Le navi-ospedale, i buoni affari Msc con Toti e Fedriga

L’idea di utilizzare un traghetto per “l’assistenza a bassa intensità dei pazienti Covid-19 dimessi dagli ospedali e non domiciliabili” della Regione Liguria a partire da metà marzo non ha trovato finora imitatori, ma è al vaglio del Friuli-Venezia Giulia. Anche a Trieste si tratta con Grandi Navi Veloci, marchio del colosso elvetico Msc. Il presidente della Liguria, Giovanni Toti, optò per questa soluzione per la velocità dell’armatore nel mettere a disposizione la nave. Ma non è chiaro se ne abbia sondate altre, ad esempio ospedali dismessi. Mentre è certo, conferma Americo Pilati, presidente di Federlberghi Liguria, che non abbia chiesto disponibilità agli albergatori, come in Lombardia e Veneto.

Il dubbio che potesse valerne la pena resta. Il contratto con Gnv, ottenuto dal consigliere regionale Pd Giovanni Lunardon, mostra che per i primi 45 giorni la Regione (rimborsata dalla Protezione civile) si è impegnata a pagare fino a 1,25 milioni di euro (i conti si faranno a consuntivo) per disporre nelle prime due settimane di 25 posti letto, saliti poi a 50 (aumentabili). E si tratta solo dei costi di gestione della nave. Le spese sanitarie non sono comprese. Al conto quindi vanno aggiunti stipendi del personale (6 medici, 11 infermieri e 17 operatori), sanificazione degli ambienti, raccolta e smaltimento dei rifiuti ospedalieri, servizi di triage e di morgue, dotazioni sanitarie e relativi allestimenti. E il costo medio giornaliero di un posto letto in Italia, secondo Lavoce.info, si aggira sui 720 euro. Senza contare poi il costo ambientale di un traghetto ormeggiato a ridosso delle case coi motori accesi h24 (540 tonnellate di carburante in un mese e mezzo). Di certo, pur non lucrandoci (il nolo è a 1 euro), l’affare lo fa l’armatore, coprendo i costi operativi di una nave che sarebbe oggi e a lungo infruttuosa. Per capire perché la Regione continui a puntare su una soluzione così onerosa anche venuta meno l’emergenza di metà marzo, può aiutare far luce sul rapporto di Gianluigi Aponte, tycoon di Msc, con Genova. Fiorito in epoca burlandiana (si attende ancora la sanzione che il Consiglio di Stato a ottobre ha imposto ad Anac di comminare al gruppo per aver assunto nel 2016 l’ex assessore regionale Luigi Merlo, per 8 anni presidente dell’autorità portuale), è stato coltivato con amore da Toti, assiduo frequentatore di Ginevra. Il colosso dei trasporti ha diverse concessioni in porto, in proprio e in società con l’imprenditore locale Aldo Spinelli, finanziatore di Toti. Sta trattando per rilevare il gruppo armatoriale genovese Messina e risolvere così alla banca cittadina Carige un incaglio da mezzo miliardo. Ed è blandito dal governatore per il rilancio di altre aree dello scalo.

Il radicamento a Trieste, invece, è più recente ma in pieno sviluppo. Anche qui Msc è divenuta prima azionista del terminal crociere e controlla il 50% del terminal container. A Trieste poi ha sede Fincantieri, il cui ad Giuseppe Bono è presidente della Confindustria regionale. Con 6 navi per oltre 4,5 miliardi di dollari da qui al 2026 (almeno 2 certamente destinate allo stabilimento di Monfalcone) Msc Crociere pesa parecchio nel portafoglio ordini del colosso navalmeccanico. Piazzare su un traghetto i degenti Covid, può essere costoso per le finanze pubbliche, ma il tornaconto per un governatore di una regione portuale può valere la candela. Basta scegliere l’armatore giusto.

Tanti utili e lavoratori a casa (senza cassa) Emergenza Covid secondo Sestrieres Spa

Prima ha fatto fortuna per l’inaspettato assalto turistico alle piste da sci in Piemonte a inizio marzo, dopo i primi provvedimenti contro il Coronavirus limitati a Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. Solo pochi giorni dopo, quando le chiusure sono state estese a tutta l’Italia e quindi ha dovuto fermare pure le sue attività, si è sbarazzata immediatamente di 200 lavoratori. Non ha perso nemmeno un minuto la Sestrieres Spa, che nell’Alta Valle di Susa gestisce il circuito “Via Lattea”, il più grande comprensorio sciistico d’Italia.

Questi impianti, hanno beneficiato del botto di fine stagione, grazie alle flotte di visitatori che, approfittando di scuole e uffici chiusi causa Covid-19, si sono concesse una vacanza nelle mete invernali del Piemonte. Quelle immagini delle code alle funivie, del resto, sono ancora impresse nella memoria di molti per quante polemiche hanno provocato.

Poi però il lockdown disposto in tutto il territorio nazionale ha costretto pure il turismo di montagna a uno stop leggermente anticipato rispetto al programmato. Così il 14 marzo, praticamente a distanza di poche ore, l’impresa ha mandato a casa anzitempo gli addetti stagionali, quelli che comunque avevano il contratto in scadenza di lì a due settimane o un mese. E non ha voluto fare marcia indietro nemmeno quando, il 17 marzo, il governo ha introdotto il blocco dei licenziamenti e ha concesso la cassa integrazione praticamente a tutte le aziende. Una soluzione che avrebbe dato un piccolo sollievo a quelle persone, ma niente, nemmeno un tentennamento.

I sindacati hanno fatto notare che mandare a casa i lavoratori in quel modo non è proprio regolare, tra l’altro contestando il mancato preavviso. E allora la risposta ha avuto il sapore di un avvertimento. “Nel corso di una videoconferenza – afferma Gianni Trovato della Filt Cgil – hanno affermato che se qualcuno ha qualcosa da obiettare lo faccia presente e ne terranno conto per il prossimo anno. Non ci sembra corretto”.

