Il Virus non cancelli il contagio mafioso

Sul Fatto di mercoledì ho letto due notizie ugualmente allarmanti: la prima riguarda l’ennesimo allarme, lanciato questa volta dalla ministra dell’Interno, prefetto Lamorgese, sul rischio, molto concreto, di infiltrazioni della criminalità di stampo mafioso nella gestione della “fase 2” cioè la fase di progressiva uscita dalla emergenza dettata dalla pandemia Covid 19.

Si tratta di una preoccupazione fondata perché effettivamente le mafie, disponendo di ingentissimi capitali liquidi possono agevolmente offrire, a chi ne ha più bisogno, questa immediata liquidità sotto forma di prestito – che naturalmente sarebbe gravato da interessi usurari – e possono altresì offrire alle imprese in difficoltà, anche loro a corto di liquidità, quelle somme di denaro immediatamente disponibili che potrebbero risolvere in pochissimo tempo, e senza alcun lacciuolo di carattere burocratico, i loro problemi contingenti. La contropartita che, verosimilmente, la mafia potrebbe richiedere agli imprenditori che dovessero utilizzare il servizio loro offerto non sarebbe costituito dagli interessi usurari, bensì dalla pretesa di affiancamento nella gestione dell’impresa, che in tal modo si trasformerebbe da semplice attività imprenditoriale pulita, in una impresa mafiosa.

In sostanza il denaro liquido della mafia, come è sempre accaduto in passato, rischia di avvelenare l’economia e l’imprenditoria sana del Paese. Il periodo di crisi che stiamo attraversando offre le migliori condizioni affinché le mafie continuino a fungere da agenzie di servizi per tutti coloro che saranno disposti a cercare una scorciatoia economica ai problemi che in questo periodo affliggono il Paese.

La seconda notizia riguarda un provvedimento giurisdizionale con il quale un giudice del Tribunale di Sorveglianza di Milano avrebbe disposto la detenzione domiciliare per un boss di prima grandezza di Cosa Nostra. Detta pronuncia si fonderebbe su una circolare del Dap del 21 marzo con la quale l’ufficio del ministero della Giustizia che gestisce la politica penitenziaria del nostro Paese, avrebbe richiesto ai direttori delle carceri di inviare all’autorità giudiziaria i nominativi dei detenuti over 70, affetti da alcune patologie, (all’apparato respiratorio, cardio-circolatorio, diabete e altro), senza distinguere il regime detentivo al quale ciascuno dei detenuti interessati fosse sottoposto, di talché il boss Francesco Bonura, già rappresentante del Mandamento di Uditore di Palermo avrebbe beneficiato del trattamento particolare, passando dal 41-bis alla detenzione domiciliare. Mi verrebbe da dire che si tratta di un copione già visto in passato e che si snoda attraverso pochi ma immutabili (ed efficaci) passaggi: lo Stato è afflitto da un’emergenza di straordinaria gravità (oggi quella del coronavirus, ieri – agli inizi degli anni 90 – crisi politica, economica e di tenuta del tessuto democratico), la politica non riesce a fornire risposte unitarie, tempestive, convincenti e rassicuranti come rimedio alla crisi. Le mafie si inseriscono in questa emergenza e fanno sentire tutto il peso del loro potere criminale, inscenano violentissime manifestazioni nelle carceri, cavalcano la suggestione della facilità del contagio all’interno delle strutture di detenzione e chiedono allo Stato di allentare la morsa del regime carcerario, anche (e forse soprattutto) quello del 41-bis. Lo Stato, prostrato o distratto dalla gestione della crisi, non riesce a trovare rimedi efficaci o semplicemente a pensarli e cede alle richieste di alleggerimento, concedendo a boss di prima grandezza la revoca del regime di detenzione speciale, che essi avevano cercato di ottenere per moltissimi anni, anche attraverso il ricatto stragista nel 1992 e del 1993. Quando parliamo del rischio di infiltrazione delle mafie nella politica, nell’economia e nel tessuto imprenditoriale del Paese, utilizziamo termini astratti, generici, impalpabili e quindi diamo la sensazione, a chi legge, che la mafia che si infiltra sia una entità anch’essa astratta, generica, inafferrabile, priva di una concreta identità. La lettura di questi allarmi rischia quindi di essere come un avviso di burrasca lanciato nell’etere, ma privo di dati identificativi efficaci e riconoscibili.

