quando uno continua a lavorare alla fresa dentro un capannone industriale con 40 di febbre, espettorando lobi polmonari a ogni colpo di tosse, perché Bergamo non si ferma, deve immaginarlo che, prima o poi, non sarà più in grado di fare il Pordoi in bicicletta. Si è concesso il rischio. In questo caso, non c’è più alcuna necessità che mi senta troppo dispiaciuto. Del resto, ho già abbastanza guai di mio, non è che posso crucciarmi per ogni invasato che antepone il lavoro alla salute. Questo dovrebbe bastare a strangolare con il suo stesso cordone ombelicale il mio senso di colpa; e invece, vedendo al tg le corsie d’ospedale intasate di barelle, paramedici e paramedici in barella, non riesco a evitare l’impressione che gli stakanovisti intubati siano rimasti piuttosto sorpresi dalla piega traumatica che hanno preso gli eventi; e temo che, accortisi della minaccia incombente, non avrebbero voluto continuare a lavorare, ma vi siano stati costretti, pena il licenziamento. L’operaio, per il padrone, non è che una bestia verticale, si sa (mica ho aspettato l’avvento di Lapo Elkann per scoprire l’ineguaglianza sociale: al ginnasio mi ero già fatto le mie idee una volta per tutte); però non ho letto di proteste in Val Seriana precedenti alla débâcle: magari, se ci fossero state, ora mi sentirei più colpevole di cercare di salvarmi la pelle. O forse no: una volta sentii la dichiarazione di un sindacalista della Uil a un microfono di Rete 4, e per la prima volta ci provai gusto quando un poliziotto cominciò ad appoggiargli il manganello sulla zucca. “Purtroppo, Ugo, tendi a metterti nei panni di chi guardi”, dico ora a me stesso, ballando il tip tap sul soffitto. (Quando parlo a me stesso in terza persona, preferisco chiamarmi Ugo, così non corro il pericolo di impazzire, un trucco che ho imparato leggendo Guicciardini.) Come sono arrivato quassù sul soffitto non mi è chiaro. Non credo che lo farei mai, volontariamente, neppure pagato, anche se i soldi fanno sempre comodo, specie se ti piacciono le escort svizzere (dico a te, Ugo). Riesco a immaginare almeno trilioni di cose che vorrei fare, prima di azzardarmi a ballare il tip tap sul soffitto. “Guarda, guarda,” mi dice Ugo. “Ti sei messo in un bel guaio”. E poiché non so come tornare giù, a questo punto, non mi resta che bluffare, e fingere di sapere esattamente cosa sto facendo. Un trucco che ho imparato vedendo Colao in tv.

Un quotidiano italiano: “Castro aveva affidato il progetto a Celia Sánchez, sua fidata consigliera che aveva conosciuto quand’era, come lui, una ragazza di buona famiglia”. Ignoravo che Castro fosse una ragazza di buona famiglia.

Giano e Mercurio editori di Stampubblica

Caro Marco, il 25 Aprile è la festa della Liberazione, e anche della Costituzione a cui abbiamo dedicato fin dal primo numero il nostro giornale. Rappresenta dunque un’occasione per chi fa il nostro mestiere: ricordare l’importanza dell’articolo 21 della Carta, presidio di quella libertà di stampa e di opinione che va difesa sempre e da ogni attacco. Vorrei farlo alla larga da quella retorica bolsa e pontificante che entrambi detestiamo, aiutandomi se ci riesco con il sorriso amaro dell’ironia. Quando, un secolo fa, facevo il mozzo nelle sentine del Corriere della Sera, il mio sogno (come tutti quelli alla catena) era di diventare un giorno direttore. Non certo della prestigiosa testata: presuntuoso sì, ma non del tutto stupido, consideravo modelli inarrivabili gli Spadolini, Ottone, Cavallari, Stille e le altre divinità che in quegli anni avrebbero poggiato le loro terga sulla cattedra adornata dalla maestosa (e forse ancora intonsa) Enciclopedia Treccani.

