Perché monoclonali col contagocce?

Dal controllo epidemiologico condotto dal network italiano di laboratori, guidato da ISS, si evince che la variante Omicron oggi costituisca l’81% di SArSCoV2 circolante. Si presume che solo fra una settimana o due, si arrivi al 100%. La notizia, dal punto di vista infettivologico, può solo farci piacere. Le varianti Delta e Delta Plus sono state causa di migliaia di morti e vorremmo che ci lasciassero al più presto. Purtuttavia, se è vero che la nuova variante è meno “cattiva” e procura principalmente casi asintomatici o paucisintomatici, è noto che sia molto infettiva. La conseguenza è che si riduce la letalità (percentuale di morti fra i malati) ma, essendo numerosa la popolazione contagiosa, aumenta la mortalità (percentuale di morti sulla popolazione generale). Ciò vuol dire che vaccini e terapie sono sempre più utili e non intercambiabili. A che punto siamo? Direi non bene, da questo punto di vista. È da tempo che chiediamo un vaccino aggiornato o aggiornabile, ma ancora le aziende sono in fase di annunci, mentre ci viene fornito il vecchio che, come ormai scientificamente accertato, viene “bucato” dalle varianti, rivelandosi efficace al massimo nel 50-60%. È stato annunciato l’arrivo di Novavax , che per la sua costituzione, potrebbe darci la speranza di una buona risposta, ma atteso per metà febbraio, è sprofondato nel silenzio. In tempo record, sono stati prodotti nuovi monoclonali, adatti per combattere Omicron. In un’Italia penalizzata a inizio pandemia per la dipendenza da prodotti esteri, ecco una produzione nostrana: il Sotrovimab di Gsk, è prodotto a Parma e ciò dovrebbe farci stare tranquilli per l’approvvigionamento. E invece, no. Qualsiasi industria consegna i prodotti ordinati e nell’ordine temporale con il quale sono stati fatti. Ebbene, mentre le istituzioni ci annunciavano un incremento esponenziale dei contagi e giustificavano le misure, sempre più severe, con l’occupazione dei reparti di Terapia Intensiva, venivano ordinate solo 2000 dosi di monoclonali, esaurite in appena un mese. Ora ne sono arrivate 3000, una goccia d’acqua nel deserto. Perché gli Usa ne hanno ordinato subito 500.000 e noi solo l’1%?

Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Onofrio Del Draghi al telefono…

Comunque vada a finire la partita del Quirinale, e cioè anche ammesso che alla fine sia Mario Draghi ad ascendere all’alto soglio, non va sottovalutato il cambiamento intercorso nel pover’uomo nel breve lasso di tempo che separa l’auto-candidatura un po’ grossier da “nonno della Repubblica” dagli affanni di questi giorni. Entrato a Palazzo Chigi per unzione divina, il presidente del Consiglio per 11 mesi ha mantenuto intatta una postura che definiremmo “Onofrio del Grillo”, riferendoci così al marchese reso celebre da Alberto Sordi di cui è ben nota la massima “io so’ io” con quel che ne consegue. Arrivati alle votazioni per il Quirinale, però, Onofrio del Draghi s’è accorto che lui è lui, ma gli altri sono il collegio elettorale. Quant’è cambiato dopo quell’agnizione fatale! Via di incontri con Salvini e addirittura Tajani, telefonate a Gianni Letta (per Enrico basta la telepatia), a Silvio Berlusconi, a Pier Ferdinando Casini e a chissà quanti altri: per dare l’idea, basti dire che il marchese del Consiglio in questi ultimi giorni risulta aver fatto più telefonate a caso di Papa Francesco. Ognuno fa quel che deve e può, per carità, ma ci piace sottolineare che questa gestione dilettantesca delle sue stesse aspirazioni da parte del più bravo tra i bravi non deriva solo, o tanto, dalla sua inesperienza della politique politicienne, ma – è la nostra tesi – da un difetto culturale: di solida formazione tecnica, il nostro ha trascurato gli studi letterari, l’unico grande scrigno del cuore umano i cui tesori siano spendibili tanto in Transatlantico che alla bocciofila. Anche solo quel piccolo gioiello – “politico” pur essendo una delle “Scene di vita privata” – che è Il ballo di Sceaux o I pari di Francia di Balzac avrebbe spiegato diverse cose al nostro Onofrio sulla sua situazione attuale: in primo luogo che “una nobiltà senza privilegi è un utensile senza manico”; poi che “quelli che piacciono a tutti non piacciono a nessuno e il peggiore dei difetti è non averne“; infine che “l’ammirazione è sempre una fatica per il genere umano”. Nel momento in cui uno si mette su un piedistallo, amici e nemici attorno a lui vogliono sapere solo una cosa: quanto gli ci vorrà per scenderne. Ecco, Onofrio ci ha messo meno di due giorni.