Il punto è proprio questo: i lavoratori coinvolti sono i classici stagionali che vengono convocati ogni anno dalla stessa azienda. Il loro impiego viaggia di pari passo con il turismo invernale: vengono assunti verso dicembre e finiscono tra fine marzo e metà aprile. I mesi di riposo forzato li coprono con il sussidio di disoccupazione, la cui durata dipende dalla durata del contratto di lavoro. Questo li mette in una condizione di debolezza e ora devono scegliere tra due strade: protestare, magari fare ricorso in Tribunale, e inimicarsi l’azienda dalla quale sperano di ricevere la chiamata il prossimo anno, o rinunciare e restare buoni per evitare guai.

La Sestrieres è appartenuta per decenni alla Fiat, recentemente è stata acquistata dall’imprenditore Giovanni Brasso. Ha chiuso l’ultimo bilancio con 9,2 milioni di utili. Se non avesse licenziato i lavoratori stagionali, li avrebbe comunque avuto “in carico” per altre due o massimo quattro settimane. Il costo sarebbe stato di qualche centinaia di migliaia di euro ma, oltretutto, avrebbe potuto chiedere la cassa integrazione e non ci avrebbe rimesso addirittura nulla. Ecco perché ai rappresentanti dei lavoratori questo comportamento appare tuttora privo di spiegazione.

A maggior ragione considerando gli ottimi risultati raggiunti negli ultimi anni. Gli impianti in mano alla Sestrieres sono 47: 31 privati e 16 pubblici. Per questi ultimi, i canoni di concessione sono molto bassi. Come ha ammesso a dicembre, parlando con Report, lo stesso Giovanni Brasso, per alcuni sono praticamente zero. Il Fatto ha chiesto all’azienda di dare la propria versione dei fatti, senza però ricevere alcun riscontro.

Corte dei Conti libera tutti: i controlli si autoaffondano

Visto dal punto di vista dei burocrati, assomiglia a un suicidio assistito della Corte dei Conti. Visto dal punto di vista del cittadino, elettore e contribuente, assomiglia a un “liberi tutti”, una sorte di licenza, se non di rubare, sicuramente di sperperare il denaro pubblico per politici e dirigenti pubblici di ogni ordine e grado. Naturalmente con la scusa dell’emergenza Covid-19.

Accade questo: il Consiglio di presidenza della Corte dei Conti (una sorta di organo di autogoverno come il Csm per la magistratura ordinaria) ha mandato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte una “proposta normativa volta al miglioramento delle funzioni e dell’organizzazione” della magistratura contabile, naturalmente per unirsi “allo sforzo collettivo” contro il nemico invisibile eccetera. L’ideona rientra naturalmente nella categoria teologica della “semplificazione”, ed è così concepita: con una modifica della legge 20 del 1994 si introduce la facoltà per tutte le pubbliche amministrazioni (dai ministeri alle Asl, dalle comunità montane alle Camere di commercio), di sottoporre al controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti “i provvedimenti di aggiudicazione o quelli che approvano contratti di lavori, servizi o forniture, attivi e passivi, o che ne determinano la cessazione anticipata o la risoluzione in via transattiva di eventuali controversie”.

Spiegazione per le persone normali che non sanno che significhi “controllo preventivo”: finora questa procedura riguarda gli atti amministrativi di grande rilievo, in sostanza del governo e poco più. Con la norma “semplificatrice” chiunque potrà chiedere il controllo preventivo, godendo di tre agevolazioni: la prima è che il controllo preventivo esclude quello successivo; la seconda è che i tempi del silenzio-assenso vengono dimezzati da 30+30 a 15+15 giorni, dopo i quali l’atto amministrativo acquista la perfezione; la terza è che con il silenzio-assenso “resta esclusa la gravità della colpa”, quindi il politico o il burocrate potranno essere accusati solo per “dolo”, cioè reato, che non compete alla Corte dei Conti ma al giudice penale. È del tutto evidente che tempi così stretti per il silenzio-assenso costituiscono un incentivo a chiedere il controllo preventivo. Questo porterà alla Corte dei Conti valanghe di richieste che gli uffici non saranno in grado di esaminare, per cui il silenzio-assenso evocato si auto-avvererà.

Sintesi dei proponenti: la nuova norma “tende a superare la cosiddetta paura della firma”. Si badi bene. È vero che molti dirigenti pubblici hanno paura di assumersi le responsabilità per le quali sono profumatamente pagati perché temono le accuse, spesso idiote o comunque infondate, della Corte dei Conti. E adesso i magistrati contabili, per rasserenarli, propongono di azzerare di fatto i suoi controlli.

Un capolavoro del “liberi tutti”. Gravato però da un difetto letale. L’organismo di autogoverno della magistratura contabile (tre membri di diritto più quattro magistrati eletti dai colleghi più quattro “laici” eletti dal Parlamento) ha proposto una nuova norma che la Corte dei Conti in quanto tale considera, per dirla con una sintesi volgare, demenziale. Infatti lo stesso Angelo Buscema, presidente sia della Corte dei Conti che del Consiglio di presidenza, si è astenuto nel voto sulla risoluzione insieme alla presidente aggiunta Enrica Laterza. E ha deciso di chiedere sulla risoluzione, già approvata e spedita al premier Conte, un parere della Corte dei Conti in quanto magistratura. In soli due giorni le “sezioni riunite in sede consultive” hanno deciso di dare parere negativo sulla proposta normativa vedendo il rischio che, “senza apportare auspicabili semplificazioni ai procedimenti amministrativi in materia, la previsione possa di fatto favorire, anziché meglio prevenire e contrastare, le situazioni di illegittimità”.

Pochi giorni dopo è toccato al sindacato dei magistrati contabili mandare un segnale quasi beffardo. Dopo aver premesso di sentire la necessità di “completare le prime valutazioni a seguito di un compiuto ed approfondito esame”, hanno scritto: “Si esprime integrale contrarietà alla proposta”. Un compiuto e approfondito esame in sei parole.