Oggi, se leggo che qualche bravo e stimato collega è stato nominato direttore di un grande quotidiano vorrei stringergli commosso la mano e dirgli che mi dispiace tanto. Tra un momento cercherò di spiegarti il perché. Prima di tutto però grande rispetto e stima, neanche a dirlo, per chi è stato chiamato alla guida di Repubblica e Stampa, firme di assoluto valore (con Massimo Giannini ho sempre sentito una certa sintonia di idee). Anche se non mi è chiaro per quale motivo sia stato cacciato Carlo Verdelli che bene aveva fatto, con il sostegno della redazione e dei lettori. Per carità, siamo nella normalità dei rapporti tra proprietà e direzione, e pur cercando di farmi i fatti miei ho provato, ti confesso, un certo smarrimento quando per saperne di più mi sono inoltrato, incoscientemente, nel comunicato dell’editore. Infatti, dopo qualche passo mi sono perso tra Cir, Gedi, Exor, Giano Holding, Mercurio, Sia blu. Poi, bloccato del tutto quando ho cercato di capire (ma non ho la testa per certe cose) come fa Exor ad avere il 60,9% del capitale e il 63,21% dei diritti di voto, con rassegnato sconforto ho atteso che Giano o Mercurio mi conducessero all’uscita. Improvvisamente ho avuto come un’apparizione: non era la Madonna, ma un giovane uomo dal’aria cordiale e sorridente. Si chiama John Elkann mi ha spiegato Gedi, ed è il presidente molto umano di questa meravigliosa conurbazione di dividendi che a te (a me) che non capisci niente appare come un dedalo inestricabile di accomandite e società di diritto. E dove posso trovarlo, chiesi timidamente? Ad Amsterdam, e anche a Londra, e anche negli Stati Uniti, disse Sia blu con la soavità di chi deve spiegare a un non vedente i misteri della Luce: in quel preciso istante finalmente compresi il fenomeno della transustanziazione dell’editore. Qui, caro Marco, vengo al punto. Che mestiere è diventato oggi quello del direttore che ogni giorno, oltre alla fatica di fare il giornale, di combattere con la crisi delle edicole, di confrontarsi con le giuste preoccupazioni dei colleghi, non sa più a quale holding votarsi? Lo chiedo a te con il leggero rimorso di chi cinque anni or sono ti passò il testimone sapendo che saresti imbiancato precocemente. Ma anche con la serena consapevolezza che il nostro amato brigantino Fatto Quotidiano

, non sarà mai di proprietà di alcune figure mitologiche con triplo domicilio fiscale. Questo, come vogliamo chiamarlo, apologo della realtà mi è sembrato il modo più giusto per celebrare il mio, il nostro, 25 Aprile.

Le idee sfortunate di “Copy-Colao”

L’Italia resta un Paese meravigliosamente generoso, in cui se prima erano tutti dottori – se non altro per i parcheggiatori – oggi sono quasi tutti esperti di qualcosa. Ieri, ad esempio, l’agenzia Agi ha pubblicato alcune indiscrezioni molto dettagliate sul “piano Colao”, cioè il documento redatto dal mazzo di esperti guidati dall’ex manager di Vodafone sulla “Fase 2”, indiscrezioni che corrispondono a quelle raccolte anche dal Fatto. Curiosamente però corrispondono – in modo quasi pedissequo se si esclude, e non del tutto, le scelte grafiche e una certa passione per gli anglismi – anche col documento dell’Inail sulla valutazione del rischio verbalizzato al Comitato tecnico scientifico il 9 aprile. “Primo step: Manifattura + costruzioni + servizi”? Uguale uguale. I soggetti “iper suscettibili” (che se la rischiano di più)? Uguale uguale. I colori del rischio per settore dal verde al rosso? Quasi uguale uguale. Due sono state, pare, le proposte innovative degli esperti: tenere a casa tutti gli over 60 e conteggiare nei flussi delle riaperture (ad esempio per i trasporti) anche i lavoratori irregolari. Entrambe respinte con perdite. Anche per scopiazzare con perizia documenti già esistenti, com’è noto, ci vuole una certa expertise, mentre per essere benedetto “salvatore della patria” mentre lo fai servono i media.

In 850 persone per il post-lockdown tra task force varie e ancora niente…

La fine del lockdown, seppur graduale e in gran parte ancora sconosciuto nei dettagli, segnerà il risveglio da uno stordimento generale nel quale stiamo vivendo, una sorta di vita rallentata e sospesa che è fuori di noi, perché non ci era mai appartenuta. Questa illusione di resurrezione dalla tragedia pandemica (il virus è ancora ben presente e speriamo non si faccia risentire a breve in tutta la sua aggressività) ci sveglierà dal torpore del panico, dal silenzio delle nostre abitazioni.

Improvvisamente si aprirà la porta alla vita normale (quasi) e si tornerà a giudicare. Alla fine, lo sappiamo, nessuno dei furbi pagherà. L’arte del riciclarsi nel nostro Paese è consolidata. Piuttosto accadrà che, contemplando dal punto di vista terminale quanto è accaduto ed essendo così a conoscenza di tutte le conseguenze indotte dalle decisioni prese in passato, retrodatando tale consapevolezza, si caricheranno alcuni protagonisti non furbi di una responsabilità politica e morale che non potevano avere nel farsi dell’accaduto.