Vlahovic, il Covid e la Juve: la fiera del Marchese del Grillo a Torino

Da ieri l’ex bomber serbo della Fiorentina, Dusan Vlahovic, è un giocatore della Juventus. Tra i tifosi della Viola comprensibilmente arrabbiati ci deve essere anche Francesco Torselli, capogruppo di FdI in consiglio regionale toscano, a cui è bastato un semplice calcolo per denunciare la violazione dell’isolamento da parte dall’attaccante. Vlahovic, infatti, era risultato positivo al Covid il 21 gennaio (motivo della sua assenza nella trasferta di Cagliari del 22). Le norme impongono ai contagiati asintomatici e trivaccinati (come Vlahovic) di osservare 7 giorni di isolamento e poi fare un test. Peccato che all’alba del settimo giorno il giocatore fosse già a Torino, senza mascherina, in mezzo ai tifosi festanti.

Vlahovic, pare, si sarebbe spostato con deroga dell’Asl, da solo, in macchina e a Torino avrebbe fatto un tampone molecolare, negativo. Per sua fortuna, altrimenti toccava tornare indietro, sprecando una deroga dell’Asl che – come noto – viene concessa a chiunque debba firmare un contratto di lavoro. Evidentemente ai Marchesi del Grillo di Torino aspettare ancora un giorno pareva brutto.

Il presidenzialismo non è la fine della democrazia

 

“Dietro ogni articolo della Carta costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi”

(dal Messaggio di fine anno del presidente della Repubblica, Sandro Pertini – 1979)

 

Quando Bettino Craxi lanciò – come un sasso nello stagno dell’immobilismo politico che dominava la Prima Repubblica – la proposta del presidenzialismo, tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90 del secolo scorso, il settimanale L’Espresso pubblicò una copertina di Giorgio Forattini in cui il leader socialista veniva raffigurato in camicia nera, con gli stivali, nell’atto di incoronarsi da solo. Era chiaramente una posizione critica rispetto a quella che fu considerata una pretesa egemonica da parte craxiana. Sono passati trenta o quarant’anni e oggi si riparla di elezione diretta del capo dello Stato, tanto più dopo la valanga di schede bianche nelle votazioni per il Quirinale.

“L’idea – come ha scritto il costituzionalista Marco Olivetti, riferendosi a quella proposta – era formulata in modo confuso, senza un’indicazione del modello prescelto, dato che il regime presidenziale americano e i semipresidenzialismi francese e austriaco sono cose assai diverse. Ma Craxi (…) vedeva nell’elezione diretta del capo dello Stato un bene a prescindere, che avrebbe potuto permettergli di giungere al vertice dello Stato e ridefinire i rapporti di forza, soprattutto a sinistra”. E aggiungiamo che quella mossa puntava anche a mettere in difficoltà sia la Dc sia il Pci, entrambi allergici a soluzioni istituzionali leaderistiche.

Ora l’orgia di schede bianche nell’elezione per il nuovo presidente della Repubblica è destinata verosimilmente a lasciare un segno nell’opinione pubblica, sconcertata e forse anche indignata da questa performance autolesionistica dei partiti, intenti a difendere e privilegiare i propri interessi rispetto a quello nazionale. Diciamo, per essere franchi, che è stato uno spot a favore del presidenzialismo. E probabilmente, anche un ulteriore incentivo o un’istigazione all’astensionismo elettorale.