Voglio allora ribadire con grande chiarezza che la mafia si identifica con i propri esponenti, che le mafie sono i loro capi, i loro rappresentanti. Che le mafie sono costituite, governate, organizzate e dirette da quelle persone che negli anni son state riconosciute come boss di prima grandezza e condannate a svariati anni di carcere, e spesso a numerosi ergastoli. Quegli stessi boss, sono coloro che danno la linea all’organizzazione e se c’è il rischio di una pericolosa infiltrazione nel tessuto sociale, economico, imprenditoriale del paese, quei boss sono gli ideatori e gli organizzatori di tutte le azioni ritenute utili a perseguire l’obiettivo. Se la mafia si infiltra è perché i suoi capi vogliono che ciò accada e impongono la relativa linea di comportamento. Così come se la mafia ritiene che sia necessario passare ad attività di attacco violento contro esponenti delle Istituzioni è perché quegli stessi capi hanno deciso così e quindi daranno le disposizioni necessarie e trovare l’esplosivo e a eseguire gli attentati. Quei boss che dettano le linee dell’azione delle mafie sono coloro che oggi, in gran parte, per fortuna, si trovano detenuti in regime speciale. Scarcerarli rende concreto quel pericolo di infiltrazione e di contaminazione criminale delle mafie. Con il boss pensante, libero di uscire e di incontrare chiunque, il Paese è molto meno sicuro e gli allarmi inviati anche dalla ministra dell’Interno assumono una sinistra dose di concretezza e di attualità.

Allora vorrei essere certo, da cittadino, che il rischio contagio nelle carceri sia reale, concreto, attuale e che a esso non possa essere applicato un rimedio differente da quello della scarcerazione che, francamente, mi sembra una scorciatoia estremamente pericolosa. Vorrei essere sicuro, per esempio, del fatto che presso le carceri destinate al regime di 41-bis, non sia possibile realizzare in tempi record (come quelli con cui si sono creati ospedali dedicati al Covid-19 a Milano e a Bergamo con grande clamore mediatico) unità sanitarie capaci di fronteggiare, per un numero di persone assai limitato e già di per sé in regime di isolamento, il rischio contagio. Si potrebbero quindi realizzare unità sanitarie dedicate all’emergenza sanitaria del momento, all’interno di pochi istituti penitenziari e in tal modo il diritto alla salute dei detenuti, sottoposti a qualsivoglia regime detentivo, che continua a rimanere assolutamente primario e meritevole del massimo impegno per il suo effettivo esercizio, non si trasformerebbe in un pretesto per un disimpegno generalizzato. Il rischio di contagio criminale e quello di contagio sanitario devono porsi sullo stesso piano perché entrambi attengono al profilo della sicurezza di tutti i cittadini e lo Stato deve trovare rimedi efficaci per evitarli entrambi.

Domani di fronte a una mafia rivitalizzata e potenziata, mediante la liberazione dei suoi più carismatici capi, non basterebbero le cure ordinarie e il contagio si propagherebbe con patologica velocità, la società non potrebbe sottrarsi alla contaminazione mafiosa, ponendo così nel nulla i sacrifici e gli sforzi che in tutti questi anni sono stati compiuti sul fronte del contrasto democratico alle mafie nel nostro paese e con buona pace per tutti coloro che in questa lunghissima e difficile lotta sono stati uccisi dal virus del crimine organizzato.

Covid-19 e nicotina

Sono stata subissata da messaggi, tutti con lo stesso oggetto: la relazione tra nicotina e Covid-19. Sono decine di fumatori che vorrebbero trovare, almeno per qualche mese, un alibi al loro vizio. Questa speranza si fonda su un lavoro francese diffuso l’altroieri, che sostiene una protezione dall’infezione da Coronavirus da parte della nicotina. I dati della sperimentazione raccolti nell’ospedale parigino di La Pitié-Salpetrière riferiscono che solo il 4,4% dei 343 pazienti Covid-19 ricoverati erano tabagisti. Sono stati esaminati anche 139 pazienti con sintomi non gravi (età media 44 anni): solo il 5,3% erano fumatori. “L’ipotesi è che fissandosi sul recettore cellulare utilizzato anche dal Coronavirus, la nicotina gli impedisca o lo trattenga dal fissarsi, bloccando così la sua penetrazione nelle cellule e il suo propagarsi nell’organismo”, osserva Jean-Pierre Changeux dell’Istituto Pasteur. I ricercatori ipotizzano che il “recettore nicotinico dell’acetilcolina” abbia un ruolo centrale nel propagarsi del Coronavirus, e sia all’origine della varietà di sintomi del Covid-19. Gli stessi autori francesi hanno fermato l’entusiasmo sul consumo di sigarette, sia perché si tratta di un’osservazione preliminare da approfondire, sia perché le sigarette non contengono solo nicotina, ma tante altre sostanze tossiche. La Food and Drug Administration americana, che per prima aveva concordato con questa ipotesi, ha poi rivisto la posizione: le sigarette aumenterebbero anche le possibilità di contrarre la malattia. Nel dubbio, meglio non fumare perché il fumo, Covid o no, resta una delle poche cause certe di cancro.