Per trovare una soluzione dignitosa il presidente Buscema aveva convocato una nuova riunione del Consiglio di presidenza per domani, ma mentre questo articolo viene scritto arriva per vie informali la notizia che l’appuntamento è stato annullato. In ogni caso è difficile immaginare un finale diverso da quello che i magistrati contabili e il loro organo di autogoverno hanno apparecchiato: il governo si troverà di fronte la proposta del Consiglio di presidenza della magistratura contabile e un parere della Corte dei Conti a sezioni riunite che dice che quella proposta fa schifo. A Conte stavolta farà comodo saperne di diritto.

È utile inquadrare la vicenda nel suo contesto. La settimana scorsa la Banca d’Italia ha diffuso una nota della sua Unità di informazione finanziaria (Uif) secondo cui “l’attuale situazione di emergenza sanitaria espone il sistema economico-finanziario a rilevanti rischi di comportamenti illeciti” e, in particolare, “gli interventi pubblici a sostegno della liquidità possono determinare tentativi di sviamento e appropriazione, anche mediante condotte collusive”. Segue pressante invito alla vigilanza per tutti i soggetti deputati. È in questo scenario che arrivano le proposte di semplificazione della Corte dei Conti che non piacciono alla Corte dei Conti.

 

Lo scandalo Rsa Quanti malati han trasferito? I conti lombardi non tornano

Siccome sono un amministratore per cui l’unico obiettivo è salvare le persone, per il bene dei miei cittadini la delibera sulle Rsa la rifarei, ma forse sarebbe stato meglio lasciare che 150 persone non trovassero posto in ospedale… oggi io sarei meno sotto le polemiche”. È l’assessore alla Sanità e al Welfare della Regione Lombardia che parla, intervistato ieri a 7Gold. Un Giulio Gallera che non mostra autocritica – ancora una volta – sulla gestione dello tsunami che ha travolto la Lombardia e soprattutto le strutture per anziani, dove per Covid-19 si contano migliaia di morti. Ma, a due mesi dalla scoperta del “caso Mattia” e del primo focolaio di Codogno, è proprio la comunicazione della Regione a mostrare, sulla “strage dei nonni”, le prime crepe.

La polemica sulla famosa delibera regionale dell’8 marzo, è nota. Così come la linea di difesa della Regione che, a più riprese, ne ha ridimensionato l’impatto: nessun contagio in Rsa da pazienti trasferiti; non c’è mai stata “contaminazione” tra i positivi e gli altri ospiti anziani; “erano le Ats ad avere il compito di verificare le condizioni delle strutture che hanno accolto pazienti”; i contagi (e i decessi) sono imputabili a un periodo precedente, a quando il virus era libero di circolare a febbraio. “Non c’è stata alcuna pressione – ha ribadito due giorni fa il governatore Attilio Fontana al Corriere – solo una lettera per chiedere di ospitare pazienti ma solo nel caso di disponibilità di spazi separati e personale dedicato. Sa quante strutture hanno risposto? 15 su oltre 700”. Per un totale di 147 pazienti. Segnatevi questo numero, 147, perché, sorprendentemente, quasi magicamente, tornerà spesso.

È la prima settimana di aprile quando Gallera per la prima volta parla di “147 pazienti accolti in 15 strutture: quelle che hanno accettato, un numero ristretto che ci ha consentito di salvare vite umane, perché in quel momento l’obiettivo era di liberare posti letto negli ospedali”. Passano i giorni, molti anziani nelle Rsa muoiono, e continuano a morire. Molti altri si stabilizzano e vengono dimessi. Eppure, quel numero resta sempre lo stesso: 147. Abbiamo chiesto quotidianamente aggiornamenti alla Regione su questo numero. Sempre 147. Abbiamo chiesto per giorni anche l’elenco delle strutture che hanno accolto, a partire dall’entrata in vigore della delibera dell’8 marzo, pazienti Covid. Solo qualche giorno fa, siamo riusciti a ottenere dalla Regione l’elenco delle località dove hanno sede le famose 15 case di cura interessate dai trasferimenti. “San Pietro, Martinengo, Scanzorosciate, Cologno al Serio, Bergamo città, Sabbioneta, Ostiano, Vailate, Maleo, Codogno, Darfo Boario Terme, Mortara, Morbegno”, ci hanno comunicato dal Pirellone. Possiamo sapere il nome delle strutture? Nessuna risposta. Così località per località, territorio per territorio, Ats per Ats, abbiamo chiamato le diverse Rsa, chiedendo i numeri effettivi di tutti i pazienti Covid a bassa intensità lì trasferiti. La storia è tutta un’altra. C’è chi ci ha risposto, e chi non ha voluto farlo “perché non autorizzato”. Ci sono poi strutture che abbiamo rintracciato, ma che non erano presenti tra le località indicate dalle Regione. E alcune di quelle indicate che invece non hanno Rsa che abbiano accolto casi Covid. Alla fine i numeri non tornano: ne abbiamo contati almeno 225. Il che significa che ancora una volta nella gestione dell’emergenza alla Regione sfugge il controllo di molte cose. Ecco cosa abbiamo scoperto.

 

Ats Bergamo: solo qui 156 pazienti trasferiti

In una delle province più colpite dai contagi sono 7 le case di riposo che hanno risposto all’Sos della Regione. Solo su questo territorio sono 156 i pazienti trasferiti nelle strutture per anziani. Abbiamo chiesto ufficialmente all’Ats Bergamo che non risponde. Non tornano i numeri e nemmeno le località che, stando all’elenco della Regione, hanno accolto in questo territorio pazienti Covid.