L’atteggiamento più sbagliato e controproducente, però, sarebbe quello di demonizzare il presidenzialismo, come se fosse la fine della democrazia. Sbagliato, perché gli esempi degli Stati Uniti e della Francia dimostrano che non è così. Controproducente, perché si rischierebbe di regalare il monopolio della proposta a una destra tendenzialmente autoritaria, incline a farne un cavallo di battaglia in vista delle prossime politiche.

Presidenzialismo o semipresidenzialismo, nel primo caso con un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo o nel secondo caso “fiduciato” dal Parlamento, è chiaro che si tratterebbe di una modifica costituzionale che deve rispettare le procedure previste dalla stessa Carta né potrebbe essere introdotta di fatto. E come stabilisce il cosiddetto “articolo catenaccio” (n. 138), la legge di revisione dev’essere sottoposta a due successive votazioni in ciascuna delle Camere a distanza di tre mesi e, se non ottiene i due terzi nella seconda, viene sottoposta a referendum popolare. Lo scopo è quello di evitare che una maggioranza di governo possa compiere un colpo di mano.

Tutto ciò non impedisce che se ne possa anche discutere liberamente, senza pregiudizi o preclusioni. Ma un fatto è certo: in un’ipotesi del genere, sarebbe necessario rivedere gli equilibri istituzionali fra presidenza della Repubblica, Parlamento e governo, oltre a modificare la legge elettorale in modo da garantire un’effettiva rappresentanza popolare. Quella del presidenzialismo, insomma, non è una riforma à la carte, da improvvisare o agitare come un feticcio propagandistico.

 

Stellantis, fine del prestito. Ora è libera per gli incentivi

Perché Stellantis, guidata da Carlos Tavares e con una maggioranza nel consiglio di amministrazione della famiglia Peugeot e dello Stato francese, ha deciso di restituire con 13 mesi di anticipo il prestito di 6,3 miliardi di euro ottenuto nel giugno 2020 da Intesa San Paolo, in piena pandemia e con la garanzia dell’80 per cento da parte di Sace, l’Agenzia italiana per il credito all’Export?

La risposta ufficiale è che il gruppo automobilistico non ha più bisogno di quella linea di credito: ha investito i soldi, così come prevedeva il decreto Liquidità varato dal governo Conte-2, favorendo “il riavvio della produzione industriale e dando continuità a progetti per fornire un futuro sostenibile al settore automobilistico in Italia”. Per trovare un vera risposta, bisogna però risalire ai giorni della stipula del prestito, alle clausole che lo accompagnavano e, infine, proiettare quello scenario sulla situazione odierna di Stellantis in Italia, così come descritta poco più di una settimana fa dall’ad Tavares in un’intervista al Corriere della Sera.

Nel giugno 2020, la fusione tra Psa e Fca era già stata sottoscritta (con i francesi definiti negli accordi “parte acquirente”) ma non ancora efficace. Così fu Fca a sollecitare ai ministeri dell’Economia e dello Sviluppo la garanzia e adesso, formalmente, è la controllata di Stellantis, Fca Italy, a restituire il denaro. In quei giorni, però non sfuggì lo “strano” allineamento tra quella cifra, 6,3 miliardi, e l’altra, non molto distante, dei 5 miliardi che costituivano la differenza nel concambio azionario tra l’azienda italiana e quella francese. A favore degli azionisti di Fca, a cominciare dalla Exor della famiglia Agnelli, e giustificata dal maggior valore della produzione di Chrysler nel mercato statunitense: in realtà, secondo molti analisti, per compensare il passaggio del controllo dell’intero gruppo alla parte francese.

Il prestito bancario, dunque, avrebbe consentito agli azionisti italiani di incassare per intero da Psa-Peugeot quel maxi-dividendo, dirottando a sostegno della produzione solo i soldi ottenuti da Intesa San Paolo: secondo un impegno formulato ancora da Sergio Marchionne e che prevedeva investimenti per oltre 5 miliardi. Insomma: una precisa strategia di tutela degli azionisti italiani, poi forzatamente modificata al momento della nascita ufficiale di Stellantis: quando la crisi del mercato mondiale dell’auto portò a un ricalcolo del concambio, di fatto dimezzato.