A giocare col Def si diventa ciechi…

Come forse non tutti sanno è in via di scrittura al ministero del Tesoro il Def, il Documento di economia e finanza che traccia il quadro triennale dei conti pubblici e spiega a quelli di Bruxelles quali riforme intende fare l’Italia per avere la caramellina. Ebbene sono giorni che il Def “è pronto”, ma non esce dal ministero: ora pare che arriverà a Chigi stamattina insieme al nuovo scostamento di bilancio necessario (quanto deficit in più) al decreto fu Aprile. La cosa, dovete capire, è complicata: il Pil crolla, le entrate pure, fare previsioni a tre anni – in cui bisogna dire quanta inflazione (ahah), quale prezzo del petrolio (ahahah), quanto commercio mondiale (oddio, basta…) – è esercizio da fattucchiere più che da economisti, eppure i nostri eroi stanno lì a far girare i numeretti. E se metto questo mi si muove uno zero virgola di deficit, se metto quello mi sale un etto di consumi e se tolgo questo mi parte un chilo di beni e servizi. Pare, ce lo ha detto la moglie di uno di loro, che questi poveri tecnici del Tesoro, persino gli altissimi, facciano notte chiusi in una stanza a giocare coi numerini. Ognuno si diverte come crede, ma ci ha detto una fonte medica qualificatissima, il dottor Richard Weng Smith Antetokoumpo del Mit di Chieti, che a giocare così si rischia di diventar ciechi. All’Inail sono preoccupati: se chiedono la malattia professionale servono le coperture…

Il comitato dica se è vero che lo smog aiuta il virus

Esiste una relazione diretta tra inquinamento ed espansione del contagio Covid? È una domanda che ritroviamo spesso sui giornali e sulla quale i team di scienziati e ricercatori coinvolti dai governi, a cominciare dall’Italia, dovrebbero riflettere rapidamente. C’è lo studio prodotto dall’Università di Harvard in cui si sostiene esista un legame fortissimo fra il particolato prodotto dalla combustione e il Covid-19, con incrementi della mortalità fino al 15%. Ma sul Corriere della Sera

del 20 aprile, Sergio Harari avverte che “la metodologia utilizzata dagli autori presenta importanti lacune sul piano metodologico ed epidemiologico” e che dunque l’ipotesi “deve essere passata al vaglio molto accuratamente”. Prudenti sull’argomento si mostrano due accreditati esperti di statistica, Eleonora Farneti e Franco Vespignani, che analizzando la diffusione del virus attraverso indicatori socio-economici confermano che nei 10 Paesi più contagiati giocano i seguenti fattori: “densità abitativa, numero anziani, spostamenti interni e internazionali”. Elementi, osservano, “tutti frutto della maggiore ricchezza, mentre fattori quali l’inquinamento, spesso più elevato nei Paesi più poveri, e la spesa per la salute non sembrano incidere quanto ci si potrebbe aspettare”. Poi ci sono gli scrittori come Alan Weisman (Il mondo senza di noi

è del 2003), convinti che il pianeta risponde agli errori dell’uomo e che la natura sconvolta dal riscaldamento globale cerca un equilibrio. Restano infine scolpite nella memoria le parole di papa Francesco: “Non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato”. È indispensabile intervenire sulle conseguenze economiche e sociali della catastrofe Covid. Ma senza una conoscenza accertata dell’origine del virus, e della sua propagazione rapida e inarrestabile, rischiamo di trovarci presto al punto di partenza.