Otto pazienti sono stati trasferiti nella struttura della Fondazione Ponte di San Pietro, un paesino di poco più di 11 mila abitanti. C’è poi la Fondazione Balicco di Martinengo che ha ospitato nella propria Rsa “15 pazienti Covid positivi dimessi dall’ospedale – come spiegano dalla Fondazione – in un reparto completamente vuoto e indipendente al piano terra della struttura, e con personale dedicato. Sono pazienti clinicamente stabili, in attesa degli esiti dei tamponi per poter rientrare al domicilio”. A Scanzorosciate, invece, la struttura che ha risposto alle delibere regionali è la Fondazione Piccinelli, dove sono arrivati 20 pazienti. Spiega il direttore generale Enrico Madona: “I nuovi arrivati sono stati posti nel ‘reparto Cure intermedie (ex post acuti)’, che esiste dal 2013, con 15 posti letto e in cui presta servizio personale apposito. Il primo paziente Covid da altri ospedali è arrivato il 24 marzo”. C’è poi la struttura dedicata agli anziani della Fondazione Vaglietti di Cologno al Serio che ne ha accolti 11. E poi ci sono i 22 malati “dimessi” ospitati nella struttura Casa Honegger (Albino), dove – spiegano i dirigenti – è stato predisposto un reparto isolato. Ma non è finita. Nella città di Bergamo ci sono altre due case di riposo, la Santa Maria Ausiliatrice della Fondazione Carisma e la Residenza Anni Azzurri, che si sono rese disponibili all’accoglienza. Nella prima sono stati ospitati finora almeno 80 pazienti, di cui 45 ancora presenti. Non si conoscono invece i dati della Residenza Anni Azzurri: nessuno ha riposto alle nostre domande.

 

Ats Val Padana: altri 41

L’Ats Val Padana, che comprende le province di Mantova e Cremona, spiega al Fatto: “I pazienti dimessi Covid positivi e accolti nelle nostre Rsa sono stati 41, 26 dei quali su posti letto di Rsa in due strutture, i restanti 15 in un nucleo di cure ‘post-acute’ ubicato presso una terza Rsa”. Tra le strutture in questo territorio, in provincia di Cremona c’è la Fondazione Ospedale Caimi di Vailate che ha accolto 10 pazienti e la Bruno Pari di Ostiano dove ne sono arrivati altri 12. A Sabbioneta (Mantova), nella Rsa Giuseppe Serinine sono arrivati altri 14. C’è poi la Fondazione Benefattori cremaschi di Crema. “Abbiamo accolto 20 pazienti Covid provenienti dagli ospedali. Non si poteva scegliere, la delibera di fatto lo impone a tutte le strutture con determinate caratteristiche”, ha raccontato nei giorni scorsi al Fatto Gianpaolo Foina, direttore generale.

 

Dall’Ats Pavia nessuna informazione, tutto tace

Nonostante mail e telefonate, non è arrivata alcuna risposta dall’Ats di Pavia. Stando alla lista ottenuta dalla Regione, ci sarebbe una sola Rsa che avrebbero messo a disposizione posti letto. Si trova a Mortara. Abbiamo contattato due case di riposo del posto che ci hanno spiegato di non aver ospitato alcun paziente. Abbiamo chiesto anche alla Fondazione Alceste Cortellona: “Il Consiglio di Amministrazione non rilascia dichiarazioni, precisando che l’organo a cui deve rendicontare è l’Ats”, è stata la loro risposta.

 

Ats Milano: 28 trasferiti Ma il dato è parziale

Quanto alla città metropolitana di Milano, stando ai dati forniti dall’Ats (che ha competenze anche sulla provincia di Lodi), tre strutture hanno accolto 28 persone. È una cifra che – spiegano dall’Ats – non tiene conto di tutti coloro che sono stati trasferiti sì in Rsa, ma in reparti dedicati “alle cure intermedie”. È il caso della Fondazione Don Gnocchi. In Lombardia, l’unica struttura della Fondazione che ha risposto alle delibere regionali è l’Istituto Palazzolo, dove sono stati messi a disposizione 36 posti letto. Di questi, secondo quanto risulta al Fatto, sono stati 33 quelli effettivamente occupati da pazienti Covid provenienti dagli ospedali. La Fondazione ha messo a disposizione altri 74 posti in tutta Italia. Quanti di questi poi sono stati effettivamente occupati, e dove? Non abbiamo ottenuto alcuna risposta. Sotto la competenza dell’Ats Area metropolitana Milano, c’è anche la Rsa San Giorgio di Codogno che ha ospitato 10 pazienti a “bassa intensità”, spiegano dalla struttura, e dopo il loro arrivo, assicurano, non si sono registrati decessi. Altro mistero: dalle griglie fornite dalla Regione ci sarebbe anche una casa di riposo di Maleo (Lodi) che avrebbe risposto alle delibere. Abbiamo contattato le strutture di questo piccolo paesino e nessuna di loro avrebbe accolto pazienti da altri ospedali.

Per quello che riguarda il resto dei territori, l’Ats Insubria e l’Ats Brianza confermano di non aver accolto pazienti Covid. L’Ats Brescia, invece, rifiuta di rispondere: ha fornito tutte le informazioni già alla magistratura.

 

La Regione ora risponda

Ieri, l’Organizzazione mondiale della sanità ha parlato di “tragedia inimmaginabile”: in Europa, la metà delle persone morte di Covid erano anziani residenti in case di cura. Era stato proprio l’Oms a chiedere conto all’Italia del “perché del massacro avvenuto nelle Rsa”. La magistratura sta indagando. Ma è doveroso che intanto la Regione renda disponibili tutti i dati e le informazioni relative alle Rsa. Per chiarezza. E per giustizia.

L’estate dei bimbi: sì ai parchi, niente “campi” e oratori

Poche parole del presidente del Consiglio Superiore di Sanità e membro del Comitato Tecnico Scientifico, Franco Locatelli, sono bastate ieri a ridimensionare ore di pressing, proposte e speranze di governatori e sindaci su come si dovranno gestire i ragazzi quando, con le scuole chiuse, il 4 maggio milioni di italiani torneranno al lavoro. Poche parole che, oltretutto, caricano di responsabilità il ministero del Lavoro che sta lavorando alla proroga delle misure di sostegno alle famiglie – dai voucher baby sitter ai congedi parentali – e che nel decreto aprile dovrebbe prevederne l’estensione al 30 settembre.