C’era, però, in quella garanzia concessa dal governo anche un vincolo per Fca tenuta a tutelare i suoi stabilimenti in Italia, l’occupazione e l’impegno verso i fornitori della componentistica. Oggi Stellantis sostiene di aver compiuto quella missione, anche se buona parte del “piano Marchionne” per l’Italia era già stato realizzato negli anni precedenti.

Da ieri, però, Stellantis e Tavares hanno le mani più libere, senza più i vincoli delle garanzie statali, soprattutto nelle loro trattative per ottenere incentivi pubblici che favoriscano, nell’attuale calo del mercato, l’acquisto di auto. Un confronto sul quale pesano, da una parte, le parole usate dall’ad franco-portoghese nella sua recente intervista, quando ha detto che “chiudere impianti significa mettere il lucchetto e mandare tutti a casa. Se posso evitarlo, lo eviterò” e ha parlato di “rischi sociali”, dall’altra il silenzio del nostro governo e la mancanza, com’è avvenuto invece in Francia, di un confronto complessivo sul futuro della filiera automobilistica. Per quanto accadrà negli impianti italiani di Stellantis e riguardo agli impegni con i fornitori, ai quali ormai Tavares, nelle sue strategie, sembra preferire il ritorno della componentistica all’interno del gruppo.

 

Sul Quirinale tornano i pupazzi della politica

Occhio agli anniversari. Lo spettacolo di generale disfatta della nostra classe politica che va in scena da sei giorni, 24 ore al giorno, assomiglia a quello dei drammatici mesi di Tangentopoli, giusto trent’anni fa. Ma stavolta voltato in farsa. In pochade. In commedia degli equivoci. In un clamoroso X-Factor in versione miserrima, senza effetti speciali. Senza pathos. Senza gli applausi del pubblico. E purtroppo senza ancora il sipario.

Stiamo assistendo, a questo giro di giostra, non al dramma epocale dei furfanti in doppio petto appena presi, magari in lacrime per l’onore smarrito, per la famiglia e la carriera rovinate. Ma alla recita estemporanea di dilettanti allo sbaraglio, appena cascati dal letto con briciole di croissant sulla mascherina, inquadrati davanti allo sfondo di Montecitorio, che non sanno cosa diavolo dire ai microfoni protesi. E lo dicono.

Non alla caduta rovinosa di partiti al potere da quarant’anni, pieni di storia, pieni di biografie e di avventurose navigazioni politiche, che si dissolvevano in quaranta giorni con tutti gli abissi a seguire. Ma alla lieta impermanenza di nuove, nuovissime aggregazioni che hanno la consistenza delle alghe nella risacca, schiuma compresa. Tutte, o quasi, aggrappate allo scoglio del presente, ma inconsapevoli del prossimo futuro. Formate da truppe deambulanti tra i Palazzi del potere fino al tramonto, quando viene l’ora dell’assalto all’abbacchio in trattoria. E poi a notte fonda, se toccherà sorbirsi l’ennesimo conclave inconcludente. Prima di una notte senza sogni.

In forme magari incidentali, i politologi si preoccupano dei riverberi sulla pubblica opinione giacché “non è stata eradicata l’antipolitica”. Davvero? E come mai? Non sarà che i massimi fabbricanti di antipolitica – proprio dai tempi che produssero Tangentopoli – siano i politici in proprio? Magari a cominciare dalla sintassi. E dallo spettacolo dei loro cavallini a dondolo.

Fa finta di nulla l’informazione. Che corre inconsapevole dentro la ridondanza quotidiana a caccia di benemerenze, offrendo il vassoio delle interviste ai capitavola e persino ai camerieri di cambusa. Svelando il vuoto invece di colmarlo. Finendo per trasformare la ricorrente, persino banale, elezione del Capo dello Stato, in una dissimulata guerra di trincea, che raccontata istante per istante, dispetto per dispetto, finisce per trasformare in un gioco puerile a somma zero. Purtroppo interpretato da adulti in conto spese. E proprio mentre il Paese fronteggia la trincea vera dell’emergenza sanitaria, delle diseguaglianze crescenti, della crisi energetica che soffoca, del debito pubblico che si moltiplica. E persino dei venti di guerra che soffiano ai bordi del Mediterraneo e del Mar Nero.

