“Mi serve credito”. E Letta raccomandava Onorato

Non solo Beppe Grillo, i parlamentari 5Stelle, dem e della Lega. Nelle 300mila email e chat sequestrate a Vincenzo Onorato dalla procura di Firenze nell’indagine sulla fondazione Open di Matteo Renzi, emergono i rapporti tra l’armatore di Moby e Gianni Letta, l’uomo in più dei governi Berlusconi, già sottosegretario di Stato presso la presidenza del Consiglio e raffinato tessitore di trattative politiche. Letta, è agli atti, nel 2019 spenderà la sua influenza con protagonisti dell’alta finanza, come l’ex ministro dei Trasporti Corrado Passera (non coinvolto penalmente nei due fascicoli) e i vertici di Cassa depositi e prestiti, per aiutare le società di Onorato sull’orlo del fallimento. Letta riceverà qualcosa? A ora non è dato saperlo. La sua posizione non ha rilievo penale. Oltre a lui, dalle email, emergono contatti tra Onorato e l’ex Cavaliere, i cui rapporti risultano mediati dal top manager di Publitalia Luigi Ciardiello, il quale nel lontano 2009, prima del Rubygate, presentò la futura consigliera regionale Nicole Minetti a Berlusconi. Ciardiello, secondo i pm, sulle navi Moby viaggiava gratis e al top. Dagli atti fiorentini trasmessi alla procura di Milano che ha iscritto nel registro degli indagati sia Grillo che Onorato per traffico di influenze illecite, emerge attorno a Mr Moby un centro di potere politico molto variegato.

La prima email tra Onorato e Letta è del 25 ottobre 2019. Si comprende come prima ci sia stata una telefonata tra i due nella quale Letta si è detto disponibile ad aiutare Onorato. In questo primo messaggio, l’armatore rappresenta all’influente interlocutore “questioni bancarie e ipotecarie”. Esplicitamente gli chiede di intervenire presso Unicredit affinché la banca “con la massima urgenza” cancelli due pesanti ipoteche su altrettante navi del gruppo. In quel momento storico, presso il tribunale di Milano sono già in discussione le istanze di fallimento di Cin, la compagnia di Onorato che controlla Tirrenia, già in amministrazione straordinaria e creditrice nei confronti di Cin di ben 180 milioni. E dunque “un mancato intervento di Unicredit” avrebbe portato a una grave insolvenza. La procura di Firenze segnala un’altra email del 15 novembre nella quale Onorato ringrazia Letta “per tutto quello che ha fatto fino a quel momento per le sue società”. Dopodiché gli chiede di intervenire presso Banca Mediolanum, tra i cui soci c’è anche Berlusconi, “per effettuare operazioni di factoring” e ottenere la monetizzazione di crediti di imposta. Letta risponde: “Ho parlato subito con gli amici di Mediolanum” e si dice ottimista per un loro intervento. Il 18 novembre ancora Onorato insiste con Letta e lo ringrazia visto che il figlio Achille ha incontrato i dirigenti di Mediolanum che avrebbero promesso di portare in Cda le richiesta di factoring. Letta spiega che il buon esito dell’incontro era stato favorito dai vertici della banca con i quali lui aveva parlato. L’analisi delle email non permetterà di capire l’esito del dossier Mediolanum.

Il 20 novembreOnorato scrive a Letta esponendo la volontà di “aprire un discorso” con Cassa Depositi e Prestiti e gli chiede di intervenire sull’ad di allora. Due giorni dopo Letta scrive: “L’operazione non rientra nel perimetro della società (…). Ho insistito chiamando in causa direttamente il numero uno che però mi ha ribadito che non è possibile modificare la decisione. Mi dispiace. Il mio impegno non è mancato, è mancato purtroppo, il risultato. Un caro saluto e in bocca al lupo”. Giochi chiusi? Affatto. Due giorni dopo di nuovo l’armatore scrive a Letta per capire a chi rivolgersi sempre per “trovare soluzioni finanziarie a breve termine”. Il 25 novembre con l’ennesima email Onorato gli chiede “un intervento diretto (…) con Corrado Passera”. All’epoca l’ex ministro è a capo di una nuova banca, la Illimity Bank il cui presidente risulta essere Rosalba Casiraghi, anche presidente del Collegio sindacale di Eni. L’obiettivo di Onorato restano le operazioni di factoring. Letta risponde spiegando di aver parlato con Passera, il quale avrebbe promesso di avviare i contatti per valutare la situazione e, aggiunge Letta, “con la massima comprensione”. Le email se da un lato dimostrano la disponibilità di Letta verso Onorato, dall’altro non spiegano fino in fondo la conclusione delle operazioni.

“Il green pass e i vaccini vanno ripensati. I dati sulla mortalità ancora poco chiari”

Sottosegretario Pierpaolo Sileri, lei ha detto che il green pass potrebbe essere eliminato a breve, più fonti invece ne accreditano il prolungamento illimitato dopo la terza dose, con tutti i dubbi sulla costituzionalità di proroghe sine die delle restrizioni per chi non lo ha. Iniziano a calare i ricoverati, quando ci libereremo del pass?

Bisogna rimodularlo e allungarlo per chi ha fatto la terza dose e per i guariti, ma su base scientifica. Quando, ce lo dirà il virus. Era atteso il calo a fine gennaio, aspetterei qualche settimana e rimodulerei il green pass in coincidenza con la fine dello stato d’emergenza il 31 marzo. Non dico di farlo scomparire. Come si deciderà più avanti. Rimodulerei anche, salvo che emerga una variante più cattiva, i richiami in funzione delle fasce d’età con più rischi, ma solo quando nelle terapie intensive saremo a un livello molto più basso di pazienti Covid. Spero in primavera. Prima ridurrei l’isolamento per i positivi asintomatici. Ottimo sperimentare l’autotest per i trivaccinati come fa l’Emilia-Romagna.

