Le grandi penne in estasi per le città deserte

Sarà che certe sensibilità fioriscono quando intorno c’è silenzio. O sarà che lo scenario è più limpido quando l’osservi da un grande terrazzo – un attico? – o almeno una bella vetrata che si affaccia sulla città deserta.

Sarà quel che sarà, ma la pandemia ispira. Le migliori penne del giornalismo italiano raccontano con una meraviglia fanciullesca l’incanto delle metropoli vuote, finalmente silenziose, paradossalmente più umane. È un genere letterario.

Il maestro Corrado Augias si è esercitato sulla Repubblica di ieri. Il titolo, già lirico: “L’ultimo silenzio della mia Roma”. Racconta Augias: “Nel corso della mia vita ho udito tre volte il ticchettio dei passi nelle strade di Roma finalmente silenziose”. Finalmente! Non sono poi tanto silenziose certe palazzine in talune piazze un poco meno centrali di quelle dove immaginiamo Augias, ma vabbè: è un’altra storia. La sua Roma è una sinestesia, un trionfo dei sensi liberati, una Capitale rinata nella solitudine: “Si sono aggiunti i profumi della vegetazione in fiore e lo scroscio dell’acqua nelle fontane, anche quello dimenticato”. Per un secondo Augias pare consapevole delle spiacevoli ricadute sociali di questa profondissima quiete ritrovata. Ma è solo un attimo: “Abbiamo avuto i lutti, avremo conseguenze economiche che speriamo solo severe e non drammatiche, ma abbiamo avuto anche il regalo del silenzio in una città inutilmente chiassosa”. Vuoi mettere?

La sensibilità dei grandi giornali italiani e delle loro firme s’è risvegliata: fioccano racconti pieni d’amore (e strabilianti gallerie fotografiche) su Venezia liberata dai turisti e le acque dei canali trasparenti, sui delfini che si riaffacciano alla Gaiola di Napoli, sulla bellezza di Firenze deserta “che lascia senza fiato”.

Che meraviglia, quanta espressività in questo tacere di negozi chiusi, attività fallite, relazioni interrotte. Elena Stancanelli pennella un ritratto onirico sulla Stampa del 23 marzo: “Città come quadri metafisici, ammiriamo in silenzio il vuoto magnifico”. Un viaggio esistenziale: “Nelle città deserte e immobili – scrive – il talento e l’intelligenza di chi ha progettato costruito immaginato, incontra lo sgomento di uno sguardo postumo, commosso”. Insomma il genio dell’urbanista si compie, finalmente, solo nelle strade sgombre.

Il più ispirato filosofo della non-civiltà del Covid è forse Gabriele Romagnoli di Repubblica.

L’8 aprile ci ha raccontato “Le finestre sul cortile del mondo”. E qui torniamo al punto di partenza, all’importanza di balconi e vetrate: “L’inquadratura dalle finestre delle nostre case, a qualsiasi livello si trovino, è tutto ciò che del mondo ci è concesso vedere”. È chiaro che da un seminterrato la visuale peggiora.

Ma non crediamo sia il caso di Romagnoli: “Mai come ora ringraziamo il momento, se c’è stato, in cui abbiamo scelto un appartamento per la vista”.

A Roma, per dire, all’angolo tra via del Pigneto e via Riccio da Parma c’è una vista strabiliante su cassonetto pieno 365 giorni all’anno, frequentato da simpatiche pantegane irsute.

Non disperiamo, però: “Ogni tragedia porta in sé il seme di una rinascita. E lo vedremo alla finestra”.

Si canta Bella Ciao e uscire per la spesa profuma di libertà

 

Un video con 40 persone per onorare la Liberazione

Dalla provincia di Chieti, terra della decorata Brigata Maiella, abbiamo aderito (con l’associazione Transumanza Artistica e Pro Loco Torricella Peligna) all’invito dall’Anpi. di cantare Bella Ciao dai nostri balconi. Abbiamo pubblicato sui social il nostro canto, rendendo tributo ai nostri antenati partigiani. Al video collage hanno partecipato più di 40 persone pronte a festeggiare comunque la Liberazione. Qualcuno ha rifiutato l’invito perché, a suo dire, la canzone è troppo politicizzata e nel proprio ambiente lavorativo non si è ben visti se si prendono posizioni così nette. Noi, come i partigiani della Brigata Maiella, abbiamo ideologie diverse ma siamo tutti accumulati dal sentimento anti nazifascista. Il nuovo invasore è un virus, in Abruzzo ne usciremo più forti di prima.

 

Esco dopo una settimana e trovo un mondo nuovo

Venerdì scorso, dopo una settimana, sono uscita per fare la spesa e mi è sembrato di trovarmi in un mondo nuovo. Mi sono ritrovata a guardarmi attorno e sentirmi immersa in una bellezza che solo la Natura può regalare. E mi è sembrato di tornare in due momenti della mia vita.

A un giorno di me bambina, quando i miei genitori mi regalarono la mia meravigliosa bicicletta di Barbie: gioia pura sul viso, che già percepiva la bellezza del vento contro. Sovrapposto a quel momento è arrivato il ricordo legato a un giorno di una me da poco maggiorenne, al primo anno di università, mentre da casa mi recavo a piedi in facoltà per la lezione, in una città per me nuova. Quel giorno di marzo, venni investita dall’odore intenso delle mimose, che fino a qualche giorno prima non c’erano e che quella mattina riempivano a grappoli luminosi gli alberi che incorniciavano il viale.