Ma niente: riecco i pupazzi in scena. “Stasera faremo tre nomi. Tre!”. “Anzi uno solo”. “Oggi scheda bianca”. “Abbiamo la figura istituzionale”. “Basta veti! Votiamo!”. “C’è l’accordo”. “Non c’è l’accordo”. “Siamo in alto mare”. “Stanotte riunione decisiva”. “Ancora no, domani”. “Dopodomani”. “Vedremo”. “Pepperepè”

I giornali nuotano nel nulla, prigionieri anche loro della marea, insensibili all’eterogenesi dei fini: nove pagine al giorno il Corriere della Sera, nove Repubblica, undici La Stampa.

Più o meno le stesse che raccontavano Mani Pulite, quando l’intera Repubblica cambiava stagione, mentre oggi (anzi domani, dopodomani, eccetera) cambierà solo il centro tavola, come ogni sette anni da 77 anni. Divampavano, in quel mirabile anno 1992, gli interrogatori, i pentimenti, i clamorosi addii, i processi, i suicidi. Mentre oggi – nel perenne intervallo dell’attesa – si infiamma l’aria fritta, e ai bordi di via del Corso, ciondolano gli improbabili addetti a scavare la buca di giornata da riempire l’indomani: “Stiamo lavorando per il bene del Paese”.

Qualunque evento rischia di diventare ossessione, se raccontato senza sosta, in modo millimetrico, analizzato in infinite ripetizioni quotidiane. Lo sperimentiamo da due anni di pandemia, migliaia di pagine, migliaia di virologi, milioni di parole, servizi, inchieste, rivelazioni, finzioni, fazioni. Fino al limite sopportabile della paranoia collettiva e della collettiva insofferenza Tuttavia consapevoli di fronteggiare la più clamorosa notizia planetaria. Una epidemia che fino a oggi ha contaminato 360 milioni di persone nel mondo, 5,5 milioni di morti, quasi 150 mila in Italia. Ma anche l’infodemia fa vittime. Specie se dalle bare di Bergamo si passa ai pupazzi di questo anticipo di Carnevale romano.

Corrono in sneakers e microfono i poveri cronisti delle televisioni: “Si preannunciano trattative serrate sino all’alba”. Strillavano un tempo: “Craxi è fuggito in Tunisia!”. Oggi chiedono con urgenza la linea per la sola notizia del giorno: “Arriva Casini! Indossa la sciarpa del Bologna!”.

 

Satana al Quirinale: supplì per i peones con il vino di D’Alema

Non c’è più voglia di fare battute, non ci sono più goliardate nelle schede scrutinate perché si sta facendo strada un senso di paura (Gianni Pittella, Fq, 28 gennaio).Noto che si insinua tra di noi grandi elettori quel sentimento di paura, di stare tergiversando troppo, di ubbidire a logiche che ci porteranno all’inferno (Michele Anzaldi, Fq, 28 gennaio).

 