Leonardo, quel possibile conflitto di Carta

Sul fronte delle nomine c’è un’obiezione che viene avanzata a proposito del generale Luciano Carta alla presidenza di Leonardo: il suo essere un militare e che, soprattutto, proviene dall’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna, la nostra intelligence internazionale. Carta la dirige dal gennaio del 2018 e dal 2017 ne è stato il vicedirettore. Oggi viene nominato a guidare la principale società italiana di produzione e vendita di armi.

Secondo la Rete Italiana per il Disarmo si tratta di un conflitto di interessi a norma della legge 185 del 1990 che regola l’export di armamenti. Carta, spiega l’associazione, passerebbe “da un ruolo rilevante e attivo nei meccanismi di controllo e autorizzazione all’export di prodotti militari a quello di vertice della principale azienda militare italiana (destinataria del 67% delle autorizzazioni complessive rilasciate nel 2018)”.

“Non abbiamo nulla contro il generale Luciano Carta dal punto di vista personale – spiega Francesco Vignarca coordinatore della Rete – e non abbiamo motivo di dubitare in nessun modo della sua condotta nel corso delle sue funzioni ai vertici di Aise, ma richiamiamo a un rispetto della legge”. L’articolo 22 della 185/90 (“Divieti a conferire cariche”) precisa che “i dipendenti pubblici civili e militari, preposti a qualsiasi titolo all’esercizio di funzioni amministrative connesse all’applicazione della presente legge nei due anni precedenti alla cessazione del rapporto di pubblico impiego non possono, per un periodo di tre anni successivo alla cessazione del rapporto stesso, a qualunque causa dovuta, far parte di consigli di amministrazione, assumere cariche di presidente, vicepresidente, amministratore delegato, consigliere delegato, amministratore unico, e direttore generale nonché assumere incarichi di consulenza, fatti salvi quelli di carattere specificamente tecnico-operativo, relativi a progettazioni o collaudi, in imprese operanti nel settore degli armamenti”.

Il conflitto sembra evidente così come lo era con il presidente precedente, Gianni De Gennaro, che passò dalla direzione del Dis, il coordinamento dei servizi di sicurezza, alla presidenza di Leonardo con un intervallo di un anno e due mesi trascorsi al governo.

Chi, tra i vari ministeri, ha seguito il dossier nega che il governo abbia in qualche modo violato la legge che riguarda dipendenti nell’esercizio di funzioni amministrative e non è questo il caso del direttore dell’Aise. La Rete precisa anche che nella documentazione ufficiale redatta dall’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, si fa precisa menzione dell’Aise, indicato come uno dei destinatari della domande sia pure in forma consultiva (è l’Annesso A della “Nota esplicativa sulle trattative contrattuali” del 13 febbraio 2017).

“Assumendo la carica di presidente di Leonardo – continua Vignarca – il generale Carta passerebbe a svolgere un ruolo di ‘promotore’ di quelle operazioni che, da funzionario dei Servizi, era finora stato chiamato a definire”. Da qui il possibile conflitto di interessi. “Ma quel documento chiede alle aziende solo di informare l’Aise, le ragioni sono evidenti” spiega una fonte ministeriale vicina al dossier.

Carige, sconti ai soliti amici e solleciti ai clienti “poveri”

“A me chiedono i 600 euro del mutuo appena dieci giorni dopo la scadenza della rata. Mentre ai grandi debitori la banca Carige ha scontato centinaia di milioni!”. Il signor Sergio – il nome è di fantasia per proteggere la privacy – mostra al cronista una raccomandata appena ricevuta. In piena emergenza coronavirus. Dice la missiva: “Gentile Cliente, dalle verifiche effettuate non risulta pervenuto il pagamento della rata” da 600 euro. “La invitiamo a regolarizzare la posizione entro aprile… il mancato pagamento, così come di ogni altro importo di futura scadenza, comporterà una nostra segnalazione ai sistemi di informazioni creditizie… distinti saluti”. Come risulta dal documento, in possesso del cronista, il pagamento della rata doveva essere effettuato entro il 31 marzo e la raccomandata è datata 10 aprile. Niente di irregolare. Il signor Sergio, pur in questi giorni di emergenza, non è il solo ad aver ricevuto da Carige il sollecito. Ma a Genova, di fronte a tanta precisione della banca nell’esigere ciò che le spetta fino all’ultimo centesimo, c’è chi ha storto il naso: “Ci sarebbe da ricordare che i piccoli azionisti hanno perso circa un miliardo nelle ricapitalizzazioni dell’istituto”, chiosa Luigi Barile, azionista dell’istituto, che non ha mai smesso di far sentire la sua voce nella assemblee.