È quasi trascorsa una settimana da quel pomeriggio, il mio “approvvigionamento alimentare di necessità” reclama di essere soddisfatto! Mi si apre davanti un altro squarcio di libertà al profumo di primavera.

 

Non rinunciamo al Fatto e vedrete: andrà tutto bene

Cari amici del Fatto, nonostante il coronavirus (mannaggia a lui) continuo ancora a recarmi in edicola per acquistare il nostro giornale! Per voi questo e altro. Ma vedrete: andrà tutto bene!

Virus: è l’ora più buia, ma senza Churchill. Un disastro all’inglese

A un mese dall’inizio del lockdown qual è il bilancio per il Regno Unito?

La risposta politica – Tardiva. Malgrado le prime riunioni dell’esecutivo siano state a fine gennaio, per settimane il governo ha raccomandato solo di lavarsi le mani, senza implementare controlli agli arrivi dalle zone rosse, il lockdown o avviare campagne di testing e tracing, con l’intento dichiarato di ottenere immunità di gregge. Il cambio di strategia è avvenuto solo a metà a marzo, quando è stato annunciato il lockdown. I morti in ospedale sono 18.738 più un centinaio fra medici e infermieri. Il Financial Times stima 41mila morti totali, soprattutto nelle residenze per anziani.

Boris Johnson – Distratto dalla Brexit e dal proprio divorzio e rassicurato dai suoi consiglieri scientifici, nelle settimane cruciali fra fine gennaio e metà marzo ha sottovalutato la crisi, invitando la popolazione a continuare la vita di sempre e non partecipando a cinque riunioni del comitato di emergenza Cobra. Il 27 marzo si è ammalato di Covid-19 ed è uscito di scena, lasciando di fatto un vuoto di potere.

L’impreparazione del Servizio sanitario (e del governo) – Un decennio di tagli, sempre sotto governi conservatori, la riorganizzazione in Trust (aziende autonome) e il depauperamento della medicina territoriale hanno provocato una risposta a macchia di leopardo. All’inizio della crisi la disponibilità di letti in terapia intensiva era fra le più basse d’Europa. È aumentata liberando reparti di ospedali o costruendone di nuovi che restano vuoti per la cronica carenza di ventilatori, medici e infermieri. Imputati: la mancata attuazione delle raccomandazioni del 2016 in caso di pandemia; lunghe linee di comando e una burocrazia esasperante che rallenta acquisti di materiale d’urgenza e la redistribuzione del personale dove serve. A fine gennaio, quando la concorrenza mondiale era già altissima, solo alcuni trust hanno comprato materiale protettivo, anche in concorrenza fra loro. Senza un efficace coordinamento centrale, malgrado l’intervento dell’esercito, il governo britannico non riesce a recuperare sufficienti misure di protezione, espone tuttora il personale a rischi inaccettabili o li costringe a riutilizzare materiali monouso. Intanto, altri reparti restano inattivi, con ritardi per i trattamenti di altri pazienti, per esempio in oncologia.

La propaganda ufficiale – Sono diversi i ministri che hanno mentito o edulcorato la verità in più occasioni, hanno fornito versioni contraddittorie sulla mancata partecipazione ai bandi europei per ventilatori e dispositivi di protezione. Garantito al personale in prima linea consegne urgenti di protezioni mai arrivate, arrivate con ritardo o con standard di sicurezza inferiori. Somministrato a lavoratori essenziali nella sanità tamponi poi rivelatisi inadeguati. Il ministro della Salute, Matt Hancock aveva annunciato l’imminente arrivo in farmacia di test: 20 milioni di dollari pagati in anticipo per due milioni di test cinesi rivelatosi inutilizzabili. Poi si è impegnato a raggiungere l’obiettivo di 100mila test quotidiani entro fine aprile. Ma a oggi sono solo 14mila al giorno.

I media – Con alcune eccezioni (Channel 4, The Guardian, Sky) i media di massa, inclusa la Bbc, hanno ignorato o sottovalutato le lezioni italiana e spagnola e sono stati deferenti nei confronti del governo. Il risultato è stato una copertura giornalistica in ritardo. Solo dalla scorsa settimana quotidiani prestigiosi come il Financial Times e il Sunday Times hanno pubblicato inchieste ed editoriali di condanna all’operato del governo.

Medico si oppone al farmaco antimalaria, Trump lo caccia

Chi tocca l’idrossiclorochina muore: in senso proprio, come è successo ad almeno un paziente che s’era curato ‘fai-da-te’ seguendo le indicazioni del ‘guaritore-in-capo’ – il presidente Trump – e in senso figurato, com’è accaduto al dottor Rick Bright, che guidava il dipartimento del ministero della Salute preposto a sviluppare il vaccino contro il coronavirus. Il dottor Bright ha raccontato al New York Times di essere stato rimosso dopo essersi opposto, perplessità scientifiche alla mano, alla promozione del trattamento caldeggiato da Trump, che ha a più riprese vantato l’efficacia contro il virus del trattamento anti-malarico, spesso associato all’antibiotico azitromicina: un mix che può risultare tossico.

“Faccio sentire la mia voce – spiega Bright – perché la lotta a questo nemico mortale deve essere guidata dalla scienza e non dalla politica o dal clientelismo”. Trump taglia corto: “Bright? Non ne ho mai sentito parlare”. Persino i conduttori della Fox, tv all news molto sensibile alle priorità del presidente, hanno smesso di vantare i meriti del medicinale, la cui efficacia è stata ripetutamente messa in dubbio dagli esperti e dietro la cui promozione il New York Times sospetta vi sia un conflitto d’interessi.