Lei è stato attaccato per aver detto in tv che renderete la vita difficile ai non vaccinati, le pare…

Ho detto ai no vax, ai complottisti, a quelli dei microchip e delle vignette sui lager, non a chi non si vaccina perché ha dei dubbi o ha paura e magari aspetta ascoltando questi santoni, si prende il virus e rischia di morire.

State rendendo la vita difficile a tutti i non vaccinati.

Per proteggere loro e per proteggere altri da loro.

Il vaccino protegge dalla malattia ma abbiamo decine di migliaia di vaccinati contagiati al giorno e secondo uno studio del Lancet le stesse probabilità di infezione tra vaccinati e non.

Osserviamo in media un terzo di infezioni tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati.

A Barletta hanno negato l’accesso all’ospedale a un malato oncologico senza pass, al Galeazzi di Milano volevano dare la priorità ai vaccinati e poi hanno fatto dietrofront.

Eccessi inaccettabili, come per la donna incinta che non aveva il tampone, non è entrata in ospedale e ha perso il bambino. L’alleggerimento del green pass sarà necessario anche per evitare che la burocrazia soffochi l’esigenza clinica. Ad esempio, colui che ha avuto il virus, ha fatto due dosi e si è ripreso il virus, dovrà essere svincolato dalla tempistica dei richiami, dobbiamo andare verso una vaccinazione personalizzata in base alle indicazioni scientifiche. Dovremo poter dire a chi ha un elevato titolo anticorpale che è già immune e lo rivedremo tra sei mesi.

Invece avete sempre detto, non solo in Italia, che non c’è uno standard.

La scienza non ha dato ancora una risposta.

Per la prima volta l’Iss ci ha detto quanti muoiono in terapia intensiva (23%), nei reparti ordinari (58%) e fuori dagli ospedali (17%). Mancano però molti dati, quanti vaccinati e quanti non vaccinati si ammalano o muoiono, per fasce d’età e per patologie pregresse; la fascia 12-39 anni è troppo ampia; sugli under 12 sappiamo poco e potrei continuare. Non è un problema serio?

Più volte ho sollecitato trasparenza e completezza dei dati, che devono poter essere visti da tutti e analizzati dalle persone competenti. Specie sui morti: da noi il conteggio avviene in base alla scheda Istat in cui anche il Covid viene inserito, bisognerebbe chiarire se è primum movens o concausa di morte. A ogni modo, da noi come in altri Paesi, c’è un eccesso di mortalità superiore ai dati ufficiali Covid, specie durante la prima e la seconda ondata. Abbiamo un 17% di morti fuori dagli ospedali, probabilmente molti nelle Rsa sopra i 90 anni o negli hospice con patologie neoplastiche non più guaribili: non sempre il Covid ha determinato l’evento. Servono dati completi anche per non prestare il fianco alle teorie complottiste.

L’Iss: “L’ondata frena, ma valori ‘falsati’ dal ritardo di 9 regioni”

Scende Rt a 0,97 da 1,31 registrato una settimana fa: per prima volta dalla fine di ottobre si torna sotto l’unità, il cui superamento segnala l’espansione dell’epidemia. Diminuisce l’incidenza: i nuovi casi passano da 2.011 a 1.823 ogni 100 mila abitanti in 7 giorni. Iniziano a calare – dopo settimane di aumento che hanno riaperto la voragine degli interventi e delle cure non Covid che saltano, quando invece si dovrebbe pensare a recuperare sul 2020 e del 2021 – anche i ricoverati. Non diminuiscono i morti, anche ieri 378, che scenderanno per ultimi. Rt resta sopra 1 in Liguria, Marche, Trentino, Puglia e Veneto.

Gli esperti del ministero e dell’Iss, nel monitoraggio settimanale reso noto ieri, certificano quanto si vede da giorni, avvertendo tuttavia di un “forte ritardo di notifica di 9 Regioni” e quindi “non si può escludere che tali valori possano essere sottostimati”. Intendiamoci, l’incidenza è sempre molto alta (ieri quasi 144 mila nuovi casi rilevati) e la situazione negli ospedali resta difficile, con oltre il 16% e oltre il 30% dei letti occupati da pazienti Covid rispettivamente nelle terapie intensive e nei reparti ordinari. Sono, in valore assoluto, oltre 1.600 e quasi 20 mila persone. Il professor Antonino Giarratano, presidente della società scientifica degli anestesisti rianimatori Siaarti, si è fatto sentire ieri contro l’idea di eliminare le zone gialle e arancioni che si fa strada nel governo: “Si decide solo zona rossa? Sanno che significa oltre il 30% di occupazione intensive per il Sistema sanitario, che arrivato a quel punto non curerà più nessuno che non sia Covid?”. In realtà sono tutti convinti che i tassi di occupazione scenderanno, più incerti sono i tempi. Per la Cabina di regia “si confermano segnali plurimi di allerta a livello regionale nelle attività di sorveglianza e indagine dei contatti”, il tracciamento è saltato perfino nel Veneto, classificato a rischio alto con la Val d’Aosta proprio per incompletezza dei dati, come anche Abruzzo e Liguria. Ma insomma, il Covid versione Omicron – sempre ieri la prevalenza della variante è stata indicata nel 95,8%, il resto è quasi tutto la più pericolosa Delta – è in fase lentamente discendente.