“L’estate – ha detto Locatelli durante la conferenza stampa alla Protezione Civile – la pensiamo come un momento di recupero delle attività ludico sportivo dei bambini. Va benissimo, però scordiamoci i campi estivi e gli oratori. Questo deve essere chiarissimo”. Impossibile, spiega, garantire il distanziamento dei bambini in quei contesti così come è impossibile farlo, al momento, a scuola (riaprire avrebbe fatto superare il valore di 1 per l’indice di contagiosità). Apre invece sui parchi, ipotesi “considerabile”, ma precisa che l’accesso dovrà essere “contingentato”.

In pochi minuti sfumano le idee per “occupare” 8 milioni di studenti senza classi, nonni e viaggi estivi (6 milioni tra scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado). La sindaca di Empoli, ad esempio, proponeva di rendere il comune “città pilota” per la ripresa delle attività didattiche in classe con “screening a insegnanti, educatori e famiglie” e attività all’aria aperta; il sindaco di Firenze, Dario Nardella, si era detto intenzionato a “sperimentare forme di riaperture” per nidi, materne e scuole dell’obbligo.

Anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, aveva parlato della possibilità di riaprire i centri estivi “se i dati epidemiologici fossero favorevoli già dal mese di luglio” e “su due turni per evitare assembramenti”, mentre il Piemonte ragionava sulla possibilità di riaprire almeno gli asili nido e di sperimentare “microcomunità” di famiglie. Il governatore del veneto, Luca Zaia, aveva ipotizzato il ricorso alle scuole paritarie come luogo per accogliere i bambini e dare sollievo alle famiglie (mentre la Lega presentava un ddl per destinare alle paritarie 100 milioni) . Il Forum nazionale delle associazioni familiari aveva invece ipotizzato il ricorso a volontari del servizio civile come animatori a domicilio o centri estivi condominiali coi volontari del terzo settore.

Nell’incertezza, quel che è certo è che serviranno importanti misure di sostegno economico alle famiglie. Al momento, gli aiuti per i genitori, soldi in mano, sono due: il congedo parentale per 15 giorni con stipendio al 50% (ottenuto da oltre 208.515 richiedenti) e il bonus baby sitter da 600 euro incassato da 66.571 persone. Due misure non cumulabili per le quali, nel Cura Italia, sono stati stanziati 1,2 miliardi di euro a cui vanno aggiunti 500 milioni per aumentare i giorni di permesso della legge 104.

Il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, ora, sta lavorando per inserire nel prossimo decreto di aprile, già diventato di maggio, una proroga del congedo straordinario (altri 15 giorni, retribuiti al 50%) e, sempre in alternativa, il bonus baby sitter di 600 euro. Entrambi fino al 30 settembre. La copertura, secondo le stime circolate finora, potrebbe essere di 1,5 miliardi di euro totali per tutte le misure, inclusa l’estensione dei permessi per la 104 ma bisognerà capire se saranno abbastanza per coprire tutta la platea per così tanti mesi.

Le Regioni: “Chi ci rimborsa i costi per la fase 1?”

Alla fine la proposta dell’Inail di sottoporre a sorveglianza speciale i lavoratori con età superiore ai 55 anni potrebbe mettere tutti d’accordo su uno dei punti ancora da sciogliere ora che l’emergenza coronavirus entrerà nella Fase 2. Perché l’idea della task force di Vittorio Colao di tenerli a casa anche dopo il 4 maggio non aveva convinto il premier Giuseppe Conte. Che deve sciogliere gli ultimi nodi prima di comunicare le sue intenzioni sui termini della progressiva uscita dal lockdown. Intanto anche il ministero dei Trasporti ha messo per iscritto le sue proposte che potrebbero cambiare e di molto le abitudini: guanti e mascherine per viaggiare in aereo e posti a scacchiera sui treni. Il prevedibile prolungamento degli orari di apertura degli uffici e degli esercizi commerciali consentirà di ridurre i picchi di utilizzo dei mezzi pubblici, come sui bus dove potrebbe essere introdotto il numero chiuso. E così in alcune città, come a Roma, si pensa di mettere in servizio i pullman turistici a due piani, potenziare le corse e tutta una serie di accorgimenti che però hanno un costo. Virginia Raggi insieme agli altri sindaci delle città metropolitane si sono rivolti a Palazzo Chigi perché il governo allarghi i cordoni della borsa sul trasporto pubblico locale.

Ma il tema più scottante è un altro: chi pagherà le mascherine per i lavoratori che potranno tornare in attività? Perché i sindacati chiedono garanzie e le imprese temono che l’obbligo dei dispositivi di protezione finisca per gravare integralmente sui loro bilanci. Nel caso delle piccole e medie aziende che lavorano nell’indotto della grande industria il dilemma è esistenziale. E alla fine potrebbero pure decidere di non riaprire se per farlo sarà necessario affrontare spese enormi.

Se ne è parlato anche ieri al tavolo tra il governo, presidenti, il titolare del Mise Stefano Patuanelli e quella del Lavoro Nunzia Catalfo (lei e la collega dei Trasporti Paola De Micheli sono al lavoro per la riapertura di alcune realtà manifatturiere e alcune tipologie di cantieri prima del 4 maggio), e i leader di Cgil, Cisl Uil, Ugl, Confindustria, Rete Imprese Italia, Confapi, Alleanza cooperative, Confimi, Federdistribuzione e Confprofessioni, convocato in vista dell’adeguamento del protocollo sicurezza firmato il 14 marzo. Ma se n’è parlato soprattutto nel quotidiano incontro operativo al Dipartimento della Protezione civile tra il commissario per l’emergenza Covid-19 Domenico Arcuri e le Regioni, dove la questione, per la verità, tiene banco da giorni.

