Maledetto Antonio

Caro Antonio (ma dovei dire maledetto Antonio, visto che questa condanna della direzione me l’hai inflitta tu, cinque anni fa, con tutte le pene accessorie), il tuo smarrimento è anche il mio. Anche se ti confesso che l’altra sera, preso com’ero a capire se nel vertice europeo avesse perso Conte (come sostenevano i patrioti Salvini&Meloni) o avesse vinto Macron (come sostenevano i patrioti Innominabile&Boschi), mi son perso l’imperdibile nota sul giro di direttori in casa Gedi, che peraltro mi ha sempre fatto pensare a un personaggio del bar di Guerre Stellari. Sì, nel nostro piccolo siamo fortunati e lo sono anche i nostri lettori. Che ci conoscono da almeno 10 anni, o addirittura da prima, quando il Fatto non esisteva, ma noi già facevamo danni qua e là. E ci prendono per quello che siamo: una ciurma di bucanieri e gianburrasca che si divertono a scovare notizie e a rompere i coglioni a chiunque lo meriti, senza prendersi troppo sul serio anche quando conducono battaglie molto serie. Sanno chi siamo, coi nostri pregi e i nostri difetti, i nostri meriti e i nostri errori, senza mai intravedere dietro di noi Qualcuno che – da palazzi o terrazze o salotti o logge o partiti o banche o cantieri o aziende o multinazionali o paradisi fiscali – ci dica cosa scrivere e cosa non scrivere. E senza mai temere che un giorno arrivi un nuovo padrone a imporci la sua “linea”. Snaturando la nostra.

Ed è un bel fardello di responsabilità, perché tutto quel che esce sul Fatto, nel bene e nel male, è farina del nostro sacco: merito nostro o colpa nostra. È il nostro modo – lo dico sottovoce per non indulgere alla retorica né perdere il senso della misura – di onorare quella Costituzione che abbiamo scelto come unica linea politica nell’editoriale che tu firmasti sul nostro primo numero, il 23 settembre 2009. Quella Costituzione di cui oggi, 25 Aprile, festeggiamo i genitori: i partigiani della Liberazione. Io sono sempre stato un solista e non ho mai pensato di fare il direttore, né ho mai brigato per farlo. Ma riesco a farlo, da dilettante del ramo, soltanto grazie al fatto che il nostro editore siamo noi e i lettori: se ricevessi ordini da ectoplasmatiche “cornurbazioni di dividendi”, non ce la farei proprio a obbedire, portato come sono a fare l’esatto contrario di quel che mi viene detto. Quindi ringrazio i lettori e gli abbonati di averci mantenuti in salute e in grazia di Dio. E la cosiddetta “concorrenza” di spalancarci oceani di conformismo, censura e autocensura da solcare col nostro vascello corsaro.

Pensa, Antonio, che – te lo sussurro all’orecchio, per scaramanzia – in queste settimane di arresti domiciliari al 41-bis per tutti gli italiani, le nostre vendite in edicola sono persino aumentate, abbiamo raccolto 12 mila nuovi abbonamenti digitali e le lettere al Fatto si sono moltiplicate per dieci. Un premio a tutta la redazione e ai collaboratori che lavorano in condizioni difficili, spesso proibitive. Fra pochi giorni annunceremo importanti novità in casa nostra, che riguardano il giornale, la sua veste grafica e una serie di nuove iniziative per affrontare il mondo nuovo post-Covid all’insegna di una vera normalità, cioè di un autentico cambiamento, onde evitare che qualcuno ci riporti alla falsa normalità di prima, quando di normale accadeva ben poco. In questi momenti di disorientamento, mi capita spesso di immaginare che cosa direbbe Indro Montanelli se fosse vivo. Così apro a caso uno dei suoi libri, o vado sul sito della Fondazione Montanelli che ogni giorno distilla una sua perla, e trovo compagnia. E, a proposito di cambi di direzione, mi sono imbattuto nel suo commiato a noi redattori del Giornale l’11 gennaio 1994, quando ci annunciò che se ne sarebbe andato a fondare La Voce per le intromissioni di B. prossimo alla discesa in campo: “È un po’ tardi, ma alla fine mi sono convinto che di padroni non bisogna averne. Perché, anche quando cominciano bene, finiscono male… La libertà, che non consiste nell’avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno”.