“La situazione epidemiologica mostra alcuni primi segnali di miglioramento, ma la circolazione virale è ancora molto elevata per cui si raccomandano soprattutto comportamenti prudenti, auto-sorveglianza e richiami vaccinali”, ha detto il direttore della Prevenzione della Salute, professor Gianni Rezza. Ha anche spiegato che “in alcuni casi è stata rilevata la variante Omicron 2, ma non è molto diversa nelle caratteristiche da Omicron 1”. Il professor Silvio Brusaferro dell’Iss ha aggiunto che “ci troviamo ancora in una situazione epidemica Covid-19 acuta anche se si nota una diminuzione dell’incidenza e del valore di Rt e dell’occupazione dei posti letto in terapia intensiva”. I colori, per quel poco che contano, restano come sono: Valle d’Aosta, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Abruzzo e Sicilia in zona arancione; dodici Regioni tra cui Lazio e Lombardia in giallo.

“Mai visto niente di peggio”, “basta, non ne posso più”

Lucia Azzolina (M5S): Io davvero non ci credo. Ero andata a letto con la minaccia della candidatura Casellati, mi sono svegliata con la conferma della prova di forza del centrodestra. Mi mordo la lingua quando incontro i primi giornalisti entrando alla Camera. Cosa ne penso? “Ragazzi, ho scritto tutto nel mio libro, Casellati è citata almeno tre volte”. Me la cavo così. Fine dello spoglio: va come doveva andare. Era un nome sbagliato imposto con un metodo sbagliato. Ma per favore non tirate in ballo la questione femminile. Su twitter un direttore scrive che “quando c’è stato da rischiare di andare a sbattere e subire un’umiliazione è stata scelta una donna”. Non mi pare. Casellati si è scelta. In Transatlantico non si parla d’altro che dei messaggi, anche vocali, che avrebbe inviato a decine di parlamentari per dire “votatemi”. Ognuno è responsabile (o irresponsabile) delle proprie azioni.

Stefano Fassina (LeU): Quinta giornata dedicata al voto per il Quirinale. Comincia male. La notte ha fomentato i leader del centrodestra. Tentano la spallata. Mia figlia, 14 anni, a colazione mi chiede: “Che succede oggi? Eleggete il presidente della Repubblica?”. “Ci asteniamo”, le rispondo imbarazzato. Mi guarda. Non capisce. Provo a spiegarle: “Il presidente della Repubblica va condiviso. Ma Salvini, Meloni e Berlusconi vogliono eleggerne una loro, senza condivisione”. “Una?”, mi chiede. “Sì, Elisabetta Casellati, la presidente del Senato”, le dico. “Ma è donna. Perché non la votate?”, ribatte sorpresa. “Perché non è super partes”, chiudo con ulteriore imbarazzo. I sedicenti leader dell’altra metà del campo hanno fatto male a tutti: alle istituzioni, alla politica e alle donne.

Michele Anzaldi (Italia Viva): La cosa più brutta che mi sia mai capitata nella mia pur breve vita parlamentare: leggere il mio nome sul tabellone e vicino la scritta “Assente”. Per ordine di scuderia infatti abbiamo dovuto rinunciare a entrare nell’Aula ieri, abbiamo dovuto rinunciare al voto. Lo so, lo capisco: bisognava blindare la nostra parte e non permettere al centrodestra di portare a compimento il blitz. Da qui capisco che Salvini, quando ha fatto il nome della Casellati, aveva in tasca qualcosa di più, puntava a dividere il nostro campo, era sicuro e con lui la presidente del Senato di godere di un appoggio segreto. Poi, per fortuna, e grazie a questa blindatura estrema, l’abbiamo portato a sbattere.

Roberto Occhiuto (Forza Italia): C’è stata la solita improvvisazione del mio schieramento. E non mi è affatto piaciuto che dalla Lega e da Fratelli d’Italia si sia accusato il mio partito di aver tradito. I franchi tiratori in genere sono dei professionisti che non lasciano traccia. E poi, seppure fosse, lo spirito di squadra dovrebbe portare a un minimo di solidarietà interna e non fomentare le divisioni puntando il dito contro il compagno di banco. Spero che sia l’ultima giornata a Roma. Non ne posso più.

Gianni Pittella (Pd): Mai come ieri il clima di tensione, la sorveglianza di ciascun gruppo per non permettere nessuna diserzione. Questa militarizzazione del confronto politico non dice nulla di buono. Solo che, fatta fallire la spallata del centrodestra, ora abbiamo riportato tutti a più buoni consigli. Vorrei tanto che si chiudesse oggi, perché ho necessità di raggiungere il mio comune (Lauria, provincia di Potenza). Sono il sindaco e non posso permettermi assenze troppo lunghe!

Un bruciato al giorno al falò del Quirinale

Il titolo di piromane se lo è guadagnato sul campo Matteo Salvini, bruciando in cinque giorni qualunque nome gli passasse per la mente. Dopo il ritiro di Silvio Berlusconi, il leader leghista procede alla frenetica media di un sacrificio al giorno e la sensazione è che il falò dei candidati si sarebbe potuto arricchire ancora, se i giallorosa non avessero accelerato per un’intesa.

 

L’ultima queen Elizabeth

Ultima a cadere – peraltro per mano del fuoco amico e con una certa dose di masochismo – è stata Maria Elisabetta Alberti Casellati, fermatasi a 72 voti dal totale del centrodestra e a 123 dalla maggioranza assoluta. La candidatura della presidente del Senato era un suicidio annunciato, viste le antipatie che la Casellati si è guadagnata anche dentro il suo partito, eppure Salvini è riuscito nel capolavoro di bruciarla due volte. La prima mercoledì mattina, quando la Lega ha rinunciato all’ultimo minuto a portarne in Aula il nome, prestando il fianco alla prova di forza di Fratelli d’Italia che si è così potuta intestare in solitaria il boom di Guido Crosetto. E poi c’è il voto di ieri, quando Casellati, convinta di potercela fare, è andata incontro al suo secondo fallimento. Questa volta certificato dai numeri.