Ci stanno ripetendo come un mantra frasi deresponsabilizzanti, come l’insopportabile “Lascio agli scienziati decidere”. Alla fine l’alibi sarà trovato per tutti perché, a nostra insaputa, si è provveduto a tutto. Da una parte gli scienziati, quelli veri che ci mettono la faccia e che possono essere crocifissi, dall’altra i soliti intoccabili. La tecnica adottata è perfetta: quella della parcellizzazione delle responsabilità. Lavorano per “noi” tredici task force governative, ministeriali eccetera, a cui si aggiungono cinque task force regionali per un totale di 850 persone.

A queste ancora si cumula una miriade di gruppi di studio, comitati per l’emergenza e tavoli per l’assistenza, per la diagnostica, ospedalieri. Questa massa di esperti ha prodotto 212 provvedimenti a livello centrale e innumerevoli provvedimenti regionali. Si capisce perché a oggi, a otto giorni dalla fine del lockdown, non abbiamo ancora un’idea chiara su nulla.

 

 

5Stelle, crisi sfiorata sul Mes. E Di Maio critica Rousseau

Hanno schivato l’insurrezione sul Mes, che per il governo sarebbe stata un sisma. E hanno rinviato a data più comoda e sicura l’elezione del capo politico. Per blindare Giuseppe Conte, certo, ma anche per raffreddare le mire da leader di Alessandro Di Battista e rintuzzare Davide Casaleggio, isolato martedì in una videoconferenza con i big, in cui Luigi Di Maio è arrivato a dire: “Il sistema di voto Rousseau ha portato all’anarchia”.

Si muovono molte cose nella nebulosa dei Cinque Stelle. Ieri sarebbe potuta esplodere sulla mina seminata da Giorgia Meloni: un ordine del giorno presentato alla Camera contro il Mes, il fondo salva Stati a cui i 5Stelle erano e sono ufficialmente contrari, ma chissà tra un po’. “Il gruppo era nervoso già da giovedì sera” raccontano. Così nella notte il capo politico reggente Vito Crimi e il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà si sono attaccati al telefono per spiegare agli eletti che votarlo sarebbe stato un agguato a Giuseppe Conte. “Rischiamo di farci male” tremavano ieri mattina alcuni deputati.

Ma alla fine l’odg (respinto dall’Aula) l’hanno votato solo sette grillini, tra cui Raphael Raduzzi e Alvise Maniero, capofila dall’ala più critica verso la Ue, e la veterana Dalila Nesci (un’eletta si è astenuta). Danno contenuto, insomma. “Ma azioni del genere non possono essere più tollerate” ha avvertito Crimi. Però il reggente aveva anche altro per la testa, ovvero il rinvio dell’elezione del prossimo capo politico, sancito ieri con il benestare del garante Beppe Grillo. “Siamo in un’emergenza senza precedenti, tutte le nostre forze devono essere concentrate nell’aiutare il Paese” sostiene il blog delle Stelle. Per questo il comitato di garanzia, di cui Crimi è membro assieme a Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri, ha rinviato il voto “e su questo ha richiesto un’interpretazione al garante”. Cioè a Grillo, del quale sul blog è allegata formale risposta, in cui definisce “ ordinatorio”, cioè da non rispettare obbligatoriamente, il termine di 30 giorni per l’elezione di un nuovo capo dalle dimissioni del precedente: ossia Di Maio, dimessosi ormai il 22 gennaio scorso. “Dovevamo farlo, altrimenti qualcuno avrebbe chiesto le elezioni o presentato un ricorso” spiegano. Ma ci sono altre ragioni. “Se indiciamo il voto ora partirebbe una campagna elettorale e indebolirebbe il governo” hanno sostenuto in diversi nella videoconferenza di martedì, a cui hanno partecipato il comitato di garanzia, i probiviri e big come Paola Taverna e Di Maio. Ma non basta. Aspettare, pensano (ma non hanno detto) alcuni, potrebbe fiaccare le ambizioni di Di Battista, ritenuto un rischio per l’esecutivo.