Lo sforzo di aggirare la barriera di cinismo intorno alle storie di migranti

Ve li ricordate i migranti che arrivano dal mare? Hanno tirato fuori il meglio e il peggio dagli italiani, prima che il virus costringesse tutti a concentrarsi sulla mera sopravvivenza e a lottare con una vera invasione, ma di tipo assai diverso. Emigrania – I fiori del mare è uno strano fumetto che offre l’occasione per un bilancio della risposta “narrativa” alla crisi dei migranti. Come riassume Makkox nella prefazione, artisti di ogni disciplina (fumettisti inclusi) si sono prodotti in disegni, canzoni e film per invocare empatia ma spesso senza aver mai parlato con un rifugiato. Daniele Bonaiuti, grafico, artista, con la compagna Valentina sceglie di fare qualcosa di più efficace che invocare buoni sentimenti e accoglie in casa un rifugiato, Moussa, 31 anni, ivoriano. Una storia di successo: Moussa riesce a trovare addirittura un lavoro a tempo indeterminato e dopo pochi mesi conquista la sua indipendenza. Bonaiuti, con l’illustratore Alessandro Cripsta, costruisce un graphic novel intorno a questa esperienza. Dopo migliaia di servizi tv con storie tutte uguali, sappiamo quanto è difficile far scattare l’empatia nel lettore/spettatore italiano alla milionesima storia di fuga, torture e speranza. È come se si alzasse una barriera mentale di noia e cinismo che ci evita di doversi fare carico di un quantitativo di dolore e drammi impossibile da sopportare (deve essere lo stesso meccanismo mentale che tiene tanti lontani dalla letteratura e dai film sulla Shoah: è troppo da sopportare e capire). E così Bonaiuti e Cripsta condensano la storia di Moussa in due paginette e nel resto del volume evocano suggestioni, tra splendide illustrazioni e testi poetici. Così, forse, si impedisce alla barriera di cinismo di alzarsi, ma si perde anche la storia unica, privata e degna di racconto di Moussa e della coppia italiana, coraggiosa, che è stata capace di solidarietà anche oltre il tavolo da disegno.

 

Anche gli stracci parlano: la loro “voce di carta” è incantevole

Cresciuta in una cascina, nella campagna lombarda di fine 800, Marianna è analfabeta e non ha mai visto né un pennino né un calamaio né un quaderno. Ecco perché quando i genitori la spediscono in un convento di suore a Lecco per lavorare in una cartiera (a quel tempo suore e fabbriche instauravano spesso una sorta di joint venture per garantire riparo e sicurezza alle giovani operaie giunte dai campi), resta sconcertata. Mai avrebbe pensato che da un mucchio di stracci sporchi potessero nascere fogli puri e perfetti come fazzoletti candeggiati. Per lei è una magia, la stessa del pennino quando scorre sulla carta “come i bambini sul ghiaccio a Natale”. Umile, dignitosa e cordiale, Marianna costruirà per sé un futuro in cui la carta è proprio il centro, spinta dalla volontà di migliorarsi non al grido di girl power ma di chi non dà niente per scontato e sa cogliere le piccole chance come “perle che un giorno diventeranno collana”. Nato dalla prolifica penna di Lodovica Cima, la cui famiglia produce carta da generazioni, La voce di carta è un delizioso romanzo storico che fotografa un’Italia in piena Rivoluzione industriale e regala la storia di una piccola-grande vita, quella di una giovane donna che non si pone limiti e scopre che quei “fazzoletti” bianchi hanno il potere di veicolare bellezza e conoscenza.

Contro l’assenza non si vince mai

L’illusione assai comprensibile e umana che il dolore a un certo punto possa rimarginarsi, che possa rapprendersi tutto in quella scatola del tempo che è il ricordo per poi farsi svogliatamente addomesticare e seppellire in un punto imprecisato della nostra memoria è “un pensiero da quattro soldi”. A sostenerlo è il Premio Nobel per la Letteratura Vidiadhar Surajprasad Naipaul (1932-2018) in Dolore, un breve eBook con cui Adelphi in periodo di quarantena inaugura la sua collana tutta digitale “microgrammi”.