Casellati scende, Satana sale: è questo il borsino del Quirinale dopo il venerdì del tutti contro tutti. Non è stato facile trovare una proposta che salvaguardasse insieme le esigenze dei partiti, della coalizione, della maggioranza, di Confindustria, della massoneria e degli Stati Uniti; nel dubbio, i grandi elettori hanno fatto surplace per cinque giorni, finché Renzi ha detto che lui Satana non lo avrebbe mai votato. A quel punto, tutti hanno capito che lo avrebbe votato, per poi vantarsene con la stampa straniera (“Mandato via Mattarella, abbiamo salvato l’Italia”). È vero che altri forzisti prima di lui avevano citato Satana come “rifugio di tutti se Berlusconi fallisse”, ma volevano intendere “meglio Berlusconi di Satana”. Così, dopo la forzatura di Salvini (la proposta Casellati) e la replica piccata di Letta, Conte e Speranza (sono andati a mangiare i supplì da Supplizio senza invitarlo, e ci sono rimasti tre ore sbafandosi tutto il possibile), la salita di Satana al Colle è tornata lo scenario più probabile. L’accordo prevede inoltre un rimpasto di governo con dentro le solite marionette nelle mani dei leader, e una nuova legge elettorale che peggiori quella esistente, com’è prassi da decenni, dunque Costituzione materiale. Solo ora è chiaro che Berlusconi (della cui anima Satana possiede la nuda proprietà dal 26 gennaio 1978) stava solo facendo pretattica quando, mostrandosi pieno di dubbi, aveva prima sabotato la riunione del centrodestra di giovedì, e poi addirittura rinunciato alla corsa. Un nuovo tam tam è arrivato ieri mattina dalla cerchia stretta. Berlusconi, spiegava Gianni Letta ai peones disorientati, voleva virare su Satana e fare per primo il suo nome, tramutandosi così in kingmaker. Nel gioco delle parti, il leader della Lega aveva finto di sparigliare, come se Silvio non tenesse per le palle chiunque, nel centrodestra, possa interferire coi suoi desiderata: e così era sembrato che Salvini bocciasse la candidatura di Berlusconi. Ma due giorni fa dal Carroccio hanno raccontato di “una lunga, affettuosa, amichevole, calorosa, sentita, sincera, viva, amorevole, fervida, affabile, amabile, umana, socievole, cortese, gentile, corroborante, fortificante e tonificante telefonata tra Salvini e Berlusconi” che ha ricomposto i finti dissapori. Al Pd, nel frattempo, non toccavano palla, e a Enrico Letta non era restato che consolarsi con gli elogi di Renzi, che lo inculò 8 anni fa: questo aveva dato la misura del marasma al Nazareno. È che il segretario del Pd, fino a ieri, tifava Draghi (quello delle privatizzazioni funeste, dello scardinamento dello Stato sociale e della mannaia sulla Grecia) come Renzi (che dunque non è “una malattia del Pd”, come sostiene D’Alema, secondo il quale, del resto, la Lega era nata “da una costola della sinistra”: ma quando mai ha capito qualcosa di politica, D’Alema? Infatti adesso fa il vino). Satana rappresentava dunque una sfida al Pd e ai 5S, concepita per raccogliere voti trasversali. Quando anche Bettini e Grillo hanno aperto sul principe delle tenebre, tutti hanno capito che i giochi erano fatti. Ultim’ora: con Satana al Colle (900 voti), ogni pericolo per la democrazia pare alfine scongiurato, tanto che, nel clima di ritrovata serenità, i peones sono tornati a cazzeggiare: più d’uno ha scritto sulla scheda “Sartana”.

 

Grazie Salvini, sterminatore di candidati a sua insaputa

Anche se la prescelta fosse Elisabetta Belloni – una donna al Quirinale, straordinaria novità con quel che ne segue – è giusto, in chiusura, rendere il doveroso omaggio ai protagonisti ignoti di questa rubrichina quirinalizia. Poiché, i franchi tiratori, acquattati e silenti fin dal primo scrutinio (a parte qualche schioppettata dove capita per aggiustare la mira), ieri sono entrati massicciamente in azione regalandoci un paio di gustose vendette.

È bastato, infatti, un solo magistrale agguato dei nostri eroi per fare giustizia di quell’improvvisatore della politica di nome Matteo Salvini. Che, un bel giorno, autonominatosi kingmaker ha proceduto alla più efferata strage di candidati del centrodestra che si ricordi. Indro Montanelli ammirava Stalin perché, diceva, era il comunista che aveva fatto fuori più comunisti. Allo stesso modo Letta, Conte, Bersani, con tutto il cucuzzaro progressista, dovrebbero sincera riconoscenza al “killmaker” della Lega. Il quale dopo avere sterminato Pera, Moratti, Nordio, Frattini (ha risparmiato Cassese, forse impietosito dalla veneranda età), ieri ha compiuto il suo capolavoro mandando a schiantarsi la Casellati, e con lei la credibilità della seconda carica della Repubblica.