Tutti d’accordo, quindi: tranne Casaleggio. “La campagna elettorale la potrebbero far partire ugualmente” ha teorizzato, per poi rilanciare la necessità di “un nuovo capo” e di un cambio di passo del M5S: “Siamo la prima forza parlamentare, ma stiamo dando un’immagine vecchia con quei parlamentari in mascherina. Piuttosto incentiviamo lo smart working”. E c’è chi vi ha visto un assist a Di Battista. Ma gli altri hanno fatto muro. Compreso Di Maio, secco: “Non possiamo eleggere un capo senza prima un confronto collettivo (gli Stati generali, ndr), finirebbe impallinato in due mesi”. Per poi puntare il dito: “Abbiamo sbagliato la selezione della classe dirigente, e il sistema delle votazioni sulla piattaforma Rousseau ha portato all’anarchia, certi quesiti erano fatti in modo sbagliato”. Saette a cui Casaleggio non ha replicato. Consapevole che tanti 5Stelle vogliono ridurre il potere di Rousseau. Cioè il suo.

“Charles, puoi rileggere che il Fondo è urgente?”

“Scusa Charles, puoi rileggere la versione finale?”. Voleva essere sicuro, Giuseppe Conte, alla fine del Consiglio europeo in videoconferenza che si è tenuto il 23 aprile, che la frase che più gli stava a cuore fosse trascritta nel documento finale. “Needed and urgent”, questo aveva chiesto il presidente del Consiglio dopo che il belga Charles Michel, nella sua qualità di presidente del vertice europeo, aveva letto la prima bozza.

Michel ha così riletto tutto il testo, soprattutto la parte in cui si diceva che “abbiamo inoltre convenuto di lavorare per la creazione di un fondo per la ripresa che è necessario e urgente”. Nessuna obiezione. Conte un po’ lo temeva visto che il giro di tavolo aveva comunque messo in evidenza la solita tensione tra i Paesi del Nord, Olanda in testa, e quelli del Sud.

Il ragionamento che si è fatto a Palazzo Chigi alla fine dell’incontro, quando tra i presenti si è festeggiata la conclusione dei lavori, è che fino a un mese fa di Recovery fund non si parlava nemmeno e stavolta invece è sul tavolo. “Non era scontato” è il commento che fa il premier con i suoi collaboratori.

A proporlo con convinzione, oltre all’Italia, sono stati Pedro Sánchez ed Emmanuel Macron, il quale ha insistito molto anche sui grant, sulla necessità che i fondi siano distribuiti non solo sotto forma di prestiti, ma di trasferimenti ai Paesi che ne avranno bisogno. Per la prima volta la parola “fondo perduto” ha trovato cittadinanza in un vertice europeo.

Per questo, dopo i loro interventi, i leader dei Paesi del Sud hanno atteso con molta attenzione le parole di Angela Merkel. Che non è stata negativa. Non si è certo sperticata in un sostegno pieno all’idea ma, probabilmente forte del controllo che conserva sulla Commissione europea a cui spetta il compito di definire i dettagli, ha accettato l’idea.

A quel punto mancava solo il testo conclusivo. Michel lo ha letto e Conte ha chiesto la modifica. Dopo il via libera di Michel gli sguardi si sono concentrati sul video che mostrava il volto sfingeo di Angela Merkel. La quale ha chiesto la parola, ma solo per rivolgersi alla sua ex ministra, Ursula von der Leyen, per chiedere che tempi avrebbe impiegato la Commissione ad avanzare una proposta. “Inizio maggio” ha risposto la presidente europea provocando la sorpresa reazione della Merkel, che ha replicato: “Tienici aggiornati”.

A quel punto Conte ha chiesto di nuovo di leggere il testo completo e quando al termine, guardando con ansia lo schermo, ha capito che nessuno avrebbe contestato nulla, nemmeno l’olandese Mark Rutte, ha capito di avere un punto da rivendicare. Sostenuto dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, lì accanto a lui e che ha subito sottolineato come la frase “urgent and needed” rappresenti un nuovo passo in avanti così come, subito dopo l’Eurogruppo, lo era stata la frase “We agree to work to establish a recovery fund” invece di “we agree to explore” (“lavorare per realizzare un recovery fund” invece di “esplorare”).

Il ricamo, parola per parola, dei testi europei può sembrare un gioco ozioso, ma è il segno concreto di quello che si riesce a produrre e ad avanzare nell’arco delle lunghe trattative.

L’idea di un Recovery Fund, lanciata dalla Francia e poi rilanciata dai due commissari, l’italiano Paolo Gentiloni e il francese Thierry Breton, sembrava una delle tante proposte di posizionamento e invece si sta trasformando nello strumento che dovrebbe consentire una forma di bond europei, sia pure mutualizzati solo per il nuovo debito emesso e non per il debito pregresso (ipotesi del resto inesistente, dati i rapporti di forza).