Il Plaquenil, versione commerciale dell’idrossiclorochina, è prodotto dalla Sanofi, fra i cui azionisti c’è la Fisher Asset Management, società d’investimento gestita da Ken Fisher, importante donatore del partito repubblicano e dello stesso presidente. Un altro investitore di Sanofi è Invesco, fondo già gestito da Wilbur Ross, segretario al Commercio di Trump. Dall’anno scorso, i tre trust della famiglia Trump hanno investimenti nel fondo Dodge&Cox, la cui maggiore partecipazione è proprio nella Sanofi. Il portavoce di Sanofi, Ashleigh Koss, ha precisato che la società non distribuisce più il Plaquenil negli Usa, ma continua a venderlo altrove nel mondo. La polemica segna un giovedì in cui gli americani che hanno chiesto sussidi di disoccupazione salgono a 26,5 milioni nelle ultime cinque settimane. Le previsioni economiche sono concordanti: il crollo del Pil nel 2020 sarà dell’ordine del 6%. Sul fronte del coronavirus, i decessi superano i 47 mila, i contagi gli 845 mila (dati della Johns Hopkins University). Per una volta, Trump e Fauci sono allineati contro Brian Kemp, il governatore repubblicano della Georgia che vuole ‘riaprire’ da oggi lo Stato: troppo presto.

 

Russia
Covid, crisi economica: Navalny ha un piano, firmano in 200 mila

“Cinque passi per la Russia”: è il titolo del programma presentato da Aleksey Navalny per superare la crisi generata dal Covid-19, già sottoscritto online da oltre 200mila russi. Lo scopo è alleviare la sofferenza economica di cittadini e imprese della Federazione, anche economica: la soluzione dell’oppositore del Cremlino è attingere al Fondo nazionale di previdenza, rimpinguato dal fatturato in eccesso dell’export di materie prime. Ma è una proposta “populista, superficiale, non legata al reale funzionamento del Paese e dell’economia”, ha dichiarato ieri il portavoce del presidente Putin, Dimitry Peskov. “Non c’è da stupirsi – gli ha ribattuto sui social Kira Yarmush, portavoce del blogger anti-corruzione – per Peskov il programma non è funzionale, ma per lui lo sono invece i miliardi per la propaganda statale”. Con oltre 60.000 infetti, la Russia registra quasi 5.000 nuovi casi di contagio ogni giorno. Perfino Serghey Sobyanin, uomo voluto dal Cremlino a capo della task force per arginare l’epidemia e sindaco di Mosca, si è detto preoccupato per la mancanza di posti letto disponibili.
Michela A.G. Iaccarino

 

Libia
Neanche l’epidemia ferma la guerra fra al Sarraj e Haftar

Nelle ultime 24 ore sono emersi altri nove casi di coronavirus, i malati salgono a 68; finora una sola vittima, secondo i dati forniti dal Centro nazionale per il controllo delle malattie. Quel che preoccupa è la situazione di conflitto che non retrocede neppure dinanzi alla pandemia. In Libia la tregua non c’è mai stata, come evidenzia l’inviata delle Nazioni Unite, l’americana Stephanie Williams: “Non la si può davvero definire una tregua, né un cessate il fuoco”, ha detto ai giornalisti via web. Dall’accordo negoziato a metà gennaio fra il governo di Tripoli guidato da al Sarraj e le forze avverse del generale Haftar, ci sono state 850 violazioni, 70 nell’ultima settimana. In questo contesto il coronavirus non ha fatto alcuna differenza, ha detto Williams, definendo “molto, molto preoccupanti” le notizie sul presunto uso di armi chimiche e denunciando la continua violazione da parte di alcuni Paesi dell’embargo sulle armi. La battaglia da alcuni giorni si è spostata a Tarhuna: l’emittente Libya al-Ahrar, vicina al governo di accordo nazionale di Sarraj, sostiene che Haftar ha tentato di avanzare, ma è stato respinto.

 

Francia
Il piano per la “ripartenza” affidato a un fedele di Sarkozy

Ai francesi impazienti e sfiduciati Macron ha assicurato ieri che il piano per tornare alle attività sarà reso noto a inizio settimana prossima (si parla di martedì), affidato a “monsieur ripartenza”: Jean Castex, 54 anni, che chiamano il “vice-premier”, un alto funzionario e uomo della destra gaullista vicino a Sarkozy. Dopo la polemica sulla riapertura graduale delle scuole dall’11 maggio, data di fine del lockdown, l’Eliseo ha fatto marcia indietro: il rientro in classe non sarà obbligatorio, ma si farà solo su base volontaria, saranno cioè i genitori a decidere. Il governo è già dovuto tornare indietro su un’altra decisione, rinunciando a prolungare il “confinamento” degli anziani dopo essere stato accusato di discriminazione. Il piano sarà “nazionale” e non “regionale”, ma la ripartenza non sarà uguale per tutti: si adatterà “alle realtà locali”. I sindaci avranno un ruolo di primo piano. I francesi sanno che le “misure-barriera” andranno rispettate ancora per “tanto tempo” perché il Covid continua a uccidere: sono 21.853 le vittime da ultimo bilancio (+516).
Luana De Micco

 