Ma adesso c’è altro: “Mentre alla gente comune viene chiesto subito fino all’ultimo centesimo, ecco che si sono rinegoziati o si stanno rinegoziando finanziamenti con i maggiori debitori della banca. E c’è chi spunta sconti di centinaia di milioni”.

Per quanto riguarda la galassia Abitcoop, per fare un esempio, Carige aveva concesso crediti per 323 milioni. È finita che la banca – tramite Carige Reoco – ha ricomprato per circa 130 gli immobili in questione con una perdita di quasi 200 milioni. Senza contare che Carige prevede di investire altri 100 milioni per terminare i cantieri. E così la banca pare finire per tramutarsi in immobiliarista accollandosi il rischio di mercato. Nel budget dell’iniziativa si stimano ricavi dalle vendite future per 241 milioni a fronte di costi previsti per 225 milioni tra acquisizione e sviluppo. Il tutto per avere un margine di guadagno futuro di soli 16 milioni. Sempre che tutto fili liscio. Ai noti armatori Messina invece erano stati concessi 545 milioni di crediti che sono stati ristrutturati concedendo uno stralcio di 145 milioni.

La società del gruppo Preziosi, proprietario del Genoa, ci tiene a far sapere di aver chiuso la sua posizione. Doveva 83,1 milioni e ha ottenuto uno sconto di 15. Ad Holmo (Unipol) erano invece stati concessi 77,7 milioni di crediti, rientrati via via che Unipol pagava dividendi a Holmo, ma c’era l’ammortamento del debito. La banca ha in pegno il 6,67% di Unipol che Holmo dovrà mettere in vendita da giugno 2020 se il valore di borsa consentisse di ridurre l’indebitamento. Ma con l’aria che tira difficile che a giugno possa accadere. Il titolo Unipol che era arrivato a valere 5,5 euro a febbraio è stato come tutti travolto dalla crisi coronavirus, precipitando a poco meno di 3 euro. Difficile che si possa attivare la clausola che prevede la vendita dei titoli Unipol per estinguere il debito. Più probabile che si arrivi a una nuova proroga. Carige intanto fa sapere: “Vero, le lettere ai clienti per i mutui sono partite. Sta a loro avviare le pratica per la moratorie, se ne hanno diritto. Ne abbiamo concesse molte”. E gli sconti ai grandi clienti? “Ci sono casi in cui è meglio rinunciare a una parte della somma, piuttosto che rischiare di non recuperare nulla”.

Missione Molinari: svolta a destra e forbice pesante

“Èora che l’Italia abbia un giornale occidentale e liberale”, disse John Elkann, il nipote dell’avvocato Agnelli, appena diventato padrone di Gedi, l’ex Gruppo Espresso, l’ex bastione rosso, di un certo modo di pensarsi sinistra. L’ora l’ha stabilita Elkann, e fa venire in mente l’Ora di tutti di Maria Corti con l’assedio dei turchi a Otranto. Sprezzante del passato e incurante dei simbolismi, John ha rovesciato la stessa storia di Repubblica: Maurizio Molinari direttore al posto di Carlo Verdelli, per la prima volta in quasi mezzo secolo, pone il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari a destra, più neocon americani, più Israele di Benjamin Netanyahu, fobie russe, cinesi, iraniane, oltre ogni misura. Più geopolitica strategica che politica introspettiva.

Questa era La Stampa di Molinari, 137.000 copie in edicola all’esordio nel febbraio 2016, 88.000 il mese scorso. Questa è la svolta identitaria che patirà Repubblica. Elkann è un industriale di una ricca famiglia italiana con affari ormai radicati altrove, soprattutto negli Usa. Studi all’Università ebraica di Gerusalemme, ingresso nel giornalismo con la Voce Repubblicana di Stefano Folli, ascesa al Tempo di Roma, corrispondente da New York per la Stampa, Molinari garantisce a Elkann una rigida collocazione atlantica e un debole sentimento europeista, utile negli ambienti diplomatici, nei salotti avversi all’odierna Repubblica, chissà in edicola, e un secondo aspetto di non minore importanza: l’integrazione. Vocabolo che la categoria di giornalisti ha cominciato a conoscere nel suo significato più profondo e più sincero: riduzione di pagine e risorse, pensionamenti anticipati, contratti di solidarietà, incentivi all’esodo. Molinari ha gestito la fatale integrazione tra il giornale torinese e la miriade di quotidiani locali ricevuti in dote dai De Benedetti: un pezzo di cronaca, generato da uno stipendio, finisce su più quotidiani, dunque prodotti pagati più volte.