Si tratta di uno degli ultimi testi vergati dallo scrittore originario di Trinidad e naturalizzato britannico, e anche uno dei più personali e diretti. Apparso per la prima volta sul New Yorker nel gennaio 2020 e tradotto oggi da Matteo Codignola, è un racconto autobiografico dalla scrittura tersa e ispirata, che affresca la tematica del dolore e della perdita con lo stesso tratto solenne, acutissimo e definitivo dei suoi grandi capolavori (Sull’ansa del fiume, La metà di una vita, Lo scrittore e il mondo, tra i tanti).

A partire dall’impossibilità di affrancarsi davvero dalla perdita delle care presenze che costituiscono lo stilobate di quel tempio di abitudini ed egoismi che abbiamo eretto e chiamiamo esistenza, Naipaul racconta della morte di suo padre, giornalista del Trinidad Guardian, avvenuta quando Vidiadhar ventunenne era ancora studente a Oxford e non sapeva nulla delle questioni importanti della vita; di come deve in qualche modo al padre, e al di lui desiderio di diventare scrittore con modesti tentativi di racconti umoristici, la propria determinazione con cui appena trentenne inizia a scrivere, decidendo che la letteratura sarebbe stata il suo avvenire. Tuttavia, quando attraverso la scrittura Naipaul crede di aver come estinto il suo debito con il dolore, ecco che muore Shiva, il fratello minore, per problemi di alcol. “Il dolore è sempre in agguato – leggiamo –. Fa parte del tessuto stesso della vita. È sempre sulla soglia. L’amore impreziosisce i ricordi, e la vita; il dolore che ci aspetta è proporzionato a quell’amore, e inevitabile”.

La morte del fratello, anch’egli scrittore e con cui aveva un rapporto conflittuale (pure per via del diverso successo con cui interpretavano lo stesso mestiere eletto), riapre il vaso di Pandora del dolore: rimpianti, rimorsi, non detti, nostalgie, dimenticanze, atti mancati. Nuovamente, il dolore lo sorprende, si impadronisce della sua esistenza. “Non avevo idea di quanto sarebbe durato – prosegue –. Per due anni avevo datato tutto, compreso l’acquisto di un libro, a partire dalla morte di Shiva”. A completare questa divagazione, l’inesorabile dipartita dopo un lento declino del gatto di casa, Augustus.

Il paradosso che Naipaul affronta in questo corpo a corpo col dolore sulla pagina, e con cui fatichiamo a venire a patti, è che per quanto possiamo dirne e discettarne in libertà la morte non è la fine della vita. Ben lungi da considerazioni teologiche, potremmo anzi spingerci a sostenere – quasi fossimo intrappolati nella scatola di Schrödinger insieme al gatto, il martello, la fiala di veleno e il contatore – che la morte “è anche” la vita, poiché dietro ogni segno di vigore si può celare l’annuncio della rovina, come pure è vero che dentro ogni momento luttuoso la beffarda, imprevedibile e prodigiosa corsa della vita non si arresta mai.

Cerchi di dolore nell’acqua ferma: Robecchi viviseziona buoni e cattivi

Questa volta, Alessandro Robecchi non si misura con la Grande Fabbrica della Merda alias la tv in cui protagonista indiscusso è Carlo Monterossi. Stavolta, lo stile beffardo e irresistibile di Robecchi, firma del Fatto e autore tv, si cimenta con quel dolore muto delle vittime della violenza di tutti giorni. Ossia “cerchi di dolore nell’acqua ferma”, che risucchiano le vite di persone qualunque. Come quelle di due poliziotti della galassia monterossiana, Tarcisio Ghezzi e Pasquale Carella, entrambi sovrintendenti senza l’orizzonte di una carriera. Sono loro due gli attori principali dell’ultimo noir milanese di Robecchi, in testa alle classifiche di vendite. Il primo, Ghezzi, ha quasi sessant’anni e all’improvviso, o forse no, scopre una “nostalgia nera” quando incontra Franca, matura puttana in ansia per il suo uomo, “il Salina Pietro”, ladruncolo di basso rango che è scomparso da un giorno all’altro. Il Salina fu il primo arresto di Ghezzi, decenni prima. E così il poliziotto s’immerge in quei cerchi nell’acqua ferma per conto suo. Un’indagine privata.

