“Qualche giorno fa ho dovuto chiamare la moglie di un uomo di 62 anni che è arrivato da noi ed è morto in 10 minuti”. Fabio De Iaco, direttore del Pronto Soccorso Martini di Torino, racconta quella che per molti medici e infermieri è un’esperienza quotidiana: comunicare al telefono il decesso di una persona cara. Senza la mediazione dei gesti, degli sguardi. Senza che chi riceve la notizia sia potuto restare vicino a chi è morto. Esperienza traumatica anche per chi dà la notizia, non solo per chi la riceve.
“Quell’uomo era arrivato da noi 40 minuti prima, con le complicanze di una forma influenzale e ha avuto un attacco cardiaco appena entrato. Non so neanche dire se fosse Covid o no. So solo che il suo cuore ha ceduto in poche ore”. Al medico non è rimasto altro che avvertire la famiglia: “Ho fatto io la telefonata, una giovane collega giustamente non se l’è sentita. La moglie era sconvolta: non se l’aspettava. In questi casi, è importante non voler correggere le reazioni degli altri. Lei è crollata, ha passato il telefono a qualcuno, forse un figlio. Io mi sono sentito malissimo”.
Le quattro società scientifiche maggiormente coinvolte nella prima linea Covid 19, Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva-Siaarti (che coordina il progetto), Associazione nazionali infermieri di area critica-Aniarti, Società italiana cure palliative-Sicp ,e Società italiana medicina emergenza urgenza-Simeu, hanno messo a punto un protocollo su “Come comunicare con i familiari in condizioni di completo isolamento”. Una sorta di decalogo. Si va dalla raccomandazione che a informare i familiari debba essere un medico che ha in cura il paziente a quella di esentare chi non se la sente. Con una serie di regole, come la necessità di informare repentinamente in caso di aggravamenti, usare modalità adeguate all’interlocutore, ricostruire insieme ai familiari le volontà del malato, accogliere le emozioni di chi riceve la notizia. Ma anche tenere conto dell’emotività del medico. Secondo i dati correnti, circa il 50% degli operatori sanitari soffre di qualche forma di disturbo post- traumatico da stress.
A raccontare da quale esperienza arrivi la necessità di trovare un modo di comunicare, soprattutto quando si annuncia un decesso, è ancora De Iaco: “Devi essere professionale, ma non freddo, empatico, pur mantenendo una distanza. Devi essere brutale, utilizzando la parola morte, più volte se necessario: altrimenti non ti capiscono. Devi essere pronto a parlare con più di una persona. Per noi in Pronto soccorso non è un’esperienza sconosciuta, ma con la sola comunicazione telefonica è più difficile: anche perché, al momento in cui metti giù, è finito il momento di scambio. Ma è dopo che le persone avrebbero bisogno di un’altra fase, quando arrivano i sensi di colpa”. Una posizione aggravata da una situazione di perenne emergenza: “Con l’assedio che c’è stato, sono mancati anche i tempi di recupero”.
Come scriveva lo stesso De Iaco su Facebook il 6 aprile: “Non c’è tregua per l’ansia dei congiunti, isolati a casa, e così il call center Covid non concede tregua neppure ai suoi improvvisati operatori, medici e infermieri. Mille le storie al telefono”.
E ognuna “continua a comporre l’affresco orribile del tempo del virus”. Un affresco che si impara lentamente ad affrontare. Anche lavorando sulle parole per dirlo.