John ha apprezzato, lo reputa un modello, tant’è che Molinari ha ricevuto una doppia investitura: direttore di Repubblica e direttore editoriale di Gedi. Il mandato per Repubblica prevede almeno 150 uscite in organico e un ampio sfoltimento delle redazioni regionali. Con 100 milioni di euro, come notato, non a torto, il costo del cartellino di Cristiano Ronaldo per la Juventus del cugino Andrea Agnelli, quattro mesi fa Elkann ha congedato da Gedi i fratelli De Benedetti. Adesso ha attuato il piano che fonde il mondo Stampa con Repubblica (e i rispettivi settimanali) e ne azzera le complessità culturali, un piano elaborato già cinque anni fa con l’amministratore delegato Maurizio Scanavino, suo compagno al Politecnico, sin dal giorno in cui fu accolto in Gedi dall’Ingegnere De Benedetti con una quota di minoranza intestata a Exor, la cassaforte di casa Agnelli, e non più in capo alla Fiat (o Fca) per volere di Sergio Marchionne. Torino e Roma, in epoca di distanziamento sociale, sono sovrapposte. I movimenti ordinati da Elkann sono interni: Massimo Giannini interrompe la collaborazione con Repubblica e la guida di Radio Capital e va a La Stampa. Giannini è stato a lungo uno dei vice di Ezio Mauro, è tornato in largo Fochetti dopo l’esperienza televisiva in Rai3 interrotta per i dissidi con l’allora premier Renzi che, in piena campagna per il referendum, desiderava un’informazione docile. Mattia Feltri, figlio di Vittorio, un pezzo di carriera al Foglio, trasloca di qualche piano nella sede di Roma, uffici de La Stampa, e prende il testimone da Lucia Annunziata all’Huffpost. Annunziata si è dimessa qualche mese fa intravedendo i nuvoloni della tempesta e con cattivo gusto neanche è stata citata nel comunicato aziendale. Gedi ha ricavato due righe due per ringraziare Verdelli, giudicato neppure in un semestre e licenziato da mane a sera mentre vive con la scorta per le ripetute minacce di morte.

Tuttavia la società ormai di Elkann (e di Scanavino) ha rassicurato i lettori: Feltri proseguirà la sua rubrica sulla Stampa. Repubblica ha cambiato due direttori in quarant’anni, un ventennio ciascuno per Scalfari e Mauro. Dopo Calabresi e Verdelli, Molinari è il terzo in quattro anni. Come se la Juve nominasse un allenatore a stagione. È successo nei periodi più bui. Più che altro, il giornalismo italiano è al buio, affascinato con immane ritardo dal digitale – emblematico il direttore in “comproprietà” per l’Huffpost – e rassegnato alla chiusura delle edicole e al tracollo delle copie. Con lucido cinismo, Elkann è convinto che qualcosa caverà da Gedi – che detiene il 25 per cento del mercato editoriale – se governa con i numeri, spietati, e non con le abitudini. E così ha rinunciato subito alle buone maniere.

Elkann licenzia Verdelli “Rep” (ri)cambia direzione

Finora è stato il direttore meno longevo di Repubblica, poco più di un anno e due mesi. Ma tant’è. Da ieri Carlo Verdelli non è più al timone del giornale fondato da Eugenio Scalfari, al suo posto l’attuale direttore de La Stampa, Maurizio Molinari. Il vorticoso giro di poltrone all’interno del gruppo si completa con l’arrivo alla direzione del quotidiano torinese di Massimo Giannini, che lascia Radio Capital, mentre alla direzione dell’Huffington Post è stato designato Mattia Feltri, che su La Stampa continuerà a tenere la rubrica Buongiorno. Linus, infine, sarà il direttore editoriale delle radio del gruppo Gedi.