Belli carichi ora i cecchini sono in attesa di conoscere il nome dei prossimi potenziali bersagli. E, dunque, se il nome di Mario Draghi fosse tornato di moda, una sua eventuale consacrazione per essere legittimata avrebbe necessitato del consenso più ampio da parte di tutte le forze che sostengono l’attuale governo. Perciò, fuoco! E fuoco probabilmente pure sul plebiscito che verrebbe richiesto da Sergio Mattarella per non escludere a priori l’ipotesi di un sofferto bis. Mentre, se alla fine spuntasse un Casini non ci sarebbe altrettanto gusto a sforacchiarlo. Uno che non farebbe certo lo schizzinoso visto che gli andrebbero bene anche cinquecentocinque voti, purché maledetti e subito. Ma con la candidatura Belloni, amici belli, meglio non scherzare. A questo punto vi vengono a prendere con i forconi.

Quelle figuranti del capo leghista per la “carta rosa”

È l’alba delle maratone tv. La giornata, nel suo epilogo, sembra avere dell’incredibile, ma sono ancora solo le 12. Un interrogativo avanza in diretta. Ci colleghiamo con Matteo Salvini, ha convocato alla Camera una conferenza stampa. “Ha accanto Erika Stefani e Laura Ravetto, non so se ci sia una ratio nelle posizioni…”, dicono da studio. “Nella stessa sala dove un altro Matteo aveva accanto due parlamentari di sesso femminile, ma almeno lì la presenza era dovuta al fatto che le due stavano per dimettersi da ministre. La presenza oggi di Ravetto e Stefani a cosa va attribuita?”. Già, a cosa andrà attribuita l’eccezionale presenza di due donne accanto al Segretario, se non “a sottolineare che è una candidatura femminile quella della presidente del Senato”? Donne come figuranti e pure in versione testimonial/supporter. E così, con tale premessa, tra i vari spettacoli che il grande gioco del Quirinale ci sta restituendo in questi giorni, abbiamo assistito anche a questo. Ovvero a un condensato di idiozie, arretratezze culturali, vittimizzazioni secondarie e stereotipi di genere, in formato conferenza stampa.

Salvini – Chi mi è vicino non è stato scelto a caso… (figurine sì, ma con ratio). Do la parola per un minuto a Laura Ravetto (in quanto capo io ti concedo, donna, il diritto di parlare, giusto per un minuto però) responsabile Pari opportunità e poi Erika Stefani, ministro alle disabilità (mistero del genere).

Ravetto – Sono orgogliosa di avere un leader che per primo nella storia (Ravetto, come predisposizione, deve essere rimasta ai tempi dell’adorazione di B.) propone il nome di una donna alla presidenza della Repubblica. Oggi c’è l’occasione di praticare davvero le pari opportunità (che vanno praticate, mi raccomando)… Avere una donna alla Presidenza della Repubblica permetterebbe di avere un’alleata ancora più forte (un uomo, no) sulle tematiche di questo settore (“settore”). Penso alle battaglie per un fondo per le giovani madri, al bonus bebè… (per chi avesse dubbi sul modello di donna del loro immaginario).

Stefani – Come ufficio della disabilità stiamo seguendo molti temi (ha esordito davvero così, ministra della Repubblica). C’è un Paese dove una parte di cittadini è stata dimenticata (per proprietà transitiva, l’equazione evidentemente è: disabile = soggetto debole; soggetto debole = donna; donna = disabile). Abbiamo previsto un fondo per l’autismo per interventi socio-assistenziali… E poi quello abbiamo fatto per l’accesso alle Ztl… La presidente Casellati ha dato prova di sensibilità sul tema, ha fatto visite… (attenta e caritatevole, come si vuole una donna).

Una conferenza stampa che mostra il livello della classe politica di un Paese, il nostro, in cui la questione della rappresentanza politica delle donne non è riuscita, almeno finora, a fare quel salto di “normalità” che altrove, invece, si è verificato. Tutto è eccezionale, se si parla di donne. Tutto è strumentale. Tutto diventa sminuente. Dietro i tanti appelli (più o meno retorici) per una donna al Colle – “Una donna al Quirinale” “E se fosse donna?” “Perché non una donna?” “Ipotesi donna” – c’è pure la stessa logica: la bandiera che diventa figurina. Basta che sia rosa, e che si possa scartare. Meglio senza nome (così è stato per giorni), e senza che si discuta del profilo. Essere donne non significa essere “categoria da proteggere” o “vittime”. Qualcuno a Salvini lo spieghi (e non solo a lui). E se alla fine, pur se per disperazione che convinzione, si arriverà a un Presidente della Repubblica dal profilo di Elisabetta Belloni o di Paola Severino, per i vari Matteo della nostra politica si chiuderà come per Riccardo III: disarcionati dal proprio destriero, a terra. “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!”.