Idem per il suo collega Carella. Qui il dolore demolisce il senso di giustizia che anima chi ha scelto di militare dalla parte dei buoni. Carella infatti ha una missione: trovare Alessio Vinciguerra, pappone energumeno appena uscito di galera. A modo suo l’ha fatta franca: quattro anni solamente per aver ridotto a vegetale una sua protetta dell’est. Il criminale era stato incastrato dalla testimonianza di L, solo l’iniziale, ex tossica e amica della vittima. Il sovrintendente ha giurato a L di proteggerla, in vista della scarcerazione di Vinciguerra, ma la donna ha ceduto. Si è bucata di nuovo ed è andata in coma. Le due indagini private di Ghezzi e Carella scorrono su un binario parallelo al caso di un restauratore d’antiquariato ammazzato. Il disincanto di Robecchi e il suo talento di narratore sono gli occhiali perfetti per guardare fra quei cerchi nell’acqua, tra bar puzzolenti e la routine notturna dei delinquenti. Magistrale.

La “dolce demenza libraria” di Manganelli

Chi avesse voglia o bisogno di sanificarsi i circuiti neuronali, deve procurarsi Concupiscenza libraria, la raccolta di recensioni di Giorgio Manganelli appena edita da Adelphi, a cura di Salvatore Silvano Nigro.

Laddove i recensori della sua, e nostra, epoca raccontano la trama dei libri e le biografie dei loro autori, Manganelli – indifferente ai dati e ai fatti – inaugura nella recensione un genere letterario a sé, una specie di letteratura-ombra, “una ciancia da angiporti, un berlingare senile”, e sgrana l’ordito di vite e libri, classici o opere prime, restituendo sulla pagina il precipitato prezioso di questo setaccio condotto con amore ossessivo, dedizione liturgica, bramosia inesausta.

“L’amore per i libri parte da un innamoramento, è una passione, è una mania, è una frenesia, è una dolcezza, è uno strazio”, confessa. Sulle pagine de Il Giorno, L’Illustrazione Italiana, Il Mondo, L’Espresso, Epoca, Il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero etc., apparvero tra gli anni ’70 e il 1990, anno della morte di Manganelli, queste dichiarazioni di “dolce demenza libraria”, cerimonie cliniche di una sfrenata librofilia che sfocia nella quasi-perversione finanche per i segni, gli appunti, “le sottolineature lasciate sui libri da lettori ormai polvere dimenticata”.

Gli scrittori sono puntati e afferrati con scatto da rapace, ritratti nella loro essenza, figure scavate col vetriolo: Leo Longanesi, “questo italiano espatriato in patria”, è “amarognolo e sapido”, un “educato malumoroso” dotato di “una squisita odiosità, un che di spregevole e intellettualmente nobile”; del resto “Longanesi è scrittore. Malaparte è un’altra cosa: è uno ‘che sa scrivere’; generalmente colui che ‘sa scrivere’ affascina chi non sa leggere”.

Assolutamente innamorato è il ritratto che Manganelli fa di Benedetto Croce, nella recensione del libro di ricordi della figlia Elena: Croce è un “uomo dignitoso fino all’asprezza, non cordiale, diffidente di sé”, “lavorato da una enorme, disadorna tristezza, una angoscia che con lunga fatica aveva fatto da ‘selvatica e fiera’, ‘cronica’, e quindi ‘domestica e mite’”.

Quando commenta un libro che parla dell’esilio di Ovidio a Tomi e della “catastrofe stupenda” delle metamorfosi (Il mondo estremo di Christoph Ransmayr), Manganelli va in deliquio; sperimenta “abissi di passione” per i colossali Omero e Chaucer, languore viscerale per gli autori di capolavori negletti, “indifferenza emotiva” per quelli che la classe intellettuale del suo tempo metteva tra gli araldi della cultura ufficiale (lapidario il giudizio su Pasolini: “Un romanziere in similvita”, “ossessionato dall’autentico”, “afflitto da una stizzosa bontà”).

Nel 1977, in bonaria polemica con Primo Levi che criticava lo “scrivere oscuro” di alcuni autori, Manganelli ne fece l’elogio, come diritto alla coltivazione del caos, con legge definitiva: “Lo scrittore è colui che è sommamente, eroicamente incompetente di letteratura. Come l’innamorato è colui che fra tutti gli uomini e le donne ha ottenuto la grazia della totale incompetenza a proposito dell’essere amato”.