Finlandia
Dipendente della residenza positivo, premier in isolamento

Il primo ministro Sanna Marin da ieri è in quarantena; un dipendente della residenza ufficiale della premier, Kesäranta, è risultato positivo al coronavirus. Marin non ha sintomi e non ha incontrato il dipendente, dunque la misura – secondo una nota del governo – è solo precauzionale. Intanto la Commissione europea ha approvato un regime di aiuti in base al quale l’agenzia finanziaria del governo, Finnvera, può concedere garanzie e prestiti a società in difficoltà finanziarie a causa del Covid-19. Questa è la prima decisione sugli aiuti di Stato adottata dalla Commissione in merito alle azioni della Finlandia nella situazione del coronavirus. La decisione si basa sulla comunicazione pubblicata dalla Commissione il 19 marzo 2020 su un quadro temporaneo per gli aiuti di Stato. Il regime di aiuti facilita la combinazione di diversi tipi di sostegno poiché il finanziamento fornito da Finnvera non è cumulabile con sovvenzioni o finanziamenti concessi da altre autorità. L’aiuto massimo che può essere concesso alle imprese è di 200.000 euro in tre anni fiscali. Lo schema di aiuti ammonta a un valore di 2 miliardi.
Gianfranco Nitti

Fatti non fummo per l’aperitivo

Forse non è il momento di tirare il mondo da una parte o dall’altra. Tornare al mondo che c’era prima non è una salvezza e neppure una catastrofe. Più semplicemente bisogna guardare il mondo con occhi puliti, con pietà e ammirazione.

Per prima cosa siamo ancora dentro il lutto. Non ha molto senso pensare a un’altra economia, non ha molto senso cantare per la decrescita, più umano pregare che non si ammalino tante persone, più umano fare tutto il possibile perché il dolore sia meno opprimente. Ricordiamoci sempre che ammalarsi porta dolore, ricordiamoci che se uno sta bene si sente meglio. E allora guardiamo alle prossime settimane e ai prossimi mesi con la sensazione di avere almeno avuto una fortuna provvisoria, quella di non esserci ammalati. E proviamo a pensare a un mondo a cui dobbiamo portare premure più che richieste.

La questione decisiva non è quando riapriranno i bar o i parrucchieri. Fatti non fummo per l’aperitivo o lo stabilimento balneare. Si può discutere tutto il tempo che si vuole su quello che è essenziale e si capirà che l’essenziale ci divide: per alcuni è la riapertura della fabbrica, per me può essere la possibilità di fare i funerali. Quello che s’intravede è che l’unità nazionale raggiunta con l’ordine “restate a casa” è più difficile da raggiungere ora che si comincerà a uscire dalle case. E qui si sente che non è una questione di ingegneria sociale, di mascherine, di plexiglass, di mezzi divieti e divieti pieni, di norme rigide e di altre opinabili. Mi pare che la soluzione alla malinconia che ci aspetta è alzare il piano della nostra vita.

Se il segnale è garantire le condizioni perché ognuno possa semplicemente riprendere in qualche modo il suo lavoro, non credo che ce la facciamo a sconfiggere i demoni che stanno nell’aria e di cui il Coronavirus è solo il più aggressivo. Noi dobbiamo fare i conti col demone della depressione, dobbiamo saperlo che forse il virus ci ha preso anche perché le nostre difese erano sguarnite. Non possiamo pensare di affidare le nostre protezioni solo ai guanti e alle mascherine e al calcolo delle distanze: non possiamo andare in giro con il metro in mano. La tensione da creare adesso non è quella al riparo, quella deve essere un’abitudine di base. Ci vuole slancio, ci vuole entusiasmo, ci vuole una meta collettiva.

La meta, secondo me, non è riprendere a produrre e a consumare per far girare l’economia. La meta è una vita più intensa, perché solo l’intensità ci tiene lontani dalle malattie dell’umore e anche da quelle virali. Per me intensità non vuol dire processare il capitalismo, metterlo in quarantena e cullarsi di un mondo meno globalizzato. Io credo più a un ragionare che porti a galla il fatto che siamo sulla Terra che è un luogo di perenne metamorfosi. Noi stessi siamo una mutazione senza fine, perfino oltre la fine apparente del morire.

La questione è dunque poetica e filosofica. Ci vuole una produzione intellettuale capace di emozionarci e di metterci insieme su piani alti, ci faccia guardare verso l’invisibile più che verso il contingente. La protezione più grande per i mesi a venire è avere più pensiero da condividere. Ci serve il pane di una fede comune, di una voglia vera di stare assieme qui nella casa del mondo.

Le vere origini di “Bella ciao”, canto di libertà

Capita spesso di leggere nei giornali e nel web, soprattutto quando è in vista la festa della Liberazione o si parla delle Sardine, che Bella ciao è una “canzonetta delle mondine assurta a inno della Resistenza sull’onda del compromesso storico e sulla scia di un annacquamento delle spinte comuniste insite nel filone maggioritario della lotta partigiana”. Queste affermazioni, però, qui riprese dal sito di Il Secolo d’Italia, fanno a pugni, perdendo, con la storia. A sgombrare il campo dalle bufale ci ha pensato Cesare Bermani, novarese, classe 1937, tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, studioso del mondo e delle tradizioni popolari, così come del movimento operaio e proletario, e della Resistenza. In questi giorni di ricorrenze significative, dal 25 Aprile al Primo Maggio, esce il suo saggio Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla Resistenza italiana alla universalità delle resistenze, in cui ristabilisce un po’ di verità per l’appunto storica.