I governatori non fanno altro che ripetere le preoccupazioni dei territori. “Se non si fissa l’obbligo della mascherina, ma si lega le riaperture a questo vincolo, di fatto si scarica il problema sulle aziende o i commercianti”. E ancora: “Si fa presto a dire mascherine, bisogna capire che tipo e chi paga”. Già, chi paga? Perché le Regioni, accanto ai grattacapi per quello che succederà dal 4 maggio in poi, hanno un’altra vera preoccupazione: verranno rimborsati tutti i costi sostenuti fin qui per fronteggiare l’emergenza sanitaria o solo una parte?

Le spese, specie nelle regioni del Nord più colpite dal virus, sono state ingentissime. E se mai Roma dovesse decidere che solo alcune di quelle che verranno rendicontate saranno davvero riconosciute e rimborsate, allora più di un bilancio, anche delle Regioni più floride, potrebbe saltare per aria: l’emergenza economica insomma potrebbe presentare anche il conto del commissariamento.

“Una relazione generica” Il gelo tra premier e Colao

I sospetti gonfiati dalle voci avevano segnato una distanza, le proposte arrivate e quelle mancate l’hanno allargata. Tra il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il capo della cosiddetta task force per la ripartenza, Vittorio Colao, si dilata un formale, paludato quanto evidente gelo. Anche se sul tema piovono quotidiane smentite, e anche se il manager ha giurato ovunque che lui a subentrare come sostituto di Conte a Palazzo Chigi non ha mai neppure pensato. E magari è proprio così. Però poi c’è tutto il resto.

Ci sono le facce perplesse del premier e di alcuni ministri, in gran parte a 5Stelle, di fronte alla relazione presentata mercoledì da Colao e dei suoi esperti sulla fase 2: “Quattro pagine fatte soprattutto di indicazioni generiche” a sentire una fonte di governo di primo piano del Movimento, chiaramente non entusiasta. Anche se qualche idea dritta c’era di sicuro, per esempio la proposta di non far rientrare al lavoro donne e uomini sopra i 60 anni.

Ma Conte ha scosso la testa, con un no che già nel pomeriggio di mercoledì era rimbalzato su siti e agenzie. “Figuriamoci, così avremmo perso in un sol colpo quasi tutta la Pubblica amministrazione…” commenta caustico il grillino di governo. Ma non basta. Anche l’idea di Colao di far ripartire alcuni settori industriali già da lunedì prossimo, invece che dal 4 maggio, ha irritato il premier e diversi grillini di governo (e non convince neppure il ministro della Salute, Roberto Speranza). Non a caso ieri il governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia, ha sparso sale sulla ferita: “Sulle riaperture al 27 il dottor Colao è d’accordo con noi”. Così si capisce perché un altro big a 5Stelle lo dica chiaro: “Tra Conte e il capo della task force c’è un’ampia differenza di vedute”. Per poi aggiungere: “Va bene i tecnici, ma alla fine è la politica che deve decidere. E un vero, decisivo punto politico su come ripartire va ancora fatto tra i partiti”.

E sarà questo il passaggio centrale, il tavolo di maggioranza che dovrà trovare il punto di caduta definitivo con gli enti locali (nella cabina di regia) e con i sindacati. Nell’attesa, ieri Conte ha chiesto a tutti i ministri delle “note” con problemi e temi da approfondire sulla riapertura, documenti da inviare poi al comitato tecnico scientifico per avere ulteriori chiarimenti su cosa e come riaprire. Ma oggi sarà di nuovo la politica a entrare in scena, con incontri tra il premier e i capidelegazione di maggioranza, e poi con le varie parti sociali, trattative europee permettendo.

Conte ha promesso di spiegare la fase 2 entro la fine di questa settimana, e la via sarà una conferenza stampa, assicurano. Ma è molto difficile che il premier possa parlare già stasera. “È tutto in divenire” spiegavano ieri da Palazzo Chigi, dove inizialmente puntavano su domani come data per l’annuncio. Ma tenere la conferenza nella ricorrenza del 25 aprile poteva suonare inopportuno, hanno poi riflettuto. E allora si scivolerebbe a domenica, come d’altronde a Radio Anch’io ha dato quasi per certo la sottosegretaria alla Salute, Sandra Zampa: “Tra domenica e lunedì, quando si dovrebbe chiudere anche il programma della task force guidata da Colao, immagino che il presidente del Consiglio illustrerà il piano dettagliato”. Lui e non il manager. E anche questo, sussurravano ieri fonti qualificate, sarebbe un altro punto di attrito, perché Colao avrebbe voluto illustrare pubblicamente il piano per la ripartenza, in prima persona.

Ma ora più che mai Conte vuole tenere il pallino in mano. Sa perfettamente che nella maggioranza è mare grosso da giorni, come è emerso anche nella lunghissima riunione sul Def di mercoledì notte, in cui sono volate parole forti tra Movimento e Pd, spaccati sull’entità del prossimo decreto aprile (ma c’è un nodo anche dentro i dem, con i vertici irritati per l’autonomia del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri). Quindi il premier vuole e deve apparire saldamente al comando, nonostante le accuse di eccessivo dirigismo che arrivano dal Pd. Perché non si sa mai.

“L’Olanda deve cambiare: basta elusione fiscale”

“Penso che alla fine si troverà un accordo per creare debito pubblico europeo. D’altra parte sta già succedendo: il governo olandese ha detto ok allo schema Sure per la disoccupazione e a quello della Bei per i prestiti alle imprese. Non sono molti soldi, ma sono già una forma di eurobond anche se da noi nessuno li chiama ancora così”. Paul Tang è un europarlamentare olandese, fa parte del gruppo dei socialdemocratici. Economista, membro della Commissione affari monetari a Bruxelles, è uno dei pochissimi politici ad aver definito da tempo il suo Paese un paradiso fiscale.

Perché l’Olanda è il Paese più schierato contro qualsiasi forma di debito comune?

Uno degli argomenti più discussi da noi adesso è che lavoriamo di più: andiamo in pensione a 67 anni mentre in Paesi come Francia o Italia ci si va molto prima. Non è vero, ma è quello che molti miei concittadini pensano. Gli olandesi amano le regole perché sono uguali per tutti e si arrabbiano nel vedere che ad esempio quelle di bilancio europee – che secondo me sono assurde – non vengono rispettate. Da qui nasce la sensazione di essere trattati peggio degli altri dall’Ue. A livello politico, questo si traduce in una situazione molto simile a quella italiana.