Del resto, come scrisse altrove, “i veri erotomani vanno a vedere le icone bulgare, e i dementi del sesso contemplano le fotografie di Tolstoj nella sua casa di campagna”; qui gli erotomani leggono romanzi storici e “interrogano sulle antiche monete i consunti profili degli imperatori”. Sono i “pensosi di sé e della galassia, studiosi delle comete dell’anima, lettori di classici, amanti della sintassi”, che Manganelli convoca qui, con questa Antologia che vede la luce per la prima volta in versione integrale; coloro che desiderano sentire il respiro dei libri, il loro “aroma straordinario”, come quello di corpi da concupire fin nelle minime loro vibrazioni, contrazioni e nervature.

Ma questo libro fa di più che offrire al lettore ossessionato un’anamnesi della sua parafilia libresca: fa ridere, risucchia come un vortice in una dimensione alternativa alla cosiddetta realtà, è profondo e ghiotto, sardonico e elusivo, esatto e folle, liturgico e frivolo, come è sempre Manganelli.

“Defending Jacob”, essere disposti a tutto per difendere il proprio figlio

Andy Barber (Chris Evans) è un bell’uomo che ha un bel lavoro, una bella casa in una cittadina del Massachussets, una bella macchina e una bella famiglia. Ha anche un brutto segreto, però: il padre è in carcere da più di 30 anni per aver assassinato una studentessa a coltellate. Il suo passato ritorna a galla quando Ben, un compagno di classe di suo figlio Jacob, viene ucciso nel parco mentre sta andando a scuola. Andy, assistente procuratore distrettuale, viene incaricato del caso. Ma ben presto il principale sospettato diventa il 14enne Jacob. Primo indizio: sul corpo della vittima ci sono le sue impronte; secondo indizio: Ben lo bullizzava; terzo indizio: Jacob possedeva un coltello che potrebbe essere l’arma del delitto e che non si trova più (l’ha fatto sparire Andy). Il ragazzo viene arrestato e poi rilasciato su cauzione. La bella vita dei Barber, assediati e messi sotto il microscopio dalla stampa, si trasforma in un incubo.

Defending Jacob (da oggi i primi tre episodi su Apple Tv+) comincia con una domanda interessante: fino a che punto può arrivare un padre per difendere suo figlio? Poi s’immerge nel dramma di una famiglia sconvolta dal sospetto peggiore, quella di aver allevato un omicida. Ma lo fa senza raggiungere particolari picchi di originalità: i compagni di Jacob, per esempio, sono tali e quali agli adolescenti di Tredici e di molti teen drama usciti negli ultimi anni, solo con qualche anno di meno. L’impressione, poi, è che manchi il coraggio di puntare tutto sulle ambiguità del ragazzo e sulla sua possibile colpevolezza: perché, altrimenti, insistere sin da subito su un altro potenziale colpevole?

La serie è ben girata, tutto sommato ben scritta, soprattutto ben recitata. Ma in un panorama seriale che produce ogni anno più di 500 titoli, e che vede l’asticella alzarsi costantemente, potrebbe non essere sufficiente per guadagnarsi uno spazietto. In particolare su una piattaforma come Apple Tv+, che pare aver fatto una scelta simile a quella di Amazon Prime Video: pochi titoli, almeno rispetto a quelli del gigante Netflix, ma con una qualità media molto alta.

Storia al rovescio: Usa amici dei nazi

Gli Stati Uniti in mano ai nazisti: l’incubo preferito degli americani prende forma in un’altra serie tv. Dopo L’uomo nell’Alto Castello, tratta da La svastica sul sole di Philip K. Dick, e dopo la recente Hunters con Al Pacino, ecco Il Complotto contro l’America. Una miniserie in sei episodi targata Hbo e basata sull’omonimo romanzo di Philip Roth: negli Usa si è appena conclusa (ultima puntata il 20 aprile) mentre in Italia arriverà fra giugno e luglio su Sky e Now Tv.