Cambi che derivano dalla nuova proprietà, Exor, società controllata da John Elkann, quindi da casa Agnelli, che ha acquistato il 43,7% del gruppo Gedi. Ora Exor, tramite la nuova società Giano Holding, salirà al 60,9% del capitale sociale. Elkann è stato nominato presidente del gruppo, mentre amministratore delegato sarà Maurizio Scanavino. Il nuovo Cda sarà composto dallo stesso Scanavino, Tuti Munthe, Pietro Supino ed Enrico Vellano. In uscita, tra gli altri, Rodolfo De Benedetti e Monica Mondardini, che per anni è stata ad della vecchia proprietà.

Il cambio a Repubblica era nell’aria, come sempre quando arriva un nuovo padrone, ma niente affatto scontato. Anche perché Verdelli in questi 14 mesi aveva rivitalizzato il quotidiano dopo la gestione di Mario Calabresi, spostando Repubblica più a sinistra e facendosi amare dalla redazione, con la benedizione di Scalfari, che aveva gran sintonia con lui almeno quanto non ne aveva con Calabresi. Inoltre in largo Fochetti si pensava che non fosse questo il momento migliore per un cambio di direzione, in piena emergenza Covid. In più c’è la vicenda delle minacce di morte ricevute da Verdelli, messo sotto scorta, e per le quali in queste settimane ha ricevuto moltissimi attestati di solidarietà. E ieri su Twitter l’hashtag #iostoconverdelli è diventato il modo per esprimergli stima e vicinanza per il licenziamento. “Se lo stile conta ancora qualcosa, la contemporaneità tra il licenziamento di Verdelli e le minacce ricevute è davvero infelice, sebbene casuale”, è il commento del presidente della Fnsi, Beppe Giulietti.

A quanto si sa, invece, a non piacere a John Elkann era proprio la Repubblica più barricadera di Verdelli, che oltretutto non era premiata dalle vendite, in calo come un po’ tutti i quotidiani (132.270 copie a febbraio 2020 contro le 138.675 di un anno fa). Per il resto, Giannini torna alla carta stampata e soddisfatto è pure Mattia Feltri, alla sua prima direzione. Sarà interessante vedere se Molinari sterzerà di nuovo Repubblica verso una forma più “istituzionale”. La redazione non ha gradito e ieri i giornalisti sono rimasti asserragliati in riunione per molte ore, in un clima di tensione e nervosismo fino a decretare lo sciopero.

Il 25 aprile di La Russa e il mio 21 marzo: onore pure alla mafia

l vicepresidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa, vuole estendere il 25 aprile al ricordo dei caduti di tutte le guerre, senza differenza alcuna, compresi i morti per il coronavirus. Che diventi un giorno di concordia nazionale.

Commosso dalla sua proposta, propongo una contro propostona: anche il 21 marzo, giorno in memoria delle vittime di mafia, facciamolo diventare il giorno in memoria dei caduti di tutte le guerre, senza esclusione alcuna. Come non ricordare, quindi, i circa mille mafiosi uccisi in agguati mafiosi, per motivi mafiosi durante la guerra di mafia. È una proposta rivolta a tutti, senza distinzioni politiche e culturali. Il 21 marzo diventi, anziché divisivo, giornata di concordia nazionale. Ricordiamo tutti i caduti in “divisa”, non solo i nostri che ci appartengono, come i magistrati, ma anche i caduti di altre formazioni come Cosa nostra. Il 21 marzo sia una giornata in cui si celebri non l’odio, ma la pacificazione. Tutti hanno diritto a rivendicare i propri morti, anche i mafiosi e i loro parenti. Sarebbe il modo migliore per ripartire in un’Italia capace di privilegiare ciò che ci unisce e che ci rende tutti orgogliosi di essere italiani. Del resto, grazie a quelli che per anni abbiamo considerato “nemici”, pagando il pizzo le porte dei negozi si potevano lasciare aperte, in tanti avevano un posto di lavoro e le nostre raffinerie di eroina lavoravano per gli spacciatori di tutto il mondo. Lo so, si tratta di uno sforzo per tutti: per chi festeggia e chi no. Ma credo che l’emergenza in cui viviamo rappresenti l’occasione per riflettere sul significato di questa giornata in maniera nuova. Ben venga, quindi, la notizia della scarcerazione del boss Francesco Bonura per l’emergenza coronavirus, mai come in questo momento di grande sofferenza abbiamo bisogno di essere liberati. E auspichiamo che anche il pluriomicida Leoluca Bagarella trovi la libertà. Criticarlo ancora per la sua visione di vita, dopo 41 anni, è ridicolo e contro lo spirito che animerà questo nuovo 21 marzo. Per concludere, chi vorrà potrà listare a lutto il tricolore e intonare La canzone del Piave che da sempre, dal 1918 in poi, le forze armate dedicano ai caduti di ogni guerra. Si potrà cantare anche una versione in dialetto siciliano per un omaggio territoriale, ma solo una strofa, per evitare che ancora una volta ci sia una dolorosa divisione nazionale in una logica di contrapposizione e scontro. Guardare ancora con odio e disprezzo chi ci ha intimiditi, oppressi, levandoci la libertà, uccidendo innocenti e coloro che si sono opposti a tutto questo non ha più senso. È arrivato il momento di stendere un velo di pietà (ma proprio per tutti).