 

L’ex ministro “filo-russo”

Il suo è stato il primo nome bruciato dalla destra. La sera di lunedì 24 gennaio il nome di Franco Frattini, collezionista seriale di prestigiosi incarichi, viene dato per favorito. Salvini è convinto che ci possa essere una convergenza col Movimento 5 Stelle e pensa di portarlo in Aula magari al quarto scrutinio. In realtà Frattini eclissa dopo mezza giornata, impallinato sia da Matteo Renzi sia da Enrico Letta, secondo i quali l’ex ministro, appena nominato presidente del Consiglio di Stato, non è abbastanza “atlantista” per il Quirinale.

Giovedì sera poi, col centrodestra incartato e senza idee, la Lega prova a sondare di nuovo gli umori su Frattini, accorgendosi che non è aria. Tornare sulla Casellati non sarà un’idea molto migliore.

 

Terna, destra serial killer

Un mese e mezzo fa, Marcello Pera veniva accolto dagli applausi alla festa di Atreju di Fratelli d’Italia. Uno dei tanti, piccoli, passi per accreditarsi nella lunga marcia verso le elezioni per il Quirinale. Il 25 gennaio, bruciata la candidatura di Frattini senza neanche passare dal voto, la destra presenta una rosa di tre nomi: Marcello Pera, Carlo Nordio e Letizia Moratti (Casellati viene tenuta coperta, così può essere silurata in solitaria due giorni dopo).

Pera non dice mezza parola, la destra è la prima a non esserne convinta e i giallorosa bocciano la terna, concedendo giusto l’onore delle armi ai tre nomi sfornati da Salvini &C. Quando proviamo a chiedere a Pera, già presidente del Senato nel 2001, come abbia vissuto la fugace candidatura al Colle, lui taglia corto: “Non dico nulla, ci sentiamo tra quindici giorni”. Non saranno troppi? “Sì, forse anche un po’ meno”. Anche con un lungo stallo, difficilmente il suo nome sarebbe quello buono. Se non altro la compagnia non gli manca.

Della lista presentata dal centrodestra, Nordio è il più loquace. Se ne esce con un “Domine, non sum dignus”, lasciando intendere di essere lusingato, ma di non credere più di tanto alla sua corsa. Giovedì mattina però l’ex pm scende a Roma: “È solo per un convegno sulle pari opportunità nella magistratura”, ci spiega, ma la tempistica suggerisce di non credere a una coincidenza. Infatti in serata il suo nome torna d’attualità, prima che Salvini viri su Casellati.

Il terzo nome della terna, Moratti, sparisce invece quasi subito. Per giorni si chiude in un rigoroso silenzio, forse amareggiata per com’è andata la partita: prima di questa settimana, Moratti aveva sentito e visto diversi esponenti dei partiti, tra cui Giorgia Meloni e Luigi Di Maio.

 

Il giurista bocciato

Nel valzer dei candidati mancati è finito pure Sabino Cassese, eterno quirinabile già in corsa nel 2013. Questa volta entra nelle cronache mercoledì sera, quando Salvini lo incontra a Roma. Il leghista non propone mai il suo nome in pubblico, ma quel colloquio è un segnale. Che però dura poco: nel giro di poche ore Cassese sparisce dai radar.

 

Pd e M5S il primo tentativo

I giallorosa hanno proposto pubblicamente diversi nomi. Alcuni sono in gioco, pur con speranze diverse (Pier Ferdinando Casini ed Elisabetta Belloni, per esempio), mentre è andata peggio ad Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Prima di lunedì era uno dei nomi pensati da Conte su cui intanto unire il centrosinistra, valutando poi eventuali adesioni dalla destra. Già mercoledì, l’ex premier si è arreso: “Riccardi è un’eccellenza, ma la destra non ha raccolto la nostra indicazione”. Aveva già altri nomi da bruciare.

Casellati si è spiaggiata al Papeete: la regina decapitata da FI e totiani

La regina decapitata. Che fa anche la parte di Alice nel Parlamento delle Meraviglie.

“‘Sei capace a fare le somme?’, chiese la Regina Bianca. ‘Quanto fa uno più uno più uno più uno più uno più uno più uno più uno più uno più uno’. ‘Non so’, rispose Alice. ‘Ho perso il conto’”.

Appunto.

Quando l’altra notte Queen Elizabeth ha imposto al centrodestra, e soprattutto a quel dilettante allo sbaraglio di Matteo Salvini, la sua candidatura al Colle era stata assertiva: “Posso arrivare a 480 voti perché sfondo nel Movimento 5 Stelle”. Le hanno creduto o hanno fatto finta di crederle. Fatto sta che dopo il luttuoso risultato arrivato intorno alle 15, lei non si è rassegnata e ha ricominciato a telefonare: “Candidatemi anche alla sesta, stavolta i grillini parteciperanno al voto”.

Come no.

Maria Elisabetta Alberti Casellati si è spiaggiata al Papeete salviniano con la miseria di 382 voti, al quinto scrutinio. Partiva dai 453 grandi elettori del centrodestra. Settantuno voti in meno. I suoi cari nemici azzurri però ci vanno giù pesante: “Nel Misto tra gli ex grillini ha preso venti voti”. Ergo, facendo la media dei vari calcoli in Transatlantico, esce fuori la somma di cento franchi tiratori, evocando i famigerati centouno di Prodi nel 2013.