Siamo a Newark, New Jersey, nel 1940. La Seconda guerra mondiale è già cominciata, ma gli americani la seguono ancora da lontano. Eppure proprio la guerra diventa il tema portante della campagna elettorale che vede confrontarsi il democratico Franklin Delano Roosevelt, il presidente in carica, l’uomo del New Deal, e il repubblicano Charles Lindbergh, l’eroe che per primo ha attraversato l’Atlantico da solo in aereo e che pare guardi con simpatia a Hitler. “La scelta non è fra Lindbergh e Roosevelt” ripete l’aviatore fino allo sfinimento: “È fra Lindbergh e la guerra”.

La sua tesi è semplice e per certi versi attraente: si tratta di una guerra europea, perché dovremmo intervenire? Perché dovremmo versare il sangue dei nostri giovani per una faccenda che non ci riguarda? A Herman Levin, assicuratore che vive in un quartiere ebraico di Newark, non piace per niente. Secondo lui Lindbergh è un antisemita. Il rabbino Bengelsdorf la pensa in maniera diversa e sostiene pubblicamente il candidato repubblicano, che finirà per vincere le elezioni (qui la storia de Il Complotto contro l’America si stacca decisamente dalla realtà). Per gli ebrei americani, è facile intuirlo, non andrà bene. La vittoria di Lindbergh, che proclama la neutralità degli Stati Uniti e si fa filmare mentre stringe la mano a Hitler, legittima l’antisemitismo strisciante: anche gli americani possono finalmente cacciare gli ebrei dagli hotel e disegnare svastiche sulle tombe dei loro morti. Ma chi si aspetta un climax di violenza e colpi di scena rimarrà deluso. Il Complotto contro l’America si sviluppa gradualmente e in maniera naturale, com’è nello stile di David Simon, già creatore di due serie magnificamente lente come The Wire e The Deuce. Al centro della scena rimangono sempre i Levin. La crescente frustrazione del padre Herman, i tentativi della madre Beth di proteggere la sua famiglia, la ribellione del figlio adolescente Sandy che simpatizza per Lindbergh e lo smarrimento di suo fratello minore Philip che comincia a sentirsi un estraneo nel suo Paese e a casa sua. E poi il cugino Alvin, che si arruola nell’esercito canadese e va a combattere in Europa nel disperato tentativo di uccidere qualche nazista. E la zia Evelyn (Winona Ryder) che finisce per sposare il controverso rabbino Bengelsdorf (John Turturro), forse il personaggio più riuscito, un ebreo aristocratico del South Carolina che va in giro in sella al suo cavallo bianco.

Non c’è nessuna sfida all’Ok Corral fra buoni e cattivi: dove stiano il bene e il male è chiarissimo, ma le ragioni di chi parteggia per i “cattivi” e il loro desiderio di “essere come tutti”, quando sono incarnati in personaggi fatti di carne e ossa, diventano meno lontane e più comprensibili. Certamente guardando Il Complotto contro l’America viene spesso da pensare a Donald Trump e agli Stati Uniti di oggi. La realtà distopica creata da Roth suona molto più vera adesso rispetto al 2004, l’anno in cui uscì il libro.

La storia della serialità è piena di ottime serie tratte da romanzi, ma se si parla di grandi autori il discorso cambia. Accanto a successi come Sherlock (dai racconti di Arthur Conan Doyle) e The Handmaid’s Tale (dal romanzo di Margaret Atwood) c’è un lungo elenco di produzioni di cui ci siamo scordati velocemente. Il Complotto contro l’America finirà sicuramente nella prima colonna. L’unico cruccio, per chi ha letto il romanzo, sarà forse il personaggio di Philip, che da narratore qui diventa un personaggio dei tanti. Nel libro la famiglia si chiama Roth e il piccolo Philip è Philip Roth. Nella serie diventa Philip Levin: a pensarci bene, non è una differenza da poco.

La redenzione non è una palla da basket

Grosso, ferito, pieno: di rabbia, birra, vodka e possibilità estinte. Non è nemmeno un pugile suonato, è il sacco: le ha prese dalla vita, e continua a darsele. Ben Affleck è Jack Cunningham, e i titoli non lo assistono: non quello originale, The Way Back; non quello italiano, il mistificatorio Tornare a vincere. Meglio sarebbe stato il provvisorio The Has-Been o, se proprio dobbiamo onorare l’autarchia, Tornare a non perdersi.