“Il palazzo valeva 170 mln, Mincione sapeva”

La telenovela è finita, ma il processo va avanti. Il Vaticano ieri ha annunciato di aver venduto il famoso “palazzo di Londra”, al prezzo di circa 120 milioni di euro, confermando dunque la perdita di 100 milioni messa a bilancio nei mesi scorsi dalla Santa Sede. L’edificio si trova in Sloane Square, nel cuore della “posh London”, e un tempo ospitava i magazzini Harrods. Nel luglio 2014 lo acquista il Vaticano per circa 230 milioni di sterline. L’immobile, che avrebbe dovute rendere il 3,75% annuo, di lì a breve subisce un deprezzamento verticale perché la valorizzazione non decolla. Così le autorità d’Oltretevere spendono almeno altri 55 milioni per uscire dall’affare. La Santa Sede in realtà stava per investire in un fondo petrolifero in Congo – partecipato da Eni – salvo poi tirarsi indietro su consiglio dell’imprenditore Raffaele Mincione, chiamato in Vaticano come consulente finanziario. Secondo i pm vaticani, la società che deteneva le quote dell’edificio, la Athena Capital Real Estate, in realtà era riconducibile proprio a Mincione. Nei giorni scorsi il finanziere romano è stato citato in giudizio in Vaticano con l’accusa di truffa e autoriciclaggio. Per altri reati (peculato e abuso d’ufficio) sono imputati a vario titolo anche l’allora sostituto della Santa Sede, il Cardinale Angelo Becciu, il funzionario vaticano Fabrizio Tirabassi e l’ex consulente della Segreteria di Stato, Enrico Crasso.

Nelle 138 pagine del nuovo atto di citazione formulato dal promotore di giustizia, Alessandro Diddi, sono citati nuovi documenti che dimostrerebbero come Mincione, si legge, abbia “gonfiato slealmente la stima dell’immobile”. Il broker e i suoi collaboratori, scrive il pm, “conoscevano e disponevano senz’altro della perizia estimativa (…) predisposta l’11.9.2013 (…) da una delle società di consulenza immobiliare più importanti al mondo, Cbre Ltd”, giunta a “una stima del valore dell’immobile di 173,5 mln/gbp, inferiore di oltre 55 mln/gbp rispetto a quella dichiarata (…) alla Segreteria di Stato”. Non solo. Dai bilanci delle società coinvolte, “si evince che il prezzo (…) al quale (…) era stato compravenduto nel dicembre 2012 ammontava a 137 mln/gbp, (…) quasi 100 mln/gbp meno della valutazione Mincione”. Documenti, scrive il promotore di giustizia, “in possesso degli imputati e da costoro tenuti deplorabilmente celati”. Quando il 22 novembre 2018 la Santa Sede opera il primo disinvestimento, la Athena di Mincione cede le quote alla Gutt Sa di del broker molisano Gianluigi Torzi (anche lui imputato). Nel contratto fra le parti, vi è inserito “l’obbligo della Segreteria di Stato di versare (…) ad Athena Sicav un conguaglio (…) pari a euro 40 mln/gpb”, facendo lievitare il valore dichiarato a 275 milioni di sterline.

Mincione, nel 2019, in un’intervista al Corriere della Sera si è difeso affermando che “il progetto era cambiare destinazione d’uso da uffici a residenziale, alzare due piani e rivendere a 600-700 milioni di sterline” ma “ci mettiamo tre anni e mezzo (…) per avere il cambio”, quindi “a giugno arriva Brexit e la sterlina crolla (…) ma io che c’entro?”. I suoi legali hanno comunicato al promotore di giustizia la volontà di non sottoporsi a interrogatorio, in quanto si tratterebbe di “mera formalità inidonea a incidere su determinazioni già assunte in ordine all’esercizio dell’azione penale nei (propri) confronti”, da parte del promotore di giustizia.