Individuata la scatola si tratta di definire l’importo del Fondo, la quantità di bond emessi e le modalità di trasferimento ai singoli Paesi. Punti nevralgici e decisivi.

Non è certo il caso di stare tranquilli, ma la Ue sta facendo, sia pure a zig zag, passi che non immaginava di fare. In circa un mese, la Bce ha messo sul tavolo il “bazooka” finanziario con il programma di acquisti da 750 miliardi, mentre Christine Lagarde si era fatta notare per la gaffe “non siamo qui per ridurre lo spread”. Poi c’è stata la sospensione del Patto di Stabilità, che ha consentito l’ampliamento dei deficit nazionali. Poi, ancora, l’eliminazione di condizionalità al Mes per quanto riguarda le spese sanitarie (anche se si capirà solo dai dettagli tecnici se si potranno aggirare eventuali condizionalità future). E ora il Recovery Fund che prima non c’era.

Un’Unione europea che non ha aperto il proprio cuore, ma semplicemente ha capito che se non reagisce energicamente, rischia di essere la vera vittima della crisi da Covid. O almeno di non essere più la stessa che è stata finora. Per questo una qualche iniziativa è urgent and needed per tutti, non solo per l’Italia.

I giallorosa a Gualtieri: il decreto lo scrivi con noi

Passi una volta, ma un Parlamento esautorato ancora da provvedimenti che valgono tre manovre finanziarie non è più tollerabile. In vista del nuovo “decreto di aprile”, che parte da 55 miliardi, le anime della maggioranza giallorosa vogliono contare. E così ieri i capigruppo lo hanno ribadito al ministro dell’Economia Roberto Gualtieri nella riunione avviata dopo che il Consiglio dei ministri aveva approvato il Documento di economia e finanza e la relazione che chiede di autorizzare il governo al nuovo indebitamento.

Tra i parlamentari il malumore è cresciuto in questi giorni. Il decreto di marzo (“Cura Italia”) è arrivato in Parlamento blindato. Nessun emendamento “oneroso”, cioè che comportasse qualche spesa, è stato consentito perché il Tesoro aveva usato tutto l’indebitamento autorizzato (20 miliardi). Il nuovo decreto – è il senso del messaggio spiegato ieri a Gualtieri dai capigruppo di M5S, Iv e LeU – “va scritto con la maggioranza”, prima recependo nel testo le modifiche al Cura Italia accantonate per mancanza di risorse e poi lasciando margine per modifiche parlamentari. Gualtieri si è mostrato disponibile, anche perché il governo lo aveva promesso per quietare la rabbia degli onorevoli. Per la verità, però, per il cabotaggio d’aula al momento il Tesoro ha riservato circa 800 milioni, meno del 2% del totale. Si rivedranno a inizio settimana. In teoria il “decreto aprile” dovrebbe essere approvato giovedì. Ma al momento al Tesoro non esiste un articolato di legge, e il testo potrebbe slittare ai primi di maggio. Per evitare figuracce, potrebbe arrivare un via libera “salvo intese”, cioè senza un testo chiuso.

A ogni modo la richiesta di extra-deficit approvata ieri dal Cdm è imponente e porta il disavanzo pubblico al 10,4% del Pil nel 2020 (dal 7,1% che si avrebbe da solo causa crisi): 55 miliardi subito e 24 nel 2021 (altri ancora per quelli a venire, fino al 2032) per eliminare definitivamente le clausole di salvaguardia, gli aumenti automatici di Iva e accise che hanno zavorrato le manovre degli ultimi 9 anni (ce ne erano per oltre 20 miliardi nel 2021). E soprattutto per finanziare le misure del decreto.

Il quadro emerso dal Def è infatti drammatico, anche tenendo conto che si tratta di stime parziali. Il Pil dovrebbe calare dell’8%, portando il debito al 155,7% del Pil. Le previsioni parlano di un crollo del 7,2% dei consumi, del 5,7% dei redditi e del 12,3% gli investimenti. Al solito Via XX settembre professa ottimismo e parla di un rimbalzo del Pil del 4,7% nel 2021 e una lieve riduzione del debito/Pil al 152,7% con un disavanzo dimezzato. La realtà è che nessuno crede a numeri che oggi sembrano scritti sulla sabbia.

L’unica certezza è che il prossimo decreto vale il doppio dell’ultima manovra finanziaria. E considerando anche le misure che non impattano sul deficit arriva a 150 miliardi. Serviranno al governo per agire su 7 macro-aree, dalla sanità ai sostegni al reddito, fino all’accelerazione del pagamento dei debiti della P.A. per 12 miliardi. Quasi 50 miliardi serviranno alla Cassa depositi e prestiti per entrare nel capitale delle imprese in crisi, salvate nazionalizzandole (se pure “a tempo”, altri 30 per coprire le garanzie pubbliche alla liquidità (più 4 per il Fondo di garanzia per le Pmi).