Cioè?

Il governo italiano tiene sempre un occhio su Matteo Salvini. In Olanda il governo sta sempre attento ai partiti di Geert Wilders e Thierry Baudet. Sono nazionalisti, totalmente contro la condivisione del debito pubblico. Insieme hanno il 20% dei consensi. Il governo di Mark Rutte, che è una coalizione di centrodestra, ascolta queste istanze per non dare loro troppa forza.

Secondo lei fa bene Rutte?

Secondo me l’argomento da usare con queste persone non è quello della solidarietà, ma quello dell’interesse. Romano Prodi qualche giorno fa ha detto: senza Ue l’Olanda a chi venderà i suoi tulipani? È un’esagerazione, ma è vero: lo dobbiamo fare per noi stessi.

Il governo italiano dovrebbe prendere in prestito i soldi dal Mes?

I soldi del Mes usati per l’emergenza sanitaria non comportano condizioni, ma capisco i timori del governo italiano per il significato simbolico che avrebbe un prestito dal Mes. Io credo che l’Italia dovrebbe farlo e continuare a spingere per una maggiore condivisione degli oneri nell’Ue, che sia con gli eurobond, il Recovery Fund o altro.

Fa bene Giuseppe Conte a definire l’Olanda un paradiso fiscale?

Io lo dico da anni e gradualmente sta aumentando la consapevolezza tra gli olandesi. È vero però che molti non vogliono ammettere che da noi c’è un’industria dell’elusione fiscale. Agli olandesi piace avere questa immagine di popolo preciso, rigoroso, che paga le tasse: difficile ammettere che aiutiamo le multinazionali a non pagarle.

Il governo Rutte sta facendo qualcosa di concreto per cambiare le cose?

Ha annunciato una norma interna per risolvere il problema della società di comodo, secondo me buona, ma a livello europeo si oppone sempre alle riforme per bloccare la concorrenza fiscale. Questo è il problema principale: è disposto a fare delle modifiche, ma non vuole cambiare il sistema.

Forse perché alla fine l’Olanda perderebbe molti soldi?

Il paradosso è che l’Olanda non beneficia granché di tutto questo, se non per il fatto di avere una piccola industria fatta di consulenti fiscali preparatissimi. In realtà quasi tutti i soldi attirati qui dalle varie esenzioni fiscali passano per l’Olanda e poi finiscono alle Bermuda o alle Cayman.

Basta un solo Paese che dica no per fermare qualsiasi riforma fiscale in Ue: questo blocca il cambiamento?

La regola dell’unanimità rende tutto molto difficile, ma ci sono sempre più persone arrabbiate, a sinistra ma anche a destra, perché vedono che multinazionali e super ricchi pagano meno tasse di loro. Con la crisi innescata dal Covid avremo un aumento dei debiti pubblici, quindi ci sarà bisogno di maggiore gettito fiscale e dall’elusione si possono recuperare molti miliardi. La questione dei paradisi fiscali presto sarà in cima all’agenda Ue.

Il premier rimette d’accordo (forse) Pd e M5S

Dopo settimane di guerra neanche fredda sull’Europa, per una sera Pd e Cinque Stelle si ricompattano, uniti nel battere le mani a Giuseppe Conte. “Più di questo non potevamo ottenere”, è il commento che trapela dal Nazareno. L’impegno assunto dal Consiglio sul ricorso al Recovery Fund come strumento “urgente” fa sì che la maggioranza per una volta proceda unita. Anche se i nodi centrali (tra cui quello di finanziare il fondo con sussidi o prestiti) non è ancora stato sciolto.

Nel pacchetto c’è anche il Mes, il male agli occhi dei Cinque Stelle. Ma sul punto il premier rimane attendista: valuterà questa “linea di credito per spese sanitarie” solo se non ci saranno condizionalità “presenti e future”, Mentre Matteo Salvini, come ormai da prassi, parla di “disfatta” e “sconfitta” proprio sottolineando la presenza nel pacchetto del fondo salva-Stati, peraltro scontata. Il commento ufficiale del Pd è affidato al ministro degli Affari europei, Enzo Amendola, quello che più da vicino ha seguito il premier nel negoziato fin qui: “Si apre una nuova strada per l’Europa, accordo sul Recovery Fund e su azioni di politica fiscale comune. In poche settimane sono stati raggiunti più risultati che in anni”.

Poi c’è il segretario Nicola Zingaretti: “La Ue ha capito l’importanza della proposta di Conte”. Ma ci tengono a “rivendicare” la parte svolta per arrivare a questo risultato anche i dem che sono ai vertici europei. Il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, che in questi giorni ha molto insistito per dire che è importante come verranno spesi i soldi che arrivano dall’Europa, è intervenuto anche in video conferenza per dire che Strasburgo farà la sua parte. Paolo Gentiloni, commissario agli Affari economici, scende in campo, a vertice finito. D’altra parte, ora la palla passa alla Commissione (che dovrà presentare un piano il 6 maggio) e il suo ruolo diventa fondamentale: “Il Consiglio Ue trova un accordo di principio per un sostegno comune alle economie europee. Ora tocca alla Commissione Ue proporre il più importante degli strumenti comuni, il Recovery Fund”. L’altro lato della maggioranza, i Cinque Stelle, suonano note analoghe. E la ragione la spiegano fuori virgolette dai piani alti: “Il risultato c’è, e comunque ora bisogna essere fiduciosi anche per sostenere Conte”.