Stella del basket alle superiori, Jack ha abortito la carriera cestistica per scontentare il padre approfittatore, e s’è perso: droga e i suoi fratelli, finché la moglie Angie (Janina Gavankar) non l’ha rimesso in carreggiata. Oggi fa il manovale, e davanti agli affronti e agli insulti dell’esistenza ha saputo alzare solo il gomito: bancone la sera, birra sotto la doccia al mattino, vodka sul cantiere. Beve, e non si può chiedere al cinema americano – almeno, questo mediano – di lesinare sul rapporto causa-effetto: gli è morto un figlio piccino, la moglie sta già con un altro, insomma, è un alcoolismo molto pavloviano e, va detto, poco contemporaneo. Oggi serve un motivo per una dipendenza?

Non ci curiamo di Jack, però, quanto di Ben: sappiamo tutti o quasi che Affleck non sta interpretando un ruolo, ma se stesso. Che quel svuotare nottetempo il frigo pieno di lattine, tornare a casa ubriaco fradicio, fare dei postumi il continuum non lo recita oggi, ma l’ha vissuto ieri: Ben il redivivo.

Da Argo del 2012 sin qui che titoli ricordate diretti e/o interpretati dal due volte premio Oscar – lo stesso Argo, miglior film, e nel 1998 la sceneggiatura con l’amico Matt Damon di Will Hunting? Non c’è Batman che tenga, è ormai maggiorenne la sua storia extra-cinematografica e intra-gossippara, dalla relazione con Jennifer Lopez al matrimonio a pezzi con Jennifer Garner, passando per una teoria di dipendenze e confessioni. Tornare al cinema, dunque, pagando il dazio, facendo di persona personaggio: penitenza e paraculaggine, cocktail hollywoodiano di solida fortuna. L’avvio in medias res gli rende giustizia: dall’alto del suo metro e 92 centimetri e, si direbbe, un centinaio di chili, Affleck arriva come un grizzly in letargo al Thanksgiving dalla sorella; ubriaco e iroso, fa volare per aria una lattina e paracaduta una certezza, la redenzione informerà le inquadrature che verranno. Dirige Gavin O’Connor, più che onesto mestierante, davanti a Ben già nel 2016 per il dimenticabile The Accountant, e con qualche esperienza di genere sportivo, da Miracle (2004, hockey) a Warrior (2011, arti marziali miste).

Stavolta gli tocca seguire la palla a spicchi, invero mal gestita alla losangelina e cattolica Bishop Hayes: da quando Jack se n’è andato la compagine non ha più raggiunto i playoff, caldeggiato da Padre Devine il ritorno da coach catalizzerà la vittoria? Jack s’impegna, le imprecazioni a bordo campo fanno sussultare prete e – il vice – pretini, il bicchiere è sempre della partita, e lì cade l’asino. Tagliata con l’accetta secondo stereotipo: l’esuberante da castigare, il dongiovanni da irreggimentare, il talento da scoprire, la squadra migliora, il suo allenatore no: Jack è un corpaccione in balia di se stesso, un tronco alla deriva, scarpe grosse e cervello spento. Andrà come agenda ed enciclopedia pretendono, ma sono gli occhi velati, le risate a scomparsa, la compunzione dell’alcoolista non anonimo, anzi famoso a sovvertire la finzione, cortocircuitare la cronaca, infettare il racconto: dove finisce Jack e inizia Ben? Voltaggio sociale e immagini senza età (dai Settanta in su), psicologia spiccia e tensione agonistica, Tornare a vincere vive di rendita e sopravvive di redenzione: non è male, davvero.

Con le sale chiuse, arriva direttamente su Apple Tv, Youtube, Google Play, TIMvision, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV, e per il noleggio su Sky Primafila, Infinity e VVVVID.