Fuori i boss, Cutolo ci prova “Sta male, ora ritorni a casa”

“Raffaele Cutolo è in gravi condizioni: abbiamo presentato l’istanza di scarcerazione dall’istituto di pena di Parma e sollecitato la massima urgenza”: l’avvocato Gaetano Aufiero ha già inviato la richiesta a Reggio Emilia, dove un giudice si ritroverà, in attesa della ratifica del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, a dover decidere in tempi strettissimi sull’eventuale scarcerazione del fondatore della Nuova camorra organizzata.

Negli ultimi giorni gli avvenimenti hanno cominciato a correre più veloci del lockdown, innescati dalla notizia della scarcerazione da Milano-Opera del boss di Cosa nostra Francesco Bonura, 78 anni, in precarie condizioni di salute, mentre la polemica è montata sulla circolare della discordia, quella del Dap per l’emergenza coronavirus, datata 21 marzo, che ha chiesto ai direttori delle carceri di inviare per il rischio Covid i nominativi dei detenuti affetti da un elenco di patologie e di età superiore ai 70 anni.

Altri boss sono stati mandati a casa, anche prima di Bonura, come Ciccio La Rocca, 82 anni, di San Michele Ganzaria, già capo della “famiglia” di Caltagirone, e altri attendono il responso dopo l’invio delle istanze di scarcerazione. E tra chi attende c’è proprio don Rafé, ’o Professore, primo omicidio commesso a 22 anni nel centro del suo paese, Ottaviano. È il 1963 e così Cutolo si guadagna l’ingresso a Poggioreale, costituendosi spontaneamente dopo due giorni di latitanza. Esce sette anni dopo, per decorrenza dei termini, ma poi arriva la condanna definitiva in Cassazione e dopo un anno di latitanza ritorna a Poggioreale, il regno di don Rafé che proprio in quegli anni mette ordine nella criminalità napoletana costituendo la Nuova camorra organizzata. Esce da Poggioreale nel ’77 e per riconosciuta infermità mentale viene trasferito all’ospedale psichiatrico di Aversa: il 5 febbraio 1978 l’evasione. La Nuova camorra organizzata diventa padrona di Napoli, Cutolo finisce in mezzo agli intrighi più inquietanti della Repubblica, a cominciare dal sequestro e dall’assassinio di Aldo Moro. La storia è nota. Neppure un anno di latitanza, il 15 maggio 1979 don Rafé viene arrestato ad Albanella, paesino in provincia di Salerno. Ma ’o Professore continua a contare e disporre. Seguono il sequestro del democristiano Ciro Cirillo, sempre per mano delle Brigate rosse ma con esito diverso rispetto a Moro, intrighi, rapporti con le istituzioni, guerre di camorra. Un curriculum che si arricchisce. Nel 1982, il presidente della Repubblica, Sandro Pertini ottiene che venga trasferito nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara. Dal ’93 è confinato al carcere duro del 41-bis.

“In 45 anni – afferma l’avvocato Aufiero – non ha mai voluto chiedere niente, fatta eccezione per l’autorizzazione all’inseminazione artificiale nel 2001. Abbiamo impugnato la misura del 41-bis solo una volta, l’ultima, sette mesi fa. Ma quando ho letto il diario clinico, avendo il mio assistito già avuto un ricovero all’ospedale di Parma tra febbraio e marzo oltretutto, ho deciso di consultarmi coi suoi familiari e la signora Immacolata che mi ha dato il consenso a presentare l’istanza. Nei prossimi giorni Immacolata telefonerà al marito dalla stazione dei carabinieri di Ottaviano e si parleranno per la prima volta dopo tre mesi”.