Afflosciata sulla sua poltrona accanto a Roberto Fico, Queen Elizabeth non la prende bene e va via abbracciata, quasi sorretta da una collega della Lega, Antonella Faggi. Ha assistito allo spoglio-funerale guardando le schede una per una (i voti erano segnati, in base alle forze del centrodestra).

Dal sogno all’incubo, nell’arco di quattro ore. Alle undici si è presentata in aula con lo stesso tailleur blu che indossava quattro anni fa, quando venne eletta presidente del Senato. Per l’elezione al Colle, invece, ne aveva già pronto uno, fatto confezionare a Padova, sua città natale. Ma la regina annunciata ha sottovalutato il clima di inimicizia che da giorni si respirava a Montecitorio contro di lei, che per certi versi supera finanche quello che la massa di peones prova verso l’alieno Mario Draghi.

Ecco un azzurro euforico che dice di godere “come un riccio”. “La conosco da 25 anni, per questo non l’ho votata”. C’è da dire però che Forza Italia è ormai un partito imploso. Otto voti sono andati a Silvio Berlusconi, sette ad Antonio Tajani, uno addirittura all’ex Guardasigilli Nitto Palma, che di Casellati è consigliere. Un altro sfregio. Solo con questi sedici voti, Queen Elizabeth si sarebbe avvicinata a quota 400, la soglia minima per ritentare alla votazione successiva.

Invece Maria Antonietta Alberti Casellati è stata decapitata in maniera cruenta. La sua fama e il suo stile altezzoso e arrogante sono degni della regina di Francia che al popolo affamato di pane rispose: “Mangino brioche”. Ma a calare la ghigliottina non sono affatto i rivoluzionari giacobini. Bensì i girondini berlusconiani filo-draghiani (e non solo) ed ex berlusconiani, più un manipolo di neo-dc, che vogliono rifare il centro con Calenda e Renzi. Lo dice chiaramente Osvaldo Napoli, parlamentare del gruppo di Giovanni Toti: “Il centrodestra da oggi non c’è più. Il quadro politico ne esce rivoluzionato. Oggi si apre uno spazio politico nuovo in cui devono essere protagonisti Toti, Renzi, Berlusconi, Calenda”. Ecco, rivoluzione.

Subito dopo l’esito del voto, i totiani vengono investiti dall’accusa di alto tradimento dagli alleati fasciosovranisti. Ignazio Benito La Russa, camerata antico e oggi meloniano, va all’assalto del governatore ligure, Giovanni Toti: “Stai già festeggiando?”. In realtà, e non per stare dalla parte di Toti, anche un bambino avrebbe capito che Queen Elizabeth era destinata alla pena capitale. Altro che strategia raffinata. Lo grida Gaetano Quagliariello, ex berlusconiano come Toti, nel cortile di Montecitorio: “Dio acceca chi vuole perdere”. Elementare, Watson. I riferimenti al Padreterno sono vari nell’epilogo della tragicommedia di Casellati. “Dio esiste”, sentenzia un altro forzista gaudente. Orfani del Caimano rinchiuso al San Raffaele di Milano, gli azzurri sono un gregge allo sbando. E senza il pastore regnante e vigilante, Queen Elizabeth, che credeva a Ruby nipote di Mubarak, è stata decapitata.

Processo a Salvini: nella Lega lo chiamano “Matteo Bersani”

Pochi minuti dopo le 15, l’ora della disfatta, il telefono di Matteo Salvini squilla a vuoto. Non si trova. Gli altri leader della coalizione lo cercano perché devono decidere cosa fare nella sesta votazione del pomeriggio ma lui non c’è. Volto terreo, mascherina abbassata sotto il mento. La sua candidata – la “donna”, la “vicepresidente della Repubblica”, “la donna dei diritti”, cioè Maria Elisabetta Alberti Casellati – si è appena andata a schiantare in Aula contro 71 (ma c’è chi assicura siano oltre 90) franchi tiratori del centrodestra. È il settimo candidato bruciato in cinque giorni. Con l’aggiunta che a finire nel falò è la seconda carica dello Stato. Va in scena in quei minuti lo psicodramma del leader della Lega. Il remake del Papeete è servito: solo che stavolta al posto della spiaggia c’è il Transatlantico, della pancia di fuori la grisaglia blu, del mojito i caffè da Giolitti. Il risultato, però, è lo stesso: “Matteo Bersani” lo chiamano nei capannelli leghisti, ricordando la disfatta dei 101 che impallinarono Romano Prodi nel 2013. E nelle chat dei leghisti torna anche una celebre copertina del settimanale Oggi del dicembre 2014, conSalvini a torso nudo e cravatta verde, che titolava: “Affidereste l’Italia a quest’uomo?”. Risposta implicita: no.

Poche ore prima, da leader della coalizione di centrodestra, era stato lui a prendersi la responsabilità di portare Casellati in Aula. Finito nel tritacarne di Giorgia Meloni (di cui è “ossessionato”, dicono nel centrodestra) che da giorni chiedeva di mettere ai voti un nome di centrodestra e di Antonio Tajani che, in assenza di Silvio Berlusconi, lo aveva detto chiaramente nella riunione mattutina: “Votiamo Casellati, almeno è di Forza Italia: il mio gruppo non reggerebbe un altro”. Annunciandolo al gruppo azzurro, non c’era stato nessun applauso. Luca Zaia nel frattempo si aggirava in Transatlantico ripetendo che così “Matteo ci porta a sbattere”, Giancarlo Giorgetti, con un sorriso beffardo, parlava così di Casellati: “Se vuole essere votata, che ci possiamo fare…”.