Sebbene le sue origini risalgano a quanto pare addirittura all’Ottocento, Bella ciao si affermò come canto dei partigiani, per giunta non comunisti. (È stato comunque Alberto Mario Cirese, asserisce Bermani, ad avere il merito “di essersi per primo interessato di Bella ciao e aver notato come fosse un riadattamento della canzone epico-lirica che Costantino Nigra”, uomo del Risorgimento, fedelissimo del conte di Cavour, diplomatico, poeta e ricercatore di canti popolari, “ha chiamato Fior di tomba II, canto diffuso in tutta Italia, entrato stabilmente nel repertorio militare sin dalla guerra del 1915-1918”. Dal Risorgimento alla Resistenza. Per un “non breve periodo”, scrive Bermani, “la canzone è stata ignorata dai libri di storia e dai canzonieri della Resistenza, ciò che ha permesso alla bufala che non sia stata cantata nei mesi della lotta partigiana di giungere sino a oggi, accreditata purtroppo anche da giornalisti studiosi quali Bepi De Marzi, Arrigo Petacco, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, tanto da poter essere ribadita nel 2018 anche dal giornalista Luigi Morrone”. Invece, in base a ricerche effettuate dallo studioso piemontese, da Gianni Bosio e da Franco Coggiola negli anni Sessanta e Settanta, si è scoperto “che una Bella ciao partigiana era stata cantata dall’aprile-maggio 1944 nella zona di Montefiorino (Modena), divenendo popolarissima durante la Repubblica partigiana, vissuta cinquanta giorni, dalla metà di giugno all’inizio di agosto del 1944”. Un’altra versione, poi, probabilmente nacque in Abruzzo, tra i partigiani della Brigata Maiella, “dove la Resistenza ha avuto una connotazione ben diversa che al Nord, in una formazione partigiana non garibaldina ed è un canto contro l’invasore tedesco. Se Fischia il vento fu la canzone più cantata della Resistenza, tuttavia anche Bella ciao fu cantata dalle formazioni partigiane che dal Centro Italia salirono al Nord affiancate agli Alleati. Ed è a essa, oggi identificata come la canzone della Resistenza italiana, che è toccato poi di diventare l’inno di tutti i ribelli del mondo”. Il canto, dunque, si diffuse nei venti mesi di guerra partigiana pure al Nord. Una testimonianza citata da Bermani lo dimostra. La partigiana Maria Giulia Cardini “ricordava di avere sentito cantare una canzone sull’aria di Bella ciao nel giugno 1944, mentre si trovava in prigione alle Nuove di Torino”. Bella ciao ebbe nel dopoguerra una vasta diffusione nel mondo. Conosciuta “attraverso i Festival della gioventù”, divenne “una delle canzoni della rivoluzione cubana, cantata dalle Milicias Nacionales Revolucionarias costituite il 26 ottobre del 1959”. La fama si consolidò negli anni Sessanta, anche per la versione di Yves Montand. Pure nell’America di Trump Bella ciao “è stata ripresa in chiave resistenziale”, e Tom Waits, “uno dei più importanti artisti rock e non solo, la sceglie e la reinterpreta, con il suo inconfondibile stile”. A riprova del fatto, conclude Bermani, che questo canto “è così amato da chi vuole la libertà e contemporaneamente avversato da ogni genere di reazionario”.

Noi anziani vogliamo vivere per dispetto

Dopo aver innalzato peana di vittoria per l’allungamento della vita media (80,8 anni per gli uomini, 85,2 le donne, in Italia) considerato una delle maggiori conquiste della Modernità in raffronto con i ‘secoli bui’ del Medioevo quando l’età media, a dire degli storici e degli scienziati, era di 32 anni (naturalmente gli scienziati criminali barano sapendo di barare perché non scontano l’alta mortalità natale e perinatale per cui, nella realtà, nel mondo preindustriale la vita media era di 70 anni. “Settanta sono gli anni della vita dell’uomo” dice il biblista, una cosa equa, un’esistenza né troppo corta, né tirata troppo per le lunghe). Dopo averci martellato i coglioni, sempre in nome della lunghezza della vita e delle loro statistiche, col terrorismo diagnostico per cui ognuno di noi, qualsiasi età si abbia, dovrebbe fare almeno sei esami di controllo all’anno. Dopo averci ossessionato, con gli ‘stili di vita’ appropriati, niente fumo e niente alcol, a letto alle 22 (per esser pronti e scattanti la mattina per fare gli schiavi salariati) per cui avremmo dovuto vivere da vecchi fin da giovani. Dopo aver osato dire la bestemmia di tutte le bestemmie, “vecchio è bello”, adesso le Vispe Terese, i Candide de noantri, si accorgono che la vecchiaia è un peso e un dramma.

Certo che lo è un dramma. Per la società. Dal punto di vista economico, pochi giovani, sempre in Italia, devono mantenere 16 milioni di pensionati. Dal punto di vista psicologico, con l’ingrigire e il venir meno delle energie del contesto sociale che ci influenza tutti. “Vivere in una società popolata in prevalenza da vecchi mi farebbe orrore” disse Cesare Musatti a 90 anni (quando era al di là di ogni sospetto). Parole che può capire chiunque abbia vissuto anche solo per un po’ presso un popolo ‘giovane’, poniamo quello tunisino, dove l’età media è di 32 anni.