Perché è questa la principale preoccupazione nel M5S, “dare una nuova spinta” al premier che nell’ultimo mese hanno visto sfiancato anche da certe mosse dei dem (i retroscena sull’ira di Franceschini sono stati notati). Così arriva perfino la benedizione del fondatore, Beppe Grillo: “Forse l’Europa comincia a diventare una comunità. ‘Giuseppi’ sta aprendo la strada a qualcosa di nuovo. Continuiamo così!”. Invece il ministro degli Esteri Luigi Di Maio parla di “match ancora in corso”, ma “il recovery è un primo risultato”. Poi tutti i big, dal ministro Federico D’Incà (“l’Italia ha imposto una nuova visione”) alla capogruppo in Parlamento europeo Tiziana Beghin: “Abbiamo vinto la gara di andata”. E il Mes? “Eravamo e siamo contrari a usarlo” ribadiscono. Ma nei comunicati tutti schivano la grana. Niente obiezioni, neanche dai 4 europarlamentari sottoposti a procedimento interno per non aver votato la risoluzione sul coronavirus venerdì. Però in serata arriva l’ennesimo addio, quello del deputato Antonio Zennaro, membro del Copasir: “I troppi dissidi sulla gestione e le scelte in materia economica mi impediscono di proseguire”.

Fondo Ue: l’accordo per ora è sul nome, si litiga sui soldi

La Commissione europea, un po’ come il Papa secondo Aldo Moro, ha fatto pochino con la sua proposta assai poco ambiziosa di Recovery Fund. Invece il Consiglio europeo (cioè i leader della Ue), come previsto, s’è preso tempo fino “alla prima o seconda settimana di maggio” perché “non c’è accordo”, come dicono onestamente alla fine Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Tutti, ovviamente cantano vittoria, Italia compresa, ma di fatto le posizioni in campo ieri non si sono avvicinate di un passo.

Per ora, l’unica decisione presa è stata affidare proprio alla Commissione Ue il compito di elaborare per il 6 maggio una proposta tecnica per istituire un “Fondo comune per la ripresa” che vada bene a tutti o che tutti faranno finta di farsi andar bene. Nel frattempo, saranno operativi entro il 1 giugno o anche prima i tre strumenti usciti dall’Eurogruppo (i ministri delle Finanze dell’Eurozona) basati su prestiti: il controverso Mes, cioè l’ex fondo salva-Stati, per le spese sanitarie; la Banca europea per gli investimenti per le imprese; il meccanismo “Sure” per la disoccupazione. Per questo persino la presidente della Bce, Christine Lagarde, nella videoconferenza s’è rivolta ai leader Ue scolpendo un “troppo poco, troppo tardi” a fronte di un Pil dell’Eurozona che “potrebbe scendere anche del 15%”.

La base di discussione del Consiglio di ieri, come detto, è stata una prima proposta messa in campo dalla Commissione – che Il Fatto ha potuto leggere – appoggiata dalla Germania: se finirà con un progetto di quel genere significherà che il fronte del Nord ha ceduto su qualcosa (i pochi sussidi, un abbozzo di risposta comune), quello del Sud sul resto.

Il piano si basa su un aumento del Bilancio Ue 2021-2027, probabilmente in termini di impegni esigibili e non di pagamenti reali da parte degli Stati: sulla base di quegli impegni, la Commissione chiederà soldi ai mercati per finanziare la ripresa nei vari Paesi. Il Recovery Fund vero e proprio in questa proposta vale appena 300 miliardi e dovrebbe essere assegnato parte in prestiti (loan), parte in sussidi (grant).

Su questo e altro c’è ancora scontro: Macron per la Francia e Pedro Sánchez per la Spagna ieri hanno ribadito che il Fondo dovrà essere molto più grande (1.000-1.500 miliardi) e assegnato solo via sussidi, meglio se calcolati sulla base dei danni reali subiti dal Covid-19; stessa linea di Giuseppe Conte che ha chiesto che siano “garantiti prestiti a fondo perduto ai Paesi membri”. Sull’altro fronte i cosiddetti “Paesi frugali” (Olanda, Svezia, eccetera), che non vogliono sussidi né un grande Fondo comune. Angela Merkel, come fa spesso, s’è posizionata nel mezzo auspicando uno sforzo europeo “enorme”, ma dicendo nein ai sussidi. Non ha motivo, d’altronde, di adottare pose muscolari: la proposta della Commissione è in sostanza quella tedesca – solidarietà, senza esagerare – e il lavoro sporco di contrasto lo fanno gli altri Paesi del Nord.

L’Italia, come nelle settimane scorse, ha posto anche il problema della tempistica. Secondo Conte, bisognerebbe trovare il modo di girare i fondi ai Paesi “prima possibile nella seconda metà dell’anno” e non a partire da gennaio 2021: “Serve un mandato chiaro alla Commissione per preparare al più presto una proposta che fornisca un ponte per anticipare le risorse” (l’idea italiana è almeno 500 miliardi su un totale di 1.500) perché “questa non è solo un’emergenza economica, ma anche politica”. Quest’appello ha prodotto nel comunicato finale le parole “urgente e necessario” a proposito del Recovery Fund e la dichiarazione “siamo disposti a esaminare soluzioni-ponte” di Ursula von der Leyen nella conferenza stampa finale, in cui ha sostenuto che “deve esserci un giusto equilibrio tra sovvenzioni e prestiti”.

Un po’ poco per cantare vittoria. Sulla questione “sovvenzioni o prestiti”, ha detto infatti Merkel, “non c’è accordo”. Macron è stato anche più duro: “Lo dico sinceramente: se l’Europa deve indebitarsi per fare prestiti agli Stati membri, allora non siamo all’altezza della risposta. Questi prestiti andranno ad aggiungersi al debito che questi Paesi già hanno e non risolveranno gli squilibri finanziari che ci sono nei Paesi più colpiti dalla crisi”. Ai “frugali”, invece, va benissimo così: “Il pacchetto dell’Eurogruppo (Mes, Bei e Sure, ndr) previene gravi problemi finanziari – ha detto il premier olandese Mark Rutte – Sulla base delle proposte della Commissione (corsivo nostro, ndr), lavoreremo in modo costruttivo su una strategia comune per la fase di ripresa, collegata al bilancio pluriennale”. Pessimo segnale.