Il capitolo ammortizzatori sarà quello che assorbirà più risorse (circa 24 miliardi tra Cig, autonomi, Naspi, colf e badanti e congedi). Tra questi anche il reddito di emergenza per quasi 3 milioni di persone (soprattutto lavoratori in nero e atipici) esclusi dalle altre misure. Soldi che arriveranno a maggio quasi finito, a tre mesi dall’inizio dell’emergenza.

“Per i fedeli islamici questo male serve in contrasto al bene”

L’evento che sta segnando i destini della storia del mondo tocca gli ambiti della vita intera, dal più macroscopico al più intimo e personale. Vogliamo capire con l’aiuto di personalità e guide religiose di confessioni diverse come la dimensione spirituale ne sia influenzata, se ne è dissecata o invece amplificata, e come il pensiero di Dio possa consolare chi ha fede. Iniziamo con Yahya Sergio Yahe Pallavicini, Presidente della Co.re.is. (Comunità Religiosa Islamica) italiana e Imam della Moschea al-Wahid di Milano.

Imam Pallavicini, al di là della provenienza geografica e clinica del virus, c’è una interpretazione teologica del male che ci ha travolto?

Il male serve come contrasto al bene, proprio come con la malattia c’è la cura, con la difficoltà c’è la facilità. Anche se la vita in questo mondo presenta molte prove di “sopravvivenza”, ogni credente musulmano, quando tende al bene, alla cura, alla semplicità, trasforma le prove in perle di conoscenza.

Secondo le religioni abramitiche ogni anima rappresenta l’umanità. C’è ora un’umanità che soffre il dolore fisico e spirituale, il lutto e la separazione. Come può Dio permetterlo?

Le religioni del monoteismo che si rifanno al profeta Abramo trasmettono il sostegno per prevenire e accompagnare la sofferenza inutile riconoscendola come diversa dalla pena dell’anima.

La Scienza si è rivelata fallibile nella sua pretesa di onnipotenza?

Per i credenti Dio solo è infallibile, l’uomo no. Il delirio di onnipotenza di alcuni individui non ha nulla a che fare con la scienza e tantomeno con la religione. Scienziati, teologi, economisti, giuristi, commercianti e governanti che si rispettano e collaborano insieme rappresentano una umanità intelligente, sensibile e virtuosa.

Il 23 aprile è iniziato il mese sacro del Ramadan: la pandemia rende impossibile il rispetto dei suoi precetti?

Uno dei supporti rituali che viene vissuto durante il mese di Ramadan è la recitazione serale del sacro Corano che si sviluppa ogni sera per l’intero mese e viene condiviso nella preghiera comunitaria dei credenti nelle moschee. Questa preghiera viene anticipata da un momento conviviale di interruzione del digiuno diurno con un pasto condiviso tra famiglie, fratelli e sorelle. Tutta questa tradizione sarà ridimensionata quest’anno sacrificando l’aspetto comunitario della vita religiosa nelle serate di Ramadan in un isolamento domestico. Una difficile prova di concentrazione e contemplazione.

Non sono permesse le preghiere nelle moschee. Lei fa sermoni in streaming?

La nostra moschea di Milano è chiusa dal 28 febbraio e le preghiere comunitarie del venerdì sono sospese. Non credo nel valore della preghiera in streaming, ciò che è rituale e sacro non si può veicolare virtualmente. Detto questo, abbiamo ritenuto utile pubblicare alcuni testi dei sermoni sul sito www.coreis.it.

L’ha colpita l’immagine di Papa Francesco solo in piazza San Pietro?

Avrei preferito che ci fosse una rappresentanza di pochi sacerdoti, monaci e suore, sotto la pioggia, a distanza di sicurezza e di salute, a testimoniare il popolo di Dio che crede nella resurrezione di Gesù. Non si lascia il pontefice da solo nel vuoto del nulla. Un fenomeno mediatico privo di una dimensione simbolica importante.

Registra un avvicinamento alla preghiera, o la fede è un lusso del tempo di “pace” che l’esigenza di sopravvivere non consente?

L’uomo si ricorda di rivolgersi al suo Signore quando è colpito da un travaglio, poi quando ritrova la pace se ne attribuisce il merito e si dimentica del soccorso spirituale ricevuto. La sua anima è debole, incline alla corruzione e alla superficialità dei sacrifici che generano emozioni e lussi fittizi. È comunque vero che alcune persone stanno riscoprendo il ricollegamento alla prospettiva religiosa, alla spiritualità, delusi dall’artificio della cultura moderna.