Non si fidavano l’uno dell’altro, gli alleati, tanto che ai parlamentari di centrodestra arriva l’ordine via whatsapp di segnare le schede: la Lega doveva votare “Casellati”, Coraggio Italia “Alberti Casellati”, Forza Italia “Elisabetta Casellati”, FdI “Elisabetta Alberti Casellati”. Ma non basta. Forza Italia si scioglie lo stesso. Quando si consuma il fratricidio, parte la caccia ai franchi tiratori. La Lega dice che i suoi 208 grandi elettori sono stati compatti, Fratelli d’Italia si dice “granitico e leale” contro chi “dall’inizio ha apertamente lavorato per impedire la storica elezione di un presidente di centrodestra”. Mancano 45 voti di Forza Italia (provenienti dall’ala governista e anche una manciata di senatori), una ventina di Coraggio Italia e anche qualche leghista.

La débâcle si abbatte sul leader della Lega. Il giudizio più gentile in Transatlantico è questo: “È un incapace”. In Forza Italia ribollono le chat dei parlamentari contro Salvini e Meloni : “L’operazione frittata”, “Lo sapevamo che saremmo andati a sbattere”, “Perché mandare allo sbaraglio la seconda carica dello Stato?”. Nella riunione del centrodestra del pomeriggio Tajani viene preso a male parole dagli alleati: “Un grande elettore su tre del tuo partito non ha votato Casellati, ma com’è possibile?” lo accusano Salvini e Meloni. Per non parlare dei centristi di Giovanni Toti definito “un traditore” e di Luigi Brugnaro che un attimo dopo l’impallinamento di Casellati va dritto: “Ora c’è solo Draghi”. Un esponente di peso della Lega lo dice chiaramente: “La coalizione non esiste più, va fatta una seria riflessione”.

Nel mirino del Carroccio finisce pure Meloni: “Ha messo le impronte digitali sul tradimento di Casellati, era lei a chiedere la spallata”. Da FdI però replicano che Salvini “ha sbagliato tutto, a partire dai tempi”. Se la conta su un nome di centrodestra fosse avvenuto prima, dicono, la coalizione avrebbe potuto “prende voti anche fuori dalla coalizione ed eleggere un nostro nome”. Poi si va sul personale: “Se fosse stata Meloni e non Salvini a gestire la partita, sarebbe andata diversamente” dice un dirigente meloniano. Ma tant’è. Nella riunione post-pranzo si decide di prendere tempo: astensione. Riparte la rumba. Salvini telefona, incontra, si agita. Ha un’ossessione: il nome vuole farlo lui e solo lui. Così, dopo aver visto Mario Draghi in via Veneto, Enrico Letta e Giuseppe Conte, i leader di maggioranza alle 19.30 gli fanno il favore di mandarlo per primo davanti alle telecamere per fare l’annuncio di Elisabetta Belloni. È provato. Ha la camicia sbottonata, il rosario e la peluria in vista: “Lavoriamo per una donna”. Se avrà bruciato la seconda candidata nello stesso giorno, lo si capirà solo oggi.

Draghi e la “resa”: non se ne va. Ma il governo sarà “ballerino”

È stata un’altra giornata di trattative sottotraccia per Mario Draghi, anche se la sua candidatura appare quasi del tutto tramontata. Mentre a Montecitorio il clima passava da infuocato a malinconico, da cupo a isterico, l’unica notizia dal premier era un incontro con Matteo Salvini.

I due sono stati visti uscire a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro dallo stesso palazzo nei pressi di via Veneto. Sui contenuti del faccia a faccia, nulla di ufficiale viene detto. Di certo, però, c’è solo che il leader leghista non ha cambiato opinione sul trasloco del premier al Colle. Ma anche che il fatto che abbia voluto incontrarlo non è una chiusura. La trattativa, rimasta in piedi dopo la telefonata di Draghi a Berlusconi di giovedì, è comunque ancora arenata. Anche se lo stesso Luigi Di Maio ieri sarebbe intervenuto con Confalonieri per indurlo a portare quel che resta del fu Caimano sul nome del premier.

Per l’ex Bce si prospetta la permanenza a Palazzo Chigi fino a fine legislatura. Che non sarà facile, con qualsiasi Presidente della Repubblica, si capisce da come sono andate queste giornate. Con i partiti di maggioranza divisi al loro interno, i gruppi parlamentari fuori controllo, i leader l’un contro l’altro armati. Draghi ha chiarito da subito una condizione per restare alla guida del governo: che il Capo dello Stato fosse eletto dalla stessa maggioranza che lo sostiene. Un modo – di certo – anche per rafforzare la propria candidatura, quello di far trapelare la volontà di lasciare l’esecutivo. Se -come sembra in queste ore – salirà al Quirinale una figura frutto di una scelta condivisa, Draghi rimarrà a Palazzo Chigi, come da mesi gli chiedono tutti, anche con l’intento di bloccare la sua corsa al Quirinale.

Nel caso che dovesse venire eletta Elisabetta Belloni, le cose, almeno per il premier, sarebbero lisce. Sempre che venga eletta da tutta la maggioranza. I due hanno rapporti antichi, sono entrambi ex studenti del Massimo, il liceo romano dei Gesuiti. Ed è stato proprio Draghi a nominare quella che era ancora il Segretario generale della Farnesina a capo del Dis. Una promozione. Senza contare che in più interlocuzioni Draghi avrebbe proposto la Belloni come capo del governo che avrebbe dovuto succedere a lui. Per i maligni, anche un modo per bruciarla.