Ma il vero dramma della vecchiaia lo vive il vecchio. Su questo tema ho scritto un libro, Ragazzo. Storia di una vecchiaia. So quindi quello che mi dico. Lo scrissi che avevo 60 anni. “È troppo presto” disse la madre di mio figlio. Risposi che volevo scriverlo quando ero ancora lucido, privo della tentazione di edulcorare la pillola come, dall’antichità a noi, han sempre fatto, ed è umanamente comprensibile, tutti gli autori che da anziani si sono occupati della vecchiaia, dal Cicerone del De senectute al Piero Ottone di Memorie di un vecchio felice. E la pillola è amarissima. “L’aspetto più drammatico della vecchiaia non è la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro” (Ragazzo, p. 41). Mi diceva il mio caro amico Giorgio Bocca: “Qui non puoi più nemmeno piantare un albero perché non sai se lo vedrai crescere”.

Tutti i vecchi pensano alla morte. Sempre. Non perché ne abbiano una particolare paura, forse ne hanno meno dei giovani, ma perché diversamente da quando si è ragazzi e ci appare in una prospettiva ancora molto lontana, adesso la morte è lì davanti ai nostri occhi, ci pressa, ci assedia. La Nobile Signora ha già alzato la sua falce. In una calda estate di molti anni fa andai al Giornale per riscuotere una vincita da Massimo Bertarelli, bookmaker dilettante: passando davanti alla porta aperta della Direzione, vidi Montanelli seduto, immobile, davanti alla macchina per scrivere. Entrai e dissi ridendo: “Che ci fai tu qui, direttore, per soprammercato in un pomeriggio canicolare di luglio?”. “Cosa vuoi – rispose –, se mi rincantuccio a casa penso alla morte. E allora preferisco star qui a fingere di scrivere”.

Molti amici sono morti, altri, come nella Vergogna di Bergman, ci cadono intorno uno a uno, sembra di essere in una battaglia, senza però l’ebbrezza della battaglia. Siamo dei sopravvissuti. E ci prende un senso di spaesamento. “Anche il mondo che hai conosciuto e a volte, con l’energia e l’incoscienza della giovinezza, dominato, è scomparso. Il paesaggio è cambiato, i luoghi pure, gli oggetti sono diversi, altri i protagonisti, i miti, gli idoli, gli attori, le letture di riferimento” (Ragazzo, p. 57). Tutto ci appare remoto, lontano, lontano. Particolarmente dolorosa e angosciosa è la condizione del vecchio nella società che abbiamo costruito. Nella civiltà contadina, il vecchio viveva in famiglia, circondato da molti figli e nipoti e da donne che lo accudivano quando non era più in grado di provvedere a se stesso, ma rimaneva comunque il capo del clan, conservava un ruolo e la sua vita un senso. Nella società moderna, a famiglia mononucleare, il vecchio vive quasi sempre da solo, ‘single’ si dice pudicamente come se le parole potessero cancellare, in un bizantinismo indecente, la forza delle cose. È continuamente superato dalle innovazioni tecnologiche di cui non riesce a stare al passo. Per dirla con Carlo Maria Cipolla: “Nella società agricola il vecchio è il saggio, in quella industriale un relitto”. C’è infine a tormentarlo un istituto che solo l’astrazione crudele della Modernità poteva inventare: la pensione. Da un giorno all’altro tu perdi il posto, per quanto modesto, che avevi avuto nella società. E adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo (Fantozzi va in pensione).

L’allungamento della vita è stato un mito inseguito con tenacia dalla medicina e dalla cultura moderne. Ma il dubbio che l’allungamento della vita avesse un senso era già venuto a Max Weber, uno dei più profondi e singolari pensatori del Novecento, che scrive: “Il presupposto della medicina moderna è che sia considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione della vita… Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa vogliamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini” (Il lavoro intellettuale come professione).

Ma adesso che, con ogni sorta di strumenti e lusinghe, con una propaganda ossessiva, ci avete costretti a vivere più del lecito, noi la tireremo il più a lungo possibile, non perché lo desideriamo (solo uno psicotico può augurarsi di vivere fino a 120 anni), ma per dispetto, per gravare con la pesantezza dei nostri numeri su questa società di giovani eunuchi.

Ma l’indulgenza plenaria vale anche in replica Youtube?

Quando finirà l’emergenza? Gli scienziati non lo sanno, i politici aspettano gli scienziati, i popoli aspettano i politici. Io direi di dar retta a Barbara Broccoli, la produttrice di James Bond. A febbraio, quando ancora tutti sdrammatizzavano (“è come un’influenza, non è una pandemia, Burioni è un esperto”), la Broccoli aveva già deciso: il nuovo Bond, invece di uscire ad aprile, uscirà a novembre. Perché in ballo ci sono centinaia di milioni di dollari. Per cui, l’emergenza finirà a novembre. Come fa la Broccoli a saperlo? Perché Bond lavora per i servizi segreti, e i servizi segreti queste cose le sanno, andiamo! (Questa non vi sembrerebbe una battuta, se sapeste che il cinema d’intrattenimento è usato, dal dopoguerra, con funzione di propaganda e di educazione delle masse. I film servono ad abituarci agli scenari futuri che verranno fatti accadere. Esatto, non “che accadranno”: che “verranno fatti accadere”. Prendete questa pandemia. Tutto il mondo era pronto ad accettare il confinamento in casa. Perché tutto il mondo l’ha imparato nel tempo da decine di film di fantascienza sul tema dei contagi e delle epidemie. Verrà l’olocausto nucleare? Sappiamo tutti che ci servirà un piccolo bunker antiatomico sotterraneo in cemento, completo del necessario per sopravviverci almeno per un anno. Arriveranno gli alieni? Tutti sappiamo che dovremo scappare a nasconderci in campagna, mentre loro devastano le città, e dovremmo lasciarli fare, tanto alla fine verranno uccisi dai batteri terrestri, contro cui non sono vaccinati. Un gatto passa due volte in modo identico davanti alla porta? Tutti sappiamo che stanno arrivando gli agenti di Matrix e dobbiamo subito cercare un telefono a cornetta che trilla, dove ricevere il segnale che ci porti via da lì. Il più sarà trovarlo, un telefono a cornetta che trilla. E adesso chiedetevi chi aveva il potere di togliere dal mondo tutti i telefoni a cornetta.)