“Speriamo di cavarcela di nuovo dopo 30 anni”

Nella primavera di trent’anni fa i lettori italiani si passavano di mano in mano uno smilzo volumetto che conteneva passaggi esilaranti e sgrammaticati come “La mia casa è tutta sgarrupata… Però ci viviamo lo stesso, perché è casa mia, e soldi non ce ne stanno. Mia madre dice che il Terzo mondo non tiene neanche la casa sgarrupata, e perciò non ci dobbiamo lagniare” oppure “Io vorrei che il telegiornale non lo farebbero giusto quando noi mangiamo, ma un po’ più tardi, così mangiassimo in santa pace”. Io speriamo che me la cavo nel 1990 superò il traguardo del milione di copie e rese celebre Marcello D’Orta, maestro elementare che ebbe l’intuizione di raccogliere 60 temi dei suoi scolari di Arzano, comune della periferia napoletana. Il successo provocò anche uno strascico giudiziario con i genitori dei bambini che reclamarono percentuali sui diritti d’autore. Al netto delle controversie, il libro ebbe il merito di denunciare, col sorriso sulle labbra, il disastro scolastico del Mezzogiorno.

Abbiamo interpellato Eraldo Affinati, scrittore e insegnante, finalista al Premio Strega nel 2016 con L’uomo del futuro, per capire quale eredità ci resta di quel clamoroso best-seller.

Affinati, qual è il suo giudizio su Io speriamo che me la cavo: fu una mera operazione commerciale oppure un interessante esperimento sociologico?

Nel 1990 insegnavo Lettere in un istituto professionale di Guidonia, vicino a Roma. Quando lessi Io speriamo che me la cavo sentii aria di casa: anche se i miei scolari erano già adolescenti e quelli di Marcello D’Orta ancora bambini, gli strumenti linguistici in cui si esprimevano sembravano più o meno gli stessi. Mi parve utile per far capire cosa significa fare scuola a chi non lo sa o crede di saperlo: non tanto trasmettere delle nozioni, ma costruire una dimensione verbale senza la quale non si possono raccontare, neppure a se stessi, le nostre sensazioni. Si capiva che il maestro voleva bene ai suoi alunni.

Dissacrare i propri problemi di vita con un umorismo involontario oppure ridere del disastro quotidiano degli altri è un esorcismo nobile oppure l’ironia significa accettare con rassegnazione la realtà?

Gli scugnizzi napoletani con quell’ironia ti mettevano di fronte alla realtà. Ti spiazzavano. Ti sfidavano. Smontavano le tue certezze. Proprio come i miei studenti del professionale. Ma, lo aveva scritto tanti anni prima don Lorenzo Milani, parafrasando il dettato evangelico, la scuola non dovrebbe essere un ospedale che cura i sani. Se non si rivolge ai malati, che scuola è? Il mio Elogio del ripetente nasce proprio da questa consapevolezza.

La povertà culturale resta una calamità peggiore della povertà materiale. Lei che ha a che fare con i minorenni migranti quanto li sente affini a quei bambini di una periferia del nostro Mezzogiorno che non avevano le parole per esprimersi?

Esiste un nesso profondo fra i bambini di quelle periferie meridionali e gli alunni che oggi frequentano le scuole Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati. È come se il Rione della Sanità avesse assunto una dimensione planetaria: il piccolo Mohamed, minorenne arabo non accompagnato, ospite in un centro di pronta accoglienza, rischia di diventare anche lui, con tutta l’irresistibile simpatia che può suscitare a chi lo avvicini senza pregiudizio, un invalido spirituale, alla stessa maniera dei bambini di Io speriamo che me la cavo. In questi giorni di forzata immobilità per molti giovani immigrati l’apprendimento della lingua italiana, che noi stiamo cercando di continuare a fare con le videochiamate rappresenta l’unico appiglio per uscire dalla disperazione della stanza vuota con il poster di Cristiano Ronaldo appeso alla parete.

La scuola italiana è ancora “sgarrupata”? In altri termini: a leggere quei temi trova che i problemi dell’educazione e della logistica scolastica siano rimasti gli stessi oppure si sono fatti passi avanti?

Passi avanti ne sono stati fatti, ma c’è ancora molta strada da percorrere. Dobbiamo metterci in testa che senza scuola non c’è futuro. Anche i forti hanno bisogno dei deboli: in fondo è questa suggestione il lascito più prezioso del libro di Marcello D’Orta. Chi, come me, viene dal basso, considera oggi il divario digitale che la reclusione coatta imposta dal coronavirus ha impietosamente scoperto, alla maniera di una ferita sanguinosa: un conto è avere la possibilità di studiare sulle piattaforme informatiche, un altro è dover accontentarsi della chiamata del professore sul cellulare.