A Palazzo Chigi la giornata di ieri è stata vissuta su un ottovolante. La candidatura di Pierferdinando Casini, molto forte per giorni, spinta da Dario Franceschini (il più ostile nel Pd al premier) e Matteo Renzi, non è tra le più gradite a Draghi, che rappresenterebbe anche plasticamente il muro eretto dalla politica politicante contro di lui. Senza contare che sposterebbe il baricentro verso il centro. Difficile pensare a dimissioni, anche se a ipotizzare un incidente nelle prossime settimane sono in molti.

Mentre ieri a Montecitorio il Pd quasi in blocco iniziava a votare per Sergio Mattarella, con l’idea di spingere il bis “dal basso”, c’era chi raccontava di contatti – non confermati – tra il premier e il Capo dello Stato: perché alla fine se si dovesse arrivare a chiedere all’attuale inquilino del Colle di restare (scenario non ancora escluso) dovrebbe arrivare per questo anche una perorazione da parte del premier.

Al netto di tutto, i due candidati che venivano considerati più “potabili” per Draghi erano Mattarella e Giuliano Amato (anche lui, ancora non escluso). Per entrambi la permanenza al Quirinale veniva stimata fino all’inizio della prossima legislatura. Con la possibilità di Draghi di riprovarci. Ma a questo punto, comunque vada, non è più questione di tempo: per com’è andata, la candidatura di Draghi è tramontata definitivamente. Salvo, ovviamente, colpi di scena che lo rimettano in gioco oggi, se tutti i candidati dovessero essere bruciati e Mattarella dovesse confermare la sua indisponibilità.

Quel che è certo, è che è difficile immaginare che la vita del governo sarà più semplice di com’è stata negli ultimi mesi, in piena campagna elettorale. E con i rapporti tra il premier e i leader messi a dura prova dal veto di alcuni di loro (vedi Matteo Salvini e Giuseppe Conte) su di lui.

Il conclave a 3 dice “donna”. In pole Belloni e Severino

Il passaggio è strettissimo, un sentiero sopra un burrone affollato di veti incrociati e franchi tiratori. Ma Giuseppe Conte ed Enrico Letta oggi potrebbero provarci, anche se tra i giallorosa è tutto un rinfacciarsi errori e sospetti fino al termine della notte, lunghissima. Potrebbero comunque provare a eleggere una presidente della Repubblica. Una presidente, perché sul finire di un venerdì in cui la seconda carica dello Stato è stata affondata dal voto dell’Aula, i nomi sul taccuino del centrosinistra sono solo al femminile. E la prima opzione è la direttrice del Dis, Elisabetta Belloni, la carta su cui ha sempre puntato Conte, sulla quale sono pronti a convergere anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ma in lizza c’è anche Paola Severino, ex ministra della Giustizia nel governo Monti, pure lei nella lista contiana. Mentre sembra più arduo tenere in partita l’attuale Guardasigilli, Marta Cartabia, comunque citata nei continui tavoli del centrosinistra e nelle indiscrezioni diffuse. Però i numeri sono incerti e nessuno si fida del vicino di banco.

Per questo all’ora di cena Conte e l’ex nemico Matteo Salvini escono in contemporanea sulle agenzie di stampa: “Lavoriamo a una presidente donna”. Resuscitano il fu asse gialloverde, perché nell’ennesimo conclave serale hanno appena ascoltato i dubbi di Letta su Belloni. E allora forzano, gli ex alleati. A cui più tardi si aggiunge Beppe Grillo, con tweet apposito: “Benvenuta signora Italia, ti aspettavamo da tempo #Belloni”. Ma non è affatto così semplice. Perché Matteo Renzi dichiara ovunque il suo no all’ex diplomatica – “non si passa dai Servizi al Colle” – e anche Forza Italia fa muro. Ciò che più conta però è il gelo del Nazareno: “C’è un confronto su candidature femminili di assoluto rilievo, ma la cosa peggiore è bruciare ogni intesa con improvvide fughe in avanti”. Una lavata di testa al Conte che canta in coro con il Carroccio, da quei dem che rilanciano forte su Sergio Mattarella: “Invitiamo tutti a prendere atto della spinta che da due giorni e in modo trasversale in Parlamento viene per la riconferma di Mattarella”.

Nel M5S leggono e poi reagiscono, male: “Nessuna fuga in avanti, casomai una fuga all’indietro del Pd. Noi, i dem e e LeU avevamo una lista concordata di nomi da giorni, dove c’erano due donne. O il Pd sta facendo marcia indietro oppure ha bluffato fin dall’inizio su quei nomi”. Dopo giorni di tensioni tra Conte e Letta, siamo alle scenate reciproche. D’altronde già nel primo pomeriggio, dopo il naufragio della Casellati, il Pd e Leu avevano detto no alla Belloni. Figura riproposta da Salvini e Meloni per uscire dal disastro del centrodestra con una loro proposta. Ma Letta aveva fermato tutto. Conosce personalmente Belloni, che ha rapporti anche con altri maggiorenti dem. “Ma temo che il gruppo non la regga, almeno non ora” spiega l’ex premier. Molti 5Stelle la prendono malissimo: “Potevamo chiudere, la verità è che il Pd vuole solo andare su Mario Draghi”. Conte invece prova a tenere calmi i suoi: “È un ni, Belloni è una possibilità ancora aperta”. Ma per tenerla dischiusa serve Salvini, su cui nelle ultime ore l’avvocato aveva speso parole severe con i suoi: “Mi sembra quello dell’agosto di tre anni fa, quando fece cadere il mio governo”. Ma per Conte l’urgenza era ed è evitare Draghi, nei confronti del quale cui il suo no non è trattabile.