C’è chi, nel panico, ha esaltato la scienza. D’accordo, ma non facciamone una nuova religione. Pensate solo a questo: gli atomi sono invisibili. Noi siamo fatti di atomi. Però non siamo invisibili. Perché? La scienza non sa rispondere. Quindi, calma.

Ma è sbagliato anche l’eccesso opposto: credere che la religione possa eliminare le pandemie. Avete visto il papa in tv? La benedizione urbi et orbi nella piazza S. Pietro vuota, con indulgenza plenaria? Domanda: l’indulgenza plenaria, trasmessa in tv, vale? Lo chiedo perché il filmato è anche su YouTube. Se l’indulgenza plenaria vale in tv, vale anche su YouTube, giusto? Quindi adesso abbiamo l’indulgenza plenaria tutte le volte che vogliamo. Uccidi qualcuno, YouTube, indulgenza plenaria! Se invece l’indulgenza plenaria su YouTube non vale, dovete spiegarmi perché. È una spiegazione che non voglio perdermi. Preparo i popcorn.

Dice: “Sì, ma il papa è una brava persona.” Mm, non saprei. Non mi fido di uno che non scopa.

Dice: “No, ma lui ha deciso, di non scopare”.

Ah, quindi è pure scemo!

Frattanto, rintanato in Provenza, Berlusconi si rompe i coglioni. Passa il tempo a fare passeggiate in giardino, e a ricordare i bunga-bunga di una volta. Le domestiche, tra di loro, lo chiamano “il porco delle rimembranze”.

Mail box

 

 

Sono incantato da Lavia Che ridere Luttazzi-Lucarelli

Quando leggo pezzi come quello di Gabriele Lavia sul Fatto Quotidiano di ieri, resto ammirato, incantato: “Quel Dio chiamato teatro” è una perla. E che ridere con Luttazzi e la Lucarelli! Il Fatto è un piccolo scrigno di perle. Grazie!

Paolo Littarru

 

Da abbonato, grazie per la vostra ironia

Caro Direttore, chi le scrive è stato lettore del Giornale e de La Voce, sentendo poi da allora il vuoto degli scritti di Montanelli. Sino a poco tempo fa la conoscevo solo per alcune sue apparizioni televisive, senza provare nei suoi confronti (non me ne voglia) una gran simpatia; mi sembrava che quel sorrisetto un po’ strafottente da saputello che abitualmente aveva come maschera nascondesse un fastidioso senso di superiorità. Ultimamente però ho iniziato a leggere Il Fatto e adesso, ogni giorno, aspetto di ritrovare il suo articolo di fondo, sempre interessante, a volte non condivisibile (almeno da parte mia), sempre chiaro e approfondito ma anche dotato spesso di quello humour che, soprattutto in questi momenti fa bene. Quindi la volevo ringraziare, ho deciso di abbonarmi per fare mie le parole di Montanelli: “Informatevi più che potete, ma poi ragionate con la vostra testa”. Con stima.

Angelo Colombo

 

Caro Angelo, che bella lettera! Sono felice che sia entrato a far parte della nostra famiglia. Dove, gliel’assicuro, ciascuno ragiona con la propria testa. Benvenuto!

M. Trav.

 

Dobbiamo conoscere i nostri “onorevoli” (fesserie incluse)

Caro Travaglio, vi ascolto spesso in tv, lei, Padellaro e il magico Scanzi: vi stimo molto. Da qualche mese sono quindi diventato assiduo lettore del Fatto. Non sono d’accordo però con quello che ha scritto giorni fa, cioè che si deve mostrare il meno possibile quanto avviene in Parlamento. Dobbiamo sapere sempre quello che viene detto dai nostri “onorevoli” e valutarne le capacità o le fesserie che raccontano.

Giorgio Caneva

 

Certo, caro Giorgio, concordo con lei: parlavo per paradossi.

M. Trav.

 

Il governo aiuti i piccoli artigiani della moda

Caro Direttore, sono una micro-imprenditrice e vengo da una famiglia in cui l’Onestà e la Generosità sono valori naturali: grazie a loro ho potuto studiare in una delle migliori scuole di moda al mondo. Con sacrifici ho fondato una startup di successo ma ora mi trovo davanti un muro. Non posso accedere ai finanziamenti garantiti dallo Stato perché non ho il conto in banca ma alle Poste, né posso chiedere alcun tipo di prestito in quanto non ho garanzie sufficienti essendo nata da poco. L’unica soluzione è che il governo ci eroghi denaro senza intermediari e che sia adeguato. Senza fonti di reddito come possiamo investire? E se non investiamo come possiamo ripartire? L’Italia non è solo Ferrari, Della Valle e Armani, con tutto il rispetto. Le filiere artigiane sono la linfa di questo Paese… Sto mettendo fondo a tutta la resilienza che mi resta, a tutta la creatività e concentrazione possibili per non soccombere, ma ho tutta questa volontà dentro e non so cosa farmene.