Crede che in Cina, in Giappone, in Iran, dove secondo molti interpreti la dimensione spirituale viene coltivata più che in Occidente, la pandemia sia stata vissuta in modo diverso?

Sì. In Oriente, si è forse mantenuta una differente priorità sul senso della vita e del profitto, almeno tra le persone che hanno mantenuto l’antica tradizione delle civiltà indù, buddhiste, taoiste a cui si aggiungono le nobili minoranze musulmane tra le quali quelle perseguitate degli Uyghur e dei Rohingya o quella più antica insegnata dai sapienti sciiti del Khurasan.

La politica italiana è stata all’altezza del compito, nel rispetto dei diritti costituzionali?

La politica italiana ha saputo confermare la cultura della propria storia di saper gestire meglio le situazioni di emergenza che non i momenti di crisi ordinaria. L’impianto normativo della Costituzione è un patrimonio giuridico ma anche intellettuale di grande valore, se solo potesse applicarsi anche alla confessione islamica la pari dignità di una libertà religiosa che si traduca con una Intesa con lo Stato Italiano.

Nel Corano, nella Sura degli Strappanti violenti, si parla di una Catastrofe che incombe come un fiume in piena travolgendo ciò che vive. In uno dei suoi Sermoni, lei scrive: “La morte è la migliore anticipazione del segno della Catastrofe”. È, questa, una catastrofe che simbolizza la fine del mondo?

Dio rinnova la creazione ogni istante. Il mondo che verrà non sarà mai lo stesso di quello che è stato. Se il fiume in piena travolge l’ignoranza, allora a vivere sarà la Conoscenza. Se il fiume in piena travolge la fede nella vera religione, allora resterà solo l’ignoranza. Le due catastrofi sono molto differenti, ma poche sono le persone che sanno meditare.

Un’altra museruola di Putin alla stampa

Fondato nel 1999 come gemello slavo del britannico Financial Times e dell’americano Wall Street Journal, il quotidiano economico Vedomosti, una delle ultime voci indipendenti della stampa russa, ha cambiato più volte proprietario dal 2014, anno dell’approvazione della legge della Duma contro i finanziamenti esteri alla stampa della Federazione. Il giornale è stato ceduto a marzo a un fondo di investimenti e all’editore di Argumenty i Fakty, di proprietà del mastodonte mediatico statale. È stato scelto poi il nuovo uomo da porre al vertice della redazione: Andrey Shmarov.

Nuovo direttore, nuova politica: eliminata ogni critica ai vertici e a tutte le autorità. Ora svettano sul giornale titoli ripuliti di ogni commento negativo sul Cremlino. Come uno dei tanti pianeti allineati che girano ammutoliti nel sistema solare del governo: la redazione del quotidiano, disorientata e delusa, ha paura che entrerà presto nell’orbita mediatica della propaganda statale.

“Verrai licenziata per non aver rispettato i divieti” è stato riferito alla caporedattrice Ksenia Boletskaya, dopo che aveva denunciato come le fosse stato impedito di pubblicare i sondaggi del centro indipendente Levada perché non favorevoli alle autorità.

Con un raggio d’azione ristretto al minimo, che impedisce inchieste e indagini, ad altri giornalisti la minaccia di allontanamento è stata paventata per i commenti negativi sulle recenti riforme costituzionali di Putin, che gli permetteranno di rimanere in carica fino al 2036.

“Tempi duri per le responsabilità: come verrà ricordata l’era Sechin”. Questo il titolo dell’ultimo editoriale della discordia a firma di Konstantin Sonin, professore dell’Università di Chicago e dell’Alta Scuola d’economia di Mosca. L’articolo è rimasto online solo due ore, per poi essere eliminato dal pugno di ferro del direttore Shmarov (che di Sechin, capo del colosso Rosneft, tesserà solo le lodi).

“Privato della sua reputazione, Vedomosti diventerà un altro media senza indipendenza e sotto controllo”, un giornale che servirà “a soddisfare interessi e ambizioni di proprietari” ed azionisti, i cui nomi non sono tutti noti. Con questo articolo, andato in stampa senza consenso finale dell’editore, dal titolo “il nuovo Vedomosti”, la redazione ha contestato in prima pagina l’uomo che ora deciderà del suo futuro e deride chi difende “i valori con i quali il giornale è stato fondato”, che non conosce il codice etico del quotidiano e che si vanta anche di non averlo mai letto, chiedendone la sostituzione.