Piuttosto, è pronto anche a uscire dal governo. Invece i dimaiani lui vorrebbero al Colle, il premier, o al massimo Mattarella. E in serata proprio Luigi Di Maio assesta un colpo terribile all’avversario, cioè a Conte: “Trovo indecoroso buttare in pasto al dibattito un alto profilo come quello di Belloni senza un accordo condiviso, il metodo è sbagliato”. E poi c’è ancora il Pd, dove più di metà del gruppo avverte di non voler votare la direttrice del Dis. Così Meloni esce dritta: “Il fuoco di sbarramento è di inaudita violenza, ecco la latente misoginia italiana”. Però sullo sfondo della battaglia c’è anche Severino. Certo, Fdi non pare considerarla. E figurarsi i forzisti, visto che fu la sua legge a tenere fuori dal Parlamento Silvio Berlusconi. Ma la Lega ci starebbe, e il Pd non avrebbe obiezioni. Nel frattempo Conte rivede Letta e Roberto Speranza (LeU), per provare a rimettere assieme i cocci. Una mano gliela dà il quirinabile Pier Ferdinando Casini, parlando a Quarta Repubblica: “Stimo da sempre Belloni, ci sono donne di grande prestigio che sapranno servire l’Italia molto bene”. Ma intanto il dubbio di vedere “bruciate” tutte le donne della lista avanza. “Speriamo di non bruciare pure Mattarella”, sospirano.

Colle, altri due giri a vuoto. Mattarella fa il primo boom

Su una cosa sono tutti d’accordo: decidere di fare due chiame, ieri, è stata una fesseria imperdonabile. Quella che fino alle 9 di sera era soltanto una sensazione, un presentimento, si è fatta certezza quando il presidente della Camera Roberto Fico, intorno alle 8 e mezza della sera, ha cominciato a leggere i risultati dell’ultima votazione, la sesta da quando è iniziata la seduta comune per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. “Mattarella”, “Mattarella”, ha ripetuto Fico per 336 volte. Un’onda – il primo a dirlo è il Nazareno – di cui sarà difficile non tenere conto. Una fesseria, dicevamo. Perché mentre i grandi elettori sfilavano sotto il catafalco e infilavano nell’urna il loro disperato appello al bis del capo dello Stato, nel conclave dei leader si trovava un primo punto di intesa, ovvero quello di candidare al Colle “una donna”. Solo che non si è ancora deciso quale. O meglio: Matteo Salvini e Giuseppe Conte si sono accordati sul nome di Elisabetta Belloni, attuale direttrice del Dis, il dipartimento che coordina i Servizi segreti. Ma Enrico Letta non è della stessa idea, Matteo Renzi s’è già intestato la campagna del “no”, Forza Italia fa sapere che “due tecnici” a Palazzo Chigi e al Quirinale non si possono reggere, Luigi Di Maio dice che è “già bruciata”.

Il refrain della “donna” era iniziato al mattino, con la spericolata e disastrosa candidatura di Maria Elisabetta Alberti Casellati. La presidente del Senato si ferma a 382 voti, una settantina al di sotto degli elettori del centrodestra che avevano promesso di votarla.

Chi ha tradito? Quelli di Coraggio Italia di certo, ma non solo loro: “Sessanta voti questo non ce li ha, arriva alla metà”, sentenzia Ignazio La Russa mentre passa di fianco a Giovanni Toti. Ma al di là dei colpevoli, quello alla presidente del Senato è uno sfregio a cui lei si è imprudentemente sottoposta, anche assistendo allo spoglio in prima persona, tra un messaggino e l’altro. Così, affossata non senza una palpabile goduria la Casellati, il centrodestra ha dovuto rimettere insieme i cocci della coalizione e tentare di uscire dall’angolo. Matteo Salvini ha ricominciato la girandola degli incontri, compreso quello con il presidente del Consiglio, che per mezz’ora ha fatto temere la resa a mezzo Parlamento e perfino fatto dire ai contiani più stretti: “Meglio, così andiamo a votare”. Poi è arrivato il conclave e l’accordo sulla “donna”, annunciato per primo dallo stesso leader della Lega.

Solo che mentre si accendevano le telecamere dei tg e partivano gli hashtag su Twitter, lo spoglio era in corso. E nessuno immaginava che la fila per il “booster”, la nuova dose di Mattarella di cui un terzo dei grandi elettori ha detto di aver bisogno, fosse già così lunga. Si pensava superasse i 200 voti, questo sì. Ma non che toccasse quota 336.

Non basta, certo: perché – per usare una autorevole metafora sul tema – “se ti vuoi fidanzare con qualcuno non scrivi ‘ti amo’ sui muri: vai a casa sua e porti un anello”. Ecco, i ‘ti amo’ ieri sono stati indubbiamente molti più del previsto. Ma l’anello, al Colle più alto, nessuno lo ha ancora portato. I rumors parlano di colloqui informali, in cui i partiti avrebbero registrato ancora una volta “l’indisponibilità” di Mattarella al bis. Ma tutti confidano che, se la situazione si incartasse un’altra volta, lui non potrebbe restare fermo sul no.

Se la “spinta trasversale” oggi dovesse farsi più pressante, ammette il Nazareno, non ci sarebbe altro da fare che “prenderne atto”. Sempre che la notte, l’ennesima di trattativa, non sblocchi davvero l’accordo sul nome condiviso. Pier Ferdinando Casini, nel frattempo, deve aver intuito che la partita per lui è chiusa: è tornato in tv, primo testimone della virata: “Elisabetta Belloni? È una persona che stimo da sempre, un’amica, una servitrice dello Stato”.