Simona Frasca

 

Si esce dalla crisi solo investendo sui giovani

Il momento difficile ci spinge tutti a ragionare sul “dopo”. In tanti si stanno interrogando sul futuro dell’economia, del modello di sviluppo, dell’ambiente, della sanità, dell’istruzione. Un dibattito in cui pare però scomparsa dai radar la questione giovanile. L’Associazione Italiana Giovani per l’Unesco è composta di giovani da tutta Italia. Nati tra il 1985 e il 2000, come tutti i millennial, hanno già conosciuto tre crisi in soli 20 anni: quella legata al terrorismo a partire dal 2001, quella finanziaria del 2008 e adesso quella connessa al Coronavirus. L’emergenza di queste settimane sta impattando in maniera gravissima sulle nostre vite. Da un lato la possibilità di trovare lavoro si riduce, dall’altro aumenta il rischio di perderlo per chi ce l’ha. Il risvolto della medaglia è che di fatto siamo abituati a reinventarci continuamente. Ciò che abbiamo alle spalle, prima di questa crisi, è un percorso a ostacoli fatto di stage, tirocini, master, precariato senza orizzonti. Può essere l’uscita da questa crisi l’occasione per affermare un nuovo protagonismo di chi oggi è escluso, come i giovani? Dobbiamo scegliere: il “dopo” passa dal sostegno dei settori produttivi ed economici, ma deve avvenire senza lasciare indietro i giovani, a partire da una maggiore presenza giovanile nei tavoli tecnici. E senza lasciare indietro il mondo della cultura. Per questo avanziamo due proposte. La prima: usciamo dalla crisi attraverso una grande iniezione di risorse nel patrimonio culturale. Un New Deal capace di proteggere il patrimonio con l’assunzione a tempo indeterminato del più alto numero possibile di giovani. La seconda: accesso gratuito a tutti i musei e luoghi della cultura statale per i giovani sotto i 35 anni. Nessun ostacolo di natura economica può frapporsi tra i giovani e la cultura, che resta la più grande arma di libertà.

Antonio Libonati,
Presidente Giovani per l’UNESCO

 

I nostri errori

Nell’edizione di ieri, a pagina 17, per un refuso nel titolo “Mosca Rossa” il numero 5.000 si riferisce ai contagi, non ai morti per Coronavirus.

FQ

Concerti e beneficenza Stavolta l’industria della musica (in realtà) canta per se stessa

 

Ho letto che Bruce Springsteen ha partecipato a un concerto di beneficenza, e successivo a quello di Lady Gaga. E pure in Italia si sono mossi. Anche io suono, per carità niente di così importante, ma comunque ho un piccolo gruppo con il quale ci ingaggiano per serate, tipo battesimi, matrimoni e via così. Ecco, penso a chi vive di questo lavoro (io per fortuna ne ho un altro principale, quindi mi salvo) e che non si chiama né Bruce Springsteen né Lady Gaga: come farà a sopravvivere? E poi, queste vetrine, funzionano ancora come negli anni Ottanta, ai tempi di Live Aid? Hanno un senso?

Giulio Federici

 

All’appello, ormai, non manca quasi nessuno. L’altra notte Springsteen e la moglie Patti Scialfa hanno contribuito con due brani in veste acustico-casalinga (l’inno di speranza “Land of hope and dreams” e la cover di Tom Waits “Jersey Girl”) all’evento per la New Jersey Pandemic Relief Fund: in campo anche altri artisti di zona come Bon Jovi e Halsey. Il benefit segue a ruota la maratona streaming “One world together at home” con le star di tre generazioni mobilitate da Lady Gaga: tra i vecchiacci, la figura migliore l’hanno fatta gli inossidabili Rolling Stones, mentre inquieta il declino senile di Paul McCartney e non conforta il crepuscolo di Elton John. L’iniziativa ha fruttato 130 milioni di dollari da destinare all’Oms, mentre in Italia la Protezione civile beneficerà degli 8 milioni di euro raccolti da “Musica che unisce”, con i big nazionali a far canzoni dalle loro tane via Raiuno. Zucchero, poi, si è speso anche per l’Earth Day con la versione tricolore di “Canta la vita”, scritta insieme a Bono. La vetrina funziona? Sì, se pensiamo ai tesoretti da devolvere in beneficenza. Ma sono gocce nel mare di un crac mondiale. La sensazione è che stavolta l’industria della musica canti “generosamente” per se stessa: nel lockdown globale l’unica è mostrarsi vivi e attivi, facendo capolino dalle mura domestiche, imbastendo performance a costo zero, con il virus e l’ambiente che innescano alibi per spot promozionali. Nella certezza che nulla sarà come prima: per i concerti ci sarà da aspettare a lungo. Le stelle potranno campare di rendita, ma sarà arduo ripartire con gli addetti ai lavori (decine di migliaia solo nel nostro Paese) ridotti alla fame. I grandi impresari nazionali chiedono aiuti e certezze allo Stato: non sarebbe male, nel frattempo, se loro stessi devolvessero agli operatori della filiera almeno gli interessi bancari dei biglietti già venduti per show rimandati a chissà quando. E come.

Stefano Mannucci