Il nuovo direttore ha fatto del paradosso la sua difesa: avendo permesso la pubblicazione di quell’editoriale crede di confutare le accuse dei suoi giornalisti e di aver dato prova della loro libertà d’espressione. “È cambiata la linea editoriale del giornale, ma non c’è censura: se l’avessi applicata, la redazione avrebbe potuto portarmi in tribunale, ma nessuno mi ha denunciato” ha risposto Shmarov ai suoi reporter. Non lo ha scritto sulle pagine del giornale di cui ora deciderà la politica né lo ha urlato tra i corridoi della redazione: lo ha riferito ai microfoni di Ria Novosti, l’agenzia di notizie del Cremlino.

“Verdelli fatto fuori, detterò le condizioni per Repubblica”

Va così dal 14 gennaio 1976: “Io non lascio Repubblica. E domenica scrivo il mio pezzo, come sempre. Voglio tributare il mio saluto a Carlo Verdelli, il direttore liquidato, fatto fuori, cacciato in maniera brutale, e voglio porre alcune condizioni ambientali per il futuro, non per me, ma per il nostro giornale”, dice il fondatore Eugenio Scalfari con un sottofondo di musica da camera. “Verdelli era il mio alter ego, mi piaceva molto. Ha colto subito lo spirito di Repubblica. Io gli ho offerto alcuni consigli, lui mi ascoltava e lavorava. Non meritava questo trattamento, è vergognoso. Maurizio Molinari non mi ha chiamato, certo non può convocarmi in ufficio perché siamo reclusi per la pandemia, però non mi ha telefonato e non l’ha fatto neanche l’editore John Elkann. Aspetto, poi tra un po’ mando il mio testo a Molinari. Devo riflettere ancora, sto rileggendo il Candido di Voltaire. La prima domanda era sulla mia salute. Io sto bene come può augurarsi di stare bene un uomo che ha appena compiuto 96 anni. Ormai ho trascorso altre due settimane, quindi mi avvicino a un mese dei 97”.

Ogni volta che accade qualcosa a Repubblica il pensiero corre a Scalfari, e di cose ne sono accadute in mezzo secolo, con un’inesorabile caduta dei simboli nell’ultimo tratto.

L’epilogo è l’addio della famiglia De Benedetti, l’ingresso degli Agnelli che di cognome fanno Elkann, la direzione assegnata a Maurizio Molinari con il licenziamento improvviso di Verdelli.

Le redazioni di Repubblica, e per esteso dell’ex gruppo Espresso riconiato in Gedi, temono una svolta a destra, politica, concettuale, identitaria, comunque la fine di un modo di sentirsi sinistra e protagonista di un territorio culturale. “La qualità del lavoro nasce dalla fusione fra conoscenza, professionalità e passione”, ieri l’azienda ha inviato ai dipendenti un comunicato abbastanza asettico con una doppia firma, da un lato l’amministratore delegato Maurizio Scanavino e dall’altro Maurizio Molinari con la qualifica di direttore editoriale. Scanavino e Molinari hanno enunciato un programma pregno di “innovazione”, “piattaforma”, “digitale”, “transizione”, un appello alla “schiettezza” tra colleghi e assai povero di valori. Anzi, di sentimenti.

I sentimenti, con il loro armamentario di nostalgia, hanno contributo a uccidere i giornali di carta dopo che li hanno in parte generati, però nei dintorni di Repubblica si crede che senza i sentimenti – e senza la pretesa di interpretarli – quel tipo di giornalismo non possa esistere. Elkann applica una logica industriale e lo fa in modo totalizzante. Ha negoziato con la storia di Repubblica come la Fiat negoziò con i sindacati di Pomigliano: c’è un’unica linea, la sua. Il sommovimento che ha interessato Repubblica, La Stampa, l’Huffington post e le radio l’ha deciso in gennaio, tre mesi fa, già era organizzato in dicembre nei giorni dell’acquisto di Gedi per cento milioni di euro, un’operazione pianificata da quattro anni, altro che trattative istantanee.

Elkann non ha intenzione – s’è capito – di mediare tra le differenze editoriali in Gedi, persegue un modello di giornalismo talmente diverso da Repubblica che ne è la sua negazione, e dunque la sua nemesi. Il disagio per l’approccio di John e la diffidenza con cui è stato accolto Molinari, con uno sciopero, può ispirare scissioni, progetti di nuovi giornali in nome di una sinistra perduta. È ciò che, forse, si augura lo stesso John. Per far riposare le forbici dei tagli e integrare meglio.